EUGENIO MONTALE – TUTTE LE POESIE

EUGENIO MONTALE – TUTTE LE POESIE
MONDADORI – COLLANA OSCAR GRANDI CLASSICI – XXVII ed 2013

A CURA DI: Giorgio Zampa

INTRODUZIONE
Di Giorgio Zampa p. IX

CRONOLOGIA p. LV

OSSI DI SEPPIA (1920-1927) p. 3

IN LIMINE p. 5

MOVIMENTI p. 9

I LIMONI p.11
[…]
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
[…]
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità. (pp. 11-12)

CORNO INGLESE p. 13
[…]
il vento che nasce e muore
nell’ora che lenta s’annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.

OSSI DI SEPPIA p. 27

NON CHIEDERCI LA PAROLA (P. 29)
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO p. 30
Meriggiare 1 pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia 2
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche 3.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare 4
mentre si levano tremuli scricchi 5
di cicale dai calvi picchi 6.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia 7
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia 8.
Trascorrere il meriggio nella luce abbagliante e nella contemplazione,
vicino al recinto arroventato di un giardino,
ascoltare tra i pruni e le sterpaglie
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o sulla pianta della veccia
spiare le file di formiche rosse
che ora si dipanano ora si riavvicinano
al di sopra di piccolissimi mucchietti di terra.
Osservare tra le fronde il battito
lontano di brandelli luminescenti di mare,
mentre dalle cime rocciose e spoglie
si levano i versi vibranti delle cicale.
E avanzando nel sole abbagliante
percepire con triste sgomento
come la vita intera e il suo tormento
assomiglino a camminare lungo una muraglia
RIPENSO IL TUO SORRISO p. 32
Ripenso il tuo sorriso 1, ed è per me un’acqua limpida 2
scorta per avventura tra le petraie d’un greto,
esiguo specchio in cui guardi un’ellera 3 e i suoi corimbi;
e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano 4,
se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano 5.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie 6
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma…

MIA VITA (p. 33)
Mia vita, a te non chiedo lineamenti
fissi, volti plausibili o possessi.
Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso
sapore han miele e assenzio.

Il cuore che ogni moto tiene a vile
raro è squassato da trasalimenti.
Così suona talvolta nel silenzio
della campagna un colpo di fucile.

SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO p. 35
Spesso il male di vivere 1 ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa 2, era il cavallo stramazzato 3.
Bene non seppi, fuori del prodigio 4
che schiude la divina Indifferenza 5:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Spesso mi sono imbattuto nel male di vivere:
era il torrente che gorgoglia, stretto nel suo fluire,
era l’accartocciarsi della foglia
inaridita, era il cavallo stramazzato.
Non conobbi altra salvezza se non il prodigio
che la divina Indifferenza ci spalanca:
era la statua nel meriggio sonnolento, e la nuvola,
e il falco, levatosi in alto, nel cielo.

SO L’ORA p. 38
So l’ora in cui la faccia più impassibile
è traversata da una cruda smorfia:
s’è svelata per poco una pena invisibile.
Ciò non vede la gente nell’affollato corso.

Voi, mie parole, tradite invano il morso
secreto, il vento che nel cuore soffia.
La piú vera ragione è di chi tace.
il canto che singhiozza è un canto di pace.

FELICITÀ RAGGIUNTA p. 40
Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama.

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
e’ dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.

FORSE UN MATTINO ANDANDO p. 42
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

LA FARANDOLA DEI FANCIULLI p. 45

La farandola dei fanciulli sul greto
era la vita che scoppia dall’arsura.
Cresceva tra rare canne e uno sterpeto
il cespo umano nell’aria pura.

il passante sentiva come un supplizio
il suo distacco dalle antiche radici.
Nell’età d’oro florida sulle sponde felici
anche un nome, una veste, erano un vizio.

DEBOLE SISTRO AL VENTO p. 46

Debole sistro al vento
d’una persa cicala,
toccato appena e spento
nel torpore ch’esala.

Dirama dal profondo
in noi la vena
segreta: il nostro mondo
si regge appena.

Se tu l’accenni, nell’aria
bigia treman corrotte
le vestigia
che il vuoto non ringhiotte.

Il gesto indi s’annulla,
tace ogni voce,
discende alla sua foce
la vita brulla.

CIGOLA LA CARRUCOLA DEL POZZO p. 47

Cigola la carrucola del pozzo,

l’acqua sale alla luce e vi si fonde.

Trema un ricordo nel ricolmo secchio,

nel puro cerchio un’immagine ride.

Accosto il volto a evanescenti labbri:

si deforma il passato, si fa vecchio,

appartiene ad un altro…

Ah che già stride

la ruota, ti ridona all’atro fondo,

visione, una distanza ci divide.

SUL MURO GRAFITO p. 50

Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
l’arco del cielo appare
finito.

Chi si ricorda più del fuoco ch’arse
impetuoso
nelle vene del mondo; in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchine
se la muraglia e l’usata strada
nel futuro che s’apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.

MEDITERRANEO p. 51

A VORTICE S’ABBATTE p. 53
Sul mio capo reclinato
un suono d’agri lazzi.
Scotta la terra percorsa
da sghembe ombre di pinastri,
e al mare là in fondo fa velo
più che i rami, allo sguardo,
l’afa che a tratti erompe
dal suolo che si avvena.
Quando più sordo o meno il ribollio dell’acque
che s’ingorgano
accanto a lunghe secche mi raggiunge:
o è un bombo talvolta ed un ripiovere
di schiume sulle rocce.
Come rialzo il viso, ecco cessare
i ragli sul mio capo; e via scoccare
verso le strepeanti acque,
frecciate biancazzurre, due ghiandaie.

HO SOSTATO TALVOLTA NELLE GROTTE p. 56
[…]Così, padre, dal tuo disfrenamento
si afferma, chi ti guardi, una legge severa.
Ed è vano sfuggirla: mi condanna
s’io lo tento anche un ciottolo
róso sul mio cammino,
impietrato soffrire senza nome,
o l’informe rottame
che gittò fuor del corso la fiumara
del vivere in un fitto di ramure e di strame. […]

GIUNGE A VOLTE, REPENTE p. 57
Giunge a volte, repente,
un’ora che il tuo cuore disumano
ci spaura e dal nostro si divide.
Dalla mia la tua musica sconcorda
allora, ed è nemico ogni tuo moto.
In me ripiego, vuoto
di forze, la tua voce pare sorda.
M’affisso nel pietrisco
che verso te degrada
fino alla ripa acclive che ti sovrasta,
franosa, gialla, solcata
da strosce d’acqua piovana.

Mia vita è questo secco pendio
mezzo non fine, strada aperta a sbocchi
di rigagnoli, lento franamento.
È dessa ancora questa pianta
che nasce dalla devastazione
e in faccia ha i colpi del mare, ed è sospesa
fra erratiche forze di venti.

Questo pezzo di suolo non erbato
s’è spaccato perché nascesse una margherita.
In lei titubo al mare che mi offende,
manca ancora il silenzio nella mia vita.
Guardo la terra che scintilla,
l’aria è tanto serena che s’oscura.
E questa che in me cresce
è forse la rancura
che ogni figliolo, mare, ha per il padre.

NOI NON SAPPIAMO QUALE SORTIREMO p. 58
[…]Ancora terre straniere
forse ci accoglieranno; smarriremo
la memoria del sole, dalla mente
ci cadrà il tintinnare delle rime.
Oh la favola onde s’esprime
la nostra vita, repente
si cangerà nella cupa storia che non si racconta!
Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è: che un poco del tuo dono
sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.
Lontani andremo e serberemo un’eco
della tua voce, come si ricorda
del sole l’erba grigia
nelle corti scurite, tra le case. […]

AVREI VOLUTO SENTIRMI p. 59
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori dal tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace uomo che tarda
all’atto, che nessuno, poi, distrugge.
Volli cercare il male
che tarla il mondo, la piccola stortura
d’una leva che arresta
l’ordegno universale; e tutti vidi
gli eventi del minuto
come pronti a disgiungersi in un crollo.
Seguìto il solco di un sentiero m’ebbi
l’opposto in cuore, col suo invito; e forse
m’occorreva il coltello che recide,
la mente che decide e si determina.
Altri libri occorrevano
a me, non la tua pagina rombante.
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.

POTESSI ALMENO COSTRINGERE p. 60
[…]io che sognava rapirti
le salmastre parole
in cui natura ed arte si confondono,
per gridar meglio la mia malinconia
di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.
Ed invece non ho che le lettere fruste
dei dizionari, e l’oscura
voce che amore detta s’affioca,
si fa lamentosa letteratura. […]

DISSIPA TU SE LO VUOI p. 61

Dissipa tu se lo vuoi
questa debole vita che si lagna,
come la spugna il frego
effimero di una lavagna.
M’attendo di ritornare nel tuo circolo,
s’adempia lo sbandato mio passare.
La mia venuta era testimonianza
di un ordine che in viaggio mi scordai,
giurano fede queste mie parole
a un evento impossibile, e lo ignorano.
Ma sempre che tradii
la tua dolce risacca su le prode
sbigottimento mi prese
quale d’uno scemato di memoria
quando si risovviene del suo paese.
Presa la mia lezione
più che dalla tua gloria
aperta, dall’ansare
che quasi non dà suono
di qualche tuo meriggio desolato,
a te mi rendo in umiltà. Non sono
che favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato.

MERIGGI E OMBRE p.63
I p. 65

FINE DELL’INFANZIA p. 65

[…]la musica dell’anima inquieta
Che non si decide. (p. 65)
Volarono anni corti come giorni,
sommerse ogni certezza un mare florido
e vorace che dava ormai l’aspetto
dubbioso dei tremanti tamarischi. (p. 69)
Giungeva anche per noi l’ora che indaga.
La fanciullezza era morta in un giro a tondo.
[…]Volava la bella età come i barchetti sul filo
del mare a vele colme.[…]
L’AGAVE SU LO SCOGLIO p. 71
[…]Ore perplesse, brividi
D’una vita che fugge
Come acqua tra le dita;
inafferrati eventi,
luci-ombre, commovimenti
delle cose malferme della terra; […]

CLIVO p. 79
[…]
Ma ora lungi è il mattino,
sfugge il chiarore e s’aduna
sovra eminenze e frondi,
e tutto è più raccolto e più vicino
come visto a traverso di una cruna;
ora è certa la fine,
e s’anche il vento tace
senti la lima che sega
assidua la catena che ci lega.
Come una musicale frana
divalla il suono, s’allontana.
Con questo si disperdono le accolte
voci dalle volute
aride dei crepacci[…]

II p. 81

III p. 85

CRISALIDE p.87

[…]
Così va la certezza d’un momento
con uno sventolio di tende e di alberi
tra le case; ma l’ombra non dissolve
che vi reclama, opaca. M’apparite
allora, come me, nel limbo squallido
delle monche esistenze; e anche la vostra
rinascita è uno sterile segreto,
un prodigio fallito come tutti
quelli che ci fioriscono d’accanto. […]
Ah crisalide, com’è amara questa
tortura senza nome che ci volve
e ci porta lontani – e poi non restano
neppure le nostre orme sulla polvere;
e noi andremo innanzi senza smuovere
un sasso solo della gran muraglia;
e forse tutto è fisso, tutto è scritto,
e non vedremo sorgere per via
la libertà, il miracolo,
il fatto che non era necessario! (pp.88-89)

MAREZZO p. 90
[…]
Fuori è il sole: s’arresta
nel suo giro e fiammeggia.
Il cavo cielo se ne illustra ed estua,
vetro che non si scheggia.
Un pescatore da un canotto fila
la sua lenza nella corrente.
Guarda il mondo del fondo che si profila
come sformato da una lente. (p. 90)
Si struggono i pensieri troppo soli.
Tutto fra poco si farà più ruvido,
fiorirà l’onda di più cupe strisce.
Ora resta così, sotto il diluvio
del sole che finisce. (pp. 90-91)
Parli e non riconosci i tuoi accenti.
La memoria ti appare dilavata.
Sei passata e pur senti
la tua vita consumata.
Ora, che avviene?, tu riprovi il peso
di te, improvvise gravano
sui cardini le cose che oscillavano,
e l’incanto è sospeso.
Ah qui restiamo, non siamo diversi.
Immobili così. Nessuno ascolta
la nostra voce più. Così sommersi
in un gorgo d’azzurro che s’infolta. (pp. 91-92)

CASE SUL MARE p. 93
ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.[…]
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno. (pp. 93-94)

INCONTRO p. 98
Tu non m’abbandonare mia tristezza
sulla strada
che urta il vento forano
co’ suoi vortici caldi, e spare; cara
tristezza al soffio che si estenua: e a questo,
sospinta sulla rada
dove l’ultime voci il giorno esala
viaggia una nebbia, alta si flette un’ala
di cormorano.

La foce è allato del torrente, sterile
d’acque, vivo di pietre e di calcine;
ma più foce di umani atti consunti,
d’impallidite vite tramontanti
oltre il confine
che a cerchio ci rinchiude: visi emunti,
mani scarne, cavalli in fila, ruote
stridule: vite no: vegetazioni
dell’altro mare che sovrasta il flutto. (p. 98)
Se mi lasci anche tu, tristezza, solo
presagio vivo in questo nembo, sembra
che attorno mi si effonda
un ronzio qual di sfere quando un’ora
sta per scoccare;
e cado inerte nell’attesa spenta
di chi non sa temere
su questa proda che ha sorpresa l’onda
lenta, che non appare.

Forse riavrò un aspetto: nella luce
radente un moto mi conduce accanto
a una misera fronda che in un vaso
s’alleva s’una porta di osteria.
A lei tendo la mano, e farsi mia
un’altra vita sento, ingombro d’una
forma che mi fu tolta; e quasi anelli
alle dita non foglie mi si attorcono
ma capelli.

Poi più nulla. Oh sommersa!: tu dispari
qual sei venuta, e nulla so di te.[…] (p. 99)

RIVIERE p. 101
[…]
Oh allora sballottati
come l’osso di seppia dalle ondate
svanire a poco a poco;
diventare
un albero rugoso od una pietra
levigata dal mare; nei colori
fondersi dei tramonti; sparir carne
per spicciare sorgente ebbra di sole,
dal sole divorata…
Erano questi,
riviere, i voti del fanciullo antico
che accanto ad una rosa balaustrata
lentamente moriva sorridendo.

Quanto, marine, queste fredde luci
parlano a chi straziato vi fuggiva.
Lame d’acqua scoprentisi tra varchi
di labili ramure; rocce brune
tra spumeggi; frecciare di rondoni
vagabondi…
Ah, potevo
credervi un giorno o terre,
bellezze funerarie, auree cornici
all’agonia d’ogni essere.
Oggi torno
a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore
par sciogliersi in ricordi lieti – e atroci.
Triste anima passata
e tu volontà nuova che mi chiami,
tempo è forse d’unirvi
in un porto sereno di saggezza. (pp. 103-104)

LE OCCASIONI
1928-1939 p. 107

IL BALCONE p. 109
LA vita che dà barlumi
È quella che sola tu scorgi.
A lei ti sporgi da questa
Finestra che non s’illumina. (p. 111)

I p. 113

CARNEVALE DI GERTI p. 124
[…]
Come tutto si fa strano e difficile
come tutto è impossibile , tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse
in questi disguidi del possibile.
Ritorna là fra i morti balocchi
ove è negato pur morire;e col tempo che ti batte
al polso e all’esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s’aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco
quella che mi additò un piombo raggelato
alle mie , alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono. (pp. 125-126)

II – MOTTETTI p. 137

NON RECIDERE FORBICE p. 156
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre. (p. 156)

III p. 159

IV p. 165

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo ancora un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

COSTA SAN GIORGIO p. 173

Tutto è uguale; non ridere: lo so,
lo stridere degli anni fin dal primo,
lamentoso, sui cardini, il mattino
un limbo sulla stupida discesa –
e in fondo il torchio del nemico muto
che preme…
Se una pendola rintocca
Dal chiuso porta il tonfo del fantoccio
Ch’è abbattuto. (pp. 173-174)

L’ESTATE p. 175
[…]e qualcosa che va e tropp’altro che
Non passerà la cruna…
Occorrono troppe vite per farne una.

LA BUFERA E ALTRO
1940-1954 p. 193

I – FINISTERRE p. 195

GIORNO E NOTTE p. 209
Anche una piuma che vola può disegnare
la tua figura, o il raggio che gioca a rimpiattino
tra i mobili, il rimando dello specchio
di un bambino, dai tetti. Sul giro delle mura
strascichi di vapore prolungano le guglie
dei pioppi e giù sul trespolo s’arruffa il pappagallo
dell’arrotino. Poi la notte afosa
sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura
fatica di affondare per risorgere eguali
da secoli, o da istanti, d’incubi che non possono
ritrovare la luce dei tuoi occhi nell’antro
incandescente – e ancora le stesse grida e i lunghi
pianti sulla veranda
se rimbomba improvviso il colpo che t’arrossa
la gola e schianta l’ali, o perigliosa
annunziatrice dell’alba,
e si destano i chiostri e gli ospedali
a un lacerìo di trombe…

A MIA MADRE p. 211
Ora che il coro delle coturnici

ti blandisce dal sonno eterno, rotta

felice schiera in fuga verso i clivi

vendemmiati del Mesco, or che la lotta

dei viventi più infuria, se tu cedi

come un’ombra la spoglia

(e non è un’ombra,

o gentile, non è ciò che tu credi)

chi ti proteggerà? La strada sgombra

non è una via, solo due mani, un volto,

quelle mani, quel volto, il gesto di una

vita che non è un’altra ma se stessa,

solo questo ti pone nell’esilio

folto d’anime e voci in cui tu vivi.

E la domanda che tu lasci è anch’essa

un gesto tuo, all’ombra delle croci.

II – DOPO p. 213
III – INTERMEZZO p. 219
DUE NEL CREPUSCOLO p. 221
Fluisce fra te e me sul belvedere
un chiarore subacqueo che deforma
col profilo dei colli anche il tuo viso.
Sta in un fondo sfuggevole, reciso
da te ogni gesto tuo; entra senz’orma,
e sparisce, nel mezzo che ricolma
ogni solco e si chiude sul tuo passo:
con me tu qui, dentro quest’aria scesa
a sigillare
il torpore dei massi.

Ed io riverso
nel potere che grava attorno, cedo
al sortilegio di non riconoscere
di me più nulla fuor di me; s’io levo
appena il braccio, mi si fa diverso
l’atto, si spezza su un cristallo, ignota
e impallidita sua memoria, e il gesto
già più non m’appartiene;
se parlo, ascolto quella voce attonito,
scendere alla sua gamma più remota
o spenta all’aria che non la sostiene

Tale nel punto che resiste all’ultima
consunzione del giorno
dura lo smarrimento; poi un soffio
risolleva le valli in un frenetico
moto e deriva dalle fronde un tinnulo
suono che si disperde
tra rapide fumate e i primi lumi
disegnano gli scali.

… le parole
tra noi leggere cadono. Ti guardo
in un molle riverbero. Non so
se ti conosco; so che mai diviso
fui da te come accade in questo tardo
ritorno. Pochi istanti hanno bruciato
tutto di noi: fuorchè due volti, due
maschere che s’incidono, sforzate
di un sorriso. (pp. 221-222)

IV – “FLASHES” E DEDICHE p. 227
V – SILVAE p. 245

NELLA SERRA p. 249
[…]

Nella serra

S’empì d’uno zampettìo
di talpe la limonaia,
brillò in un rosario di caute
gocce la falce fienaia.

S’accese sui pomi cotogni,
un punto, una cocciniglia,
si udì inalberarsi alla striglia
il poney – e poi vinse il sogno.

Rapito e leggero ero intriso
di te, la tua forma era il mio
respiro nascosto, il tuo viso
nel mio si fondeva, e l’oscuro

pensiero di Dio discendeva
sui pochi viventi, tra suoni
celesti e infantili tamburi
e globi sospesi di fulmini

su me, su te, sui limoni… (p. 249)

NEL PARCO p. 250
Un riso che non m’appartiene
trapassa da fronde canute
fino al mio petto, lo scuote
un trillo che punge le vene,

e rido con te sulla ruota
deforme dell’ombra, mi allungo
disfatto di me sulle ossute
radici che sporgono e pungo

con fili di paglia il tuo viso….

VI – MADRIGALI PRIVATI p. 263
VII – CONCLUSIONI PROVVISORIE p. 273

SATURA
1962 – 1970 p. 279
XENIA I p. 287
XENIA II p. 303
1 p. 305
La morte non ti riguardava.
[…]E neppure
T’importava la vita e le sue fiere
Di vanità e ingordigie e tanto meno le
Cancrene universali che trasformano
Gli uomini in lupi.
Una tabula rasa; se non fosse
Che un punto c’era, per me incomprensibile,
e questo punto ti riguardava.

4 p. 308
[…]
Così eri: anche sul ciglio del crepaccio
Dolcezza e orrore in una sola musica.

HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO 5 p. 309
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

SATURA I p. 319
LA STORIA p. 323
1

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra
carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.

2

La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.

La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui. (pp. 323-324)

IL RASCHINO p. 326
Credi che il pessimismo
sia davvero esistito? Se mi guardo
d’attorno non ne è traccia.
Dentro di noi, poi, non una voce
che si lagni. Se piango è un controcanto
per arricchire il grande
paese di cuccagna ch’è il domani.
Abbiamo ben grattato col raschino
ogni eruzione di pensiero. Ora
tutti i colori esaltano la nostra tavolozza,
escluso il nero.

LA MORTE DI DIO p. 327

Tutte le religioni del Dio unico
Sono una sola: variano i cuochi e le cotture.
[…]
A UN GESUITA MODERNA p. 328
[…]Il tempo non conclude
perché non è neppure incominciato.
È neonato anche dio. A noi di farlo
vivere o farne a senza; a noi di uccidere
il tempo perché in lui non è possibile
l’esistenza.

NEL FUMO p. 329
Quante volte t’ho atteso alla stazione
nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo
tossicchiando, comprando giornali innominabili,
fumando Giuba poi soppresse dal ministro
dei tabacchi, il balordo!
Forse un treno sbagliato, un doppione oppure una
sottrazione. Scrutavo le carriole
dei facchini se mai ci fosse dentro
il tuo bagaglio, e tu dietro, in ritardo.
poi apparivi, ultima. È un ricordo
tra tanti altri. Nel sogno mi perseguita.

SATURA II p. 339

REALISMO NON MAGICO p. 343
[…]
Che cosa di noi resta
agli altri
(nulla di nulla all’Altro)
quando avremo dimesso
noi stessi
. .. e non penseremo ai pensieri
che abbiamo avuto perché
non lo permetterà
Chi potrà o non potrà,
questo non posso dirlo.

Ed è l’impaccio,
la sola obiezione che si fa
a chi vorrebbe abbattere il feticcio
dell’Inutilità. (p. 344)
NIENTE DI GRAVE p. 349
Forse l’estate ha finito di vivere.
Si sono fatte rare anche le cicale.
Sentirne ancora una che scricchia è un tuffo nel sangue.
La crosta del mondo si chiude, com’era prevedibile
se prelude a uno scoppio. Era improbabile
anche l’uomo, si afferma. Per la consolazione
di non so chi, lassù alla lotteria
è stato estratto il numero che non usciva mai.
Ma non ci sarà scoppio. Basta il peggio
che è infinito per natura mentre
il meglio dura poco. La sibilla trimurtica
esorcizza la Moira insufflando
vita nei nati-morti. È morto solo
chi pensa alle cicale. Se non se n’è avveduto
il torto è suo.

NELL’ATTESA p. 353
È strano che tanto tempo sia passato
dall’annuncio del grande crac: seppure
quel tempo e quella notizia siano esistiti.
L’abbiamo letto nei libri: il fuoco non li risparmia
e anche di noi rimarrà un’eco poco attendibile.
Attendo qualche nuova di me che mi rassicuri.
Attendo che mi si dica ciò che nasconde il mio nome.
Attendo con la fiducia di non sapere
perché chi sa dimentica persino
di essere stato in vita.

DIARIO DEL ’71 E DEL ’72 p. 419

DIARIO DEL ’71 p. 421

L’ARTE POVERA p. 424
[…]
È la parte di me che riesce a sopravvivere
Del nulla ch’era in me, del tutto ch’eri
Tu, inconsapevole.

A C. p. 430
Tentammo un giorno di trovare un modus
Moriendi che non fosse il suicidio
Né la sopravvivenza. Altri ne prese
Per noi l’iniziativa; e ora è tardi
Per rituffarci dallo scoglio.
Che un’anima malviva
Fosse la vita stessa nel suo diapason
Non lo crederesti mai: le ore incalzavano,
a te bastò l’orgoglio, a me la nicchia
dell’imbeccatore.

IMITAZIONE DEL TUONO p. 451
Pare che ogni vivente
Imiti un suo modello
Ignorandolo, impresa improponibile.
Ma il peggio tocca a chi il suo
Crede averlo davanti come una statua.[…]
Modellatevi, dico, anche sul nulla
Se v’illudete di potere ancora
Rasentare la copia di quel pieno
Che non è in voi!

I PRIMI DI LUGLIO p. 461
[…]
Sono pronto ripeto, ma pronto a che?
Non alla morte cui non credo né
al brulichio d’automi che si chiama la vita.
L’altravita è un assurdo, ripeterebbe
la sua progenitrice con tutte le sue tare.
L’oltrevita è nell’etere, quell’aria da ospedale
che i felici respirano quando cadono in trappola.
L’oltrevita è nel tempo che se ne ciba
per durare più a lungo nel suo inganno.
Essere pronti non vuol dire scegliere
tra due sventure o due venture oppure
tra il tutto e il nulla. E‘ dire io l’ho provato,
ecco il Velo, se inganna non si lacera. (p. 462)

DIARIO DEL ’72 p. 469

PRESTO O TARDI p. 471
[…]C’è chi ama
Bere la vita a gocce o a garganella;
ma la bottiglia è quella, non si può
riempirla quando è vuota.

VISITATORI p. 472
A ogni ritorno di stagione mi dico
Che anche la memoria è ciclica. Non ricordo
I miei fatti di ieri, le parole che ho detto o pubblicato
E mi assediano invece ingigantiti
Volti e gesti da tempo già scacciati
Dalla mente.

NON C’È MORTE p. 498
[…]e non è morte dove mai fu nascita.

QUADERNO DI QUATTRO ANNI p. 521

RIFLESSI NELL’ACQUA p. 541
Il consumo non può per necessità
Obliterare la nostra pelle.
Sopprimendo la quale… ma qui il monologante
Si specchiò nel ruscello. Vi si vedeva
Una sua emanazione ma disarticolata
E sbilenca che poi sparve addirittura.
Un nulla se n’è andato ch’era anche parte
Di me, disse: la fine può procedere
A passo di lumaca. E pensò ad altro.

IL VUOTO p. 547

E’ sparito anche il vuoto
dove un tempo si poteva rifugiarsi.
Ora sappiamo che anche l’aria
è una materia che grava su di noi.
Una materia immateriale, il peggio
che poteva toccarci.
Non è pieno abbastanza perché dobbiamo
popolarlo di fatti, di movimenti
per poter dire che gli apparteniamo
e mai gli sfuggiremo anche se morti.
Inzeppare di oggetti quello ch’è
il solo Oggetto per definizione
senza che a lui ne importi niente o turpe
commedia. E con che zelo la recitiamo!

QUESTO RIPUDIO MIO p. 572

Questo ripudio mio
Dell’iconolatria
Non si estende alla Mente
Che vi è sottesa e pretesa
Dagli idolatri.
Non date un volto a chi non ne possiede
Perché non è una fattura.
Piuttosto vergognatevi di averne uno
E così cieco e sordo fin che dura.

L’OMICIDIO NON è IL MIO FORTE p. 573
L’omicidio non è il mio forte.
Di uomini nessuno, forse qualche insetto,
qualche zanzara schiacciata con una pantofola
sul muro.
Per molti anni provvidero le zanzariere
A difenderle. In seguito, per lunghissimo tempo,
divenni io stesso insetto ma indifeso.
Ho scoperto ora che vivere
Non è questione di dignità o d’altra
Categoria morale. Non dipende,
non dipese da noi. La dipendenza
può esaltarci talvolta, non ci rallegra mai.

TERMINARE LA VITA p. 584
Termina la vita
Tra le stragi e l’orrore
È potuto accadere
Per l’abnorme sviluppo del pensiero
Poiché il pensiero non è mai buono in sé.
Il pensiero è aberrante per natura.
Era frenato un tempo da invisibili Numi,
ora gli idoli sono in carne ed ossa
e hanno appetito. Noi siamo il loro cibo.
Il peggio dell’orrore è il suo ridicolo.
Noi crediamo di assistervi imparziali
O plaudenti e ne siamo la materia stessa.
La nostra tomba non sarà certo un’ara
Ma il water di chi ha fame ma non testa.

LA VERITà p. 598

La verità è nei rosicchiamenti
Delle tarme e dei topi,
nella polvere ch’esce da cassettoni ammuffiti
e nelle croste dei “grana” stagionati.
La verità è la sedimentazione, il ristagno,
non la logorrea schifa dei dialettici.
È una tela di ragno, può durare,
non distruggetela con la scopa.
È beffa di scoliasti l’idea che tutto si muova,
l’idea che dopo un prima viene un dopo
fa acqua da tutte le parti. Salutiamo
gli inetti che non s’imbarcano. Si starà meglio
senza di loro, si starà anche peggio
ma si tirerà il fiato.

L’OBBROBRIO p. 601

Non fatemi discendere amici cari
fino all’ultimo gradino
della poesia sociale.
Se l’uno è poca cosa il collettivo
è appena frantumazione
e polvere, niente di più.
Se l’emittente non dà che borborigmi
che ne sarà dei recipienti? Solo
supporre che ne siano, immaginare
che il più contenga il meno, che un’accozzaglia
sia una totalità,
nulla di ciò fu creduto nei grandi secoli
che rimpiangiamo perché non ci siamo nati
e per nostra fortuna ci è impossibile
retrocedere.

NON è ANCORA PROVATO CHE I MORTI p. 616
Non è ancora provato che i morti
Vogliano resuscitare.
A volte li sentiamo accanto a noi
Perché questa è la loro eredità.
Non è gran cosa, un gesto una parola
Eppure non spiega nulla
Dire che sono scherzi della memoria.
La nostra testa è labile, non può contenere
Molto di ciò che fu, di ciò che è o che sarà;
la nostra testa è debole, fa un’immane fatica
per catturare il più e il meglio di un ectoplasma
che fu chiamato vita e che per ora non ha un nome migliore.

ALTRI VERSI P. 645
I p. 647
[…]
Non si tarda ad apprendere che gli anni
Sono battibaleni e che il passato
È già il futuro. E il guaio è che l’incomprensibile
È la sola ragione che ci sostiene.
Se si fa chiaro che le Cause Prime
Già contenevano in sé lo scoppio del ridicolo
Si dovrà pure cercare altrove senza successo
Perché l’avvenire è già passato da un pezzo.

COME SI RESTRINGE L’ORIZZONTE p. 669
[…]
La felicità
Sarebbe assaporare l’inesistenza
Pur essendo viventi neppure colti dal dubbio di una fine possibile.

IN ORIENTE p. 687

Forse divago dalla retta via.
Questa biforcazione tra Sunna e Scia
Non distrugge il mio sonno ma fa di me l’alunno.
È come fare entrare lo spago in una cruna
D’ago.

ALL’ALBA p. 688
Lo scrittore suppone (e del poeta
Non si parli nemmeno)
Che morto lui le sue opere
Lo rendano immortale.
L’ipotesi non è peregrina,
ve la do per quel che vale.
Nulla di simile penso nel beccafico
Che consuma il suo breakfast giù nell’orto.
Egli è certo di vivere; il filosofo
Che vive a pianterreno
Ha invece più di un dubbio. Il mondo può
Fare a meno di tutto, anche di sé.

MONOLOGO p. 689
[…]
Poi lunghi tratti di vita
Appaiono scancellati
Mi sembra sciocco chi crede
Che la vita non soffre d’interruzioni
Non si tratta di morte e resurrezioni
Ma di lunghe discese agl’Inferi dove ribolle
Qualche cosa non giunta al punto di rottura
Ma questo sarebbe la morte che detestiamo
Così ci contentiamo di un ribollìo
Che è come un tuono lontano,
qualcosa sta accadendo nell’Universo
una ricerca di se stesso
di un senso per poi ricominciare
e noi a rimorchio, cascami
che si buttano via
o cade ciascuno da sé.

II p. 691

QUADERNO DI TRADUZIONI p. 729

POESIE DISPERSE p. 775

I p. 777

Orsù cammina! La strada conosci,
ora sparsa di subdoli ostacoli, ora squallida e rada
di quieti rifugi. Sapesti i tentacoli
del dubbio, assai volte. Procedi ancora.
Perchè riottoso t’arresti? Perchè?
Cammina.
Procedi più cauto. Mortifica in te ciò che indaga
e spera, curioso. Conquistati una libertà
recluso. Non lauto premio e non paga
esigi dal tuo viaggio. Purifica dal desiderio
il tuo pensiero, santifica l’andare cotidiano.
Cammina: tutto che già vedesti, ritroverai…
Avvezzati ed ama il monotono andare: pensa
che se hai molto percorsa di strada
più ne percorrerai.
Guardati innanzi: non beli, non lai,
o camminante; con le tue dita
non riaprire l’accesa ferita:
e se il desiderio di volgerti mai
t’assalga, tu frenalo e pensa
che incontro a ciò che passò
tu vai ancora. Cammina,
non crederti solo. Rigetta
da te questa oscena superbia.
L’orrenda tortura che tu
acquisci in te soffrono i più.
Una folla va spersa, non reietta,
attorno a te: che certo alcun dirige
il vostro andare. Senti
or l’opra dei suoi muti accenti
che a te persuade il destino
del tuo cammino?
Và, dunque, raccolto e dismemore
di lagni, uccidi i pigmei
satelliti della ragione,
i vani pensieri; così quale sei
o tu nel profondo a cui parlo
tu puoi risvegliarti un mattino,
trasfuso nel fuoco divino,
fratello: prosegui il cammino.
LETTERA LEVANTINA p. 802
Vorrei che queste sillabe

che con mano esitante di scolaro

io traccio a fatica per voi,

vi giungessero in un giorno d’oscura

noia; quando il meriggio

non rende altra parola

che quella d’una gronda che dimoia;

e in noi non resiste una sola

persuasione al minuto che róde

e i muri candidi ci si fanno incontro

e l’orrore di vivere sale a gola.[…]
Questo è il ricordo di me che vorrei porre

nella vostra vita:

essere l’ombra fedele che accompagna

e per sé nulla chiede;

l’imagine che esce fuori da una stampa tarmata,

scordata memoria d’infanzia, e crea un istante di pace

nella convulsa giornata.

E delle volte se una forza ignota

vi regge in un groviglio

di brucianti ore,

oh illudervi poteste

che v’ha preso per mano alcuni istanti

nel segreto,

non l’Angelo dei libri edificanti

ma il vostro amico discreto! (pp. 802-803)
Ah intendo, e lo sentite

voi pure: più che il senso

che ci rende fratelli degli alberi e del vento;

più che la nostalgia del terso

cielo che noi serbammo nello sguardo;

questo ci ha uniti antico

nostro presentimento

d’essere entrambi i feriti

dall’oscuro male universo. (p. 805)
II p. 817

III p. 825

I NUOVI CREDENTI (?) p. 840
I capelloni ignorano
Di inventare una nuova religione.
È più oscura delle altre ma sappiamo
Che il peggio non ha limiti e come strada
È la più larga e sicura.
I capelloni suonano
Trapani casseruole e scacciacani.
Il vecchio dio è un po’ sordo: li preferisce
Ai migliori complessi americani.
Il vecchio dio sa che non può guidare
Il suo gregge con fulmini o rampogne.
Sordo, non cieco, sa che la vergogna deve
Traboccare dov’è. E quanto al resto
Se la vedranno gli altri. È troppo presto
(troppo tardi) per lui.

L’INSONNIA FU IL MIO MALE p. 860

L’insonnia fu il mio male e anche il mio bene.
Poco amato dal sonno mi rifugiai nella veglia,
nel buio che non è poi tanto nero
se libera i fantasmi dalla luce
che li disgrega. Non sono tanto grati
questi ospiti notturni ma ce n’è uno
che non è sogno e forse è il solo vero.

TRADUZIONI p. 877

APPENDICE p. 881

NOTE AI TESTI p. 1055

BIBLIOGRAFIA p. 1165

INDICE DEI TITOLI E DEI CAPOVERSI p. 1193

INDICE GENERALE p.1223