LUIS SEPULVEDA – CRONACHE DAL CONO SUD

 

LUIS SEPULVEDA – CRONACHE DAL CONO SUD
GUANDA – Collana LE FENICI ROSSE – Febbraio 2007

[Los calzoncillos de Carolina Huechuraha y otras cronicas]

TRADUZIONE: Ilide Carmignani

Nel libro sono raccolti una serie di articoli e brevi scritti di Sepulveda redatti nel 2005 e 2006 (morte di Pinochet).

DOMANDE SUL CILE ALLA CASA DE AMERICA p.7

Com’è possibile che non sia sta­to ancora processato? Com’è possibile che non siano ancora stati sequestrati tutti i suoi beni? Perché si tarda tanto a punire il suo tradimento e la sua smania di rapina? (p.8)

Davvero non si può redigere una costituzione democratica, rap­presentativa di tutti i cileni e tutte le cilene, per poi farla sancire da una consultazione popolare, altrettanto democratica e necessaria? Cosa o chi lo impedisce? Non meritiamo una spiegazione al riguardo? Qualcuno ha poi alluso a un’altra delle pecu­liarità del Cile attuale: a quel dieci per cento di esportazioni di rame – la nostra principale ric­chezza, di tutti i cileni – che è proprietà dell’eser­cito. Perché? Fino a quando? Quanti milioni di dollari significa quella percentuale e in cosa viene spesa? Ce una qualche giustificazione morale perché l’esercito sia uno Stato dentro lo Stato? E forse il prezzo che paghiamo per il lento recupe­ro della democrazia? (p.9)

E poiché amo il mio paese, ho parlato dei suoi uomini e delle sue donne, della sua gioventù ostinatamente impegnata a conquistare la feli­cità e la giustizia. (p.10)

Aprile 2005

CILE, LA GUERRA CHE NON C’È STATA p.13

L’11 settembre 1973 Pinochet e gli altri tre uffi­ciali traditori che comandavano la marina, le forze aeree e il corpo dei Carabineros dichiara­rono che erano in guerra, che il paese era in guerra contro il marxismo «lininismo», come ripeteva Pinochet in uniforme da combattimen­to, e orde di militari cominciarono ad assassina­re, torturare, sequestrare cilene e cileni, oltre a razziare i beni di quanti cadevano nelle loro mani.

Quando i morti si contavano a centinaia, la giustizia fu cieca, sorda e muta. Per la maggior parte, i membri della Corte Suprema, il più alto tribunale cileno, erano – e molti lo sono ancora – ultraconservatori, aperti simpatizzanti del fascismo e nutrivano un odio ancestrale nei confronti della classe operaia. Quando i morti e i desaparecidos si contavano a migliaia, i giudici cileni decretarono che era tutta un’invenzione dei nemici della patria. (p.13)

I giudici cileni, quelli che furono membri della Corte Suprema nei sedici anni della ditta­tura, furono tutti dei prevaricatori, senza ecce­zione, furono complici delle torture, delle ucci­sioni, dei sequestri di persona. Sapevano perfet­tamente cosa combinava la soldataglia e non fecero nulla, perché anche loro dichiararono che il paese era in guerra. (p.14)

Furono loro ad avallare lo stato di guerra, fu con il loro aiuto che venne identificato «il nemi­co», e cioè i militanti di Unidad Popular, i comunisti, i socialisti, gli attivisti del MIR, i preti progressisti, i giovani e persino i ragazzini. E il nemico andava annientato. (pp.14-15)

Ma la Corte Suprema di Giustizia ha ritenuto che quei delitti non sussistessero, perché i solda­ti sequestrano, torturano, uccidono, fanno spari­re i corpi solamente quando c’è una guerra. Noi cileni abbiamo appena saputo che, malgrado tut­to quello che ci è stato detto per sedici anni, non c’è stata guerra, non c’è mai stata nessuna guerra, l’esercito non è mai stato in guerra, e pertanto il colonnello Joaqurn Rivera Gonzàlez è innocente come un bimbo in fasce. (p.17)

Secondo la Convenzione di Ginevra, i crimini di guerra non cadono in prescrizione. Secondo i giudici cileni, fra l’il settembre e il 4 ottobre 1973 il paese era in stato di guerra. E anche a partire dal 6 ottobre 1973 fino alla fine del 1989 era in stato di guerra. Lo studente e il ragazzino furono assassinati il 5 ottobre, l’unico giorno in cui non c’era la guerra.
Questa sentenza della giustizia cilena è una beffa ai danni del senso universale di giustizia.

Non può essere ignorata. Dobbiamo fare qual­cosa. (p.18)

Il Manifesto, 10 agosto 2005

LADRI OFFESI p.19

Ogni volta che Pinochet deve affrontare l’e­ventualità di essere processato, cade subito sve­nuto, ha un microinfarto nel suo cervello da de­linquente e finisce drammaticamente ricoverato all’ospedale militare. Sua moglie ha fatto lo stes- ; so: non appena ha saputo che sarebbe stata accu­sata di complicità in una frode multimilionaria di contributi fiscali, in corruzione, traffico d’armi, f appropriazione indebita di beni dello Stato e del­le proprietà di persone assassinate dalla dittatu- | ra, ha perso anche lei i sensi e ha drammatica- |mente ricevuto la notizia del suo arresto nell’o­spedale militare di Santiago, un ospedale d’élite riservato all’esercito cileno, la classe di parassiti che, a quindici anni di distanza dalla fine forma­le della dittatura, continua a essere uno Stato dentro lo Stato. (PP.19-20)

Questi intellettuali organici del neoliberismo non si sono mai preoccupati di altri imprendi­tori, anche loro neoliberisti: i ladri cileni di se­conda categoria. LI tìpico ladro cileno è un tizio che «investe» tempo e denaro nella preparazio­ne di un furto, per esempio alla filiale di una banca. Deve comprare un paio di pistole al mercato nero, di solito dalle mani di militari in pensione, deve acquistare un’auto rubata, in genere da un’agenzia gestita da ex agenti della CNI, la polizia politica della dittatura, e deve corrompere qualche guardia giurata della ban­ca che vuol rapinare, di norma un militare a ri­poso. Si tratta, insomma, di un «investimento a rischio», perché il ladro non sa quanti soldi ci saranno nella banca e se il risultato compenserà l’investimento.
Oggi questi ladri sono terribilmente depressi, tristi, delusi dal modello economico cileno, per­ché credevano con fermezza nella «competitività del neoliberismo», in cui solo i migliori, cioè quelli che investivano di più, avrebbero ottenuto maggiori profitti.
Ora sanno che la moglie di Pinochet ha rapi­nato i Centros de Madres
(CEMA) senza fare il minimo investimento a rischio. Funzionava così: suo marito dava ordine di assassinare qualcuno, solitamente di sinistra, che avesse un grande appezzamento di terreno considerato edificabi­le. Il terreno passava per qualche giorno allo Stato cileno, ma poi veniva donato al CEMA, l’en­te diretto da Lucia Hiriart in Pinochet. Più ladra di una gazza, questa ordinava agli architetti dell’esercito, pagati da tutti i cileni, di disegnare un progetto per cento e più alloggi, che veniva­no costruiti da battaglioni di soldati, con matto­ni, cemento e vetri dell’esercito cileno. Insom­ma, lei non comprava un chiodo, pagava tutto lo Stato. Poi vendeva le case, che per di più veniva­no consegnate complete di cucina, frigorifero e mobili acquistati dall’esercito cileno, e il denaro scompariva nei suoi conti correnti di Miami, Gibilterra, Svizzera e Isole Cayman.
Questa – dicono i ladri e i truffatori cileni – è concorrenza sleale, è violazione del libero merca­to, e non c’è modo di fargli capire che invece è proprio il nocciolo del tipo di economia propu­gnata dal neoliberismo: il furto più sfacciato vie­ne definito «privatizzazione delle imprese stata­li», e il latrocinio impune «libertà di movimento dei capitali». (pp.21-22)

Cosa ne sarà dei nostri scrittori di romanzi polizieschi senza i ladri cileni? I nostri ladri perdono l’appetito, si allontanano dai tiepidi bordelli, smettono di comprare bracciali d’oro, Rolex, e ogni volta che vengono a sapere di un nuovo conto corrente internazionale sequestrato ai Pinochet, si fanno più tristi, malinconici, taci­turni, e li si vede dar da mangiare ai colombi nei parchi.
Dobbiamo essere solidali con i nostri ladri tradizionali, dobbiamo esigere che tutto il patri­monio del clan Pinochet venga espropriato e restituito ai legittimi proprietari: noi cileni. (pp.22-23)

CI SONO SCIMMIE PIÙ CARE DI ALTRE p.25

Se una scimmia di Gibilterra ha bisogno di circa trenta euro l’anno fra cibo, vaccini e veteri­nario, perché lo Stato cileno spende ogni anno seicento milioni di pesos per nutrire, vaccinare e fornire cure veterinarie a Pinochet? Le scimmie di Gibilterra rubano gelati, sacchetti di patatine, persino qualche portafoglio lasciato incustodito in automobile, ma nessuna ha conti segreti negli Stati Uniti o in paradisi fiscali. E non frodano nemmeno il fisco con dichiarazioni fasulle, né le loro signore scimmie e le scimmiette costituisco­no associazioni a delinquere.
Gli inglesi sono convinti che quegli animali servano a qualcosa, ma nessun cileno può dire lo stesso di Pinochet.(p.26)

Che cosa possedeva Pinochet quando tradì la costituzione e divenne un dittatore, un tortura­tore, un assassino? Qual era il patrimonio del cartello dei Pinochet l’11 settembre 1973? E ora cosa possiedono? Perché non possiamo vedere pubblicato un elenco di tutti i loro beni? (p.27)

Per prendersi cura di Pinochet si spreca, si dilapida, si getta nella spazzatura il budget di parie scuole pubbliche o di ospedali più che necessari. Per quanto tempo ancora ci si osti­nerà a voler vezzeggiare e coprire di attenzioni un miserabile ladro?
Pinochet e i militari cileni hanno avuto e conti­nuano ad avere buoni rapporti con i britannici; ci sono di mezzo molti traffici dì armi. Perché quin­di non approfittiamo di questi buoni rapporti e mandiamo tutto il clan dei Pinochet a Gibilterra? (p.28)

Il Manifesto, 23 agosto 2005

CARNE DA BLOG (1) p.29

Oggi è il 4 settembre; trentacinque anni fa in un giorno come questo, di primavera in Cile, fe­steggiavamo il trionfo di Unidad Popular, la vit­toria elettorale di Salvador Allende, del compa­gno presidente Salvador Allende. Sappiamo tutti come finì quell’esperienza democratica di socia­lismo alla cilena, e sappiamo che oggi, con un gran senso di schifo e il vomito in gola, i cileni de­vono convivere con i loro despoti, con i tortura­tori, con quelli che hanno fatto sparire persone, hanno assassinato e hanno rubato a tutto spiano. Vomitevole.
Qualche giorno fa è morto di cancro il gene­rale Forestier, un torturatore, un assassino, uno che ha negato l’esistenza dei desaparecidos e ha tirato le cuoia al sicuro da qualunque imputazione per i suoi crimini. (pp.29-30)

Il Manifesto, 24 settembre 2005

CARNE DA BLOG (2) p.37

Immagini che un giorno le sequestrino il padre, un figlio, una sorella. Non li vede mai più, le restano solo i ricordi, i lavori lasciati a mezzo, i sogni che non si sono realizzati, un paio di foto­grafìe allegre, ma non li vede mai più, e lo Stato, quando viene interpellato al riguardo, risponde con una risata e una frase piena di patriottico cinismo: «Sarà scappato con l’amante». Ecco cosa dissero in Cile i giudici, i militari, gli espo­nenti politici che sostenevano i criminali, gli imprenditori del massacro. Vomitevole. Carne da blog.
Ma questo accadeva ogni giorno nei paesi dell’America Latina in cui, per ordine degli Stati Uniti, era stata decisa una rapida liquidazione del «nemico interno». Le forze armate di Argen­tina, Cile, Uruguay, Brasile, Honduras, Sal­vador, Bolivia e così via scatenarono una guer­ra continentale contro i loro popoli indifesi; gli anni Settanta e parte degli Ottanta furono segnati dal terrore e dagli omicidi di Stato, uno Stato obbediente al mandato nordamericano, e quindi non deve stupire se l’antimperialismo è una dimostrazione di coerenza morale.
Immagini di aver avuto la buona sorte, la crudele e spietata buona sorte di ritrovare il cadavere di suo padre, di sua madre, di una sorella, di un figlio – in migliaia non hanno avuto nemmeno questa fortuna triste e maledet­ta -, ma di averlo ritrovato mutilato, sgozzato, con numerosi ed evidenti segni di torture. Quando ha cercato di sapere cos’era successo, chi erano i responsabili di tali atrocità, lei è diventato all’istante un tipo sospetto, antipa­triottico, sovversivo, potenzialmente nocivo alla «convivenza nazionale» o un nemico del model­lo economico vigente. «Si sono suicidati» oppu­re «sono stati eliminati dai loro stessi compagni» erano le risposte ripetute dai giudici, dai mili­tari, dagli esponenti politici che già iniziavano ad accaparrarsi un posto di amministratore per il dopo, e dagli imprenditori, i cui guadagni crescevano con la paura sociale. Vomitevole. Carne da blog. (pp.37-38)

I morti danno fastidio, le vittime danno fasti­dio, sono scomode, e quelli che chiedono giusti­zia sono ancora più scomodi.[…]

I morti sono fastidiosi; il loro ricordo è come un sassolino nella scarpa: impedisce di andare «verso il futuro».(p.41)

Il Manifesto, 29 settembre 2005

CARNE DA BLOG (3) p.43

Il capitalismo e la perversione del neoliberi­smo economico sono riusciti ad alterare la fun­zione emancipatrice della lotta di classe. Il siste­ma capitalistico ha la capacità di rinnovare se stesso mediante la negazione dei risultati conci­liatori del conflitto di classe: salute, vecchio Karl Marx. I giovani delle periferie francesi chiedono solo il riconoscimento della propria esistenza, di essere ripresi dalla televisione, un attimo di eter­nità. Com’è lontana la lotta per i diritti consacra­ti dalla dichiarazione universale dei diritti umani. (pp.44-45)

Ma ancora più schifo fanno i socialdemocrati­ci o i socialisti come Blair, più che servo, mastino dell’impero.[…]

A questi bisogna aggiungere Bono, un triste pagliaccio che si dà arie da personaggio de­cisivo in un’epoca caratterizzata dal conflitto tra imperialismo e diritti umani.(p.47)

Il Manifesto, 21 dicembre 2005

CILE-PERÙ: LA POLITICA DELLO SCIOCCO p.51

Cosa succede fra il Cile e il Perù? È vero che hanno mobilitato truppe sul confine?[…]

Quando i governanti, eletti in maniera demo­cratica o grazie a brogli, falliscono, ricorrono alla goffa vigliaccheria del patriottismo. Natu­ralmente la risposta del governo cileno e dei cileni non può essere la stessa. (p.51)

Quello di Toledo è l’ennesimo governo ineffi­ciente e corrotto della lunga serie che ha oppres­so il Perù. Ne sono prova le migliaia di peruvia­ni che si sono visti costretti a emigrare in Cile, in Spagna, in differenti paesi del mondo semplice- mente per sfuggire alla miseria provocata dai dilettanti e dai corrotti che si sono impadroniti del governo peruviano. Questa miseria genera ignoranza, se ne alimenta, e il risultato finale è il più becero patriottismo. È evidente che noi cile­ni non possiamo cadere nella stessa trappola. (p.52)

I peruviani e le peruviane che vivono e lavora- ] no in Cile, e con i loro sforzi contribuiscono alla crescita del paese, sono vittime della stupidità e dell’incapacità dei loro governanti, gli stessi che hanno accettato senza fiatare tutte le angherie im­poste dal Fondo Monetario Internazionale e dal­la Banca Mondiale per diventare parte di quella «realtà economica globale» che porta solo po­vertà ed esodi massicci della popolazione. (p.53)

Questo pasticcio si può risolvere unicamente grazie alla società civile, a un atteggiamento improntato alla massima civiltà davanti a dema­goghi capaci di pronunciare la parola «guerra» senza un tremito.
Non possiamo dimenticare che una pallottola non ha bandiera, ammazza e basta. Una tonnella­ta di merluzzo del Pacifico servita a Madrid o a Parigi non vale una vita. Le onde non saranno più forti o più deboli a seconda della sovranità territoriale. L’importante è il rispetto per la lega­lità, per gli accordi e i protocolli sui confini fir­mati da entrambe le parti con garanti internazio­nali. Questo è uno e uno soltanto dei moltissimi problemi che deve risolvere la società civile. (p.54)

ANDARE ALLE URNE, VOTARE, ELEGGERE: BELLISSIME PAROLE p.55

Domenica 11 dicembre, nella zona antartica cilena, c’erano dodici gradi sotto zero, abba­stanza per definire calda l’estate australe, come spiegava un ufficiale di marina riferendo che i quarantotto cittadini di quel territorio bianco, sei donne e quarantadue uomini, avevano eser­citato di buon’ora il loro diritto ad andare alle urne, votare ed eleggere il futuro presidente o la futura presidente del Cile, un diritto che molti di noi non hanno, perché fummo privati della nostra nazionalità dalla dittatura o, più sempli­cemente, perché viviamo nel vasto mondo e per la legge cilena vota solo chi vive in patria.
Ma anche così, come cileno senza diritti, seguo il giorno delle elezioni dalla Spagna incollato a Internet, ascoltando le voci dei giornalisti di Ra­dio Cooperativa, l’emittente amica che tanto ci ha tenuto compagnia negli anni neri della ditta­tura. (p.55)

La prima volta che abbiamo votato in vita nostra è stato nel 1970, e fu emozionante trac­ciare la croce accanto al nome di Salvador Allende. L’ultima volta è successo a Gijón per le elezioni europee: come sempre abbiamo votato socialista, ma con una certa naturale diffidenza. Chi si  fiderebbe di socialdemocratici come Blair e Schroder? (pp.57-58)
Così, dalla Spagna, vivo le elezioni in Cile. Andare alle urne, votare, eleggere, queste bellis­sime parole così lontane per le cilene e i cileni che come me vivono di là dal mare e dalla cordigliera. (p.62)

Il Manifesto, 14 dicembre 2005

I CALZONI DI CAROLINA HUECHURABA p.63

Quando parliamo di una donna, e di tutte le donne, stiamo parlando di più del cinquantun per cento dell’umanità, di una maggioranza emarginata i cui diritti vengono clamorosamente violati o sottoposti all’opinione dominante di chi porta i pantaloni. Quello che donna Caroli­na Plaza, perché è così che si chiama e non Carolina Huechuraba, ignora (non lo sa e non può saperlo, perché se lo sapesse non militereb­be nell’Union Demócrata Independiente, né soffrirebbe in silenzio per le ripetute disgrazie del suo generale) è che la candidatura di due donne – prima Gladys Manu e ora Michelle Bachelet – alla più alta carica dello Stato segna una vera svolta nella storia politica del Cile, sempre dominata da chi porta i pantaloni. (p.64)

[…]ma credo che Michelle Bachelet rappresenti una concreta possibilità di cambiamento, forse non così rapido come molti di noi vorrebbero, però concreto.(pp.66-67)

A Michelle Bachelet toccherà farsi ca­rico della riconquista della sovranità nazionale, che non è solo una questione di confini.
Sono molti i compiti che l’aspettano, e balze­ranno presto agli occhi vista la rapidità dei cambiamenti globali e la loro incidenza sulle realtà locali. Michelle Bachelet merita perciò l’appoggio della sinistra, ma un appoggio criti­co, in linea con quella cultura politica di sinistra che dobbiamo recuperare.
Le piaccia o no, signora Carolina, c’è in gioco ben più che un problema di calzoni e sottane. (p.68)

DI FRONTE E DI PROFILO p.69

Oggi, 28 dicembre, Augusto Pinochet, l’uomo più miserabile della storia del Cile, non era in ve­na di scherzi o di battute. Finalmente è stato esaudito uno dei desideri più cari alle sue vittime, ai coraggiosi familiari dei cileni e delle cilene di cui sentiamo la mancanza, di cui sentiremo sem­pre la mancanza, e a quanti come me sono so­pravvissuti ai suoi sistemi di sterminio, alle sue smanie da macellaio: oggi le sue dita sono state imbrattate d’inchiostro nero e, come capita a tut­ti i delinquenti, una fotografia di fronte e un’altra di profilo aprono la sua fedina penale, il suo cur­riculum di assassino, la sua nota biografica di la­dro, la sua scheda tecnica di farabutto, e Augusto Pinochet entra definitivamente nel sottobosco dei mascalzoni con precedenti penali. (p.69)

Compagne, compagni, abbiamo ottimi motivi per fare un brindisi con il meglio che possiamo trovare e per abbracciarci augurandoci un feli­ce 2006, un anno solidale che ricorderemo co­me Tanno della Giustizia, con il tiranno proces­sato e condannato per il suo tradimento e la sua infamia. (p.70)

MICHELLE! p.71

Ci sono date che restano impresse nella storia d’un paese e senza dubbio il 15 gennaio 2006 è una di quelle, perché da domenica, per la prima volta nella storia del Cile, una donna ricopre la più alta carica dello Stato. (p.71)

Il golpe militare dell’11 settembre 1973, messo in atto su mandato degli Stati Uniti con il prete­sto di combattere il comunismo, servì a speri­mentare in Cile una teoria economica che, con tutta l’opposizione piegata dal terrore, doveva necessariamente funzionare. Non è mai stata smantellata un’industria nazionale con tanta ra­pidità. Non si è mai reso così dipendente un pae­se in nome di una competitività che non poteva avere. Non si è mai creata una classe di ricchi tan­to ricchi e non si è mai verificato un impoveri­mento economico, morale e culturale così veloce. (p.75)

Noi cileni vogliamo recuperare il diritto a proiettare le nostre vite verso un futuro necessa­riamente migliore, e visibile. Vogliamo recupera­re il senso della dignità nazionale, cominciando •ad attribuire la stessa importanza alle opinioni di una cilena o di un cileno e a quelle di un investi­tore straniero. Vogliamo recuperare il diritto a immaginare un paese in cui non esistano cittadi­ni di seconda categoria. (p.76)

Vogliamo tor­nare a essere tutti uguali davanti alla legge e vo­gliamo che la legge sia uguale per tutti. […]

In nome della speranza, Michelle Bachelet ha tutto il mio modesto appoggio di scrittore e di cileno senza diritti. Ma questo appoggio sarà sempre critico, costruttivamente critico, perché così mi ha insegnato Salvador Allende, perché così mi detta la mia cultura socialista. (p.77)

Il Manifesto, 11 marzo 2006

ALIAS LUCIA! p.79

Stranamente, la bruttezza che ha sempre carat­terizzato questa famiglia di criminali e di ladri è andata aumentando, in una sorta di mostruoso crescendo, e invece di risvegliare la compassione che ispirano sempre i brutti e le brutte, provoca, è noto, grasse risate e voglia di cantare «crepino i mostri».[…]

Certo, gli occhietti da topi spaven­tati del clan devono cercare lo sguardo un tempo vorace e implacabile del patriarca, ma quel vec­chio decrepito è troppo lontano dalle sofferenze della sua masnada, preso com’è dai trucchi legali con cui spera di salvare la parte di bottino che an­cora non conosciamo, o a fare le prove dei suoi attacchi di follia. (p.80)

La cosa triste, perché il repellente spettacolo dei Pinochet suscita anche una certa tristezza, è che esistano ancora idioti come Jovino Novoa, che alimentano in loro l’idea della cospirazione comunista, della persecuzione e della congiura ai loro danni.[…]

Né al vecchio sciacallo né a sua moglie, la vec­chia iena dei CEMA Chile, né a una stupida brut- f tona come la figlia Lucia sarebbe mai venuta in ] mente una fuga così spettacolare, che coincide con il fastidio dei settori più retrogradi della de- \ stra statunitense, gusanos cubani compresi, allar­mati dalla forte democratizzazione dell’America Latina, dalle vittorie di governi progressisti e di sinistra. (p.82)

IL MIO COLLEGA RAMON UGARTE p.83

Succede però che uno scrittore cileno abbia venduto in patria più o meno ventotto milioni di esemplari dei suoi bestseller, intitolati II giorno decisivo, Politica, politicanti e demagogia e i tre vo­lumi delle Memorie di un soldato. Siamo circa quattordici milioni, perciò ogni cileno ha com­prato due esemplari dei suoi libri. Che lettori ap­passionati! Che autore di culto! Viva il Cile, caz­zo! Tutto questo lo deduco con stupore, invidia e ammirazione dalle dichiarazioni di un cileno- yankee chiamato Edgar W. Tatman. Non so se è l’agente letterario di Ramón Ugarte, alias José Augusto Ramón, alias Daniel Lopez, alias Mr Escudero, alias Pepe Ugarte, alias Ramón Augu­sto Pinochet, eccetera, ma con grande scioltezza ha dichiarato alla commissione che indaga sui conti statunitensi del vecchio tiranno chela fortu­na depositata sotto diversi nomi su svariatissimi conti ha per origine il pagamento dei diritti d’au­tore dei suoi libri pubblicati e venduti a milioni.
E tutto in Cile.(pp.84-85)

E io come un idiota a leggere Proust, Cervantes, Kundera, Kafka e altri autori di seconda categoria. Cara presidente Bachelet, uno scrittore di tale livello, con vendite così alte, merita che venga eliminata dai libri l’odiosa IVA, E per favore, se qualcuno mi può prestare o noleggiare una delie grandi opere che mi sono perso, lo faccia, mi aiuti, help, mi salvi dalle tenebre della mia ignoranza.
Domani stesso restituirò i diplomi e le lauree che mi sono stati concessi, non ne sono degno: sono un uomo senza qualità, come scriveva Musil, sono un cileno che non ha letto il grande Ramón Ugarte. (p.86)

CHI CI SALVA DAI GIUDICI CILENI? p.87

Amnistiare i responsabili del ca­so «Carovana della morte», oltre a rappresentare un nuovo insulto alle vittime e ai loro familiari, è un vero abuso legale, un vile atto di compiacenze nei confronti di un gruppo di criminali. Chi ci di­fende da questi giudici?[…]

Perché il paese si riprenda dal trauma di convivere con assassini, di incontrarli per strada, di vederli muoversi protetti da trucchi legali adottati da giudici venali, è assolutamente necessario abrogare le leggi di amnistia di cui si avvalgono e avere il coraggio civile di affrontare con energia il nostro recente passato. (p.89)

RICORDO DI DUE RIVISTE CHE IN REALTÀ ERANO UNA SOLA p.91

[…]perché fummo tutti fanatici lettori della «Chiva».

Alla fine degli anni Sessanta molti di noi si pre­paravano a diventare protagonisti dei cambia­menti che, inevitabilmente, dovevano verificarsi nella società ciiena. Studiavamo, leggevamo Marx e Sartre, Gramsci e Ho Chi Minh, il Che e Willy Brandt, Marta Hamecker e Olof Palme e, in mezzo a tanti autori da cui imparavamo qualcosa, leg­gevamo anche «La Chìva».
Nel gergo popolare cileno, una
chiva è una bu­gia il cui scopo varia a seconda di chi la racconta e del contesto. (p.92)

[…]

alla «Chiva», una rivista di formato orizzontale dall’humour acido, il cui primo numero uscì nelle strade del Cile senza copertina, perché non c’erano soldi per coprire la spesa.

Fin dal suo primo numero «La Chiva» diven­ne parte di noi. Era una rivista che passava di mano in mano, di lettore in lettore, la comprava uno e la leggevano in cento[…].(p.93)

Benché «La Chiva» avesse sempre più lettori, paradossalmente non arrivò mai a essere un suc­cesso di vendite, perché il suo contenuto socializ­zante faceva sì che i lettori la socializzassero. Ma senza dubbio ci accompagnò sulla formidabile strada dell’attivismo politico e sociale, che toccò il suo culmine il 4 settembre 1970, con la vittoria elettorale di Salvador Allende. (p.94)

Così «La Chiva» passò a chiamarsi «La Fir­me», che in gergo cileno significa una verità nuda e cruda. Durante i mille giorni del governo popo­lare vennero pubblicati centinaia di quaderni di educazione sociale e politica; dovevamo spiegare perché nazionalizzavamo il rame, ma rifiutavamo un’economia basata sull’esclusivo monopolio statale preferendo scorporarla in un’area privata, una mista e una pubblica; dovevamo combattere l’assenteismo sul lavoro, l’alcolismo, il maschili­smo, e promuovere una coscienza ecologica per proteggere il nostro patrimonio naturale. Nessun opuscolo o fascicolo affrontò questi compiti con la brillantezza e l’efficacia pedagogica della «Fir­me». Non è esagerato asserire che «La Firme» sintetizzò lo sforzo creativo di un popolo, il po­polo cileno, che voleva essere protagonista del proprio destino.

Trent’anni dopo, la raccolta completa della «Chiva» viene conservata come una reliquia nell’emeroteca della Bibliothèque Nationale di Parigi. In Cile quasi non se ne trova copia e i pochi esemplari che restano sono gioielli da collezionisti.(pp.94-95)

«La Chiva» e «La Firme», tutti coloro che vi lavorarono, i loro indimenticabili personaggi, sono parte della mia memoria di scrittore e di cileno. Sono due fiamme che illuminano alcuni dei miei ricordi più belli e più sentiti. (p.96)

VIVA VIVA GLI STUDENTI! p.97

Il 10 marzo 1990, esattamente un giorno prima che quel ladro di Pinochet lasciasse il potere, venne promulgata nell’ombra la LOCE (Ley Orgà­nica Constitucional de Ensenanza), che conse­gnava l’istruzione primaria, secondaria e univer­sitaria alla dittatura del mercato, e cioè la trasfor­mava in un affare in cui, paradossalmente, è lo Stato a mettere i fondi. L’essenza della LOCE, il nucleo di un corpus legale che attenta agli in­teressi e ai diritti dei giovani, antepone una pre­sunta «libertà d’insegnamento in regime di libe­ra concorrenza», imposta dai proprietari delle scuole private ma con sovvenzioni statali, all’ele­mentare diritto all’istruzione, quella conquista che fu l’orgoglio dei cileni fino all’11 settembre 1973, giorno in cui tutte le conquiste e i diritti della società civile furono schiacciati da quanti tradirono la costituzione che avevano giurato di difendere. (p.98)

Oggi, nel 2006 come negli anni oscuri della dittatura, i responsabili degli 1 istituti privati si chiamano «sostenitori» e rice­vono le sovvenzioni statali senza dover rendere ! conto di come le impiegheranno, e qualunque suggerimento teso a migliorare il sistema scola­stico è ritenuto un attentato a quella «libertà imprenditoriale» che fa sbavare quanti esibisco­no orgogliosamente gli indicatori macroeconomici di un paese che esporta dessert. (p.99)

HA PADRONI IL MARE? (p.103)

Da lussuosi porti turistici, da lussuose dimore costruite dalla longa manus della speculazione edilizia, gli odierni padroni del mare guardano i tramonti senza vederli, troppo presi dai metri di lunghezza del nuovo yacht di qualche conoscen­te o dalla potenza dei motori che li portano da un’isola all’altra nel giro di pochi minuti, e allo­ca decidono di cambiare al più presto i loro navigli bianchi, grazie ai quali godono del discu­tibile status di capitani della domenica, o di sciocchi con il diritto di prendere in mano un timone. (pp.103-104)

Si trattava di gente facolto­sa, dei padroni del mare, e a loro non si possono addossare responsabilità ecologiche.

Una delle maggiori sciocchezze che si sente di­re dai politici dei paesi affacciati sul mare è che il turismo è una delle attività economiche più im­portanti; ma non precisano quale turismo e non spiegano nemmeno se porti qualcos’altro oltre a camerieri e rifiuti. (pp.105-106)

Una semplice veduta aerea dei litorali mediterranei fa sì che qualunque persona mediamen­te informata si ponga alcune domande. Tutte le strutture del turismo di massa sono dotate di impianti di depurazione? O si è invece lasciato l’onere di depurare le acque reflue alle piccole città che fino a venticinque anni addietro non ospitavano questo tipo di strutture? La maggior parte delle bandiere blu conferite dall’Unione Europea è fraudolenta; vengono infatti concesse sulla base di rapporti in linea con gli interessi dell’industria turistica, grazie a mazzette, perché la corruzione è strettamente legata a questo tipo di sviluppo e in realtà milioni di turisti fanno il bagno in un miscuglio di merda, prodotti chimi­ci industriali, residui tossici dell’agricoltura e, con un po’ di fortuna, acqua. (pp.106-1079

Sarebbe lunga, ma anche facile da stendere, la lista di chi, grazie a leggi liberali legate al merca­to, si crede padrone del mare. Al di là delle con­siderazioni biologiche, bioetiche, ecologiche e di semplice buon senso, è fondamentale riprendere possesso del mare in nome dell’umanità, indivi­duare gli spazi recuperabili e metterli in salvo dall’avidità immobiliare e turistica.

Urge realizzare finalmente un censimento del­le specie e concedere risorse per far rispettare i divieti di pesca. Urge adottare nuove misure a li­vello europeo – se davvero l’Unione Europea ser­ve a qualcosa -, misure che limitino l’inquina­mento primario del mare, per esempio l’inquina­mento acustico, chimico ed estetico provocato dalle centinaia di migliaia di imbarcazioni la cui unica giustificazione è l’ozio irrazionale dei ric­chi. E naturalmente urge limitare la produzione di rifiuti non riciclabili che concludono il loro viaggio in mare. (p.107)

Repubblica, 20 agosto 2006

SENZA PENA NÉ GLORIA p.109

José Augusto Ramón Pinochet Ugarte, alias Ramón Ugarte, alias José Pinochet, alias Mister Escudero, alias J. A. Ugarte, solo per citare alcuni dei tanti pseudonimi usati per aprire conti ] correnti milionari nelle banche di Stati Uniti, Jersey, Grand Cayman, Svizzera e Hong Kong, è morto senza pena né gloria, così come ha vissuto i suoi novantuno anni di miserabile vigliacco, a cui si riconoscevano solo tre talenti: tradire, mentire e rubare.
Quando era all’apice della sua effimera gloria e sognava di gettare le basi di un nazional cattolicesimo alla cilena, non potendo proclamarsi caudillo secondo l’esempio di Franco (Pinochet fu l’unico straniero a piangere ai funerali dell’o­metto di El Ferrol), si autoproclamò «Capitano » Generale Benemerito della Patria», chiese a uno f stilista che disegnava uniformi di aumentare di cinque centimetri l’altezza del suo berretto, vi aggiunse un sinistro mantello alla Dracula e infine si fece dare un bastone da maresciallo di lager nazista. (pp.109-10)

L’11 settembre 1973 Pinochet tradì il giuramento di fedeltà alla costituzione e all’ulti­mo momento – i vigliacchi sono sempre indecisi – si piegò al golpe pianificato, finanziato e diret­to da Henry Kissinger (premio Nobel per la pace), all’epoca segretario di Stato del presidente Richard Nixon.(p.110)

In breve tempo, dopo che Salvador Allende morì difendendo la costituzione e le istituzioni democratiche, Pinochet spalancò le fogne perché le belve dell’orrore s’impadronissero del paese. 1 delatori che denunciavano attività della resistenza avevano diritto a una parte dei beni sequestrati ai «sovversivi», i soldati avevano diritto di saccheggiare, ovvero di rubare dalle posate alle galline, e gli ufficiali amministravano il bottino di guerra appropriandosi di abitazio­ni, veicoli, risparmi, in una misura che non sarà mai possibile determinare. Ogni soldato, ogni poliziotto, ogni ufficiale fece fortuna trafficando con l’orrore. Una madre voleva sapere se il figlio arrestato era ancora in vita? In cambio dell’atto di proprietà della sua casa, riceveva un mucchio di bugie, come per esempio che il figlio era stato visto in Europa e presto si sarebbe messo in contatto con lei. Non ci fu un solo uomo in uniforme che non avesse partecipato al saccheg­gio, nemmeno uno ha le mani pulite.
A questi si aggiunsero i giudici che per sedici anni mancarono al loro dovere, che legittimaro­no le ruberie e assicurarono l’impunità agli assassini, e anche la destra cilena, che pur di prendere parte al saccheggiamento delle ricchezze naturali, legname, pesce e risorse minerarie, permise di trasformare il Cile, che fino al 1973 esportava manufatti molto quotati
sul mercato mondiale – prodotti dell’industria tessile per esempio -, in un paese dipendente da tutto e da tutti, perché oggi non si produce uno spillo, e ogni cosa, dalla prima all’ultima, è importata. (pp.110-111-112)

Mentre le basi dell’economia, della cultura e della storia sociale venivano distrutte attraverso privatizzazioni, comprese quelle di sanità e istruzione, qualunque tentativo di protesta era schiacciato con assassini, torture, sequestri o l’esilio. Pinochet non ci lascia altro che questo, un paese in bancarotta e senza futuro.
E ora è morto godendosi la sua impunità con tutto il cinismo che ha sempre sfoggiato. (p.112)

Di lui non resta assolutamente nulla degno di essere ricordato, forse il fetore, che ben presto sarà disperso dai venti leali del Pacifico. (p.113)

Dicembre 2006