FABRIZIO DE ANDRÉ – SOTTO LE CIGLIA CHISSÀ. I DIARI

 

FABRIZIO DE ANDRÉ – SOTTO LE CIGLIA CHISSÀ. I DIARI
MONDADORI – Collana COLLEZIONE INGRANDIMENTI – I ed Marzo 2016

SOTTO LE CIGLIA CHISSÀ p.5

Dimostro di avere sempre avuto, sia da giovane che da anziano, po­chissime idee ma in compenso fisse.
Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una sto­ria e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile. (p.7)

Raramente un artista è stato un eroe. Più spesso vive isolato e come timidissimo coniglio. (p.8)

Una canzone, come ogni altra forma di espressione artistica o parar­tistica, deve servire a qualcosa: può servire a creare un attimo di di­stensione, un momento di spensieratezza e certe volte può essere uti­le a far pensare, meditare su determinati problemi.

Di un omicidio sono responsabili soltanto gli autori del crimine ed eventualmente i loro mandanti; di un suicidio, invece, è generalmen­te responsabile tutta la società o almeno quella microsocietà che lo ha reso possibile. (p.9)

o penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio, una specie di cinghiale lau­reato in matematica pura. (p.10)

È molto più difficile essere capiti facendo del bene che del male.

La sinistra non deve dare ai vecchi un «passato», ma un futuro.

Il capitalismo non può essere democratico.

Il denaro la attrae, signor De André?

Sì, sono io che non sono mai riuscito ad attrarre lui.

Cosa farò dei soldi di questo disco? Non so se spenderli nel farmi ti­rare la faccia per sembrare più giovane, o se usarli per concedermi il tempo di scrivere qualcosa di serio, per sembrare più vecchio. (p.11)

Il canto ha ancora oggi, in alcune etnie cosiddette primitive, il compi­to fondamentale di liberare dalla sofferenza, di alleviare il dolore, di esorcizzare il male. (p.12)

L’emarginazione ti sottrae al potere e quindi al fango. Ti avvicina al punto di vista di Dio.

Tutti sono passati (nazisti, romani, comunisti). Gli zingari sono ri­masti. (p.13)

Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che pensano e quelli che lasciano pensare gli altri.

Il cuore del marinaio è sempre all’asciutto, a scaldarsi intorno al fuo­co. Il marinaio non ama il mare: ci lavora e lo teme. Sogna di avere sempre la terra sotto i piedi, ricorda gli aromi, i volti e i sapori di casa. (p.15)

Scrivere comporta tempo, anche per le chiacchiere di un concerto. Ma è meglio non scrivere una frase intera piuttosto che togliere una sola parola che dia il senso ad una frase. (p.16)

Una morale la si costruisce in un centinaio d’anni. Ormai c’è una nuo­va morale che si fonda su valori perversi: l’arricchimento immedia­to, il non guardare in faccia a nessuno pur di accumulare capitali. Le regole che pensavamo fossero alla base del vivere civile sono salta­te, per ricostruirle ci vorrà probabilmente un periodo molto lungo. E con la nuova crisi economica rispunterà la povertà e attraverso la po­vertà forse si riscopriranno i valori della solidarietà. O forse no, per­ché non arriveremo così in fondo da poter ricostruire il tessuto socia­le su valori convincenti. (p.18)

[…]Però amo la ricerca dei termini, la scelta degli aggettivi; resto sempre abbagliato dalla bravura in questo senso di un Gesual­do Bufalino, per esempio. Credo che in ciascuno di noi ci sia un ele­mento di virtuosismo, di funambolismo verbale. (p.19)

Solo in mez­zo a gente rilassata e distratta spero di abituarmi piano piano al contatto umano.

Io ogni sera desidererei rivolgermi al pubblico e dire loro che tut­to quello che avete ascoltato fino ad ora è assolutamente falso, come sono assolutamente veri i sentimenti e gli ideali che mi hanno porta­to a scrivere queste canzoni. Ma con gli ideali e con i sentimenti si co­struiscono delle realtà sognate. La realtà, quella vera, è quella che ci aspetta fuori. E per modificarla, se vogliamo modificarla, c’è bisogno di gesti concreti e reali.

Il successo non è una cosa positiva. Se lo vivi da divo ti produce una carenza affettiva che viene colmata temporaneamente dagli applausi del pubblico. Se vuoi una vita familiare e sentimentale ricca non po­trai mai scambiare questi valori con gli applausi di una platea. Quelli che riescono a non diventare divi sono persone normali che si rendo­no conto di fare un mestiere eccezionale.
Per un attimo la gente riesce a intortarti, quando sei lì con il micro­fono davanti, e vedi sotto di te una marea di entusiasmo. Ma subito dopo penso che dietro al banco del mixer c’è Dori e penso all’azien­da agricola, così sono salvo. Sono contento di emozionare perché mi emoziono anch’io. Ho detto spesso che faccio tournée per guadagnare un po’ di soldi, perdere qualche chilo e provare a dare emozione. (p.21)

Quando non hai nessuna possibilità di decidere del tuo destino, ti metti nelle mani di qualcuno che, in quel momento, speri che esista. E così ti arrendi alla tentazione della preghiera: non una preghiera tua, che forse non ne sei capace, ma una di quelle che ti hanno insegnato da bambino e che, magari, ti ricordi ancora a memoria.

La solitudine non esiste; nel senso che la solitudine non consiste nel­

lo stare soli, ma piuttosto nel non sapersi tenere compagnia. Chi non sa tenersi compagnia difficilmente la sa tenere ad altri. Ecco perché si può essere soli in mezzo a mille persone, ecco anche perché ci si può trovare in compagnia di se stessi ed essere felici (per esempio ascoltando il silenzio, stretto parente della solitudine). Ma il silenzio vero non esiste, come non esiste la vera solitudine. Basta abbandonarsi alle voci dell’Universo.

Nessun silenzio passi inosservato.

Mentre lui le insegnava a fare l’amore… lei gli insegnava ad amare.

Quando l’ansia di perderti si addolcì in sicurezza di averti.

Dall’ingenuità possono nascere dei piccoli miracoli, o anche delle grandi stronzate. (pp.22-23)

Per me la società, voglio dire la maggioranza di questa società, non è altro che un enorme branco di figli di puttana. (p.27)

Incido poco, è vero, almeno secondo il mio editore e le necessità finan­ziarie di un qualsiasi autore. Ma se non ci fosse questo editore a strap­parmi i dischi di mano inciderei meno. Mai, forse. Questo perché la mia ricerca della verità non approda mai ad una conclusione: appena ho fatto un testo, una canzone, ecco che vorrei cambiare, aggiornare. E appena esce il disco vorrei distruggerlo: mi sembra inutile, sorpassato. (p.33)

Ho sempre avuto il timore di essere protagonista, il terrore addirittu­ra, di essere invadente; aggiungi che sono anche pigro, quindi ho sem­pre considerato i rapporti con i mass media, e in particolare le inter­viste, uno stress evitabile. (p.34)

Si lamentano degli zingari? Guardateli come vanno in giro a suppli­care l’elemosina di un voto: ma non ci vanno a piedi, hanno autobus che sembrano astronavi, treni, aerei: e guardateli quando si fermano a pranzo o a cena: sanno mangiare con coltello e forchetta, e con coltello e forchetta si mangeranno i vostri risparmi. L’Italia appartiene a cento uomini, siamo sicuri che questi cento uomini appartengano all’Italia? (p.35)

Che cos’è il tifo? È una sorta di fede laica, è il bisogno di schierarsi a favore di un partito, simbolizzato magari da un colore, ma che si pre­tende essere sostenuto da una tradizione o da una cultura diversa da quella degli altri: il tifo nasce da un bisogno forse infantile, ma pur sempre umano, di identificarsi in un gruppo che ha come fine la lot­ta per la vittoria contro gli altri gruppi.
Questo desiderio primario può essere contenuto in una rivolta posi­tiva o sconfinare nel fanatismo, ma questo penso sia un problema che in parte deriva dal carattere dei singoli, in parte dall’educazione che i singoli ricevono dalla società. Voglio dire che un individuo facilmente influenzabile a cui la società insegna continuamente che la vita è sol­tanto una lotta a coltello per la sopravvivenza, facilmente diventerà un fanatico e, nel momento in cui ipotizzerà la sconfitta della propria squadra, in cui si identifica quasi per bisogno di protezione, conside­rerà tale sconfitta come una tragedia personale causatagli dagli altri e contro questi altri potrà arrivare a compiere gesti di violenza, sia pri­ma che la sconfitta si verifichi, per scongiurarla, sia dopo che s’è ve­rificata, per vendicarsi. Subentra poi anche il fattore «protagonismo» ma anche questo deriva dai pessimi esempi e dai cattivi insegnamenti delle oligarchie delle civiltà dei consumi. (p.37)

[…]Ho sempre detto che Dio è un’invenzione dell’uomo, qualcosa di utilitaristico, una toppa sulla nostra fragilità… (p.42)

Da quando inventò la politica, l’uomo si mise a delegare in rappresen­tanza di se stesso i peggiori tra i suoi simili. Nessun altro uomo, quan­to il politico, raccoglie in sé la più rozza accozzaglia di istinti primiti­vi; nessuno come lui riesce a scagliarsi contro i suoi simili accusandoli delle peggiori turpitudini, nessuno a differenza di lui riesce a passa­re l’intera vita a rimescolare nel passato dei «nemici politici» per tira­re fuori qualche ignobile vergogna e, se non ce la trova, se la inventa.[…]

Il tatto è che tutti desiderano essere ricchi, e mettiamo­ci in testa che i ricchi non possono esistere, se contemporaneamente non esistono i poveri.
Il problema va quindi al di là della pace e della guerra. Certo, è pre­feribile la pace, ma ad una pace ingiusta si può preferire una guerra, so­prattutto quando una pace ingiusta produce in definitiva gli stessi effetti di una guerra: per esempio la morte per indigenza di intere popolazioni. (p.45)

Si può barattare un così lungo dolore con un brevissimo abbraccio? (p.46)

Da questo punto di vista credo che alcuni miei primi lavori si salvino più per le tematiche affrontate che non per una valenza estetica complessiva.[…]

Dicevo che per me questo è stato uno «sforzo», ma è stato soprat­tutto un grosso sacrificio, perché ho sempre dato maggior valore alla parte letteraria che non alla parte musicale, all’interno della parte let­teraria, a parte alcuni lavori che io giudico malriusciti, ho sempre ten­tato di privilegiare la valenza sociale rispetto all’avvenenza del verso, alla ricerca formale, al trucco estetico; valenza sociale che in «Créuza de ma» mi pare esista anche in maggior misura che in alcuni miei la­vori precedenti, ma non è immediatamente recepibile a causa dell’u­so del «genovese». (p.49)

La storia la scrive chi vince.

Non è mai stata scritta una storia della pace.

Con l’andare del tempo si scopre che gli uomini sono dei meccani­smi talmente complessi che agiscono tante volte in modo indipenden­te dalla loro volontà. Allora finisci per trovare poco merito nella vir­tù e ben poca colpa nell’errore. Se estendi questo tipo di indulgenza anche a te stesso riesci ad avere un rapporto meno contrastato con il tuo prossimo.

Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva cammina­re su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l’illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamen­to del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane. (p.51)

Aborro la ginnastica di qualsiasi tipo e non obbligherei mai nessu­no a compiere sforzi muscolari o anche, semplicemente, emotivi ed intellettuali. (p.53)

Perché è proprio l’ingenuità che sta alla base di qualsiasi entusiasmo ed è sulla base dell’entusiasmo che i giovani, soprattutto loro, riescono a com­piere qualche piccolo miracolo. (p.54)

Si alzò dal letto per vivere l’ultimo giorno della sua vita.

È penoso pensare ad una minoranza, anche ad una minoranza di un individuo, che si camuffa da maggioranza per vivere tranquillo, all’o­mosessuale che finge di essere eterosessuale, allo zingaro che si camuf­fa da borghese benestante: apparentemente vivranno meglio, facendo parte della maggioranza, ma vivranno la loro dissociazione interiore come un incubo, vivranno male. (pp.61-62)

Quando si vuole testimoniare (e non giudicare) le vicende altrui, cre­do sia opportuno occupare un punto di vista alto sopra l’orizzonte da cui si possa osservare il reale quasi a volo d’uccello. Soprattutto è ne­cessario mantenere una posizione di equidistanza dai gruppi, dalle or­ganizzazioni, dalle fazioni, da qualsiasi tipo di interlocutore che tenda ad esprimere giudizi assolutistici, quasi sempre frettolosi ed espressi per convenzione, o peggio, per convenienza.(p.62)

È indubbio che la follia coincida con uno status di libertà presso­ché assoluta: il folle non segue le regole, o come minimo non sot­tosta alle norme cui si sottomette la maggioranza di noi. Con quali risultati, nel caso dei tiranni, lo lascio analizzare agli studiosi di so­ciologia politica.

Sono indubbiamente dolorose le solitudini dei bambini, però credo e sono convinto che l’infanzia si difenda meglio della maturità di fronte ai disagi, di fronte alle sofferenze, alle difficoltà… penso che i bambini sappiano rispondere meglio. Io ho visto dei bambini abbandonati gio­care per interi pomeriggi con un pezzo di legno e con scatole di luci­do da scarpe, completamente isolati e assenti dal circostante umano, ma, con ogni probabilità, in contatto con qualche cosa di molto supe­riore, ecco… I greci chiamavano questa entità superiore assoluto, noi potremmo definirlo il grande mistero dell’universo. Certo chela man­canza di affetto e di amore induce i bambini a crescere più in fretta e più duramente con risultati a volte orribili dal punto di vista socia­le. (pp.63-64)

Non c’è speranza nell’uomo se non nell’amore che uccide l’odio, nel­la carità che uccide cupidigie, e rancori, e ingiustizie. I potenti ram­mentino che la felicità non nasce dalla ricchezza né dal potere, ma dal piacere di donare. La morte è rimorso per chi non ha saputo aprirsi, in vita, alla compassione.

È la mancanza di pietà che trasforma la nostra vita in un lungo cam­mino di morte. Non c’è speranza per l’uomo se non nella pietà che sconfigge l’odio, l’egoismo, l’ingiustizia. (p.68)

Gesù di Nazareth, secondo me, è stato ed è rimasto il più grande ri­voluzionario di tutti i tempi. Non ho voluto inoltrarmi in sentieri per me difficilmente percorribili, come la metafisica o addirittura la teo­logia, prima di tutto perché non ci capisco niente, in secondo luogo perché ho sempre pensato che se Dio non esistesse, bisognerebbe in­ventarselo: il che è esattamente quello che ha fatto l’uomo da quando ha messo i piedi sulla terra.

I sentimenti dell’uomo sono sempre gli stessi, dai tempi di Caino e Abe­le, cioè dai tempi in cui qualche buon osservatore dell’animo umano scoprì che il sentimento dell’invidia era fortemente radicato nell’uomo e portava l’invidioso addirittura ad eliminare fisicamente l’invidiato. Così anche Socrate fu condannato per invidia, così Gesù Cristo. (p.69)

Essi furono sacrificati proprio sull’altare dell’invidia da parte del potere che vedeva in loro una seria minaccia alla propria destabilizzazione: Socrate aveva in Atene un grande se­guito di giovani e Gesù un enorme corteo di seguaci in Palestina. Ora, siccome non esiste nessuna legge, nessun codice del mondo che puni­sca chi è invidiato, l’invidioso è costretto ad inventarsi qualche reato da attribuire all’invidiato, ed allora comincia con il calunniarlo davan­ti al popolo, cercandone il consenso per colpe non commesse.[…]

E da allora, e tanti altri episodi nel corso si può ormai dire dei mil­lenni ce lo confermano, l’animo umano non è cambiato. Il sentimen­to dell’invidia, insieme ad altri sentimenti, continua a muovere il mon­do, anche nei piccoli casi, anche in piccoli esempi non così clamorosi come quelli citati, ma nella vita di tutti i giorni. Quando i sentimen­ti di cui siamo preda li riconosciamo come negativi, come ad esem­pio l’invidia, dovremmo tentare di trasformarli in qualcosa di utile, di gradevole: così, se provo un forte sentimento di invidia nei confronti di un mio simile che reputo più fortunato di me, magari riesco a tra­sformare l’odio che l’invidia mi suscita descrivendo un personaggio come Grimilde della favola di Biancaneve, ed oggettivandolo, veden­dolo descritto, mi viene da riderci sopra. (pp.69-70)

È un momento in cui è meglio non fare nulla, tanto ci sono le lotte­rie. Bisogna lasciar passare il maltempo prima di uscire di casa: lascia­re che i mari e i venti si sfoghino: quando la gente sarà stufa, sazia, gonfia di porcherie e di notizie per la maggior parte false, quando si spargerà la voce che in un paesino della Puglia saudita vive un saggio, cioè una persona del tutto normale che durante la sua vita è riuscito a essere, nell’ordine: il nipote, il figlio, il marito, il padre e il nonno e che nonostante questo, o forse grazie a questo, non è stato sfiorato da manie di protagonismo e di malloppismo. Allora sarà il momento di uscire di casa e di andare a fargli visita, sicuri di non trovarci la te­levisione, per farci raccontare come diavolo ci sia riuscito in mezzo a tanti cattivi esempi. (p.73)

La logica del profitto prevede che ci siano dei ricchi che vivono sul­le spalle dei poveri. Voglio dire che senza poveri i ricchi non potreb­bero esistere.

Fatevi i cazzi vostri, nuotate nelle piscine di trippa, accumulate mon­tagne di ricchezza, ma non comprate la figlia bambina innocente dell’indigente.
Non tormentate la povera gente.

Non intingete la penna negli inchiostri della povertà. (p.74)

Non era capace di essere nessuno.
Era solo capace di essere geloso. (p.75)

Com’è materna la notte per chi ha bisogno di nascondersi ai vivi.

Com’è sicura la notte per chi si muove di lume in lume, di memo­ria in memoria.

Nessun fenomeno in cui metta mano l’uomo può essere definito na­turale, perché l’uomo è dotato di intelligenza e di memoria, e qual­siasi gesto o azione compia diventa necessariamente un fatto cultura­le. Probabilmente anche il sogno è frutto di stratificazioni di memorie anche lontane e apparentemente cancellate; e poi, soprattutto, il so­gno è la proiezione fantastica di un desiderio: ma la vita è fatta anche di desideri, quindi non esiste antitesi fra vita e sogno.

Qualcuno (mi pare Majakovskij) ha detto: «Dio ci salvi dal maledet­to buonsenso». Se tutti fossero normali e se fossero dotati esclusiva- mente di buonsenso non esisterebbero gli artisti e probabilmente nep­pure i bambini. (p.76)

Una delle più grandi e terrificanti passioni dell’uomo è quella di eser­citare il proprio potere. Quando gli manca il materiale umano se la prende con la natura, su cui esercita un’autorità ed un controllo che lo portano a sfigurarla, a distruggerla. Ora il mare, a differenza della na­tura terrestre, sfugge in larga misura all’esercizio dell’autorità dell’uo­mo: è per molti versi incontrollabile, anzi, è uno dei pochi elemen­ti che riescono ancora ad incutere timore e rispetto agli esseri umani. Basti pensare che persino Attila, emblema umano della distruzione, arrivato al mare si fermò e si sedette a contemplarlo. (p.77)

Si ritrovò un fucile in mano e lo puntò contro la televisione (non sa­pendo di uccidere anche se stesso). (p.86)

Chi conosce il suo limite non teme il destino.

È un po’ di tempo che non riesco a sognare e la notte è una prigione. (p.87)

Il passato si è fermato, senza bisogno della cadenza dei tuoi passi, per trasformarsi negli attimi del presente e nella sconfinata realtà del futuro.

E proprio tutto persino i sogni il vostro treno si porta via e un fischio lungo a salutare la nostra semplice agonia.

Ali disperse nell’aria. (p.88)

Ormai viviamo tutti al centro di un’immensa e dolorosa satira e io ho tentato di descriverla. Trent’anni fa si poteva sperare di cambiare il mondo, di avere una giustizia sociale e un’opposizione seria al siste­ma. Oggi, purtroppo, non ci resta che la rassegnazione davanti a un mondo che semmai è cambiato in peggio, a una giustizia e a un’oppo­sizione fantasma. Il canto delle cicale che apre e chiude ogni facciata di «Le nuvole» rappresenta l’unica voce di protesta che è rimasta: la gente purtroppo non parla più. (p.89)

Il fascismo ha due facce
e nessuna allegria…
ha due teste e nessuna cultura
due occhi e nessun orizzonte.
Il fascismo ha due mani e duemila bandiere.

Potrà sembrare autocommiserazione, ma ho notato negli anni che chi non prova compassione per sé difficilmente riesce a provarne per i propri simili.

E per concludere: mi rivolgo soprattutto alle persone religiose ricor­dando loro che è più comune trovare gente che ama Dio che il pro­prio prossimo: infatti Dio costa molto di meno. (p.91)

Non sono solo i ciechi ad aver bisogno di un bastone, ognuno di noi ha bisogno di una luce, di un’idea, di una speranza.

Continuo a sognare un mondo dove nessuno debba domandare nul­la, data anche l’inadeguatezza di qualsiasi risposta. (p.92)

Il popolo è diventato individualista, le scelte sono individuali, anche quelle di protesta. (p.95)

Gli eroi di ieri non sono diventati i. traditori di oggi perché sono cam­biate le ideologie.

Apologia dell’egoismo: quel superbo disprezzo dei miseri, ché è giu­sto dar sollievo alle loro pene, a patto però di non condividerle, ché la pietà va lasciata al volgo. E vietato all’uomo di politico intelletto sof­frire perché gli altri soffrono.

Non dimentichiamoci le parole con cui inizia 11 capitale di Marx: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come un’immane raccolta di merce». E che cos’è la società contemporanea se non un’immane raccolta di merce? (p.96)

In questo mondo senza giustizia solo i cosiddetti perdenti sono dal­la parte giusta. (p.97)

Quelli che non fuggono non so se dirli più coraggiosi o più rassegna­ti, o addirittura più rincoglioniti. Rincoglioniti dal fatto di dover se­guire dalla mattina alla sera determinate regole e di esserci affeziona­ti a queste regole, di far parte di quelle famose maggioranze da cui le minoranze sono costrette a fuggire. (p.100)

Il primo disagio dell’uomo è il fatto di nascere, cioè di passare dal mon­do dell’acqua a quello dell’aria, dovendo far funzionare i polmoni per respirare. Il secondo disagio nasce dalla consapevolezza di dover mori­re. Se a questo si aggiunge l’emarginazione a cui sono costrette le mino­ranze, i disagi diventano tre. Io credo, però, che un uomo diventi miglio­re dei propri simili attraversando la maggior parte dei disagi possibili.

La mia bussola ha sempre indicato qualsiasi direzione che non fosse la più sicura, quella scelta dalle maggioranze: mi ha sempre indicato mondi marginali, minoranze, differenze dalla norma, differenze e mi­noranze anche linguistiche.

L’amore è un equivoco della ragione, un momento di ebbrezza eufo­rica che poco per volta si trasforma e ci si rende conto che in effetti è un equivoco. Piano piano nascono altri sentimenti, meno nebulosi e meno entusiastici, come l’affetto che porta al desiderio di confidenza, per finire in una sorta di società omertosa che è poi la famiglia. Che ti offre sicuramente dei vantaggi, ma che è comunque un’istituzione antisociale. Questo, per bene che vada. (p.101)

Tutto questo per dire che io non ho nessuna verità assoluta in cui credere, che non ho nessuna certezza in tasca e quindi non la posso neanche regalare a nessuno. Va già molto bene se io riesco a regalar­vi qualche emozione.

E benvenuto sia
ogni abbraccio del cuore
e benvenuto sia
anche l’errore.

Eppure ho sempre provato pena per chi sbagliava.
Altrimenti avrei fatto un massacro. (p.102)

Altri miei amici erano alcuni bambini che la gente per bene, allora, chiamava ragazzi di strada, scugnizzi svelti di parola e di mano, che conoscevano meglio le parolacce dei congiuntivi, detestavano la scuola quanto me ed erano quelli che sarei voluto essere io, dei perfetti zingari. Eravamo una banda e ci sentivamo tutti una reincarnazione di Robin Hood, avendo capito fin da bambini che, al mondo, c’è chi ha trop­po e chi ha niente. E così cercavamo di fare giustizia a modo nostro. (p.110)

Per cento secoli mi sono stato vicino e ancora non mi conosco.

È raro che uno scrittore diventi un’alta carica dello Stato. (p.116)

Io credo che i giovani siano forse gli unici capaci di vera indignazio­ne, ma se non si mettono insieme almeno per protestare l’indignazione finisce per diventare frustrazione, e la frustrazione per ben che vada scade nel menefreghismo, nell’apatia.

Non necessariamente la richiesta di autodeterminazione di un popo­lo, di un’etnia, porta allo sgretolamento. E poi lo sgretolamento di che cosa? Dello Stato? Ma lo Stato non è che un pesantissimo involucro burocratico di una nazione, ne è l’organizzazione verticistica con la divisione dei sudditi in classi sociali. C’è chi lo vorrebbe più grande, come gli europeisti, e chi lo vorrebbe più piccolo, come i secessioni­sti. Per quanto mi riguarda mi accontenterei di sentirmi partecipe di un grande privilegio: l’appartenenza alla razza umana.

Stiamo vivendo in una società costruita per «anziani ricchi» e non per giovani volenterosi. Ci mancavano anche le scoperte della Montalcini, così adesso i vecchi, oltra a diventare ricchissimi, rimangono anche ab­bastanza lucidi da non consentire nessun ricambio generazionale, te­nendosi avvinghiati tino alla morte a qualsiasi tipo di attività che po­trebbe essere con maggior profitto esercitata dai giovani. Giovani che rimangono disoccupati nell’impossibilità materiale di formarsi e man­tenere una famiglia: ed a quei pochi che riescono a trovare un lavoro è assolutamente vietato anche solo pensare di potersi acquistare una casa in un qualsiasi centro cittadino a breve termine.

Se tutto andrà bene pochi di loro se la compreranno verso i 50 anni, sulla soglia della vecchiaia appunto. (p.117)

La borghesia, o meglio la borghesite, per chi la vuol considerare un’in­fiammazione acuta del desiderio di avere, è in effetti una malattia en­demica a tutto il globo, almeno per quanto riguarda la specie umana.

Non ho mai incontrato nessuno che non desiderasse migliorare le proprie condizioni di vita materiale. Da questo punto di vista la bor­ghesia più che una scelta direi che è una categoria dello spirito dell’uo­mo, che lo obbliga a sceglierla. Il problema vero sorge nel momento in cui l’individuo l’ha acquisita: pochi a questo punto si rendono conto del diritto dei loro simili ad ottenere gli stessi privilegi che la borghe­sia offre: quasi nessuno sa contenere il proprio benessere senza farsi tentare dall’aberrazione.

Democrazia? No, oligarchia!

Repubblica fondata sul lavoro? No, Repubblica forse, ma governata da pochi ricchi e fondata sul lavoro di tutti gli altri.

Esci di galera pagando la cauzione in galera restano solo i poveri.

Esiste in città come Verona una sorta di fondamentalismo cattolico in apparente contrasto con l’uso massiccio di droghe pesanti, ma che in effetti lo giustifica pienamente. Il cattolicesimo severo porta alla forma­zione di una personalità autorepressiva e frustrata, condizione eccel­lente per l’assimilazione di droghe. Frustrazione dovuta a sessuofobia e a un cattivo e totalizzante uso della informazione. (pp.118-119)

Ho spesso la convinzione di avere ragione e la mia piccola tirannide nei confronti di chi mi è caro non è che un’esuberanza di affetto nei suoi confronti: forse però è difficile riuscire a capirlo.

Non è affatto una banalità: è proprio navigando che si riesce a guar­dare più lontano, oltre la fine delle cose. (p.120)

Le idee, le grandi idee, si hanno solitamente in quei rari momenti in cui si riesce ad ottenere una forte concentrazione di energia, ma la quantità e la qualità di concentrazione sono inversamente proporzio­nali all’età fisiologica, che il più delle volte sembra andare a braccetto con quella anagrafica. L’importante è averle avute quelle idee, quel­le che sono all’origine di scelte di vita o di precise concezioni etiche o estetiche, ed averle in qualche modo nutrite e coccolate con l’andare degli anni: ci si può vivere anche di rendita. Questo non vuol dire che un essere umano dai cinquantanni in poi non possa più avere idee il­luminanti, dico solo che è più raro e difficile. È una faccenda che ha la forma della coda di un topo, e quando sei alla fine della coda non c’è più niente da fare. Esiste invece l’antidoto contro il venir meno della memoria: mille grammi al giorno di acetil carnitina e un devoto pen­siero alla Levi-Montalcini che ha scoperto la funzione. (p.122)

Prima di affrontare il tema della musica nelle medie superiori biso­gnerebbe pensare a come si insegna la musica nelle medie inferiori. E la si insegna male. Sono due ore settimanali di happening, di picnic con chitarra. Invece i ragazzi dovrebbero uscire già delle medie infe­riori in grado di leggere e scrivere la musica, di conoscerne il linguag­gio, perlomeno l’alfabeto, che è un alfabeto universale.

Direi che la qualità di un’opera non esclude a priori di arrivare ad un largo pubblico. Shakespeare è un autore di tragedie molto commer­ciato. Lo stesso si può dire dei Beatles. (p.123)

Credo di essere un artista: fotografo e descrivo quello che vedo e sen­to e non è detto che la realtà non sia filtrata da immaginazione e senti­mento, che il quadro di insieme non risulti impressionistico e in qual­che caso visionaristico, quindi distorto rispetto al modello.

Non potrei interpretare il presente se non facessi costante riferimento al passato, che ho vissuto oltre che raccontato. E proprio dall’antite­si tra i valori di un tempo e i non valori di oggi che nasce la mia valu­tazione negativa e pessimistica del presente: ciò può dipendere anche in parte da nostalgia generazionale, ma una persona di media intel­ligenza, ancorché cinquantenne, potrebbe mai provare nostalgia per un passato peggiore del presente? E il mio passato è fatto di grande solidarietà con i miei simili, di lotte per conquiste sociali irrinunciabi­li come la libertà sessuale o quella di informazione, di ammirazione e di incitamento per chi riusciva ad emergere grazie alle proprie forze e capacità, e non per una tessera di partito politico.

Qual è la differenza tra un punto di arrivo e un punto di partenza? La fine della speranza nel primo caso, l’inizio della speranza nel secondo. (p.124)

Le can­zoni sono davvero diventate qualcosa da vedere? Io le canzoni prefe­risco ascoltarle. (p.125)

Le paure dell’aereo o del teatro sono paure immaginarie e te le porti dietro tutta la vita a meno che non ci sali sopra: allora diventano pau­re reali e di solito riesci a vincerle. (p.126)

L’essere sicuri e contenti di sé opprime e non dà nulla perché è uno stato certo, immobile.

Tendo a pensare che all’interno di una gioia si nasconda un dolore e viceversa. (p.127)

Siccome non esiste un De André politico diverso da un De André mora­le, che a sua volta si distingue da un De André artista, il risultato dei miei lavori è sempre stato un compendio di queste categorie della mia perso­nalità; in alcuni casi avrà prevalso la fantasia, in altri il moralismo, in al­tri casi ancora l’attenzione al lato sociale e politico, ma non credo mai di­sgiunti l’uno dall’altro. (p.128)

Un periodo in cui soltanto il male rimase a dimostrare l’esistenza di Dio.

Il Dio in cui nonostante tutto continuo a sperare è un’entità al di sopra della parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive, un Dio che dovrebbe sostituirsi alla cosiddetta giustizia umana in cui non nu­tro alcuna fiducia, alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell’amore che donna riuscì mai a mettere al mondo. (p.129)

Credo che l’umiltà sia la base di qualsiasi mestie­re si possa scegliere nella propria vita.[…]

Se si intendesse seriamente punire attraverso azioni legali e atti giudi­ziari la «citazione», ovvero il riferimento a passi (o immagini, o figure o suoni) di autori già noti, bisognerebbe ritirare dai luoghi del com­mercio il 90% della produzione artistica mondiale. (p.134)

Un artista, che canti o che scriva, deve mantenere un equilibrio di giudizio. Guardando la realtà dalla cima della montagna. Scegliendo­si così una solitudine volontaria, responsabile, per quanto è possibi­le, soltanto di se stessi.

***

L’aspetto più inumano della nostra società è che gli uomini valgono meno delle monete.

***

Fallito il progetto di una nuova umanità in chiaro, va riconosciuto che il chiaroscuro è l’essenza della vita. E che non c’è esperienza che non possa avere redenzione. (p.137)

La mia solitudine personale è molto meno sofferta perché me la sono cercata, e forse proprio grazie a questo ho avuto fortuna. Anche per­ché temo moltissimo le associazioni umane, soprattutto le piccole o grandi società, le organizzazioni dell’uomo, dalla bocciofila riminese, dico a caso, passando per il Rotary Club per arrivare allo Stato. Pen­so che in ogni organizzazione ci siano i germi della violenza: perché creare un’organizzazione vuol dire darsi delle regole. I loro capi, per far sì che queste regole vengano rispettate, creano all’interno le poli­zie, e all’esterno, per difendersi da altre organizzazioni che hanno re­gole differenti, creano gli eserciti. Credo che l’individuo da solo non abbia mai fatto la guerra a nessuno, al massimo è finita con un paio di bastonate con un suo simile.

L’autorità colpisce per farsi vedere, per terrorizzare: potremmo chia­marla «transustanziazione della legge».

Qualsiasi organizzazione, nel momento stesso in cui diventa tale, ha bisogno di militarizzarsi per difendere le proprie opinioni, le regole della stessa organizzazione, e da qui direi che scaturiscono le guerre se parliamo di ampie organizzazioni come gli Stati.

Le organizzazioni sono la morte dell’uomo perché nascondono in sé i. germi della violenza.

L’uomo organizzato è pericoloso e violento.

Quando l’uomo è costretto a vivere in comunità anche ristrette, in ambi­ti ristretti, è costretto a guardarsi, a osservarsi, vedere che alcuni suoi si­mili fanno fortuna e lui rimane indietro, il tempo corre, spariglia i desti­ni. Nasce l’invidia, un sentimento comune a tutti noi, quindi dobbiamo fare in modo come minimo di perdonarcelo, se rtan di accettarlo com­pletamente. E dall’invidia nasce la «disamistade», la faida, che curiosa­mente ha come paradosso quello di uccidere l’ultimo assassino, una cosa impossibile, una cosa che non finisce mai. È chiaro che, dilatando questo concetto, si arriva poi alle guerricciole, alle guerre e alle guerre mondiali.

Uccidere l’ultimo assassino non è un paradosso: basta che l’ultimo as­sassino si suicidi.

Le canzoni hanno un senso, non perché possono evitare le guerre: non è che facendo canzoni contro i conflitti bellici si eviteranno le guerre. Tuttavia esse entrano a far parte del patrimonio culturale di un popo­lo, sono parte della coscienza, se non altro a livello subliminale. Dun­que possono essere un buon deterrente. E questa la loro importanza. (pp.138-139)

Ho cercato di voler bene a tutti. Non posso dire di esserci riuscito.

Erano identici come due gocce di fango ma uno era più colpevole dell’altro perché più dell’altro capiva. (p.140)

Verrò a vivere tra le tue cose inutili.

Buon cammino, eterni passanti per sentieri invisibili. (p.141)

Il testamento

A mio fratello si spaccò il cuore
in altura.
Cosa dovrei lasciargli dal momento
che è morto: il peso di una poesia
l’arroganza di un verso?
Mio fratello mi voleva bene
io gliene voglio ancora.
Quando eravamo insieme
gli altri più o meno ci stavano
a guardare: «Si somigliano,
hanno un casino da dirsi».
Ora gli rivolgo il pensiero
prima di dormire, una specie
di vergognosa preghiera: “Continua
a volermi bene anche tu”.
Mio padre se l’è succhiato il cancro
«dammi il fucile Fabrizio, portami
il fucile» – «sì, così sbagli e fai
fuori un’infermiera: pigliati questa
porca di droga e soffri il meno
possibile papà e grazie per avermi
fatto giurare di non bere mai più». (pp.148-149)

Per poter amare sono convinto si debba amare se stessi e, nel caso del pianto, saper amare anche le proprie debolezze fino al punto di auto- commiserarsi. Ecco, se si riesce a commiserarsi, si riesce a provar pena anche per il dolore altrui. E questo penso sia amore.

Di cosa ha paura oggi Fabrizio De André?

Sicuramente della morte. Non tanto la mia che in ogni caso, quando arriverà, se mi darà il tempo di accorgermene, mi farà provare la mia buona dose di paura, quanto la morte che ci sta intorno, lo scarso at­taccamento alla vita che noto in molti nostri simili che si ammazzano per dei motivi sicuramente molto più futili di quanto non sia il valo­re della vita. Io ho paura di quello che non capisco, e questo proprio non mi riesce di capirlo.(p.150)

Preferisco Mutis al cinema, nel senso che preferisco leggere che guar­dare.

Nessun film è mai riuscito a comunicarmi le emozioni di una poesia, di un racconto o di un romanzo. Ho detto emozioni, ma forse è me­glio dire i diversi stati emozionali che attraverso la lettura riesci a rag­giungere ripassando più volte sopra una cadenza ritmica, un’intuizio­ne lirica, anche un solo aggettivo che riesca ad illuminare il significato di un sostantivo; col cinema questo non può succederti, perché non puoi sfogliare né avanti né indietro: lo prendi intero ed improvviso come una carezza od uno schiaffo, senza possibilità di mediazione, di partecipazione graduale, di immedesimazione nei personaggi e nello sviluppo del racconto. Con il cinema non mi riesce di dialogare, con la letteratura ci sono sempre riuscito. (p.151)

Cultura è, secondo me, il tentativo riuscito, da parte dell’uomo, di mo­dificare la realtà a suo e altrui vantaggio. Quindi credo di aver fatto anche della cultura, non con i testi o le musiche, ma con certi compor­tamenti. La cultura è sempre in movimento, non istituzionalizzabile. Per questo chi fa cultura è sempre contrario alle leggi, alle istituzioni, che cercano invece di conservare tutto come prima.

Mi sento a mio agio osservando regole e consuetudini non scritte, ma seguite da quasi tutti i miei simili. Mi sento talvolta in grave disagio dovendo osservare le leggi codificate. Secondo me ci sarebbe molto da cancellare più che da modificare. Non credo la pensino come me nessuna destra e nessuna sinistra ufficializzata.

Nella parola l’uomo trova un surrogato all’azione. (p.153)

Un artista non potrà mai arrogarsi il diritto di essere una guida, per­ché nel caso in cui Io diventasse il suo spirito critico dovrebbe con­durlo ad autodistruggersi e nel caso in cui avesse perso la capacità cri­tica non sarebbe più un artista.

Mi sembra che i giovani oggi abbiano soprattutto una grande voglia di certezze e che ci sia in loro una diffusa tendenza a delegare gli artisti a fornirgliele. Ma la vocazione dell’artista è quella di criticare la società, sottolineandone o mostruosizzandone i difetti, o esaltandone gli aspet­ti migliori implicitamente criticandone tutti gli altri. (p.154)

L’emarginazione può essere il prezzo che si paga per assomigliare al proprio desiderio.

La borghesia si può definire in modo filosofico o politico, ma in fondo cos’è? È ancora una classe? Per me è una categoria dello spi­rito: tutti tirano a diventare ricchi e felici, a farsi grattare la pancia da un servo.

La morale per me è genuina solo quando diventa un fatto individua­le, non un fatto di classe.

Dove non c’è Stato, trionferà sempre un Antistato.

Ogni caso umano è un caso a sé, come ogni filo d’erba è diverso dall’altro.

Talmente insicuro e spaventato da farmi suggerire che cosa voglio. (p.155)

La cosa peggiore quando stai per morire è sapere che hai una possi­bilità di salvarti.

«Il segreto della sopravvivenza consiste nel non prendere mai decisioni.»

«La prudenza è il segreto della sopravvivenza.»

Per quanto c’è di poesia nelle nostre canzoni assolviamo al compito che è però dei poeti, che purtroppo nessuno legge più.

Gli uomini sono tutti potenziali artisti, ma devono fare i conti con esi­genze di vita che con il tempo si sono moltiplicate, trasformando sem­plici orpelli in insopprimibili necessità. (p.158)

Le ore scorrevano in lunghi silenzi, che per me hanno contato molto perché mi hanno portato a una riscoperta, o perlomeno a delle rifles­sioni su Dio. Credo nella mia vita di aver spesso messo in discussione la religione, di essermi fatto beffe di dogmi e aver ascoltato con orec­chio critico di crisi mistiche. Eppure io, in quella terra che amavo e in balia di uomini che non capivo, soggetto a un destino che non mi ero scelto, ho ricominciato a credere, a cercare nella forza di un’entità di­versa, superiore a quella umana, il bisogno di Dio. Non so ancora se questa è una mia svolta essenziale o no. E stata fatta in tempi troppo drammatici perché io abbia le idee chiare, ma quel che so è che Dio, anche se in modo ancora informe, dentro di me, ho sentito che c’era. (p.164)

E sulla tua guancia una lacrima portata dal freddo o da qualche pen­siero triste. (p.165)

E in autunno dal lago si levavano correnti di uccelli verso più tiepi­di destini.

Solitudine sotto la pelle
solitudine grazie di
spingermi verso le stelle.

Solitudine dalle attentissime orecchie
ai rumori
solitudine dagli occhi enormi
che guardano fuori.

Solitario di carte alla sera
l’imbarazzo di una mezza preghiera
ad escludersi poi nella notte
(a sognare) coi tappi di cera. (p.166)

La solitudine, come scelta o come costrizione, è un aiuto: ti obbliga a crescere. Questa è la salvezza.

Anime salve sono i solitari. I diversi, quelli che stanno ai margini, perché ce li ha cacciati il sistema o perché l’hanno scelto loro. Salvi, perché soli, perché liberi, perché lontani da questa civiltà da basso impero, dove i bambini vengono stuprati e gli adulti si arrabbiano solo quando gli rubi l’argenteria di casa.

I perdenti sono le persone che più mi affascinano. Per me dietro ogni barbone si nasconde un eroe. Solo queste persone dimenticate riesco­no, come dice il poeta Alvaro Mutis, «a consegnare alla morte una goc­cia di splendore». E la fuga dal branco che ci porta a maturare spiri­tualmente. Così la solitudine diventa una possibilità di riscatto.

Ogni uomo ha una sua Mecca.

Ti abbraccerò, ti farò un posto nel cuore. (pp.166-167)

E poi il buio e l’illusione di quiete.

Ti troverò sulle sponde dei sogni sulla riva dei giorni.

Nell’arco della vita ci possono essere molte malattie guaribili, ma è la vita stessa che non è guaribile. E una meravigliosa malattia inguaribile.

Ma come è difficile far passare il passato. Ma il passato non passa. Perché lo chiamano passato, se non passa mai? (p.168)

Un giovane Sioux di undici anni che aveva passato l’estate dai nonni, in riserva, interrogato, al suo ritorno a scuola, su come avesse trascor­so le vacanze, rispose: «Benissimo. Il tempo era ritornato a essere in­tero». Appunto. Noi siamo troppo abituati a segmentarlo, a divider­lo in ore e minuti, in ansie e angosce, dimenticandoci che da piccoli giocavamo intere giornate con un pezzo di legno in cortile, avverten­do il passare del tempo solo al sopraggiungere della notte, allo scro­scio improvviso della pioggia: avevamo una pura nozione atmosferi­ca del tempo.

Il tempo che passa non possiamo spiegarcelo, possiamo solo stare a guardarlo.

Si comincia a pensare al futuro quando il futuro si accorcia. (p.169)

Ma, ad essere troppo premiati, si finisce come le statue: o ti mettono in un museo o rimani in piazza per essere utilizzato dai piccioni: sono soluzioni di immobilità, che preludono alla fine.

Le parole si servono di noi, si avvicinano, ci minacciano e noi non sia­mo capaci di cacciarle e le adoperiamo cosi. Finiamo col dire cose che non avremmo voluto: anche per questo, se si può, è meglio stare zit­ti. E poi, per riuscire a comunicare il pensiero, le parole bisognereb­be dirle tutte: la parola è nata per dissimulare il pensiero. (p.170)

Ho sempre impostato la mia vita in modo da morire con trecentomila rimorsi e nemmeno un rimpianto. (p.171)

Ingordi come siamo finiremo per divorarci anche dal di dentro.

Tra la gente impoverita di beni di consumo, per la maggior parte su­perflui, riemergerà pian piano (speriamo non così piano da non dover­cene accorgere, come dice Cage) un sistema di valori da troppo tem­po dimenticato, ma che l’uomo conserva nella sua memoria genetica. Per esempio, sono convinto che tornerà ad emergere quell’impulso alla compassione, il più nobile tra gli impulsi primari dell’uomo che le autorità sono riuscite a sopire con l’imposizione di una non meglio definita solidarietà etica; come se si volesse imporre l’amore; se l’amo­re diventa un obbligo prima o poi si trasformerà in odio. Io sono con­vinto che sarà il sentimento a vincere, non la ragion pratica costruita a tavolino che da troppo tempo non tiene più conto nemmeno della consuetudine di usi e di costumi che l’uomo si era dato e che libera­mente seguiva perché conforme alla propria natura. (p.173)

Ma proprio da questo punto di vista è stata un’esperienza positiva: non mi sono mai senti­to così attaccato alla vita come nei momenti in cui ho avuto paura di morire; l’importante è riuscire a ricordarselo.

All’ombra d’un ramo più alto una foglia dormiva con l’unico fermo progetto di restare viva.

Ho sempre pensato alla donna come emblema del sacrificio e fra que­sti emblemi del sacrificio tre mi sembrano fondamentali. Il sacrificio della maternità, una malattia che l’uomo, il maschio non conosce, che dura ben più di nove mesi a quanto mi dicono, a quanto osservo. Il sa­crificio della prostituzione, che attraverso il dolore può anche diven­tare santificazione, secondo il mio punto di vista. E un altro tipo di sacrificio, un altro tabù che viene osservato non soltanto in Paesi di­versi dal nostro, ma anche nel nostro, ed è il sacrificio della verginità, anche se correva voce tempo fa che si poteva considerare vergine sol­tanto una bambina di quattro anni che corresse molto più svelto del fratello. Ma appunto era soltanto una battuta.

Così come le donne sono la rappresentazione del sacrificio, gli.uomini sono la rappresentazione della sopraffazione.
La maggior parte degli uomini, per come li conosco io e per quanto mi conosco, rappresentano, sono, la simbologia del potere e il potere lo si conquista in vari modi, quasi nessuno dei quali corretto (non è soltanto un problema di conquista del potere ma anche del suo eserci­zio) e se per arrivare al potere si possono usare mezzi tradizionalmente leciti, per esercitarlo e per mantenerlo, i mezzi che vengono usati sono sempre illeciti: il potere, da che mondo è mondo, lo si esercita e lo si mantiene attraverso la violenza nelle sue diverse sfumature (violen­za privata, violenza pubblica, violenza economica o violenza bellica).
Fin da piccoli i bambini fanno la lotta: i bambini si picchiano e fan­no la guerra; non così le bambine: che cos’è, un istinto diverso? Può anche darsi. Il fatto è che verso i maschi c’è molta più condiscenden­za da parte dei genitori, c’è una forma di educazione che quasi si com­piace della violenza, e questa educazione si è talmente radicata che la violenza è entrata, nel caso dei maschi, a far parte della memoria pa­rentale: cioè temo che i maschi nascano violenti più per stratificazio­ni di cattivi insegnamenti che non per istinto.
Vi sembra che stia esagerando? (pp.174-175)

Tenendo presente che la popolazione femminile è superiore a quella maschile, se gli uomini fossero stati educati come le donne e se aves­sero le loro naturali tendenze, avremmo il 94% in meno dei più gravi delitti che si commettono nel nostro Paese.

Notti di stelle cadenti su uomini arresi su paesi perduti e tu mamma piccola in punta di piedi a tenere la luna.

E tua madre di notte a indovinarti la mano: ogni notte un destino buo­no e lontano, più vicino e più buono.

Il desiderio di soddisfare la propria vanità è più forte nell’uomo che nella donna, al contrario di quanto si crede. (pp.176-177)

La curiosità nei confronti del prossimo è una profondissima prova d’a­more. Se non fossi ancora curioso di mia moglie, probabilmente non l’amerei come l’amo. (p.177)

Traditi dalla gioventù e da poca saggezza. (p.178)

La piccola borghesia è un cancro diffuso in tutto io mondo ed estremamente pericoloso, perché on prende mai posizione. (p.180)

La maggior parte delle mie canzoni nasce come brevi racconti. È la materia stessa del narrare a suggerirmi la musica. (p.182)

Che se smetti di andare ti piglia la malinconia. (p.186)

Vattene amore dolce e che il vento e il destino sia largo.

Questo non è lasciare questo è dimenticarsi di aver amato male di aver vissuto male.

È doloroso che dalle cose e dalle persone che mi sono troppo vicine la poesia sia bandita: forse perché, non avendo occasione di immagi­narle, voglio soltanto prenderle.

L’impegno civile è solitamente una costante nel mondo del pensiero di cui la canzone dovrebbe a mio giudizio fare parte.

Le canzoni servono a formare una coscienza.

Cantare, credo che sia un ultimo grido di libertà. Forse il più serio. Scrivere canzoni sta diventando una responsabilità sociale, ma se ne sono accorti in pochi. (p.187)

C’è una morale interna a ciascuno di noi, che ha ben poco a che ve­dere con quella che ci viene imposta dalle religioni, dalle leggi, dallo Stato, e l’uomo è mosso da congegni talmente complessi che finisco­no per agire, spesso, al di là della sua volontà.

Fra la rivoluzione di Gesù e quella di certi casinisti nostrani c’è una bella differenza: lui combatteva per una realtà integrale piena di per­dono, altri combattevano e combattono per imporre il loro potere.

La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà. (p.189)

Come mai si diventa libertari? O hai frequentato un ambiente liber­tario, cosa che ho fatto io fin dai diciotto anni, oppure perché hai un impulso a pensare che il mondo debba essere giusto, che tutti deb­bano avere, come minimo, le stesse opportunità per potersi esprime­re ed evolvere.

L’anarchia, prima ancora che un’appartenenza, un catechismo, un de­calogo, tanto meno un dogma, è un modo di essere, uno stato d’ani­mo, una categoria dello spirito.

Sono convinto che anarchia e misticismo nascano insieme. Cristo fi­losofo è stato il più grande anarchico di tutti i tempi: le radici di cri­stianesimo e anarchia sono comuni. Le strade si divisero quando il cri­stianesimo sconfinò in un meccanismo autoritario. (p.191)

Purtroppo alle volte la mia timidezza viene fraintesa come un atteg­giamento di antipatico distacco, il che non è vero. Che io sia discusso come autore lo considero un fatto decisamente positivo, uno stimo­ lo continuo a migliorarmi, naturalmente entro i limiti del possibile.

Credo in una società formata da individui che si associano per reci­proca convenienza o piacere. (p.194)

Il pesce attraverso l’acqua non vede l’acqua. Bisogna sapersi distacca­re dalla cose per vederle bene.

Il nostro desiderio adolescenziale di confrontarci col destino, assolu­tamente identico a quello dei nostri figli, si esauriva in una rissa aro­matizzata al barbera.

L’amicizia: solitamente un rapporto di comodo, di necessità; nasce dal­la necessità di confidare a qualcuno di cui ci si fida i propri problemi: in fondo, dammi la tua stampella che io ti do la mia scarpa ortopedica.
I rapporti umani sono impegnativi, troppo impegnativi. (p.196)

Sono vecchio, non ho più voglia di stupire né desiderio di essere stupito. (p.198)

I miei desideri in una corsa senza motivo né fine, mi lasciano alle spalle. (p.200)

Quante volte devo ripetermi che i ricchi per sopravvivere hanno bisogno dei poveri? Ma cosa succederà quando poveri non ce ne saranno più? Sono convinto che toccherà agli ex Paesi ricchi diventare poveri a loro volta. (p.203)

Non parlo degli ultimi, parlo di coloro che attraverso svariate diffi­coltà, fra le quali la solitudine vissuta come abbandono o come iso­lamento ed emarginazione, si dimostrano alla fine più forti degli altri nell’affrontare la vita, non più forti perché più abituati, ma anche spi­ritualmente più dotati. (p.204)

…dove la gente è abituata a godere di più delle sfortune degli altri che delle proprie fortune.

Sul lago si è fermata la luna e i gufi cantano le preghiere per i morti.

Non farsi mai cogliere impreparati in nessuna occasione. Piuttosto rinunciare. (p.205)

Chi non accetta una sfida l’ha già perduta e nel modo peggiore. (p.207)

Estremamente più consono alla mia natura, al mio bisogno di con­templare in assenza di turbamento, il vivere da solo. Non fosse che le opere migliori, così come le peggiori, l’uomo le ha compiute insieme ai propri simili.(p.209)

Il più grande testo d’amore che io abbia mai letto è il Vangelo.

La fede: in quanto virtù teologale la considero una specie di surrogato alla capacità di credere in se stessi e negli altri. E comunque un senti­mento molto tranquillizzante.

Ho sempre dato all’uomo più fiducia di quanta forse ne meritasse. In parole povere, ammiravo Gesù Cristo per la sua opera e il suo pensie­ro rivoluzionari, ma non ne accettavo la divinità perché questa condi­zione irraggiungibile per gli altri mortali lo privava della possibilità di diventare un modello per l’umanità. (p.210)

C’è, in ogni uomo, una carica di aggressività feroce senza la quale l’uo­mo non è uomo. Di quest’aggressività non possiamo fare a meno sen­za castrarci. Come difenderci allora? Con la pietà, con tanta pietà…

Io sono convinto che se mai l’uomo fosse destinato a mutare in me­glio, otterrà un tale risultato nel momento stesso in cui gli si sopirà l’i­stinto di aggressività.

Le nostre passioni hanno delle origini imprevedibili, anche nel cal­cio. Durante la guerra ero sfollato in Piemonte e per me Genova era un mito, qualcosa di straordinario. Quando a cinque anni la vidi per la prima volta me ne innamorai subito, tremendamente, e alla prima partita della mia vita, Genoa-Sampierdarenese, sposai subito la squa­dra che portava il nome della mia città. Un amore che non ho mai tra­dito, il più solido della mia vita, fatta di contraddizioni continue. È strana veramente la vita. (p.211)

Meglio mettere paura o essere amati? Meglio mettere paura.

«La paura dura più dell’amore.»

È più facile seppellire che dimenticare. (p.212)

Chi non gode di pieni diritti civili è anche disposto a fare una rivolu­zione. Conquistati i diritti, viene colto dall’irresistibile desiderio di to­glierli agli altri facendone degli schiavi. (p.214)

che si frega il suo miliardo.

Viva viva i gattopardi

che si fregano i miliardi. (p.215)

Che pena quando l’abitudine scolora tutto e la notte ci si ritrova a letto, estranei. Fai l’amore come un impiegato del catasto sbriga una pratica. Arriva il momento in cui il tempo fa giustizia di tutto: la pas­sione, la fantasia. E allora ti svegli dal sogno, capisci che l’amore è un equivoco della ragione e la famiglia è solo un bunker, per metterti al riparo dalla società. (p.219)

Non si lotta più per il necessario, si lotta come in ogni periodo dove c’è la classe piccolo borghese che scende in campo, per il superfluo. E il superfluo sono la propria personalità, i propri privilegi, la propria ca­pacità di imbrogliare il prossimo. I fascisti veri sono i piccoli borghesi.

L’anarchismo è possibile in un nuovo sistema dei bisogni, finalmente liberato dalla necessità. Purtroppo le necessità esistono ancora.

Non si può ancora pretendere che gli intellettuali siano sempre quelli che portano avanti certi discorsi prima degli altri. I discorsi li portano avanti le masse, l’abbiamo capito tutti da un po’ di tempo.

L’umanità riesce a crescere proprio quando non si omologa al greg­ge della maggioranza. (p.211)

È molto raro, nella storia dell’umanità, trovare un «eroe» che abbia superato i trent’anni.

Purtroppo lo Stato è un’istituzione tale per cui sei obbligato a studiare sin dall’età di sei anni perché non devi crescere ignorante e poi, quan­do ne hai ventuno, ti tocca partire per il fronte.

Beati coloro che affrontando e attraversando disagi e difficoltà contri­buiscono all’evoluzione della razza umana.

Ovviamente non si può mai generalizzare. Ovunque c’è un 10 per cen­to d’imbecilli che rovinano la media.

Ho voglia di solitudine, la cerco. Sartre ha detto che vivere in soli­tudine ti risolve il problema di ordine morale perché gli altri non si devono prendere carico delle tue responsabilità. Io rovescio l’affer­mazione e dico che non ho voglia di prendermi carico delle respon­sabilità degli altri.

Attraverso l’esercizio della solitudine si coltiva la dignità: trovo estre­mamente più dignitoso chiedere l’elemosina che fare le scarpe al pro­prio collega in ufficio.

L’unico status mentale, spirituale e talvolta necessariamente fisico in cui si riesce a ottenere un contatto con l’assoluto, dentro di sé o fuo­ri di se stessi. Intendo la solitudine come scelta, non l’isolamento che è sinonimo di abbandono e quindi di una scelta operata dagli altri.

Personalmente mi considero una minoranza di uno e spesso trovo nella solitudine il modo migliore, forse l’unico, per preservarmi da at­tacchi esterni tesi anche inconsapevolmente a interrompere il filo dei pensieri o a distruggere le sempre più rare vertigini di qualche sogno.

Aggiungo che, riuscendo a vivere in solitudine, se ci si esime dall’es­sere condizionati dal ronzio collettivo, ci si esenta anche dal condi­zionare gli altri.

Le anime salve sono i solitari, perché solo attraverso la solitudine pen­so si possa ottenere quel contatto con ciò che i Greci chiamavano l’Assoluto e che noi potremmo chiamare Grande Maestro.

Io e la solitudine: momento di estrema concentrazione, di egoismo crea­tivo, in cui da solo riassumi esperienze e dai loro una forma espressiva. (pp.222-223)

Fra i regimi totalitari la Chiesa è uno dei peggiori: i regimi confessio­nali sono quelli che, se possono, si liberano dei «diversi».

Quella di Gesù fu una rivoluzione che aveva come obiettivo l’abbat­timento di qualsiasi privilegio, di qualsiasi differenza di classe e di or­dine sociale in nome di una fratellanza che gli uomini dimostrarono, come dimostrano, di non saper mettere in pratica.

La curiosità per un luogo, per una persona, forse è la sola vera forma d’amore di cui un uomo riesca ad essere onestamente capace. (p.226)

Tu brindi all’anno che viene. Io piango l’anno che va.

Una notte di stelle lontane.

Già dal mattino una nebbiolina fitta di ombre fra gli occhi e le cose.

La vita il bene più importante? Dipende dalla sua qualità. (p.227)

I desideri vestivano a lutto.

Sono proprio molto stanco, avrei proprio bisogno di morire.

Poi finalmente il cancro a liberarti da una ragnatela di rimorsi, ranco­ri e rimpianti. Dicono colpisca anche le persone buone. Chi è buono? È buono solo il cancro che non fa distinzioni e non si lascia corrom­pere perché conosce il teatro e gli attori e soprattutto sa che questo mondo non è stato fatto per gli uomini.

Il cancro qui lo esorcizzano e poi lo seppelliscono. Sarei rimasto volentieri.

La nostalgia di viaggi impossibili.

Dalla vita si esce soltanto morti. (pp.228-229)

Fin da piccolo aveva imparato a trasformare i desideri in dolorosi rimpianti.

Finché le onde del sonno lo sommersero al ritmo del respiro.

Addormentandosi tornano tutti ai loro sogni, l’unica cosa che gli resta.

Il tempo lo abbiamo inventato noi.

La fretta di vivere che è solo ansia di morire più in fretta.

La puzza del tempo che passa.

Prima o poi Dio separa gli stupidi dai loro soldi.

Se è vero che sono un libertario, è altrettanto vero che le libertà che mi stanno più a cuore sono quelle individuali. (p.232)

Dove perdonano gli assassini
e non le idee.
Dove si impiccano le idee

non gli assassini.

Voi non avete fermato il vento
gli avete fatto perdere tempo.

Ci sono cose che non devono essere raccontate.

Ne ho già dette troppe. (p.236)

E poi a un tratto l’amore scoppiò dappertutto. (p.238)

N.B. Gli scritti sono separati nel libro da tre asterischi (***), segni che, per comodità, sono stati dallo scrivente eliminati…