LUIS SEPULVEDA – STORIE RIBELLI

LUIS SEPULVEDA – STORIE RIBELLI
LUIS SEPULVEDA – STORIE RIBELLI

LUIS SEPULVEDA – STORIE RIBELLI

GUANDA – Collana NARRATORI DELLA FENICE – 2017

A CURA DI Ranieri Polese

TRADUZIONE: Ilide Carmignani

TRENTUN ANNI DOPO p. 7

Nel 1986 Pinochet fa allo scrittore revocare la cittadinanza. Nel 2017 gli viene inaspettatamente restituita…

11 SETTEMBRE 1973: E “JOHNNY” PRESE IL FUCILE p. 13

Omaggio a Oscar Reialdo Lagos Rios…

IL GENERALE E IL GIUDICE p. 21

SCOTLAND YARD p. 23

IL GENERALE DIETRO LE SBARRE p. 25

Quando ho sentito la notizia alla radio, ero sull’autostrada vicino a Udine: i freni si sono messi a stridere, gli automobilisti dietro di me mi hanno insultato, ma che importava?

Il dittatore agli arresti. Pinochet. Per qualche I minuto, per qualche ora, magari per anni. Privato di una libertà che non merita, perché il posto dei criminali, dei delinquenti, è il carcere.

Come tutti i cileni che hanno subito la sua superbia, la sua personalità patologica, ho accolto anch’io la notizia con gioia, e quando ho saputo delle proteste del governo cileno, l’ira ha un po’ appannato la felicità di immaginare il tiranno che balbettava timide parole da vigliacco. (p. 25)

Augusto Pinochet agli arresti. Che notizia memorabile. Gli offro quello che io non ho avuto, quello che nessuna delle sue vittime ha avuto: sono pronto a pagargli un avvocato che lo difenda e gli garantisca un processo giusto, nel pieno rispetto della sua integrità. (p. 26)

LA BESTIA ALLE STRETTE p. 27

Durante questi giorni tesi in cui, con evidente soddisfazione e grande inquietudine, ci siamo goduti le immagini del tiranno privato della sua libertà, abbiamo anche visto come si è fatto liberamente ricorso all’eufemismo per giustificare quanto non è giustificabile. (p. 27)

Il grande pericolo per la stabilità politica e la pa#ce sociale del Cile si chiama «modello economico neoliberista», si chiama «darwinismo economico», si chiama «cultura del si salvi chi può’ », e il feticcio che incarna tale pericolo è il vecchio che l’ha imposto con il sangue e la tortura. Minaccia ugualmente la stabilità e la pace sociale la cavernicola destra cilena, rappresentata da personaggi come Cardemil, che propone la formazione di un governo di unità nazionale (o salvezza nazionale?) da cui sarebbero escluse tutte le forze di sinistra e di centro che hanno appoggiato l’eventuale processo al tiranno.

Il maggior pericolo per la curiosa democrazia cilena è costituito dalla mera possibilità che Pinochet ritorni trionfante in Cile, perché in tal caso fungerà ancora una volta da fattore di aggregazione per la destra più retrograda del continente americano, e polarizzerà le posizioni in seno alla debole coalizione governativa, fra quanti si metteranno dalla parte del pinochetismo, dopo averlo applaudito per otto anni controvoglia, e quanti, eredi bene o male di una tradizione democratica di sinistra, hanno osato proporre una riforma costituzionale che restituisca ai cittadini il diritto di eleggere liberamente i loro parlamentari, affrancandoli dall’odiosa tutela dei senatori designati o a vita.

Finché Pinochet occuperà la sua poltrona di senatore a vita, finché continuerà a essere protagonista della realtà politica come ricordo vivo dell’orrore, come garante della permanenza del modello economico e come freno a qualunque iniziativa volta alla partecipazione sociale, in Cile non esisterà la minima stabilità politica e la democrazia sarà solo una triste farsa.

Finché Pinochet e i cinquecentotrentuno uomini in uniforme citati nel rapporto Rettig come torturatori, sequestratori, assassini di oltre quattromila cileni non riceveranno la sanzione – il castigo che un’azione porta con sé, anche quando non è imposto dalla legge – della loro piena identificazione come colpevoli, la pace sociale sarà un’irraggiungibile utopia per i cileni. (pp. 27-28-29)

Così, finché il Cile non ritroverà anche l’ultimo dei suoi desaparecidos, finché non si saprà quando e come è morto, chi sono i suoi assassini e soprattutto dove sono i suoi resti, la ferita rimarrà aperta, ed è compito degli uomini onesti tenerla aperta e pulita, perché quella ferita è la nostra memoria storica. (pp. 29-30)

CILE: UN PAESE, DUE LINGUAGGI p. 31

E solo un processo al tiranno e ai suoi complici dimostrerà ai cileni che la democrazia non è semplicemente una condizione occasionale, uno spazio ceduto da chi detiene il potere, un vuoto d’impunità, ma un valore che si fonda sul coraggio civico e civile. (p.33)

[…]bisogna sapere che in Cile non ci sono soltanto due linguaggi, ma anche due paesi: uno è quello dei vincitori, che o hanno tratto vantaggio da uno stato in cui tutti i diritti sindacali e sociali erano stati conculcati e dove bastavano il sospetto e la delazione per licenziare, incarcerare, assassinare, esiliare, o si sono accontentati delle briciole, strombazzando in cambio eufemismi come regime militare, eccessi, autoritarismo e, nel caso più deplorevole, erigendosi a profeti che avevano avuto sentore del fallimento istituzionale durante il governo di Allende. L’altro Cile è quello dei perdenti, tema di insigni scrittori come Baldomero Lillo, Nicomedes Guzmàn o Manuel Rojas, il Cile di quanti osarono sognare la loro piccola rivoluzione e la pagarono carissima, ma quelli che sono sopravvissuti sognano ancora oggi una giustizia libera da eufemismi, il diritto di di re pane al pane e vino al vino.

Non esiste essere più vile di quello capace di affermare che non è mai stato né con i vincitori né con i vinti, e che insiste a ripeterlo dalla sua unica tribuna possibile, come buffone al banchetto dei vincitori. (p. 33)

Il Cile, un paese diviso e due linguaggi. Per alcuni, la giustizia si chiama giustizia; per altri, imprevedibili conseguenze del modello economico. Per alcuni, la campagna è la tenuta di famiglia in cui passano Testate; per altri, è la terra dove per generazioni si sono spezzati la schiena a lavorare. Alcuni parlano di flessibilità del lavoro, altri subiscono lo sfruttamento e la mancanza di diritti. (pp. 35)

LA FRATTURA E IL RANCORE IN CILE p. 36

UN CANCELLIERE CON L’ALZHEIMER POLITICO p. 39

POVERO CILE, È IL TUO CIELO TURCHINO… p. 42

Il senatore a vita può tornare e il suo rientro viene annunciato proprio alla vigilia delle elezioni presidenziali. (p. 42)

Vista la decisione del ministro degli interni britannico è possibile che Pinochet torni in Cile, liberato per ragioni umanitarie, e che restino frustrate le speranze delle vittime, dei familiari dei desaparecidos, delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Sarebbe il grande trionfo dell’impunità, si stabilirebbe un pericoloso precedente grazie al quale ogni individuo responsabile di crimini contro l’umanità può addurre problemi di salute per invocare ragioni umanitarie ed eludere l’azione della giustizia.

Se Pinochet tornerà in Cile, lo farà da trionfatore, riceverà onori da guerriero vittorioso e indomito che non ha mai meritato, e rimarrà protagonista della futura politica cilena fino al giorno della sua morte.

Solo un ingenuo o un impostore potrebbe supporre che abbandonerà volontariamente il suo posto di senatore a vita; per questo è necessaria una riforma costituzionale e, nell’ipotetico caso che si realizzasse, Pinochet correrebbe il rischio di perdere il privilegio grazie al quale è al sicuro dalla giustizia cilena.

Povero Cile, condannato a sopportare una pioggia di spazzatura. (pp. 45-46)

CILE: GIUSTIZIA CONTRO VIGLIACCHERIA p. 47

Ma nell’altro Cile, quello degli sconfitti, ci sono ancora donne e uomini che insistono sull’onestà, sull’ostinato costume umano della giustizia. E questo il caso del giudice Guzmàn, l’uomo di legge che ha osato puntare il dito contro Pinochet indiziandolo di crimini atroci. E questo giudice, come tutto il Cile degli sconfitti, può disporre solo delle armi della ragione.

L’altro Cile, invece, ha un vero e proprio arsenale al suo servizio. Ha la minaccia malavitosa e costante delle forze armate, una casta parassitarla, ingiustificata in una nazione di appena tredici milioni di abitanti, che divora più del quindici per cento della spesa pubblica e che negli ultimi centotrent’anni ha combattuto solo contro il proprio popolo inerme. Ha un corpo di senatori designati che paralizza qualunque proposta legislativa a favore della giustizia, e ha addirittura un senatore a vita, il tiranno in per#sona, trasformato in tribuno di un parlamento pseudodemocratico. (p. 49)

Il duello giustizia contro vigliaccheria dimostra come il muro che divide il Cile degli scon#fitti che vogliono giustizia, dal Cile dei vincitori che esigono vendetta e chiedono la testa del giudice Guzmàn, sia più forte e più alto del muro di Berlino. (p. 50)

IL LINGUAGGIO DELLE OSSA p. 51

NELLA SOLITUDINE DELLA MONEDA p. 55

Il grosso problema della transizione cilena sono le vittime, che continuano a chiedere giustizia. La dittatura non le ha mai ascoltate, così come non le hanno ascoltate i socialisti e i democristiani nei loro dieci anni di governo. Una legge de punto final darebbe per conclusa la transizione cilena alla democrazia e le vittime diventerebbero un gruppetto di persone stravaganti ancorate al passato. (p. 56)

L’INFAME STORIA DELL’INFAMIA p. 58

«Parla come un proprietario terriero. » Dicono così i cileni di chiunque si esprima con la prepotenza e la sfrontata vanità del potere. I proprietari terrieri, i latifondisti creoli, e anche quelli forestieri giunti nel corso di successive emigrazioni in un paese che accoglie sempre lo straniero a braccia aperte, stabilirono una forma unilaterale di espressione che consisteva nel dare ordini verbali con l’appoggio dello scudiscio, la frusta per cavalli, che imparò a sfogarsi sulla pelle degli umili. Alcuni storiografi che parlano come proprietari terrieri assicurano che in Cile ci fu una borghesia illuminata, aperta al dialogo e progressista. Non è vero, non c’è mai stata. Tanto l’oligarchia terriera, proprietaria delle miniere, quanto quella che grazie alla semplice introduzione della macchina a vapore si trasformò in borghesia detentrice del plusvalore generato dagli operai, sono sempre state rozze, retrograde e assolutamente servili nei confronti di qualunque dominazione straniera. Non hanno mai avuto il senso dello stato. In loro, ha sempre prevalso il miserabile spirito degli encomenderos, dei colonizzatori.

Con lo stesso tono da proprietario terriero, si insiste a indicare nel quotidiano « El Mercurio » e nella famiglia Edwards i rappresentanti di questa borghesia illuminata che non è mai esistita. Niente di più falso. Sin dalla sua fondazione oltre un secolo fa, « El Mercurio » è stato il portavoce – certo non dei princìpi, perché non ne hanno – delle quaranta famiglie che detengono il potere economico e dei loro soci stranieri. Hanno imposto lo stile di comunicazione del proprietario terriero, violento, basato non su aperte menzogne, ma su sistematiche alterazioni e aggiustamenti della realtà ai propri interessi di classe.

La storia del Cile è scritta in un linguaggio da proprietario terriero. E un’infame storia dell’infamia, un’ininterrotta contraffazione delle sue pagine più nere, dove il ruolo di protagonista è riservato ai capoccia dei proprietari terrieri: le forze armate cilene. (pp. 58-59)

Il vero compito della carovana della morte fu seminare il terrore, un terrore inconfondibile e inequivocabile, tra la popolazione e gli ufficiali dell’esercito con velleità o tendenze costituzio- naliste. La carovana della morte fece del terrore l’unico metodo della dittatura e assicurò alla classe dominante un paese dominato, tranquillo, socialmente scisso, giuridicamente sottomesso agli ordini militari, così da poter ripristinare lo stile del colonizzatore, del proprietario terriero, che era stato messo pericolosamente in discussione dal progresso culturale e sociale dei mille giorni del governo popolare, della rivoluzione pacifica guidata da Allende.

In un Cile in letargo dal punto di vista sociale, con il terrore insediato in ogni casa, con le strade proibite durante le ore di coprifuoco, fu facile intraprendere il primo grande esperimento neoliberista e fu altrettanto facile dichiararne il successo. (pp. 62-63)

La destra cilena, rozza e cieca, non aveva la minima intenzione di lasciare il potere garantito dalla dittatura, non pensò mai di indire le elezioni, di ritornare a una sorta di normalità democratica, e fu la megalomania di Pinochet, la sensazione di impunità permanente radicata nelle forze armate, a farle accettare l’idea di un plebiscito che, date le caratteristiche di una società dominata e domata dal terrore, supponeva vinto fin dall’istante stesso del suo bando.

Ma, e questa è una delle grandi materie che aspettano quanti in futuro si incaricheranno di scrivere la storia vera, malgrado il terrore e gli sgozzamenti, malgrado i desaparecidos, malgrado la tortura e l’esilio, ci furono migliaia di cileni che tennero in vita la fiamma della legittima resistenza, del dovere di opporsi con tutti i mezzi, comprese le armi, alla tirannia, e furono queste cilene e questi cileni, specialmente le milizie rodriguiste, a sconfiggere il tiranno, che a denti stretti dovette confessare il proprio fallimento. (p. 63)

L’apparente contraddizione fra la destra, i militari e la Concertación Democràtica (composta in gran parte da democristiani, più socialisti convertiti al neoliberismo) non era altro che una lotta fra diverse proposte per amministrare lo stesso modello economico. […]

Così l’impunità si eresse a forma di convivenza al potere e l’amnesia si trasformò in ragion di stato. (p. 64)

LA FOLLIA DI PINOCHET: NESSUNO CREDE AL GENERALE p. 67

La difesa di Pinochet ha costruito la sua strategia su cinque pilastri, che sono crollati uno dopo l’altro: ha provato, attraverso alcuni esami medici, a farlo dichiarare incapace di sostenere un processo per ragioni puramente patologiche, nel senso più ampio del termine, ma si è scontrata con la debole e tuttavia esistente legislazione cilena che esime dalla responsabilità penale solo i pazzi e i dementi riconosciuti, cioè gli alienati mentali la cui patologia è stata certificata da un medico, visto che è più difficile dimostrare di essere pazzi che non il contrario.

Poi la difesa di Pinochet ha tentato di falsare la diagnosi formulata da cinque specialisti, secondo la quale l’ottuagenario primate soffriva di «demenza vascolare da lieve a moderata» […] (p. 67)

Pochi giorni or sono, questa omertosa camorra cilena ha avuto un gesto di generosità verso le vittime e ha concesso ragguagli sulle sorti di duecento desaparecidos. Ma stranamente non ha fatto cenno di cosa accadde a queste persone, quando, come e dove furono uccise, chi ne ordinò la morte e in base a quali capi d’accusa. La generosità maliosa della lami- glia militare cilena riconosce soltanto, con la naturalezza di chi parla di mele cadute dall’albero, che furono gettate in mare o nei laghi della cordigliera o nei fiumi del sud del paese. (p. 68)

È bene dire, inoltre, che la riunione del COSENA non ha ottenuto quanto si era prefissa (l’applicazione, assoluta, generale, senza alcun tipo di restrizioni, della legge di amnistia – proclamata a suo tempo dalla stessa dittatura per autoassolversi – a Pinochet e agli oltre quaranta ufficiali sottoposti a processo o a indagine giudiziaria)[…] (p. 69)

A questo si univano le ultime raccomandazioni a Pinochet: non doveva rispondere a nessuna domanda del giudice, appellandosi alla facoltà di non rispondi dere. Ma con grande disperazione degli avvocati difensori, Pinochet non ha resistito al silenzio e ha deciso di scagionarsi da solo facendo quello che sa fare meglio, mentire, e con le sue menzogne ha buttato giù l’ultimo dei pilastri su cui si reggeva la sua difesa. (p. 69)

« Questa è la sua calligrafia? » ha chiesto appena sette giorni fa il giudice Guzmàn, e Pinochet in via del tutto eccezionale ha risposto con una grande verità, ha detto sì, mentre i suoi avvocati vedevano crollare la tesi mille volte propugnata, secondo la quale Pinochet non è mai stato a conoscenza di assassini!, fucilazioni o esecuzioni di massa. (p. 70)

Pinochet ha smesso di negare gli assassinii di massa, ma ha scaricato la colpa sui suoi subalterni. […]

Qualche ora fa il giudice Guzmàn ha incriminato Pinochet, che adesso è agli arresti domiciliari. (p. 71)

APPUNTI PER VIVERE CON L’ASSENZA p. 72

Ne sentiamo la mancanza perché osavano proporre un’esistenza migliore di quella del gregge. (p. 73)

Avevano sognato che la felicità di tutti era possibile. Avevano sognato di creare una legge giusta, davanti alla quale saremmo stati tutti uguali. E avevano osato far diventare realtà i sogni, perché quelli di cui sentiamo la mancanza, senza tante storie né pavoneggiamenti, avevano raggiunto la dimensione superiore dell’essere umano, per questo ne sentiamo la mancanza: perché erano rivoluzionari. (p. 74)

Quelli di cui sentiamo la mancanza non han- | no statue nei parchi, ma sono in salvo nella me- | moria. […]

Di loro, uomini e donne, ci restano appena alcune foto che non vogliono essere oggetto di

un pianto rituale. (p. 74)

ATTREZZATURA PORTATILE PER RICONOSCERE GLI AMICI E I NEMICI DELLA LETTERATURA p. 76

SCUSI, DON MIGUEL p. 82

<<CARLITOS COMES BACK>> p. 85

NOSTALGIE DEL SIGNORE IN SOPRAMMANICHE p. 89

LE PAROLE E LA RAGIONE p. 92

NON PIANGERE PER ME, ARGENTINA p. 95

PERCHÉ SCRIVO? p. 99

Non sono incline a perdermi nei vecchi dubbi che tormentarono e fecero riflettere gli antichi filosofi, né ad avvertirne altri se non quelli necessari ad avanzare sull’unica strada che sento possibile, la strada della scrittura, la barricata a cui sono arrivato quando tutte erano state ormai spazzate via, quando già pensavo che non ci fosse più posto per la resistenza. Da Gui- maràes Rosa ho imparato che «raccontare è resistere» e su questa barricata della scrittura resisto agli assalti della mediocrità planetaria, la mostruosa proposta unica di esistenza e cultura che incombe sull’umanità alla svolta del millennio.

Per questo scrivo, per la necessità di resistere davanti all’impero dell’unidimensionalità, della negazione dei valori che hanno umanizzato la vita e che si chiamano fraternità, solidarietà, senso di giustizia. Scrivo per resistere all’impostura, alla frode di un modello sociale in cui non credo, perché non è vero che la cosiddetta «globalizzazione» ci avvicina e finalmente permette a tutti gli abitanti della terra di conoscersi, intendersi e capirsi. (pp. 99)

Scrivo per amore delle parole che amo e per l’ossessione di dare un nome alle cose a partire

da una prospettiva etica ereditata da un’intensa | pratica sociale. Scrivo perché ho memoria e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati dei miei mondi emarginati, delle i mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che, sconfitti in mille battaglie, continuano a preparare i prossimi combattimenti senza paura delle sconfitte.

Scrivo perché amo la mia lingua e in lei riconosco l’unica patria possibile, perché il suo territorio non conosce limiti e il suo palpito è un continuo atto di resistenza. (p. 100)

GIORNATE DI LOTTA p. 101

Pinochet fu arrestato a Londra durante il mandato di Eduardo Frei, il secondo presidente «democratico» dopo la dittatura, la cui amministrazione fu caratterizzata dal mantenimento delle atroci leggi del tiranno e dalla tutela dei patti stretti con lui alle spalle del popolo. Era quindi evidente che sarebbe stato lo stesso governo cileno a difendere con più accanimento il dittatore e a opporsi alla sua estradizione in Spagna.

Alla fine Pinochet riuscì a farsi beffe della giustizia e a tornare trionfante in Cile. Ma non contava sul fatto che l’esempio del giudice Baistasar Garzón sarebbe stato seguito da colleghi cileni, e i suoi difensori si videro costretti a ricorrere al più miserabile dei trucchi, dichiararlo malato di mente, pazzo, per sfuggire ancora una volta alla giustizia. (p. 102)

Purtroppo dobbiamo riconoscere che non riuscimmo a far estradare Pinochet in Spagna, dove Io aspettava un processo giusto e con tutte quelle garanzie che le sue vittime non avevano avuto. Ma ho la certezza che i nostri articoli furono apprezzati da quelli che soffrivano, da quelli che soffrono, da quelli che conservano la speranza e ripetono che un altro mondo è possibile. (p.103)

UNA SPORCA STORIA p. 105

ELOGIO DELL’INCERTEZZA p. 107

LA VECCHIA EUROPA p. 112

IL NEMICO p. 115

NON È VERO, MANOLO p. 120

CRONACHE DAL CONO SUD p. 123

Nel libro sono raccolti una serie di articoli e brevi scritti di Sepulveda redatti nel 2005 e 2006 (morte di Pinochet).

DOMANDE SUL CILE ALLA CASA DE AMERICA p. 125

Com’è possibile che non sia stato ancora processato? Com’è possibile che non siano ancora stati sequestrati tutti i suoi beni? Perché si tarda tanto a punire il suo tradimento e la sua smania di rapina? (p. 125)

Davvero non si può redigere una costituzione democratica, rappresentativa di tutti i cileni e tutte le cilene, per poi farla sancire da una consultazione popolare, altrettanto democratica e necessaria? Cosa o chi lo impedisce? Non meritiamo una spiegazione al riguardo? Qualcuno ha poi alluso a un’altra delle peculiarità del Cile attuale: a quel dieci per cento di esportazioni di rame – la nostra principale ricchezza, di tutti i cileni – che è proprietà dell’esercito. Perché? Fino a quando? Quanti milioni di dollari significa quella percentuale e in cosa viene spesa? Ce una qualche giustificazione morale perché l’esercito sia uno Stato dentro lo Stato? E forse il prezzo che paghiamo per il lento recupero della democrazia? (pp. 126-127)

E poiché amo il mio paese, ho parlato dei suoi uomini e delle sue donne, della sua gioventù ostinatamente impegnata a conquistare la felicità e la giustizia. (p. 127)

Aprile 2005

CILE, LA GUERRA CHE NON C’È STATA p. 129

L’11 settembre 1973 Pinochet e gli altri tre ufficiali traditori che comandavano la marina, le forze aeree e il corpo dei Carabineros dichiararono che erano in guerra, che il paese era in guerra contro il marxismo «lininismo», come ripeteva Pinochet in uniforme da combattimento, e orde di militari cominciarono ad assassinare, torturare, sequestrare cilene e cileni, oltre a razziare i beni di quanti cadevano nelle loro mani.

Quando i morti si contavano a centinaia, la giustizia fu cieca, sorda e muta. Per la maggior parte, i membri della Corte Suprema, il più alto tribunale cileno, erano – e molti lo sono ancora – ultraconservatori, aperti simpatizzanti del fascismo e nutrivano un odio ancestrale nei confronti della classe operaia. Quando i morti e i desaparecidos si contavano a migliaia, i giudici cileni decretarono che era tutta un’invenzione dei nemici della patria. (p. 129)

I giudici cileni, quelli che furono membri della Corte Suprema nei sedici anni della dittatura, furono tutti dei prevaricatori, senza eccezione, furono complici delle torture, delle uccisioni, dei sequestri di persona. Sapevano perfettamente cosa combinava la soldataglia e non fecero nulla, perché anche loro dichiararono che il paese era in guerra. (pp. 129-130)

Furono loro ad avallare lo stato di guerra, fu con il loro aiuto che venne identificato «il nemico», e cioè i militanti di Unidad Popular, i comunisti, i socialisti, gli attivisti del MIR, i preti progressisti, i giovani e persino i ragazzini. E il nemico andava annientato. (p. 130)

Ma la Corte Suprema di Giustizia ha ritenuto che quei delitti non sussistessero, perché i soldati sequestrano, torturano, uccidono, fanno sparire i corpi solamente quando c’è una guerra. Noi cileni abbiamo appena saputo che, malgrado tutto quello che ci è stato detto per sedici anni, non c’è stata guerra, non c’è mai stata nessuna guerra, l’esercito non è mai stato in guerra, e pertanto il colonnello Joaqurn Rivera Gonzàlez è innocente come un bimbo in fasce. (p. 132)

Secondo la Convenzione di Ginevra, i crimini di guerra non cadono in prescrizione. Secondo i giudici cileni, fra l’il settembre e il 4 ottobre 1973 il paese era in stato di guerra. E anche a partire dal 6 ottobre 1973 fino alla fine del 1989 era in stato di guerra. Lo studente e il ragazzino furono assassinati il 5 ottobre, l’unico giorno in cui non c’era la guerra.

Questa sentenza della giustizia cilena è una beffa ai danni del senso universale di giustizia.

Non può essere ignorata. Dobbiamo fare qualcosa. (pp. 132-133)

Il Manifesto, 10 agosto 2005

LADRI OFFESI p. 134

Ogni volta che Pinochet deve affrontare l’eventualità di essere processato, cade subito svenuto, ha un microinfarto nel suo cervello da delinquente e finisce drammaticamente ricoverato all’ospedale militare. Sua moglie ha fatto lo stesso: non appena ha saputo che sarebbe stata accusata di complicità in una frode multimilionaria di contributi fiscali, in corruzione, traffico d’armi, appropriazione indebita di beni dello Stato e delle proprietà di persone assassinate dalla dittatura, ha perso anche lei i sensi e ha drammaticamente ricevuto la notizia del suo arresto nell’ospedale militare di Santiago, un ospedale d’élite riservato all’esercito cileno, la classe di parassiti che, a quindici anni di distanza dalla fine formale della dittatura, continua a essere uno Stato dentro lo Stato. (p. 134)

Questi intellettuali organici del neoliberismo non si sono mai preoccupati di altri imprenditori, anche loro neoliberisti: i ladri cileni di seconda categoria. Il tipico ladro cileno è un tizio che «investe» tempo e denaro nella preparazione di un furto, per esempio alla filiale di una banca. Deve comprare un paio di pistole al mercato nero, di solito dalle mani di militari in pensione, deve acquistare un’auto rubata, in genere da un’agenzia gestita da ex agenti della CNI, la polizia politica della dittatura, e deve corrompere qualche guardia giurata della banca che vuol rapinare, di norma un militare a riposo. Si tratta, insomma, di un «investimento a rischio», perché il ladro non sa quanti soldi ci saranno nella banca e se il risultato compenserà l’investimento.

Oggi questi ladri sono terribilmente depressi, tristi, delusi dal modello economico cileno, perché credevano con fermezza nella «competitività del neoliberismo», in cui solo i migliori, cioè quelli che investivano di più, avrebbero ottenuto maggiori profitti.

Ora sanno che la moglie di Pinochet ha rapinato i Centros de Madres (CEMA) senza fare il minimo investimento a rischio. Funzionava così: suo marito dava ordine di assassinare qualcuno, solitamente di sinistra, che avesse un grande appezzamento di terreno considerato edificabile. Il terreno passava per qualche giorno allo Stato cileno, ma poi veniva donato al CEMA, l’ente diretto da Lucia Hiriart in Pinochet. Più ladra di una gazza, questa ordinava agli architetti dell’esercito, pagati da tutti i cileni, di disegnare un progetto per cento e più alloggi, che venivano costruiti da battaglioni di soldati, con mattoni, cemento e vetri dell’esercito cileno. Insomma, lei non comprava un chiodo, pagava tutto lo Stato. Poi vendeva le case, che per di più venivano consegnate complete di cucina, frigorifero e mobili acquistati dall’esercito cileno, e il denaro scompariva nei suoi conti correnti di Miami, Gibilterra, Svizzera e Isole Cayman.

Questa – dicono i ladri e i truffatori cileni – è concorrenza sleale, è violazione del libero mercato, e non c’è modo di fargli capire che invece è proprio il nocciolo del tipo di economia propugnata dal neoliberismo: il furto più sfacciato viene definito «privatizzazione delle imprese statali», e il latrocinio impune «libertà di movimento dei capitali». (pp. 135-136)

Cosa ne sarà dei nostri scrittori di romanzi polizieschi senza i ladri cileni? I nostri ladri perdono l’appetito, si allontanano dai tiepidi bordelli, smettono di comprare bracciali d’oro, Rolex, e ogni volta che vengono a sapere di un nuovo conto corrente internazionale sequestrato ai Pinochet, si fanno più tristi, malinconici, taciturni, e li si vede dar da mangiare ai colombi nei parchi.

Dobbiamo essere solidali con i nostri ladri tradizionali, dobbiamo esigere che tutto il patrimonio del clan Pinochet venga espropriato e restituito ai legittimi proprietari: noi cileni. (pp. 136-137)

CI SONO SCIMMIE PIÙ CARE DI ALTRE p. 136

Se una scimmia di Gibilterra ha bisogno di circa trenta euro l’anno fra cibo, vaccini e veterinario, perché lo Stato cileno spende ogni anno seicento milioni di pesos per nutrire, vaccinare e fornire cure veterinarie a Pinochet? Le scimmie di Gibilterra rubano gelati, sacchetti di patatine, persino qualche portafoglio lasciato incustodito in automobile, ma nessuna ha conti segreti negli Stati Uniti o in paradisi fiscali. E non frodano nemmeno il fisco con dichiarazioni fasulle, né le loro signore scimmie e le scimmiette costituiscono associazioni a delinquere.

Gli inglesi sono convinti che quegli animali servano a qualcosa, ma nessun cileno può dire lo stesso di Pinochet. (p. 139)

Che cosa possedeva Pinochet quando tradì la costituzione e divenne un dittatore, un torturatore, un assassino? Qual era il patrimonio del cartello dei Pinochet l’11 settembre 1973? E ora cosa possiedono? Perché non possiamo vedere pubblicato un elenco di tutti i loro beni? (pp. 139-140)

Per prendersi cura di Pinochet si spreca, si dilapida, si getta nella spazzatura il budget di parie scuole pubbliche o di ospedali più che necessari. Per quanto tempo ancora ci si ostinerà a voler vezzeggiare e coprire di attenzioni un miserabile ladro?

Pinochet e i militari cileni hanno avuto e continuano ad avere buoni rapporti con i britannici; ci sono di mezzo molti traffici dì armi. Perché quindi non approfittiamo di questi buoni rapporti e mandiamo tutto il clan dei Pinochet a Gibilterra? (p. 140)

Il Manifesto, 23 agosto 2005

CILE-PERÙ: LA POLITICA DELLO SCIOCCO p. 141

Cosa succede fra il Cile e il Perù? È vero che hanno mobilitato truppe sul confine?[…]

Quando i governanti, eletti in maniera democratica o grazie a brogli, falliscono, ricorrono alla goffa vigliaccheria del patriottismo. Naturalmente la risposta del governo cileno e dei cileni non può essere la stessa. (p. 141)

Quello di Toledo è l’ennesimo governo inefficiente e corrotto della lunga serie che ha oppresso il Perù. Ne sono prova le migliaia di peruviani che si sono visti costretti a emigrare in Cile, in Spagna, in differenti paesi del mondo semplice- mente per sfuggire alla miseria provocata dai dilettanti e dai corrotti che si sono impadroniti del governo peruviano. Questa miseria genera ignoranza, se ne alimenta, e il risultato finale è il più becero patriottismo. È evidente che noi cileni non possiamo cadere nella stessa trappola. (pp. 141-142)

I peruviani e le peruviane che vivono e lavorano in Cile, e con i loro sforzi contribuiscono alla crescita del paese, sono vittime della stupidità e dell’incapacità dei loro governanti, gli stessi che hanno accettato senza fiatare tutte le angherie imposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale per diventare parte di quella «realtà economica globale» che porta solo povertà ed esodi massicci della popolazione. (p. 142)

Questo pasticcio si può risolvere unicamente grazie alla società civile, a un atteggiamento improntato alla massima civiltà davanti a demagoghi capaci di pronunciare la parola «guerra» senza un tremito.

Non possiamo dimenticare che una pallottola non ha bandiera, ammazza e basta. Una tonnellata di merluzzo del Pacifico servita a Madrid o a Parigi non vale una vita. Le onde non saranno più forti o più deboli a seconda della sovranità territoriale. L’importante è il rispetto per la legalità, per gli accordi e i protocolli sui confini firmati da entrambe le parti con garanti internazionali. Questo è uno e uno soltanto dei moltissimi problemi che deve risolvere la società civile. (p. 143)

ANDARE ALLE URNE, VOTARE, ELEGGERE: BELLISSIME PAROLE p. 144

Domenica 11 dicembre, nella zona antartica cilena, c’erano dodici gradi sotto zero, abbastanza per definire calda l’estate australe, come spiegava un ufficiale di marina riferendo che i quarantotto cittadini di quel territorio bianco, sei donne e quarantadue uomini, avevano esercitato di buon’ora il loro diritto ad andare alle urne, votare ed eleggere il futuro presidente o la futura presidente del Cile, un diritto che molti di noi non hanno, perché fummo privati della nostra nazionalità dalla dittatura o, più semplicemente, perché viviamo nel vasto mondo e per la legge cilena vota solo chi vive in patria.

Ma anche così, come cileno senza diritti, seguo il giorno delle elezioni dalla Spagna incollato a Internet, ascoltando le voci dei giornalisti di Radio Cooperativa, l’emittente amica che tanto ci ha tenuto compagnia negli anni neri della dittatura. (p. 144)

La prima volta che abbiamo votato in vita nostra è stato nel 1970, e fu emozionante tracciare la croce accanto al nome di Salvador Allende. L’ultima volta è successo a Gijón per le elezioni europee: come sempre abbiamo votato socialista, ma con una certa naturale diffidenza. Chi si fiderebbe di socialdemocratici come Blair e Schroder? (p. 146)

Così, dalla Spagna, vivo le elezioni in Cile. Andare alle urne, votare, eleggere, queste bellissime parole così lontane per le cilene e i cileni che come me vivono di là dal mare e dalla cordigliera. (p. 149)

Il Manifesto, 14 dicembre 2005

I CALZONI DI CAROLINA HUECHURABA p. 150

Quando parliamo di una donna, e di tutte le donne, stiamo parlando di più del cinquantun per cento dell’umanità, di una maggioranza emarginata i cui diritti vengono clamorosamente violati o sottoposti all’opinione dominante di chi porta i pantaloni. Quello che donna Carolina Plaza, perché è così che si chiama e non Carolina Huechuraba, ignora (non lo sa e non può saperlo, perché se lo sapesse non militerebbe nell’Union Demócrata Independiente, né soffrirebbe in silenzio per le ripetute disgrazie del suo generale) è che la candidatura di due donne – prima Gladys Manu e ora Michelle Bachelet – alla più alta carica dello Stato segna una vera svolta nella storia politica del Cile, sempre dominata da chi porta i pantaloni. (pp. 150-151)

[…]ma credo che Michelle Bachelet rappresenti una concreta possibilità di cambiamento, forse non così rapido come molti di noi vorrebbero, però concreto. (pp.152-153)

A Michelle Bachelet toccherà farsi carico della riconquista della sovranità nazionale, che non è solo una questione di confini.

Sono molti i compiti che l’aspettano, e balzeranno presto agli occhi vista la rapidità dei cambiamenti globali e la loro incidenza sulle realtà locali. Michelle Bachelet merita perciò l’appoggio della sinistra, ma un appoggio critico, in linea con quella cultura politica di sinistra che dobbiamo recuperare.

Le piaccia o no, signora Carolina, c’è in gioco ben più che un problema di calzoni e sottane. (pp. 153-154)

DI FRONTE E DI PROFILO p. 155

Oggi, 28 dicembre, Augusto Pinochet, l’uomo più miserabile della storia del Cile, non era in vena di scherzi o di battute. Finalmente è stato esaudito uno dei desideri più cari alle sue vittime, ai coraggiosi familiari dei cileni e delle cilene di cui sentiamo la mancanza, di cui sentiremo sempre la mancanza, e a quanti come me sono sopravvissuti ai suoi sistemi di sterminio, alle sue smanie da macellaio: oggi le sue dita sono state imbrattate d’inchiostro nero e, come capita a tutti i delinquenti, una fotografia di fronte e un’altra di profilo aprono la sua fedina penale, il suo curriculum di assassino, la sua nota biografica di ladro, la sua scheda tecnica di farabutto, e Augusto Pinochet entra definitivamente nel sottobosco dei mascalzoni con precedenti penali. (p. 155)

Compagne, compagni, abbiamo ottimi motivi per fare un brindisi con il meglio che possiamo trovare e per abbracciarci augurandoci un felice 2006, un anno solidale che ricorderemo come Tanno della Giustizia, con il tiranno processato e condannato per il suo tradimento e la sua infamia. (p. 156)

MICHELLE! p. 157

Ci sono date che restano impresse nella storia d’un paese e senza dubbio il 15 gennaio 2006 è una di quelle, perché da domenica, per la prima volta nella storia del Cile, una donna ricopre la più alta carica dello Stato. (p. 157)

Il golpe militare dell’11 settembre 1973, messo in atto su mandato degli Stati Uniti con il pretesto di combattere il comunismo, servì a sperimentare in Cile una teoria economica che, con tutta l’opposizione piegata dal terrore, doveva necessariamente funzionare. Non è mai stata smantellata un’industria nazionale con tanta rapidità. Non si è mai reso così dipendente un paese in nome di una competitività che non poteva avere. Non si è mai creata una classe di ricchi tanto ricchi e non si è mai verificato un impoverimento economico, morale e culturale così veloce. (p. 160)

Noi cileni vogliamo recuperare il diritto a proiettare le nostre vite verso un futuro necessariamente migliore, e visibile. Vogliamo recuperare il senso della dignità nazionale, cominciando ad attribuire la stessa importanza alle opinioni di una cilena o di un cileno e a quelle di un investitore straniero. Vogliamo recuperare il diritto a immaginare un paese in cui non esistano cittadini di seconda categoria. (pp. 160-161)

Vogliamo tornare a essere tutti uguali davanti alla legge e vogliamo che la legge sia uguale per tutti. […]

In nome della speranza, Michelle Bachelet ha tutto il mio modesto appoggio di scrittore e di cileno senza diritti. Ma questo appoggio sarà sempre critico, costruttivamente critico, perché così mi ha insegnato Salvador Allende, perché così mi detta la mia cultura socialista. (p. 161)

Il Manifesto, 11 marzo 2006

ALIAS LUCIA! p. 162

Stranamente, la bruttezza che ha sempre caratterizzato questa famiglia di criminali e di ladri è andata aumentando, in una sorta di mostruoso crescendo, e invece di risvegliare la compassione che ispirano sempre i brutti e le brutte, provoca, è noto, grasse risate e voglia di cantare «crepino i mostri».[…]

Certo, gli occhietti da topi spaventati del clan devono cercare lo sguardo un tempo vorace e implacabile del patriarca, ma quel vecchio decrepito è troppo lontano dalle sofferenze della sua masnada, preso com’è dai trucchi legali con cui spera di salvare la parte di bottino che ancora non conosciamo, o a fare le prove dei suoi attacchi di follia. […]La cosa triste, perché il repellente spettacolo dei Pinochet suscita anche una certa tristezza, è che esistano ancora idioti come Jovino Novoa, che alimentano in loro l’idea della cospirazione comunista, della persecuzione e della congiura ai loro danni.[…](pp. 162-163)

Né al vecchio sciacallo né a sua moglie, la vecchia iena dei CEMA Chile, né a una stupida bruttona come la figlia Lucia sarebbe mai venuta in mente una fuga così spettacolare, che coincide con il fastidio dei settori più retrogradi della destra statunitense, gusanos cubani compresi, allarmati dalla forte democratizzazione dell’America Latina, dalle vittorie di governi progressisti e di sinistra. (p. 164)

IL MIO COLLEGA RAMON UGARTE p. 165

Succede però che uno scrittore cileno abbia venduto in patria più o meno ventotto milioni di esemplari dei suoi bestseller, intitolati II giorno decisivo, Politica, politicanti e demagogia e i tre volumi delle Memorie di un soldato. Siamo circa quattordici milioni, perciò ogni cileno ha comprato due esemplari dei suoi libri. Che lettori appassionati! Che autore di culto! Viva il Cile, cazzo! Tutto questo lo deduco con stupore, invidia e ammirazione dalle dichiarazioni di un cileno- yankee chiamato Edgar W. Tatman. Non so se è l’agente letterario di Ramón Ugarte, alias José Augusto Ramón, alias Daniel Lopez, alias Mr Escudero, alias Pepe Ugarte, alias Ramón Augusto Pinochet, eccetera, ma con grande scioltezza ha dichiarato alla commissione che indaga sui conti statunitensi del vecchio tiranno chela fortuna depositata sotto diversi nomi su svariatissimi conti ha per origine il pagamento dei diritti d’autore dei suoi libri pubblicati e venduti a milioni.

E tutto in Cile. (p. 166)

E io come un idiota a leggere Proust, Cervantes, Kundera, Kafka e altri autori di seconda categoria. Cara presidente Bachelet, uno scrittore di tale livello, con vendite così alte, merita che venga eliminata dai libri l’odiosa IVA, E per favore, se qualcuno mi può prestare o noleggiare una delie grandi opere che mi sono perso, lo faccia, mi aiuti, help, mi salvi dalle tenebre della mia ignoranza.

Domani stesso restituirò i diplomi e le lauree che mi sono stati concessi, non ne sono degno: sono un uomo senza qualità, come scriveva Musil, sono un cileno che non ha letto il grande Ramón Ugarte. (p. 167)

CHI CI SALVA DAI GIUDICI CILENI? p. 168

Amnistiare i responsabili del caso «Carovana della morte», oltre a rappresentare un nuovo insulto alle vittime e ai loro familiari, è un vero abuso legale, un vile atto di compiacenze nei confronti di un gruppo di criminali. Chi ci difende da questi giudici? (p. 169)

Perché il paese si riprenda dal trauma di convivere con assassini, di incontrarli per strada, di vederli muoversi protetti da trucchi legali adottati da giudici venali, è assolutamente necessario abrogare le leggi di amnistia di cui si avvalgono e avere il coraggio civile di affrontare con energia il nostro recente passato. (p. 170)

RICORDO DI DUE RIVISTE CHE IN REALTÀ ERANO UNA SOLA p. 171

[…]perché fummo tutti fanatici lettori della «Chiva».

Alla fine degli anni Sessanta molti di noi si preparavano a diventare protagonisti dei cambiamenti che, inevitabilmente, dovevano verificarsi nella società ciiena. Studiavamo, leggevamo Marx e Sartre, Gramsci e Ho Chi Minh, il Che e Willy Brandt, Marta Hamecker e Olof Palme e, in mezzo a tanti autori da cui imparavamo qualcosa, leggevamo anche «La Chìva».

Nel gergo popolare cileno, una chiva è una bugia il cui scopo varia a seconda di chi la racconta e del contesto. (pp. 171-172)

[…]alla «Chiva», una rivista di formato orizzontale dall’humour acido, il cui primo numero uscì nelle strade del Cile senza copertina, perché non c’erano soldi per coprire la spesa.

Fin dal suo primo numero «La Chiva» divenne parte di noi. Era una rivista che passava di mano in mano, di lettore in lettore, la comprava uno e la leggevano in cento[…].(p. 172)

Benché «La Chiva» avesse sempre più lettori, paradossalmente non arrivò mai a essere un successo di vendite, perché il suo contenuto socializzante faceva sì che i lettori la socializzassero. Ma senza dubbio ci accompagnò sulla formidabile strada dell’attivismo politico e sociale, che toccò il suo culmine il 4 settembre 1970, con la vittoria elettorale di Salvador Allende. (p. 173)

Così «La Chiva» passò a chiamarsi «La Firme», che in gergo cileno significa una verità nuda e cruda. Durante i mille giorni del governo popolare vennero pubblicati centinaia di quaderni di educazione sociale e politica; dovevamo spiegare perché nazionalizzavamo il rame, ma rifiutavamo un’economia basata sull’esclusivo monopolio statale preferendo scorporarla in un’area privata, una mista e una pubblica; dovevamo combattere l’assenteismo sul lavoro, l’alcolismo, il maschilismo, e promuovere una coscienza ecologica per proteggere il nostro patrimonio naturale. Nessun opuscolo o fascicolo affrontò questi compiti con la brillantezza e l’efficacia pedagogica della «Firme». Non è esagerato asserire che «La Firme» sintetizzò lo sforzo creativo di un popolo, il popolo cileno, che voleva essere protagonista del proprio destino.

Trent’anni dopo, la raccolta completa della «Chiva» viene conservata come una reliquia nell’emeroteca della Bibliothèque Nationale di Parigi. In Cile quasi non se ne trova copia e i pochi esemplari che restano sono gioielli da collezionisti. (pp.173-174)

«La Chiva» e «La Firme», tutti coloro che vi lavorarono, i loro indimenticabili personaggi, sono parte della mia memoria di scrittore e di cileno. Sono due fiamme che illuminano alcuni dei miei ricordi più belli e più sentiti. (p. 174)

VIVA VIVA GLI STUDENTI…! p. 175

Il 10 marzo 1990, esattamente un giorno prima che quel ladro di Pinochet lasciasse il potere, venne promulgata nell’ombra la LOCE (Ley Orgànica Constitucional de Ensenanza), che consegnava l’istruzione primaria, secondaria e universitaria alla dittatura del mercato, e cioè la trasformava in un affare in cui, paradossalmente, è lo Stato a mettere i fondi. L’essenza della LOCE, il nucleo di un corpus legale che attenta agli interessi e ai diritti dei giovani, antepone una presunta «libertà d’insegnamento in regime di libera concorrenza», imposta dai proprietari delle scuole private ma con sovvenzioni statali, all’elementare diritto all’istruzione, quella conquista che fu l’orgoglio dei cileni fino all’11 settembre 1973, giorno in cui tutte le conquiste e i diritti della società civile furono schiacciati da quanti tradirono la costituzione che avevano giurato di difendere. (pp. 175-176)

Oggi, nel 2006 come negli anni oscuri della dittatura, i responsabili degli istituti privati si chiamano «sostenitori» e ricevono le sovvenzioni statali senza dover rendere conto di come le impiegheranno, e qualunque suggerimento teso a migliorare il sistema scolastico è ritenuto un attentato a quella «libertà imprenditoriale» che fa sbavare quanti esibiscono orgogliosamente gli indicatori macroeconomici di un paese che esporta dessert. (p. 176)

HA PADRONI IL MARE? p. 179

Da lussuosi porti turistici, da lussuose dimore costruite dalla longa manus della speculazione edilizia, gli odierni padroni del mare guardano i tramonti senza vederli, troppo presi dai metri di lunghezza del nuovo yacht di qualche conoscente o dalla potenza dei motori che li portano da un’isola all’altra nel giro di pochi minuti, e alloca decidono di cambiare al più presto i loro navigli bianchi, grazie ai quali godono del discutibile status di capitani della domenica, o di sciocchi con il diritto di prendere in mano un timone. (p. 179)

Si trattava di gente facoltosa, dei padroni del mare, e a loro non si possono addossare responsabilità ecologiche.

Una delle maggiori sciocchezze che si sente dire dai politici dei paesi affacciati sul mare è che il turismo è una delle attività economiche più importanti; ma non precisano quale turismo e non spiegano nemmeno se porti qualcos’altro oltre a camerieri e rifiuti. (p. 181)

Una semplice veduta aerea dei litorali mediterranei fa sì che qualunque persona mediamente informata si ponga alcune domande. Tutte le strutture del turismo di massa sono dotate di impianti di depurazione? O si è invece lasciato l’onere di depurare le acque reflue alle piccole città che fino a venticinque anni addietro non ospitavano questo tipo di strutture? La maggior parte delle bandiere blu conferite dall’Unione Europea è fraudolenta; vengono infatti concesse sulla base di rapporti in linea con gli interessi dell’industria turistica, grazie a mazzette, perché la corruzione è strettamente legata a questo tipo di sviluppo e in realtà milioni di turisti fanno il bagno in un miscuglio di merda, prodotti chimici industriali, residui tossici dell’agricoltura e, con un po’ di fortuna, acqua. (p. 181)

Sarebbe lunga, ma anche facile da stendere, la lista di chi, grazie a leggi liberali legate al mercato, si crede padrone del mare. Al di là delle considerazioni biologiche, bioetiche, ecologiche e di semplice buon senso, è fondamentale riprendere possesso del mare in nome dell’umanità, individuare gli spazi recuperabili e metterli in salvo dall’avidità immobiliare e turistica.

Urge realizzare finalmente un censimento delle specie e concedere risorse per far rispettare i divieti di pesca. Urge adottare nuove misure a livello europeo – se davvero l’Unione Europea serve a qualcosa, misure che limitino l’inquinamento primario del mare, per esempio l’inquinamento acustico, chimico ed estetico provocato dalle centinaia di migliaia di imbarcazioni la cui unica giustificazione è l’ozio irrazionale dei ricchi. E naturalmente urge limitare la produzione di rifiuti non riciclabili che concludono il loro viaggio in mare. (p.182)

Repubblica, 20 agosto 2006

IL POTERE DEI SOGNI p. 183

MEMORIALE DEGLI ANNI FELICI p. 185

I mille giorni del Governo Popolare furono duri, intensi, sofferti e felici dormivamo poco vivevamo ovunque e in nessun posto. […]

Ognuno ha nella memoria un album privato di ricordi felici di quei giorni in cui abbiamo dato tutto, e ci sembrava di dare molto poco, perché avevamo impressi sulla pelle i versi del poeta cubano Fayad Jamis «Per questa rivoluzione bisognerà dare tutto, bisognerà dare tutto e non sarà mai abbastanza» Ci fu chi, da un comodo e vigliacco scetticismo, si godette un tempo morto che chiamò gioventù. Noi sì che abbiamo avuto una gioventù, e fu vitale, ribelle, anticonformista, incandescente, perché si forgiò nel lavoro volontario, nelle fredde notti di azione e propaganda. (pp. 185-186)

Altri, dall’atroce vigliaccheria di chi criticava senza apportare nulla, senza mettersi in gioco, senza bruciarsi, senza conoscere il magnifico sentimento di fare la cosa giusta al momento giusto, se ne restavano nelle loro grandi ville senza gloria, mangiando con l’argenteria che avevano ereditato dagli encomenderos e bevendo puro sudore di operai, e da la ci ammonivano che stavamo commettendo eccessi Certo che commettevamo errori. Eravamo autodidatti nel grande compito di trasformare la società cilena. Prendemmo molte cantonate ma non allungammo mai le mani sui beni del popolo. Altri cospiravano, noi facevamo campagne di alfabetizzazione Altri si aggrappavano con furia omicida ai beni ingiustamente ottenuti, perché le proprietà terriere vengono sempre dal furto, noi consentimmo per la prima volta ai paria della terra di guardare negli occhi il padrone[…]. (p. 186)

Sapemmo rispondere alle provocazioni con fermezza, e con violenza se necessario, ma

non fummo mai dei provocatori. (p. 188)

A trent’anni dal crimine, ci sono miserabili che interpretano il suicidio di Allende come una sconfitta Non capiscono le ragioni di un uomo leale che, nel fragore del combattimento, comprese come quell’ultimo sacrificio avrebbe evitato al suo popolo, la massima umiliazione: vedere il suo dirigente, il suo leader, incatenato alla mercé dei tiranni.[…]

Se il nostro tentativo di rendere il Cile un paese giusto, felice e degno ci rende colpevoli, allora accettiamo la colpa con orgoglio. (p. 189)

Il carcere, la tortura, i desaparecidos, il furto, l’esilio, il fatto di non avere un paese a cui tornare, il dolore, se tutto questo era il prezzo da pagare per i nostri sforzi di giustizia, allora si sappia che li abbiamo pagati con l’orgoglio di chi non ha mai rinunciato alla propria dignità, di chi ha resistito agli interrogatori, di chi è morto in esilio, di chi è tornato a lottare contro la dittatura, di chi ancora sogna e si organizza, di chi non partecipa alla farsa pseudodemocratica degli amministratori dell’eredità della dittatura.

Insieme a Salvador Allende fummo protagonisti dei mille giorni più pieni, belli e intensi della storia cilena. (pp. 189-190)

LA TORTURA COME IDEALE p. 191

NERUDA E UNA PIETRA COPERTA DI MUSCHIO p. 194

CONDOR p. 198

IL GIORNO PIÙ ATTESO p. 202

MALEDETTE LE GUERRE p. 206

ADDIO CARA COMPAGNA p. 209

UNA VECCHIA MOLESKINE p. 212

BUONE NOTIZIE DALL’ARGENTINA p. 215

UN CERTO DANIEL MORDZINSKI p. 218

I MICROINFARTI DEL TIRANNO p. 221

Quando un delinquente, un truffatore, un rapinatore, un ladro o un falsario è braccato dalla giustizia, di solito manifesta diarrea, coliche, un’allarmante scarica di flatulenze e altri sintomi in genere gastrointestinali. Questo accade a un normale malvivente, ma con Pinochet è diverso perché, ogni volta che si tenta di revocargli l’immunità, di privarlo dell’atroce lusso che lo rende un intoccabile, si vede colpito da strani microinfarti cerebrali che lo privano dei sensi, provocandogli svenimenti, e lo fanno finire in una sontuosa camera dell’ospedale militare.

Il cileno della strada, la cilena che prova un senso di disgusto quando sente il nome del despota, il ragazzo che vuol credere nella giustizia, si chiedono perché a costui non venga la sciolta come a qualunque ladro ogni volta che il decreto di un tribunale minaccia di toccarlo, perché le anomalie gastrointestinali e le semplici diarree lo prendano alla testa. (p. 221)

I suoi palesemente falsi e più che sospetti microinfarti cerebrali, o espressioni castrensi di diarree mentali provocate dal panico per la giustizia, mettono il Cile e le sue istituzioni giudiziarie in una deprecabile posizione di ridicolo. Quale credibilità può offrire un paese in cui un vigliacco responsabile di furti, appropriazioni indebite, falsificazioni, crimini contro l’umanità, si sottrae sistematicamente ai giudici e si fa beffe della legge grazie al vecchio trucco di simulare una demenza senile? (p. 222)

MY NAME IS LOPEZ, DANIEL LOPEZ p. 224

Oggi si parla di diciotto milioni di dollari individuati, ma le proprietà di Pinochet, ripartite tra i suoi familiari, superano i cento milioni di dollari e allora viene da domandarsi: dove ha preso tanto denaro?, qual è l’origine di una così grande fortuna? […]

L’origine della fortuna di Pinochet è il furto. Qualunque contabile può dimostrare che non tornano i conti fra quanto ha guadagnato e quanto ha comprato. (p. 227)

ALVARITO… ALVARITO… ALVARITO… p. 229

ULTIME NOTIZIE DAL SUD p. 237

Sepulveda racconta fatti e vicende vissute e apprese durante un viaggio lungo la Patagonia assieme all’amico fotografo Daniel Mordzinski, testimoni di un mondo destinato a scomparire…

VERSO IL SUD DEL MONDO p. 239

STRADA FACENDO… p. 243

Strada facendo eccoli imbattersi nella rarissima fioritura della quila, una varietà di bambù andino, che fiorisce al massimo tre volte nel secolo e ritenuto simbolo di prossima sventura dai mapuche…

“Ogni volta che è fiorita la quila sono arrivati tempi di dolore e devastazione”. (p. 244)

“l’anno che il mio socio e io ci siamo messi in viaggio è fiorita per l’ultima volta la quila”. (p. 245)

IL CUORE DELLA MIA MEMORIA p. 246

Sepulveda cena all’Edelweiss con l’amico Osvaldo Soriano, girando poi in sua compagnia per quasi tutta la notte. Verso le quattro del mattino, i due entrano a bere in un bar dove uno strano tipo, ubriaco, sedicente ex marinaio di nome Cacho, si rivela roso dal rimorso dell’eccidio di ottantasei ebrei, morti per un’esplosione all’Asociacion Mutual Israelita per volere del ministero stesso… Minacciosi individui giungono a portarlo via e a impedirgli di svelare ulteriori dettagli sulla faccenda…

Più tardi gli amici si sperano per non rivedersi mai più (Soriano morirà)…

“non restò altro che il suo ricordo imperituro, definitivo, testardo, inossidabile, radicato per sempre nel cuore della mia memoria”. (p. 252)

IL CINEMA DELLA FINE DEL MONDO p. 253

A Porvenir, Punta Arenas, Luis e Daniel visitano il cinema della famiglia Radonic, il cui avo, Antonio, assieme a un giovane tedesco, José Bohr, vi si era trasferito realizzando pellicole cinematografiche proiettate per i cittadini, peraltro attori degli stessi… Nel corso degli anni le pellicole girate sono state depredate con la scusa di restauri e riversamenti…

INGREDIENTI PER UNA VITA DI FORMIDABILI PASSIONI p. 263

OMBRE SU ISLA NEGRA p. 265

Sulle cause della morte di Neruda…

DARE VOCE A CHI NON HA VOCE p. 268

Sulle motivazioni alla scrittura…

In un angolo di Bergen-Belsen, vicino ai forni crematori, qualcuno – non so né chi né quando – ha

scritto delle parole che sono le fondamenta del mio essere scrittore, l’origine di tutto ciò che scrivo. Quelle parole dicevano, dicono e continueranno a dire finché esiste gente decisa a sacrificare la memoria: « Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia». Mi sono inginocchiato davanti a quelle parole e ho giurato che, chiunque le avesse scritte, io avrei raccontato la sua storia, gli avrei dato la mia voce perché il suo silenzio smettesse di essere una lapide carica del più infame degli oblii. Per questo scrivo. (p. 271)

L’ULTIMA VERITÀ DI SALVADOR ALLENDE p. 272

Sulla morte di Allende. Suicida o “suicidato”?…

IL CILE, PAESE DELLA MIA MEMORIA p. 275

Omaggio al Cile, paese di contraddizioni che non può non amare…

SENZA PENA NÉ GLORIA p. 291

In breve tempo, dopo che Salvador Allende morì difendendo la costituzione e le istituzioni democratiche, Pinochet spalancò le fogne perché le belve dell’orrore s’impadronissero del paese. I delatori che denunciavano attività della resistenza avevano diritto a una parte dei beni sequestrati ai « sovversivi », i soldati avevano diritto di saccheggiare, ovvero di rubare dalle posate alle galline, e gli ufficiali amministravano il bottino di guerra appropriandosi di abitazioni, veicoli, risparmi, in una misura che non sarà mai possibile determinare. Ogni soldato, ogni poliziotto, ogni ufficiale fece fortuna trafficando con l’orrore. Una madre voleva sapere se il figlio arrestato era ancora in vita? In cambio dell’atto di proprietà della sua casa, riceveva un mucchio di bugie, come per esempio che il figlio era stato visto in Europa e presto si sarebbe messo in contatto con lei. Non ci fu un solo uomo in uniforme che non avesse partecipato al saccheggio, nemmeno uno ha le mani pulite. A questi si aggiunsero i giudici che per sedici anni mancarono al loro dovere, che legittimarono le ruberie e assicurarono l’impunità agli assassini, e anche la destra cilena, che pur di prendere’ parte al saccheggiamento delle ricchezze naturali, legname, pesce e risorse minerarie, permise di trasformare il Cile, che fino al 1973 esportava manufatti molto quotati sul mercato mondiale – prodotti dell’industria tessile per esempio, in un paese dipendente da tutto e datutti, perché oggi non si produce uno spillo, e ogni cosa, dalla prima all’ultima, è importata.

In Cile, più che una vittoria di Pinochet si ebbe il trionfo di Milton Friedman, che sperimentò per la prima volta la sua teoria dell’economia di mercato su un paese indifeso, rovinandolo e trasformandolo in una tipica nazione da Terzo mondo che esporta solamente frutta, vino e minerali

grezzi. Mentre le basi dell’economia, della cultura e della storia sociale venivano distrutte attraverso privatizzazioni, comprese quelle di sanità e istruzione, qualunque tentativo di protesta era schiacciato con assassinii, torture, sequestri o l’esilio. Pinochet non ci lascia altro che questo, un paese in bancarotta e senza futuro.

E ora è morto godendosi la sua impunità con tutto il cinismo che ha sempre sfoggiato. (pp. 294-295)

Di lui non resta assolutamente nulla degno di essere ricordato, forse il fetore, che ben presto sarà disperso dai venti leali del Pacifico. (p. 296)

NOTA DEL CURATORE

Ranieri Polese p. 297

Sono scritti militanti, i testi di Luis Sepilveda compresi in questo

volume.[…]

Sepulveda racconta storie, anzi la storia, la sua e quella degli uomini e delle donne che ha incontrato, Storie di un mondo in cui fatti e personaggi si combinano in un’odissea che dal Cile giovane e coi aggioso di Unidad Popular, attraverso la sconfitta, la prigionia, la tortura, l’esilio, prepara avventurosamente il ritorno. Ma il ritorno, avverte Sepulveda, non può non obbedire a un obbligo morale, quello di riallacciare memorie disperse, ritrovare le tracce di chi, in quei giorni, mesi, anni di orrore, perse la vita e il diritto di essere ricordato. (p. 297)

Al centro di questo grande racconto c’è un giorno, quel giorno: l’li settembre 1973, quando il golpe militare appoggiato dagli Stati Uniti mise fine al governo di Salvador Allende. E dette il via a un regime di terrore durato sedici anni. Da quel giorno parte tutto e li si ritorna sempre.[…]

A seguire, ci sono le storie comprese ne, Il generale e il giudice: una serie di scritti composti all’indomani dell’arresto di Pinochet in Inghilterra per crimini contro l’umanità, su mandato del giù dice spagnolo Baltasar Garzon. (p. 298)

Nei testi scelti da Una sporca storia il motivo ricorrente e la lotta dell’America Latina contro il predominio economico-militare degli Stati Uniti. […]

In Cronache dal Cono Sud e Il potere dei sogni la riflessione assume toni amari: il bersaglio è la co-siddetta Transizione alla democrazia, che non solo conserva la politica neo-liberista varata da Pinochet, ma continua a proteggere il dittatore da ogni rischio di processo. […]

Seguono Ultime notizie dal Sud e Ingredienti per una vita di formidabili passioni (di entrambi qui compaiono alcuni estratti), dedicati all’ufficio della memoria dei coraggiosi morti per la democrazia E dei grandi cileni come Pablo Neruda, tradito dai suoi eredi, e Salvador Allende, di cui si ricostruisce la triste peripezia delle spoglie mortali. Come conclusione inevitabile si pubblica un testo del dicembre 2006, Senza pena né gloria, scritto a caldo all’arrivo della notizia della morte di Pinochet. Undici anni dopo, Michelle Bachelet, al suo secondo mandato presidenziale, restituisce la nazionalità cilena a Sepulveda. (p. 299)

I testi di questa raccolta sono tratti da: Il generale e il giudice (2003); Una sporca storia (2004); Cronache dal Cono Sud (2007); Il potere dei sogni (2006); Ultime notizie dal Sud (2011); Ingredienti per una vita di formidabili passioni (2013). 11 settembre 1973: E “Johny” prese il fucile (2013) e Trentun anni dopo (2017) sono inediti.