PATRICK SUSKIND – IL PICCIONE

PATRICK SUSKIND – IL PICCIONE
TEA – Collana TEA BIBLIOTECA n. 2 – I ed Maggio 2014

TRADUZIONE: Giovanna Agabio
TITOLO ORIGINALE: Die Taube

IL PICCIONE p. 5

Il mite e disinteressato cinquantatreenne Jonathan Noel conduce una vita tranquilla, anonima, piatta e senza emozioni a Parigi, scossa però un giorno da un evento, il “fatto del piccione”…

Quando gli accadde il fatto del piccione, che sconvolse la sua esistenza da un giorno all’altro, Jonathan Noel aveva già più di cinquant’anni, dietro di sé un intervallo di tempo di vent’anni circa totalmente privo di eventi, e mai avrebbe pensato che potesse ancora accadergli qualcosa di fondamentale, se non, un giorno, la morte. E così gli andava benissimo. Infatti non amava gli eventi, e odiava addirittura quelli che turbavano l’equilibrio interno e sovvertivano l’ordine esterno del quotidiano. (p. 7)

Non li amava gli eventi, contraddistinti nella sua mente da sola negatività, come quando, nel 1942, tornando dalla pesca, si accorse della scomparsa della madre, poi del padre, deportati nei lager. Con la sorella raggiunse in treno Puget, dove uno sconosciuto zio li tenne nascosti fino al termine della guerra…
La vita da bracciante agricolo gli piace, ma lo zio lo fa arruolare. Inviato in Indocina, resta ferito e solo nel 1954, dopo tre anni, torna a Puget apprendendo della partenza della sorella, forse in Canada. Lo zio lo convince a sposarsi con tale Marie Baccouche che, dopo soli quattro mesi, già incinta, fugge con un fruttivendolo tunisino di Marsiglia… Di qui la convinzione di non potersi fidare degli altri e di rimanere quanto più isolati…

Da tutti questi eventi Jonathan Noel trasse la conclusione che negli esseri umani non si potesse riporre fiducia e che si potesse vivere in pace soltanto tenendoli alla larga. (p. 9)

Infastidito dall’essere continuamente osservato e additato dagli altri, preleva i propri risparmi e lascia la casa dello zio, trovando lavoro come guardia giurata e una stanza di tre metri per due in una locanda parigina, perfetta per la sua vita d’isolamento…

Tutto ciò non disturbava Jonathan, il quale non cercava comodità, bensì un rifugio sicuro che appartenesse a lui e a lui soltanto, che lo proteggesse dalle sorprese sgradevoli della vita e da cui nessuno potesse più scacciarlo. (p. 11)

Felice della quiete raggiunta, trascorre così decenni…

Così visse tranquillo e appagato, anno dopo anno, decennio dopo decennio. (p. 11)

Con il tempo apporta migliorie alla stanza, installandovi elettrodomestici e mobilia, rendendola ancora più piccola ma confortevole, suo porto e rifugio sicuro…

Ma per trent’anni aveva conservato la sua qualità fondamentale: era e restava il porto sicuro di Jonathan nel mondo insicuro, restava il suo solido punto d’appoggio, il suo rifugio, la sua amata, sì, perché la sua stanzetta lo accoglieva con tenerezza la sera quando rientrava, lo scaldava e lo proteggeva, lo nutriva nel corpo e nell’anima, era sempre presente quando ne aveva bisogno e non lo abbandonava. (p. 14)
Talmente felice di quella stanza, la numero 24, da arrivare ad acquistarla. L’ultima rata è prevista per il dicembre 1984, ma ecco che nell’agosto del 1984 accade il fatto del piccione…

Tale era lo stato delle cose quando, nell’agosto del 1984, un venerdì mattina, accadde il fatto del piccione. (p. 14)

Appena sveglio, accertata l’assenza di altri coinquilini nel piano, Jonathan apre la porta per recarsi alla toilette. Ma, aperta la porta, eccolo trovarsi di fronte un piccione accovacciato sul pavimento del corridoio che lo fissa in maniera inquietante…

Stava davanti alla porta, a neanche venti centimetri dalla soglia, nel pallido riverbero della luce del mattino che entrava dalla finestra. Era accovacciato con le zampe rosse ad artiglio sulle piastrelle rosso mattone del corridoio, con le sue piume lisce grigio piombo: il piccione.
Teneva la testa inclinato di lato e fissava Jonathan con il suo occhio sinistro. (p. 16)
Era un occhio senza sguardo. E fissava Jonathan.
Si era spaventato a morte: così avrebbe potuto descrivere il momento in seguito, ma non sarebbe stato giusto, perché lo spavento venne soltanto in un secondo tempo. Era, piuttosto, mortalmente stupefatto. (p. 17)

Resta immobile, impietrito, spaventandosi nel vederlo abbassare e rialzare le palpebre. Si rifugia così terrorizzato in stanza…

[…]rimase immobile, come di ghiaccio, sulla soglia della porta, senza poter andare né avanti né indietro. (p. 17)

E soltanto allora Jonathan trasalì per lo spavento, allora gli si rizzarono i capelli per puro terrore. Con un balzo saltò indietro nella stanza e chiuse la porta, prima ancora che l’occhio del piccione si fosse riaperto. (p. 18)

Con il cuore in gola e i sudori freddi, Jonathan teme di poter avere un infarto, ma nulla di ciò si verifica. Sono piuttosto sinistri pensieri a tormentarlo, l’idea di essere un fallito che ha sprecato la propria vita e che si lascia spaventare da un piccione che non è capace di uccidere. Non potrà più vivere lì, anzi vi resterà chiuso dentro e morirà, oppure sarà costretto a chiamare i pompieri divenendo lo zimbello del quartiere…

Invece una massa selvaggia di pensieri funesti totalmente scoordinati turbinava nel suo cervello come uno stormo di corvi neri, che gridavano e svolazzavano nella sua testa […] (p. 19)

Colto da un impellente bisogno di urinare e consapevole di non potere varcare la soglia nemmeno ad uccello scomparso, Jonathan si trova costretto a degradarsi svuotando la vescica nel lavandino…
Dopo aver pianto per il gesto compiuto e pulito il lavandino, si calma, pronto a recarsi al lavoro nonostante la presenza dell’orrido animale. Considerando di non poter più vivere in stanza per la presenza del piccione, decide di doversi trasferire, con alcuni effetti personali e valori che possiede, in una pensione, con la speranza che il piccione possa morire presto…
Preparata la valigia con le lacrime agli occhi per la disperazione di aver buttato trent’anni di vita, copertosi al massimo per evitare contatti con l’animale, Jonathan trova infine il coraggio di aprire la porta. Il piccione si è spostato, lasciando sulle piastrelle guano, deiezioni che si trovano invero su tutto il corridoio…

Era come se fosse stato ricacciato indietro di trent’anni, come se avesse perso trent’anni della sua vita. (p. 26)

Nonostante la crisi di panico che lo coglie, Jonathan riesce ad attraversare il corridoio ma, volgendosi indietro una volta al sicuro, ha la certezza di non poter più tornare nella stanza n. 24: il piccione, dopo un breve volo, giace infatti proprio davanti alla porta…

[…]Jonathan scorse in fondo al corridoio il piccione che si staccava dall’angolo buio, muoveva qualche rapido passo vacillante in avanti e poi si accovacciava di nuovo, proprio davanti alla porta della sua stanza.
Con orrore distolse lo sguardo e cominciò a scendere le scale. In quel momento ebbe la certezza di non poter ritornare mai più. (p. 30)

Al piano inferiore si accorge di avere ancora indosso cappotto, guanti e indumenti invernali. Prontamente se li toglie, evitando così il rischio di essere preso per pazzo…
Per uscire dallo stabile è però costretto inevitabilmente a passare di fronte alla portinaia, madame Rocard, fatto che lo mette a estremo disagio sentendosi da lei profondamente osservato a discapito dell’amato anonimato…

Nessuno al mondo osservava Jonathan tanto spesso e con tanta precisione quanto madame Rocard. Jonathan non aveva amici. In banca faceva parte, per così dire, dell’inventario. I clienti lo consideravano un accessorio, non una persona. Al supermarket, per strada, sull’autobus (le rare volte in cui se ne serviva), la sua anonimità era protetta dalla massa degli altri. Solo e unicamente madame Rocard lo conosceva e lo riconosceva ogni giorno e gli elargiva la sua sfacciata attenzione almeno due volte al giorno. (p. 34)

Suscettibile come non mai e sull’orlo di una crisi di nervi, Jonathan torna indietro per affrontarla. Ma, faccia a faccia, osservatone i puri occhi, riesce unicamente a sfogarsi protestando per la presenza del piccione… Talmente goffo da far trasparire l’unica verità, l’incapacità di scacciare il piccione che ha finito per scacciare lui…

[…]mentre l’unica verità che dovevano nascondere, e cioè che lui mai e poi mai avrebbe potuto scacciare il piccione, ma viceversa il piccione aveva scacciato definitivamente lui, si rivelava nel più penoso dei modi […] (p. 39)

La vecchia scompare nel bagno della portineria, lasciando Jonathan in balia della propria frustrazione e della certezza che nessuno lo avrebbe mai liberato dal volatile, non essendo quello compito della donna…
Giunto in perfetto orario in banca, aperte le varie porte e introdotti gli impiegati, Jonathan occupa come tutti i giorni il proprio posto di guardia fissa all’esterno, sebbene in condizioni psicologiche opposte al normale…

[…]Jonathan Noel stava ritto sui gradini di marmo davanti alla banca e faceva la guardia, ormai da trent’anni, senz’aver mai avuto paura, senz’aver mai dubitato di sé, senza il minimo senso d’insoddisfazione e senza l’espressione scontrosa, fino a oggi.
Ma oggi tutto era diverso. (p. 46)

Fin da subito non riesce a concentrarsi, subendo il caldo, provando una sensazione di prurito e la necessità di muoversi per cercare equilibrio…

Oggi Jonathan non riusciva assolutamente a ritrovarsi nella sua calma da sfinge. (p. 46)

Talmente assorto nei propri pensieri, da non accorgersi dell’arrivo della limousine del direttore, monsieur Roedel, che suona il clacson ripetutamente per attirarne l’attenzione e farsi aprire il cancello…
La mancanza lo rende ancora più nervoso, al punto da costringerlo ad appoggiarsi alla colonna dello stabile, fatto mai accaduto in trent’anni di servizio…

[…]ti è sfuggita, hai fallito, hai mancato gravemente ai tuoi doveri, non soltanto sei cieco, sei sordo, sei vecchio e malandato, non sei più in grado di fare la guardia. (p. 50)
Poi si lasciò scivolare lentamente all’indietro, contro le proprie mani e contro la colonna e vi si appoggiò, per la prima volta nei suoi trent’anni di servizio. E per qualche secondo chiuse gli occhi. Tanta era la sua vergogna. (p. 51)

Durante la pausa pranzo, presa una stanza in un albergo e lasciativi i bagagli, si ferma a mangiare in un parco dove osserva uno spensierato clochard che, di fatto, conosce e vede da trent’anni e che inizialmente era arrivato ad “invidiare”…

Anche lui, come Jonathan, viveva in quel quartiere da decenni. E Jonathan ricordava che quando l’aveva visto per la prima volta – erano passati trent’anni – era nata in lui una specie d’invidia rabbiosa, invidia per la spensieratezza con cui quell’uomo conduceva la propria vita. (p. 53)

Invidia durata fino a quando, negli anni sessanta, lo vide defecare in strada imbrattandosi tutto…
Terminato di mangiare, il clochard inizia a dormire, circondato da uccelli, piccioni compresi, che beccano le briciole di pane e le teste delle sardine sputate… Osservandolo, Jonathan è colto da stupore: come ha fatto a sopravvivere tanto a lungo nonostante lo stile di vita che conduce?… Lo stupore diventa paura, dato che lui, Jonathan, sempre irreprensibile, è finito di fronte a un baratro…

[…]non aveva mai fatto debiti, mai era stato di peso a qualcuno, né mai era stato malato e aveva sfruttato l’assicurazione sociale… mai aveva fatto del male a qualcuno, mai, mai in vita sua aveva voluto qualcosa se non tenersi e garantirsi la sua piccola, modesta pace dell’anima… mentre lui, ora, a cinquantatré anni, si vedeva di colpo scaraventato in una crisi che sconvolgeva il suo progetto di vita escogitato con tanta cura e lo turbava e lo disorientava e faceva sì che mangiasse focacce con le uvette unicamente per confusione e per paura. Sì, aveva paura! (p. 61)

Paura di finire come il clochard, perdendo il lavoro a causa della propria sopraggiunta inefficienza…

[…]d’un tratto aveva una paura tremenda di dover diventare come quel disgraziato sulla panchina. Quanto poco ci voleva a impoverirsi e rovinarsi. (p. 61)

Terminato di mangiare, lascia disgustato il parco, accorgendosi però di aver dimenticato sulla panchina il contenitore vuoto del latte. Non volendo commettere ulteriori nefandezze, decide di tornare indietro ma, nel raccogliere il vuoto, si strappa i pantaloni rimasti impigliati in una vite sporgente dalla panchina… Con una scarica d’adrenalina trova la prontezza d’agire, ricordandosi di una sarta presente all’interno di un vicino negozio di generi alimentari. Gettato nel prato il contenitore del latte, si precipita da madame Topell, la quale dichiara ovviamente di non poterli subito rammendare, ma solo di lì a tre settimane. A Jonathan non resta altro da fare che chiudere il buco con del nastro isolante prima di tornare al lavoro…

A causa della postura che deve assumere per celare il danno, Jonathan soffre enormemente, arrivando ad odiarsi…

Si disprezzava. In queste ore si odiava. Non stava quasi nella pelle dall’odio furibondo nei confronti di se stesso[…] (p. 76)

Ora voleva soffrire. Quanto più soffriva, tanto meglio, la sofferenza gli andava benissimo, giustificava e rinfocolava il suo odio e la sua ira, e l’ira e l’odio rinfocolavano a loro volta la sofferenza, poiché sempre più gli facevano ribollire il sangue e sempre più spremevano ondate di sudore dai pori della sua pelle. (p. 76)

Giunge infine ad odiare tutto quanto si palesa alla vista… I camerieri e gli avventori del caffè di fronte, gli automobilisti…

E infine – non voleva e non poteva opporvisi – l’odio accumulato per se stesso si liberò e uscì a fiotti da lui, uscì a fiotti dai suoi occhi fissi, sempre più cupi e cattivi sotto l’orlo del berretto e si riversò sul mondo esterno come comunissimo odio. Qualsiasi cosa entrasse nel suo campo visivo, Jonathan la ricopriva dell’atroce patina del suo odio[…] (p. 77)

Eccoli lì, quelle stupide scimmie nei loro puzzolenti cassoni di lamiera, appestatori d’aria, disgustosi produttori di chiasso[…].
Dovete proprio risucchiare e bruciare nei vostri motori anche l’ultimo residuo d’aria respirabile e risoffiarlo nel naso degli onesti cittadini, misto a veleno, fuliggine e fumo nero? Luridi individui! Soggetti criminali! Sterminarvi, bisognerebbe. (pp. 79-80)
[…]così universale, così titanico era l’odio di Jonathan Noel quel pomeriggio, che avrebbe potuto ridurre il mondo in cenere per un buco nei suoi pantaloni! (p. 80)

Ma quello stesso odio lo pietrifica, impedendogli di agire…

Non era il tipo che agisce. Era il tipo che subisce. (p. 81)

Pensa di poter morire lì, se lo augura anzi, ma, all’approssimarsi dell’auto di Roedel, il suo corpo, automaticamente, si precipita ad aprirgli il cancello…
Giunge poi il fine turno…

Camminando si placa, riacquistando il pieno controllo di sé…

Il camminare placa. In esso c’è un potere salutare. […]
È ciò che accadde anche al duplice Jonathan, lo gnomo racchiuso entro un corpo da marionetta troppo grande per lui. A poco a poco, passo dopo passo, si sentì espandere dall’interno finché rioccupò tutto il proprio corpo, ne riprese decisamente il controllo e divenne tutt’uno con esso. (p. 87)

Per ore e ore cammina fino alla sopraggiunta sera… Prima di rientrare in albergo, acquista gli stessi alimenti che aveva visto mangiare al clochard al parco…
La stanza si rivela ancor più piccola della n. 24, insolitamente a forma di bara. Dopo aver mangiato lentamente, ma con gusto, pane, formaggio, pera e sardine, accompagnate con del vino rosso, finalmente si mette a dormire, convinto di suicidarsi l’indomani…

“Domani mi uccido”, disse Jonathan. Poi si addormentò. (p. 93)

Poco prima dell’alba un fragoroso tuono lo sveglia. Non riuscendo a orientarsi in quella che non è la propria sicura stanza, è colto da un nuovo attacco di panico che lo porta quasi ad urlare, rivedendosi bambino abbandonato durante la guerra… Poi la pioggia lo fa tornare alla realtà, realizzando di trovarsi nella stanza d’albergo che in silenzio abbandona con i bagagli…
Vagando per le strade bagnate e albeggianti, sguazzando nelle pozzanghere con gioco di bambino, Jonathan torna infine nella locanda, dove ad attenderlo ci sarà senz’altro il piccione. Fermatosi per calmarsi, imbocca infine il corridoio, scorgendo a sorpresa la finestra chiusa, uno straccio ad asciugare sul termosifone, il pavimento pulito e nessun piccione da affrontare…

Il piccione era scomparso. Le macchie sul pavimento erano state pulite. Non una penna, non una piuma che tremolasse sulle piastrelle rosse. (p. 102)