MANLIO SGALAMBRO – TRATTATO DELL’EMPIETÀ

MANLIO SGALAMBRO – TRATTATO DELL’EMPIETÀ
ADELPHI – Collana SAGGI NUOVA SERIE N. 48 – II ed Maggio 2005

PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE
Di Manlio Sgalambro p. 7

PREMESSA

Se ieri non vi fu teologia senza pratica, si potrebbe affermare che oggi non vi è teologia senza ira. […]
La rabbia di essere è collera teologica; come se ce l’avesse con qualcuno. L’ateo invece – questa piccola canaglia – non ce l’ha con nessuno. Puerili idiozie come l’esistenza di Dio devono dunque essere prese in parola. […]
Nell’epoca della grande valutazione è “valutato” anche Dio. Nell’insipido dolore universale, la segreta relazione dell’odio non venne nominata. (p. 9)
Il disfattismo della teologia non è solamente la cattiveria di una consumata conoscenza di fronte alla bonhomie del secolare. Essa protegge dall’oscurantismo dell’illuminismo (come lo chiamò sinistramente Baader). Il suo compito persecutorio si scontrò già con la paranoia dell’onesto credente che dalla teologia si sentì sempre perseguitato. […]
Il “disinteresse” scatena la conoscenza solo se arriva sino al disprezzo. Se si dovesse prendere partito davanti alle grandi posizioni del pensiero teologico, occorrerebbe escludere che Dio sia “l’essere”, oppure, nel senso del tritatutto Suàrez, trattare quest’ultimo come cosa. (p. 10)

La teologia fu già l’onestà della metafisica, ai tempi di questa; oggi lo è della filosofia. […]
Senza l’atto che lo separa dal fondo oscuro della devozione, all’individuo non sarebbe possibile una vita sordamente giusta e la fredda assennatezza. (p. 11)

TRATTATO DELL’EMPIETÀ p. 13

PRIMA PARTE p. 15

La desolazione di un teismo astioso e senza orizzonti, di un Dio de trop: questo passa il convento. […]
La menzogna della teologia apofatica è il rifiuto del positivo come troppo indegno, mentre ogni teologia catafatica è una theologia blasphemiae. Dio, che secondo lo Pseudo-Dionigi non può essere né chiamato né nominato, viene “insultato” da attributi che, come in Spinoza, sono semplicemente positivi, e perciò uno schiaffo. (p. 17)

La domanda, che dovrebbe sostituire quella sulla “metafisica come scienza”, sarebbe: com’è possibile la teologia senza l’abuso religioso? […] Teologie non religiose sono oggi possibili come ieri le geometrie non euclidee. […]
Tuttavia c’è un punto la cui stessa ignominia non consente si passi sotto silenzio: essa concepì amore per Dio. Al modo di ogni triviale pietà. La bassezza della cosa non la fermò – che si potesse commettere una tale infamia: amare la propria origine. (p. 19)
Senza lo sdoppiamento riflessivo si avrebbe solo una insipida identità. In base ad esso, viceversa, si rende necessario il disgiuntivo Dio-mondo e l’unione di entrambi. […]
L’accidia, come recessus a Deo, segna il crollo del desiderio di Dio al limite del quale nasce il taedium Dei, la sazietà più completa. (p. 20)

In un periodo di ignoranza teologica, prevale in queste faccende una specie di primato della religione, buono a tutto. Mentre, secondo il concetto, essa è una miserabile appendice della teologia. (p. 20)
[…]col calore animale osa incrinare il gelo di pure forme in cui questa grande impresa della mente smarrisce talvolta il lume naturale per ripiegare sulle occasionali vanità della specie. Ma appena si rientra in sé, quella fugge. (p. 21)
Non c’è stato eccellente teologo che non sia stato, almeno in pectore, buon fisico.[…]
Si impari a vedere Dio come Lavoisier imparò a vedere l’ossigeno al posto del flogisto o come si apprese a vedere il pendolo invece della caduta vincolata o, se si vuole, come Descartes, al posto di una curva, vide una relazione tra due serie di numeri…[…]
Nel momento in cui si trova che l’idea di Dio non si può inventare, l’apprentissage è compiuto. (p. 22)
La riflessione senza speculazione è cieca quanto la famigerata intuizione mancante di concetto. In principio era il principio. Il pensiero, dimentico di se stesso, esprime nella tautologia il privilegio che arretra fino al minimo indispensabile prima di chiudersi nel mutismo o di spifferare tutto. (p. 23)
Dio è il mondo in quanto afferma se stesso.[…]
L’età della critica è finita. Il dogmatismo, al quale essa avrebbe, secondo l’immagine kantiana, tagliato le ali, rioccupa il vecchio posto, senza però le vecchie svenevolezze. Dio […]non appare più divino ma ciò che vi è di più basso, assieme a ogni idea di origine. Al contrario di Kant, bisogna perciò togliere ogni limite al sapere per fare posto all’empietà. (p. 24)
Dubbi e inquietudini sono preferiti alla stizzosa sicurezza di giudizio he risulta almeno inopportuna. […]
Nell’età del pessimismo mondiale il dubbio non ha infine che una sola funzione: fugare la sicurezza di quello e la grandezza di una vita nel pessimismo. (p. 25)
Il disprezzo per l’origine (il disprezzo per Dio) chiude il circolo dello spirito. (p. 28)
Si confronti l’insulsaggine della metafisica moderna on la concisa spregiudicatezza di chi dice freddamente “Dio”. (p. 29)
Sono invece l’odio, l’avversione, il disgusto, gli atti emozionali nei quali, nell’epoca dell’inversione di valore dell’oggetto della teologia, è possibile “comprendere” Dio come si deve. […]
Più di ogni altra, la teologia è scienza di fatti o di uno solo. Dell’essere brutale e inintelligibile di cui una ragione pedissequa può solo blaterare. (p. 30)
Il giovane teologo che inizia la sua professione confortato da segni favorevoli sia pronto a capovolgerne l’usata destinazione. L’ignobilità dell’origine è il senso odierno della riflessione sull’origine. Il senso complessivo della teologia. Egli si impegni dunque a rendere conto del crollo del rispetto di Dio seguendo le vie maestre che la sua professione gli ha sempre assicurate. (p. 32)
La quale, limpida e pura, riscatta l’amarezza del concetto con la delizia dei suoi sillogismi che inchiodano l’oggetto “supremo” alla sua realtà maudite. […]
Buttata sul suo tavolo da lavoro, la nozione di Dio sia solo una res professionale. […]
Il giovane teologo segua pure la Scolastica ma senza le sue premesse[…]. (p. 33)
Ancora per la formazione del teologo… Sentirsi stretti alla gola da qualcosa che aspira ad abolirci. Sentire Dio come una costrizione fisica o, se si vuole, come il mondo. […]
Educare teologicamente. Indurre con tutti i mezzi alla diffidenza. Persuadere ad abortire il principio di nascita. Abituare a disprezzare Dio tutti i giorni. (p. 35)
Dopo Schopenhauer teologia ormai significa rendere conto dell’ottusa essenza dell’universo. […]
È difficile oggi non dire qualcosa di nuovo. Ciò che una volta fu creazione e richiese tutte le forze di un individuo geniale, si coglie ora sulle labbra del primo venuto. (p. 37)
Che ogni filosofia giri intorno alla dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio, questa affermazione si nega per eccesso. […]
La teologia è conoscenza del peggio; ciò che è almeno tanto vero, quanto falso che essa sia conoscenza del meglio. (p. 38)
Ma in virtù di ciò, chi pensa Dio è più perfetto di Dio proprio perché lo pensa. L’inversione secondo la quale Dio prende posto al più infimo grado dell’essere e la mente al più alto, rende conto per intero del primato del pensiero di cui la filosofia moderna mena vanto e gliela fa pagare in nome della stessa lex continui. (p. 40)
Cosa dà autorità e forza a una filosofia? L’importanza che un’epoca le assegna non è che l’importanza che questa dà a se stessa e alle proprie fisime. (p. 42)
L’intero sistema del sapere, sino alla moderna contesa delle facoltà nasce da una repressione sistematica dell’effettivo sapere. Si comincia già con l’isolare uno spazio che ne delimiti i ristretti confini rispettivamente all’albero verde della vita. di modo che, mentre si dovrebbe vivere per sapere, si sappia invece per vivere. Ma la filosofia dà voce al rimpianto di non essere mai nati e con pietà lo ricorda. (p. 44)
In una eventuale classification des sciences, la teologia naturale occuperebbe il posto lasciato vuoto dal fallimento dell’ateismo, che non diede mai luogo a una scienza. La sua naturalità sta in ciò: che essa non vede alcun “supremo” valore, ma qualcosa di vile, di inferiore, a cui si accompagna, assieme all’assensus, la nausea del teologo. (p. 45)
La teologia naturale, in quanto “disposizione naturale”, appartiene cioè alla cieca spontaneità, alla bruta natura umana. Ma nello stesso tempo sta a ricordare che qui non vè che il più infimo essente. La stessa cosa implica la cieca formalità del sillogismo disgiuntivo che, se vogliamo dire le cose come stanno, ci conduce ottusamente a concepire l’oltraggiosa idea di Dio.
Con questa empietà comincia e finisce la teologia naturale. (p. 48)
I primi di un sistema, in Nietzsche, seguono le distinzioni canoniche della filosofia di scuola. Vi mancerebbe solo la teologia. Ma questa mancanza è anch’essa canonica, da quando la teologia è stata sostituita ovunque dalla “filosofia della religione”. […]
Nietzsche non sa che la teologia è un obbligo della mente; crede sia opera di fantasia, magari musica wagneriana… (p. 49)
Teologo è colui nel quale si compiono distacco e allontanamento da Dio come origine o principio “positivo” del mondo. Colui che, con un unico atto della mente, lo intende e se ne separa. Con disgusto. (p. 51)

SECONDA PARTE p. 53
Bisogno religioso e bisogno sessuale malcelano l’avido legame. La distanza, classificata usualmente abissale, viene beffeggiata dal conflitto che turlupina i due contendenti, ma sempre come un dissidio in famiglia, al quale presto segue la pace. […]
L’uso religioso del concetto di Dio attenta all’ordine della mente. Dio riguarda l’intelletto che ne è geloso. Altra cosa comunque è l’utilizzazione religiosa di esso – l’uso, come di un martello o di un chiodo. (p. 62)
La credulità più gretta, la più infantile superstizione, fanno ressa attorno all’annuncio della morte di Dio che va rinnegato tre volte: filologicamente, filosoficamente e teologicamente. Questa la lectio corretta: morto è il desiderio di Dio; resta Dio. (p. 63)
Per la scienza naturale degli attributi. Gli attributi non hanno quel senso che assumono in seguito. Dapprima, delimitano uno spazio,segnano delle distanze. In una parola, consentono all’idea di Dio di funzionare. (Se Dio è un’idea che funziona, è ché supplisce alla mancanza di “esistenza” con un sovrappiù di senso). (pp. 64-65)
La sconosciuta cosa in sé è il conosciutissimo Dio. (p. 66)
La libertà interiorizza il tiranno, ossia la sua “assoluta” libertà, che poi si fa subire a qualcuno. Essa rispecchia il despota che vorremmo essere. Fare ciò che passa per la testa e imporlo a tutti. Il cattivo uso della libertà è già essere liberi. Ma la riscoperta condizione servila fa sentire una sorta di cupo accordo col sordo universo. È come se esso si desse a una “intuition”, che non si troverebbe però nel libero slancio, ma nei ceppi. (pp. 69-70)
Ricordi d’adolescenza. Si usava allora, almeno una volta nella vita, meditare sul problema di Dio. […]
Il suo stesso ateismo giovanile, chi scrive lo può desumere da questi ricordi. (p. 70)

Nota personale. Chi accumulò sofferenza nella sua gioventù se ne serve ancora perché essa lo assista. A tanti anni di distanza egli s’è indurito e ha perso la tenerezza che gli restava. Chi accumulò sofferenza accumulò livore. È giusto che ora egli si circondi di dardi di vipera e denti di lupo. E si faccia ridare dallo spirito ciò che gli costò. Così egli indugia a pensare, ma né aquile né serpenti gli fanno compagnia, solo cattivi pensieri. Ha studiato filosofia, scienze, matematica (e perché no, anche teologia), pure poesia; ha ascoltato buona musica e certo la sa più lunga di dottori e maestri. Ma non ha più di questo (per dirla ancora con lui, col vecchio signore dell’angusta stanza gotica). Egli però sarebbe vissuto anche in una tane per topi e avrebbe scuoiato cadaveri, pur di potere pensare. (p. 71)
A questo punto ci si può chiedere come la conoscenza controlli l’idea di Dio. Come una parte l’altra? Non risulta si abbia alcuna idea di Dio interiore alla mente. Essa proviene dal di fuori. dall’urto del mondo contro l’intelligenza che l’intelligenza ha controllato invano. (p. 74)
Si chiede sempre meno alla vista, in modo che ciò che si vede veramente non risulti poi così orribile. Si guarda, in realtà, sempre meno. (p. 77)

TERZA PARTE p. 81

Sermone. “Empietismo” non è che il nome ridestato del pessimismo. In ogni caso esso non si darebbe senza che il pessimismo l’avesse preparato, con tenere cure, come l’atteso figlio. (p. 83)

Nella manualistica teologica si trova di più sul concetto principale[…] che non nelle fonti “religiose”. La religione fu sempre una cattiva ispiratrice al riguardo. Essa non sa nulla o poco più di Dio: ciò dovrebbe stare in testa ad ogni filosofia della religione. Nella manualistica, invece, prevale un robusto istinto di conoscenza o l’abitudine del manualista – à votre plaisir – una familiarità con il concetto di Dio, con il quale egli si consente anzi certe confidenze. […]
Ciò che fa fremere il religioso non squieta punto il teologo manualista che, nel segreto del suo cuore, sa che non esiste religione ma solamente idolatria. (p. 84)
L’irresistibile impulso all’unità spinge ogni individuo ad unirsi all’altro, ad accostarglisi quanto più vicino, a stringersi in una trama di relazioni in cui rimane impigliato come una mosca. […]
Il sempiterno compito dell’etica, sconfiggere ogni molteplicità, è quello quindi di distruggere in ultima analisi l’individuo e così fare trionfare la forza onnipossente dell’Uno. O meglio, essa trionfa così. Questo maligno impulso all’unità è presente in ogni atto che si suole definire morale. (p. 87)

Qui si manifesta il sentimento di empietà – nell’indignazione che risale fino all’origine e vi si installa per sempre.
Non amate Dio, né ciò che è in Dio. Non siate come bestie. Non amate quelli che si attaccano a Dio. Sappiate vedere in questa foia solo il frutto più scaltrito della concupiscienza.

Dietro le quinte della facoltà di desiderare, la Critica della ragione pratica fa intravedere la facoltà di aborrire, ma senza ruolo preciso.[…]
Un oggetto specifico della facoltà di aborrire non viene dunque nominato: genericamente essa riguarda ciò che non si vuole (che Kant chiama, malvolentieri, il male) ma è troppo poco. […]
Essi connotano però la situazione che s’è venuta a creare in teologia naturale con la caduta della “preferenza” di Dio. In ogni caso, nell’aborrire c’è qualcosa di più che nel posporre: la qualità, che in questo viene lasciata da parte. (p. 92)
Nel sistema dell’empietà la facoltà di aborrire si trova chez-soi. Ma essa già primeggia, rispetto al desiderare, laddove il non desiderato prevale. […]
Ma, assieme al desiderio di Dio, è come se si fosse estinto ogni reale desiderio. […]
Il desiderio ora balza dal di fuori, dall’oggetto, ma come tentazione intristita. […]
Così, dove si distinguono un sistema della croyance e uno dell’empietà, facoltà di aborrire diverrà la sussunzione sistematica di tutti gli atti positivi della “negazione” di Dio sotto una capacità potenziale o una disposizione dell’“anima”. (p. 93)
Ma soprattutto quando la negazione della volontà più non basta, sul troppo pacifico non volere prevale l’aborrire, dove l’oggetto della negata volontà ricompare. Dopo che il magico giuoco s’è liso, nell’impotenza della negazione che nemmeno lo scalfisce, non rimane più che il triste, misero odio. Il teologo non può amare. (pp. 93-94)

Scambio di posti. L’ontologia ha preso il posto della teologia giudicata insufficiente, ma solo perché questa ha smarrito ogni rispetto per Dio, mentre quella lo conserva integralmente per l’essere. Quella non vuole pasticciare l ‘essere con gli entri, questa agita il principio che Dio è il mondo. In teologia Dio non è un “essere”, ma un “positivo”. Quest’ultimo, si sente lontano un miglio che è un “negativo”. […]
Il teologo invece si potrebbe chiamare, a giusto titolo, maestro di reale. (p. 95)

Dio diventa l’oggetto di una noia mortale. Il teologo, annoiato dandy che ne maneggia i concetti mettendosi i guanti, si compiace di dimostrare Dio, ma assieme alla sua bassezza. (p. 96)

Per la razza irascibile dei teologi, è Dio l’oggetto dell’ira. (p. 98)

Cos’è un teologo? Un uomo divorato dall’orgoglio. […]
Nell’orgoglio del teologo si tratta il concetto di Dio come il concetto di cane, “animal latrans”. […]
Cos’è allora oggi un teologo? Uno scolastico senza scolastica, un tramp fannullone, vestito di un abituccio stinto di calicò, un doctor marmoreus; ma egli ha l’orgoglio e per esso si preferisce a Dio. (p. 100)

Per lungo tempo la teologia è stata ritenuta la malattia senile della religione. Un autentico teologo non fu mai, tuttavia, una preda facile. Oggi il teologo è solo un décadent? (p. 105)

Poiché Dio non pensa dev’essere pensato da noi. (p. 106)

L’individuo dunque agisce senza darsi pensiero delle cause, come se temesse di ridiventare schiavo di occulte potenze. Ma la perdita del senso della causa declassa. Solo l’individuo di rango sdegna di “postulare” la libertà all’origine dei suoi atti… Tutto è dato, la causa e la causa per cui “io” scrivo della causa. (p. 107)
Come uomo di conoscenza, il teologo deve farsi uomo di spada e combattere continuamente il divino che gli si infiltra fra i concetti, inquina le nozioni, e stabilisce indegne connivenze col Principio. (p. 108)

Ma dal pensiero irato, male si presta l’etereo corpo del fiore di primavera, l’esile stelo del giglio… L’ontologica evidenza della rabbia di essere costituisce la base di quell’ira che il furente riversa poi su Dio. (pp. 108-109)

Ogni cosa “prodotta” non doveva essere. (p. 109)

Il teologo sconvolgerà il tranquillo corso della “secolarizzazione”, l’idillio del “disincanto”, già con lo choc dell’“esistenza” di Dio. Ma cos’è l’empietà alla quale, oggi come oggi, egli dovrà affidarsi? Il riferirsi in ogni cosa all’origine e nello stesso tempo essere consapevoli dell’indegnità di essa. […]
L’empietà non è dunque miscredenza. L’empio crede a Dio, non in Dio. (p. 110)
L’empietà è il giudizio in cui lo stesso Principio è condannato. (p. 111)

Dal ciclo del denaro. Il raffinamento del concetto di denaro si incontra necessariamente coll’aggiornato concetto di Dio, ugualmente affinato. […]
Simmel raffronta la forma psicologica del denaro all’immaginazione di Dio. Entrambi i concetti, secondo Simmel, hanno questo in comune; il denaro, come mezzo assoluto, è il punto che unisce infinite serie di fini e, potenzialmente, li soddisfa tutti. d’altra parte il concetto di Dio trova la sua essenza nel fatto che tutti i contrasti raggiungono in esso l’unità. (p. 112)
Il soddisfacimento, la pace, ciò insomma per cui si investiva con profitto il sentimento in Dio, sono assicurati dal denaro, che così toglie alla rappresentazione di Dio il sovrappiù. Ma il paragone tra Dio e il denaro è già effetto del “cinismo”. (pp. 112-113)

[…]Dio è tutto ciò che non desideriamo. Questa è l’odierna sicurezza acquisita dalla riflessione teologica sulla base dei proprio stati. (p. 114)
[…] Dio è tutto ciò che non desideriamo. Questa è l’odierna sicurezza acquisita dalla riflessione teologica sulla base dei propri stati. (p. 114)
Altrettanto filosoficamente misero sarebbe fare dibattere due forze o due istinti. La vita non sta mai alla pari della morte. E non vi è “e” più sciocca di quella che le congiunge entrambe. […]
Si vede, cioè, palesemente che non la vita ma la mote è l’essenza cercata. La realtà blasonata, la “vera” realtà. Il nucleo indistruttibile, che sarebbe il nostro più vero essere, la cosa in sé contrapposta all’apparenza, l’unica cosa reale, è l’incessante distruzione, la forza distruttiva in persona rispetto alla quale la “vita” non è che quel quid necessario alla distruzione stessa. l’immanenza crudele di Dio nelle torture della morte. (p. 122)
L’idea di male, che sorresse la gloriosa polemica contro l’ordine del mondo, è ormai priva di qualsiasi rilievo. Essa fu un classico appannaggio dell’empio[…]. (p. 123)
Con questa enfatica idea si perseguì l’assetto generale, inducendo a ristabilire l’equilibrio turbato con l’idea bizzarra del “bene”. […]
Il male è la morte (già come pensiero di essa, come fu seriamente notato). Il male dunque compare all’ultimo istante, quando è troppo tardi per tutto, anche per il “bene”. (p. 124)

QUARTA PARTE p. 125

Per il resto, Dio non sa d’esistere. Ma, se lo sapesse, egli si odierebbe. (p. 127)
Nasce un’altra figura di teologo, il teologo spregiatore di Dio. […]
Questi spregiatori sostituiranno i vecchi atei, vecchi murmuratores, per cui esiste sicuramente il mondo, ma come se esso non fosse effectus sui, cioè quel Dio che da confusionari quali sono negano senza sapere di che parlano. l’atto negativo di Dio consta invece di atti positivi: odio, repugnanza, avversione… (p. 128)

La superba individualità che si forma staccandosi dall’essere comune, non ha più simili. Ah, l’estrema difficoltà di poter pensare solo a se stessi, al capolavoro della propria individuazione. E ad estinguere in sé ogni idea dell’altro… (p. 131)

Cattivi istinti. La solitudine temuta si porta addosso una riprovazione che viene da lontano. Ciò che si maschera da “impulso sociale” e in nome di esso dà lezioni, è un irrefrenabile impulso all’unità – ancora non classificato tra i cattivi istinti – la forza residuale dell’“Uno” che vorrebbe tutti sott’occhio per stritolarli meglio. (p. 132)

Il canto della tenerezza. La carezza, la mano palpitante che sfiora con rapidi guizzi il corpo dell’altro, già lo gualcisce come un involucro di pessima carta: è come se lo stringesse nel suo pugno. La tenerezza nasce da questa forza compressa, che non si scatena intera, ma trattiene il respiro. Dalla coscienza di potere stritolare l’altro, che si abbandona languido. Da qui nasce la tenerezza, come se a quegli si fosse data la vita, solo per non avergliela tolta. […]
La “socialità”, con cui si educa ad applicarsi addosso gli uni agli altri, depaupera grandi ricchezze spirituali che forse tornerebbero a formarsi e tutto perché infine due si incontrino e possano andare al cinema o a letto insieme. Mentre Bach si ascolta sempre da soli. (p. 133)
In ogni relazione si sperimenta la tirannia dell’altro, solo perché tale. Esso invade già col suo “nobile” volto il nostro spazio e lo occupa senza tanti complimenti. Non come l’inerte presenza di una cosa senza volontà, ma la prepotenza è implicita nella sua stessa figura, nei suoi movimenti convulsi. Prepotenza è la sua stessa esistenza; cancellazione di chi gli sta di fronte. Le mani che si protendono è come se volessero strangolare; si sentono addosso, palpano, toccano, brancicano… (p. 134)

Dell’agire non si dovrebbe nemmeno parlare. Come di ogni cosa del fare, esso appartiene all più dubbia mistica. l’agire è ineffabile. La domanda “che fare?” non suppone risposta, ma già le gambe si mettono in moto da sole. l’agire è proprio del “povero” che deve gagner sa vie (la sua “miseria” è anzitutto incapacità a vivere da “solo”, tremebondo bisogno di tutto…). […]
Le massime istanze dell’agire sono polizia e tribunali. (p. 135)
Si è arrivati a pensare che ogni relazione metafisica sia una relazione sociale: meschina volontà di specie! […]
Ma non esistono rapporti se non per la rappresentazione. Non c’è mondo in cui io sono armato. l’amore dell’altro non concerne il mio essere, da cui egli è separato per l’eternità: l’idealismo dei rapporti umani è inoltrepassabile. Ma proprio per questo, e in questa mancanza ontologica di rapporti, l’impulso all’unione si scatena. nell’amore sessuale se ne ha il caso più forsennato. Qui, per disperazione , il rapporto diviene penetrazione fisica. […]
L’amore sessuale è l’atto disperato di chi si vede sfuggire il terreno sotto i piedi. Di chi si è reso conto, in qualche modo, che non c’è mai un rapporto con l’altro e, nel rapporto sessuale, tenta il tutto per tutto. (p. 136)
Coito e violenza sono gli estremi rimedi per potere stabilire un qualche contatto, una “relazione” con l’altro, mentre sempre più si diffonde la consapevolezza che la catena della rappresentazione non ha fine. La violenza, come il coito, dovrebbe forare, per così dire, lo spesso strato delle rappresentazioni al di là del quale si congettura un’esistenza. L’urlo di questa dovrebbe renderci materialmente sicuri che lì c’era qualcuno. (pp. 136-137)

La passione per Dio è dello stesso genere della passione per le cose. Cioè l’attaccamento alle cose e l’attaccamento a Dio sono dello stesso ordine. Ma in quest’ultimo sta ben custodito ciò che consente il primo. È dunque l’attaccamento a Dio che bisogna colpire, come a colpi d’accetta si abbatte l’albero per colpirne i frutti maligni.

Perché si colpì il piacere dei sensi e non quello dell’intelletto? Perché non si condannò la foia di questo, la concupiscenza con cui si attaccava al concetto di Dio, la voluttà, addirittura lo spasimo, che ne provò? La concupiscenza della carne è nulla al confronto di quella dello spirito quando questo si inorgoglisce del suo osceno concetto…
Che nell’uomo Dio acquisti coscienza di sé, queste vecchie puttanate vanno sdegnosamente respinte. Vero è invece che solo nell’uomo si può avere negazione di Dio, cioè l’intera serie degli atti positivi di cui essa consiste: avversione, disprezzo, odio… (p. 140)
Superbia. Superbia è la qualità della mente che ha raggiunto l’indipendenza da Dio.[…]
Essa è il supremo godimento dell’individuo che gioisce di se stesso, mentre si estingue il desiderio. (pp. 141-142)
Nel medesimo atto in cui si consuma l’allontanamento da Dio, si colma la vuota coppa del vivere. Un senso lo riempie finalmente e una scintilla di gioia accompagna il trionfo di un puro intelletto. Alla fine l’appagamento è raggiunto, assolto il compito di una vita. all’individuo non è dato altro; ma a chi ha raggiunto questo, nulla può essere dato di più, di meglio… (p. 144)

Il crollo del desiderio di Dio è collegato al crollo della volontà di vivere. Così l’amore, indirizzato a Dio (quando ciò avveniva ancora naturaliter), che rappresentò il massimo per l’uomo, quale lo vide ogni teologia succube, appare ora ripugnante, viscido, mentre l’avversione, il disprezzo di Dio, esprimono la bruta condizione teologica odierna: l’amore di Dio appare disgustoso, come la più cieca volontà di vivere. (p. 146)

Il sentimento del rispetto, misto di fiduciosa confidenza e di senso di venerazione ,ebbene,tutto questo subisce un cedimento improvviso, come se il mutamento fosse avvenuto (come di fatto avviene) nella struttura del Sé. Ora un senso di svalutazione si dirige a ciò che si venerava e la stessa “inclinazione” di prima appare stolta. Il primo gesto è di rimuovere siffatta amarezza (l’ateismo è pur sempre la promessa di un fanciullo). Non è consentita mancanza di rispetto per ciò che si adorò. Perciò l’infantile negazione. Non se ne tollera l’idea inferiore. Tuttavia questi sono i fatti. Al destarsi della coscienza empia si accompagna un mutamento sostanziale nella struttura del desiderio che modifica lo stesso valore degli atti. l’assestarsi di un fenomeno emozionale come l’indesiderabilità della vita, si traduce in un atteggiamento globale. Il primo effetto ricade sul “desiderio” di Dio. Colui al quale viene meno il desiderio, rinnega Dio che senza quello è un mero sussistente. all’empietà si collega l’avversione. Ben altro che il patetico bisogno metafisico che mendicava il soddisfacimento. Per l’empietà Dio è indesiderabile. (p. 149)

Contrariamente alla religione, e come la santità, l’empietà è solitaria.
L’empio sta al santo per la dedizione con la quale sacrifica Dio e l’amore dell’altro all’amore di sé. Alla potenza della mente. (p. 155)
De vera impietate. Un acrimonioso sentimento di Dio congiunto alle più rigorose risorse tecnico-formali, da dove però sia cancellato il sentimento lì predominante della superiorità, e subentri il senso del più basso, del vile, dell’aborrito, riassume la vera empietà. Diversamente dall’ateismo, che è una semplice opinione, l’empietà è una forma. Come una struttura a priori in latenza che in un momento dato si desta, essa dispone della teologia che senza la religione è vuota ma senza l’empietà è vuota e cieca. (p. 162)

Kultur des Geldes. Dal momento in cui il denaro diventa dominante, la rappresentazione di Dio cessa di essere mezzo universale di soddisfacimento, cosa che ora è il denaro. (p. 163)

L’autentica essenza del sistema teologico è la negazione “positiva” di Dio. […]
Essa si presenta, dapprima ,capovolta, come si presenta in genere il mondo, e quindi come affermazione. (p. 164)
È un frutto del cinismo – unica “filosofia” ancora attendibile – pensare a Dio come all’ente infimo. A questo si deve perciò accompagnare la ferma convinzione che l’essenza dell’uomo, se mai vi è qualcosa del genere, non consiste nell’unione-con-Dio, né dogmaticamente né come oggetto della speranza[…].
L’idea dell’uomo esprime l’idea della separazione-da-Dio come la sua più esclusiva possibilità. Il primo grado, l’allontanamento, è la consistenza in se stessi, l’amore disperato di sé. all’inizio sta chi ama se stesso – la propria mente . Sino a preferirsi a Dio. Ma questo è solo un primo grado. Il secondo è separarsi dagli altri (da cui si è separati), attuare il santo solipsismo: l’altro è fumo e boria. Il grado successivo è essere perfetti in se stessi, riposare in sé avendo raggiunto la fonte della propria pace. (Bisogna acquietarsi nella verità anche se essa è odiosa). l’ultimo grado è lo stato supremo della mente – appunto, la completa separazione da Dio. (p. 167)

Accrescere il desiderio di Dio, preparare filtri d’amore – (non è questo che avete fatto, Simone Weil?) – ciò è da fattucchiere, non da teologi. La gratitudine per il solo fatto di esistere fu un caposaldo della teologia. Quale inesperienza! La “fiducia” in Dio: che urtante paradosso! E se inoltre l’ammirazione e la lode facessero ribrezzo? Allora, non diventare tutt’uni urge, ma restare distinti, unici, “egoisti”. Amen. […]
La teologia non è scienza della salvezza ma della perdizione. Alla quale non ammaestra soltanto, ma guida. l’individuo è già perduto. Ma essa rincara la dose. (p. 172)

L’affermazione di se stessi o la potenza della mente (“mentis potentia”) coincide con lo sprezzo di Dio o con quella che si chiamata, qua e là, la sua negazione positiva[…]. (p. 174)

Solo l’odium Dei riempie la vita. Attraverso il dolore di vedere il mondo in un disordine mostruoso, si fa luce la gioia di sapere in ordine la propria mente. Si sa chi si è, da dove si viene e dove si va. Al postutto, si è garantiti. Nel senso severo di Descartes, c’è una verità. Ma essa è unilaterale. Davanti a Dio abbiamo sempre ragione. (p. 176)