RENÉ GUÉNON – IL RE DEL MONDO

RENÉ GUÉNON – IL RE DEL MONDO
(Le Roi du Monde)
ADELPHI – Collana: PICCOLA BIBLIOTECA n.51 – XVI ed. Luglio 2006
TRADUZIONE: Bianca Canadian
 

  1. NOZIONI SULL’«AGARTTHA» IN OCCIDENTE.

L’opera postuma di Saint-Yves d’Alveydre intitolata “Mission de l’Inde”, pubblicata nel 1910 (1), contiene la descrizione di un centro iniziatico misterioso indicato col nome di “Agarttha”; fra i lettori di quel libro, molti probabilmente pensarono che si trattasse solo di un racconto del tutto immaginario, una sorta di finzione priva di qualsiasi fondamento reale.[…]

D’altra parte, prima di allora, non era stata fatta menzione in Europa né dell'”Agarttha” né del suo capo, il “Brahmatma”, se non da uno scrittore di scarsa serietà, Louis Jacolliot, alla cui autorità non si può certo fare riferimento; da parte nostra, pensiamo che egli avesse realmente inteso parlare di quelle cose durante un suo soggiorno in India, ma per manipolarle poi, come tutto il resto, alla sua maniera eminentemente fantasiosa.

Tuttavia nel 1924 è avvenuto un fatto nuovo e inatteso: il libro “Bˆtes, Hommes et Dieux”, nel quale Ferdinand Ossendowski racconta le sue peripezie nel corso di un laborioso viaggio compiuto fra il 1920 e il 1921 attraverso l’Asia centrale, contiene, soprattutto nell’ultima parte, racconti quasi identici a quelli di Saint-Yves; e i molti commenti che hanno accompagnato questo libro ci offrono, crediamo, l’occasione di rompere finalmente il silenzio sulla questione dell'”Agarttha”. (pp.11-12)

Vi troviamo innanzitutto, cosa che poteva parere inverosimile anche in Saint-Yves, l’affermazione dell’esistenza di un mondo sotterraneo, le cui ramificazioni si estenderebbero dappertutto, sotto i continenti e anche sotto gli oceani, e per mezzo del quale si stabilirebbero invisibili comunicazioni fra tutte le regioni della terra[…] (p.12)

E poi, fra le strane coincidenze, vi è la storia di un’isola, oggi scomparsa, dove sarebbero vissuti uomini e animali straordinari[…]

Indipendentemente dalle testimonianze che Ossendowski stesso ci ha indicato, sappiamo da altre fonti che racconti di questo genere sono frequenti in Mongolia e in tutta l’Asia centrale; e aggiungeremo subito che qualcosa di simile esiste nelle tradizioni di quasi tutti i popoli.(p.13)

Anche se si ammettessero certi prestiti, resta sempre il fatto che Ossendowski dice talora cose che non hanno il loro equivalente nella “Mission de l’Inde”, e che egli non ha certo potuto inventare di sana pianta[…] (p.14)

II – REGALITÀ E PONTIFICATO p.17

Il titolo di «Re del Mondo», inteso nella sua accezione più elevata, più completa e insieme più rigorosa, viene attribuito propriamente a “Manu”, il Legislatore primordiale e universale il cui nome si ritrova, sotto forme diverse, presso numerosi popoli antichi; ricordiamo soltanto, a questo proposito, il “Mina” o “Menes” degli Egizi, il “Menw” dei Celti e il “Minosse” dei Greci. Tale nome, del resto, non indica un personaggio storico o più o meno leggendario.

Esso designa, in realtà, un principio, l’Intelligenza cosmica che riflette la Luce spirituale pura e formula la Legge (“Dharma”) propria delle condizioni del nostro mondo o del nostro ciclo di esistenza; ed è, al tempo stesso, l’archetipo dell’uomo considerato specialmente in quanto essere pensante (in sanscrito “manava”).

D’altra parte, l’importante qui è far rilevare che tale principio può essere reso manifesto da un centro spirituale stabilito nel mondo terrestre, da una organizzazione incaricata di conservare integralmente il deposito della tradizione sacra, di origine «non umana» (“apaurushˆya”), per mezzo della quale la Sapienza primordiale si comunica attraverso le epoche a coloro che sono in grado di riceverla. Il capo di tale organizzazione, in quanto rappresenta in certo modo “Manu” stesso, potrà legittimamente portarne il titolo e gli attributi […] (pp.17-18)

[…]si tratta di un doppio potere, al tempo stesso sacerdotale e regale.

Il carattere «pontificale», nel senso più vero che ha questa parola, appartiene realmente, e per eccellenza, al capo della gerarchia iniziatica, e ciò richiede una spiegazione: letteralmente, il “Pontifex” è un «costruttore di ponti», e questo titolo romano è in qualche modo, per la sua origine, un titolo «massonico»; ma, simbolicamente, il “Pontifex” è colui che adempie la funzione di mediatore, in quanto stabilisce la comunicazione fra questo mondo e i mondi superiori.

In tal senso, l’arcobaleno, il «ponte celeste», è un simbolo naturale del «pontificato»; e tutte le tradizioni gli attribuiscono significati perfettamente concordanti[…]. È il ponte che collega il mondo sensibile a quello sovrasensibile. (p.19)

Vi era, nel medioevo, un’espressione che riuniva in sé, in un modo che vale la pena di sottolineare, i due aspetti complementari dell’autorità: a quell’epoca, si parlava spesso di una contrada misteriosa chiamata «regno del prete Gianni». (p.20)

A prescindere da queste ultime considerazioni, l’idea di un personaggio che è sacerdote e re al tempo stesso non è molto comune in Occidente, benché, proprio all’origine del Cristianesimo, essa sia rappresentata in modo assai evidente dai «Re Magi»; ancora nel medioevo il potere supremo (stando per lo meno alle apparenze esteriori) era diviso fra il Papato e l’Impero (10). (p.22)

Richiamiamo particolarmente l’attenzione su questo: il centro di cui si tratta è il punto fisso che tutte le tradizioni sono concordi a designare simbolicamente come il «Polo», perché è attorno a esso che si effettua la rotazione del mondo, rappresentata generalmente dalla ruota, sia presso i Celti sia presso i Caldei e gli Indù (13). Tale è il vero significato dello “swastika”, segno che troviamo diffuso dappertutto, dall’Estremo Oriente all’Estremo Occidente (14), e che è essenzialmente il «segno del Polo». (p.23)

Da quanto abbiamo detto, si potrà già capire che il «Re del Mondo» deve avere una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice (e si noterà che non senza ragione quest’ultima parola ha la stessa radice di “rex” e “regere”), funzione che può riassumersi in una parola come «equilibrio» o «armonia», il che viene reso esattamente in sanscrito dal termine “Dharma” (17): con ciò intendiamo il riflesso, nel mondo manifestato, dell’immutabilità del Principio supremo. Si potrà capire anche, sulla base delle stesse considerazioni, perché il «Re del Mondo» ha come attributi fondamentali la «Giustizia» e la «Pace», che sono appunto le forme rivestite specificamente da tale equilibrio e tale armonia nel «mondo dell’uomo» (“manava-loka”). (pp.24-25)

III – LA «SHEKINAH» E «METATRON» p.27

[…] potremmo limitarci a far osservare che il titolo di «Re del Mondo», in ebraico e in arabo, è di solito attribuito a Dio stesso (1). Tuttavia, dato che ciò può dar luogo a qualche osservazione interessante, considereremo a questo proposito le teorie della Cabbala ebraica concernenti gli «intermediari celesti». Tali teorie, per altro, hanno un rapporto estremamente diretto col tema principale del presente studio.

Gli «intermediari celesti» di cui si tratta sono la “Shekinah” e “Metatron”; diremo innanzitutto che, nel suo senso più generale, la “Shekinah” è la «presenza reale» della Divinità.(p.27)

La “Shekinah” si presenta sotto aspetti molteplici, tra cui due principali, l’uno interno, l’altro esterno; d’altra parte vi è nella tradizione cristiana una frase che indica nel modo più chiaro questi due aspetti: «”Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax hominibus bonae voluntatis”». Le parole “Gloria” e “Pax” si riferiscono rispettivamente all’aspetto interno, in rapporto al Principio, e all’aspetto esterno, in rapporto al mondo manifestato[…] (p.28)

Secondo un altro punto di vista, la “Shekinah” è la sintesi delle “Sephiroth”; ora, nell’albero sephirotico, la «colonna di destra» è il lato della Misericordia, e la «colonna di sinistra» è il lato del Rigore (5); dobbiamo dunque ritrovare tali aspetti anche nella “Shekinah” e possiamo notare subito, per collegare questo a quanto precede, che, almeno sotto un certo rispetto, il Rigore si identifica con la Giustizia e la Misericordia con la Pace (6). (pp.30-31)

L’etimologia della parola “Metatron” è molto incerta; fra le diverse ipotesi formulate al riguardo una delle più interessanti è quella che la fa derivare dal caldaico “Mitra”, che significa «pioggia» e che, per la sua radice, ha un certo rapporto con la «luce».[…]

A questo proposito, bisogna notare che la dottrina ebraica parla di una «rugiada di luce» che emana dall’«Albero della Vita» e per mezzo della quale deve operarsi la resurrezione dei morti; e parla anche di una «effusione di rugiada» che rappresenta l’influsso celeste che si comunica a tutti i mondi, il che ricorda singolarmente il simbolismo alchemico e rosacroce.

«Il termine “Metatron” comporta tutte le accezioni di guardiano, Signore, inviato, mediatore»; egli è a l’autore delle teofanie nel mondo sensibile» (14); è l’«Angelo della Faccia» e anche il «Principe del Mondo»[…] (p.33)

D’altra parte, è stato detto, “Metatron” non ha solo l’aspetto della Clemenza, ma anche quello della Giustizia, non è solo il «Grande Sacerdote» (“Kohen ha-gadol”) ma anche il «Grande Principe» (“Sƒr ha-gadol”) e il «capo delle milizie celesti», come dire che in

lui è il principio del potere regale e insieme del potere sacerdotale o pontificale al quale corrisponde propriamente la funzione di «mediatore». (p.34)

IV – LE TRE FUNZIONI SUPREME p.37

Secondo Saint-Yves, il capo supremo dell'”Agarttha” porta il titolo di “Brahatma” (sarebbe più corretto scrivere “Brahmatma”), «supporto delle anime nello Spirito di Dio»; i suoi due coadiutori sono il “Mahatma”, «rappresentante dell’Anima universale» e il “Mahanga”, «simbolo di tutta l’organizzazione materiale del Cosmo» (1): questa è la divisione gerarchica che le dottrine occidentali rappresentano mediante il ternario «spirito, anima, corpo», e che è applicata qui secondo l’analogia costitutiva del Macrocosmo e del Microcosmo. (p.37)

Secondo Ossendowski, il “Mahatma” «conosce gli avvenimenti del futuro», e il “Mahanga” «dirige le cause di tali avvenimenti»; quanto al “Brahatma”, può «parlare a Dio faccia a faccia» (2), ed è facile capire che cosa significhi questo, ricordando che esso occupa il punto centrale in cui si stabilisce la comunicazione diretta del mondo terrestre con gli stati superiori e, per loro mezzo, con il Principio supremo (3). Del resto, l’espressione «Re del Mondo», intesa in senso stretto ed esclusivamente in rapporto col mondo terrestre, sarebbe assai inadeguata; ben più esatto, per certi riguardi, sarebbe attribuire al “Brahatma” quella di «Signore dei tre mondi» (4) perché, in ogni vera gerarchia, colui che possiede il grado superiore possiede al tempo stesso e per ciò stesso tutti i gradi subordinati, e quei «tre mondi» (che costituiscono il “Tribhuvana” della tradizione indù) sono, come spiegheremo più avanti, i regni che corrispondono rispettivamente alle tre funzioni che abbiamo appena enumerato. (pp.37-38)

«Il Re del Mondo» disse un lama a Ossendowski «è in rapporto con i pensieri di tutti coloro che dirigono il destino dell’umanità… Conosce le loro intenzioni e le loro idee. Se esse piacciono a Dio, il Re del Mondo le favorirà col suo aiuto invisibile; se dispiacciono a Dio, il Re provocherà il loro fallimento. Tale è il potere dato all'”Agharti” mediante la scienza misteriosa di “Om”, parola con cui diamo inizio a tutte le nostre preghiere». (p.39)

[…] e, in realtà, “Om” è un nome del “Logos”. (p.40)

Di fatto, secondo la tradizione indù, i tre elementi di questo monosillabo sacro simboleggiano rispettivamente i «tre mondi» ai quali alludevamo prima, cioè i tre termini del “Tribhuvana”: la Terra (“Bh–”), l’Atmosfera (“Bhuvas”), il Cielo (“Swar”), cioè, in altri termini, il mondo della manifestazione corporea, il mondo della manifestazione sottile o psichica, il mondo principiale non manifestato. (p.40)

[…] e i rapporti di subordinazione esistenti fra i diversi regni giustificano per il “Brahƒtmƒ” l’appellativo di «Signore dei tre mondi» che abbiamo già usato (8): «Questi è il Signore di tutte le cose, l’onniscente (che vede immediatamente tutti gli effetti nella loro causa), l’ordinatore interno (che risiede al centro del mondo e lo regge dal di dentro, dirigendone il movimento senza parteciparvi), la fonte (di ogni potere legittimo), l’origine e la fine di tutti gli esseri (della manifestazione ciclica di cui egli rappresenta la legge)» (9).
[…]il Mahatma incarna in certo senso un principio mediatore[…] (p.41)

Spieghiamoci con chiarezza ancora maggiore: al “Brahatma” appartiene la pienezza dei due poteri sacerdotale e regale, considerati principialmente e in certo senso allo stato indifferenziato; i due poteri si distinguono in seguito per manifestarsi, il “Mahatma” rappresenta allora in particolare il potere sacerdotale e il “Mahanga” il potere regale. Tale distinzione corrisponde a quella dei “Brahmani” e degli “Kshatriya”; essendo però «al di là delle caste», il “Mahatma” e il “Mahanga” hanno in se stessi, come il “Brahatma”, un carattere sacerdotale e regale a un tempo. A questo proposito, chiariremo un punto forse non ancora spiegato in modo soddisfacente e tuttavia molto importante: abbiamo alluso prima ai «Re Magi» del Vangelo, dicendo che essi riuniscono in sé i due poteri; diremo ora che tali personaggi misteriosi non rappresentano altro, in realtà, che i tre capi dell'”Agarttha” (10). Il “Mahanga” offre a Cristo l’oro e lo saluta come «Re»; il “Mahatma” gli offre l’incenso e lo saluta come «Sacerdote»; il “Brahatma”, infine, gli offre la mirra (cioè il balsamo d’incorruttibilità, immagine dell'”Amrita”) (11) e lo saluta come «Profeta» o Maestro spirituale per eccellenza. L’omaggio reso in tal modo al Cristo nascente, nei tre mondi che sono anche i loro rispettivi regni, dai rappresentanti autentici della tradizione primordiale, è nello stesso tempo, si noti bene, il pegno della perfetta ortodossia del Cristianesimo nei confronti di essa. (pp.42-43)

Vi è poi un’altra concordanza non meno degna di nota: Saint-Yves, descrivendo i diversi gradi o cerchi della gerarchia iniziatica, i quali sono in relazione con determinati numeri simbolici riferentisi particolarmente alle divisioni del tempo, termina dicendo che «il cerchio più alto e più vicino al centro misterioso si compone di dodici membri, che rappresentano l’iniziazione suprema e corrispondono, fra l’altro, alla zona zodiacale». Tale struttura si trova riprodotta nel cosiddetto «consiglio circolare» del “Dalai-Lama”, costituito dai dodici grandi “Namshan” (o “Nomekhan”); e la si può ritrovare, del resto, persino in certe tradizioni occidentali, in particolare in quelle che concernono i «Cavalieri della Tavola Rotonda». Aggiungeremo inoltre che i dodici membri del cerchio interno dell'”Agarttha”, dal punto di vista dell’ordine cosmico, non rappresentano soltanto i dodici segni dello Zodiaco, ma anche (e, benché le due interpretazioni non si escludano, saremmo tentati di dire «piuttosto»), i dodici “Aditya”, che sono altrettante forme del Sole, in rapporto con quegli stessi segni zodiacali (12); e naturalmente, come “Manu Vaivaswata” è chiamato «figlio del Sole», così il «Re del Mondo» ha tra i suoi emblemi anche il Sole. (pp.44-45)

[…] così come tutte le tradizioni particolari sono in fondo solo adattamenti della grande tradizione primordiale (p.45)

V – IL SIMBOLISMO DEL GRAAL p.47

Abbiamo appena alluso ai «Cavalieri della Tavola Rotonda»; non sarà fuori luogo accennare qui al significato della «cerca del Graal» che, nelle leggende di origine celtica, è presentata come loro funzione principale; si fa così allusione, in tutte le tradizioni, a qualcosa che, a partire da una certa epoca, sarebbe andato perduto o nascosto: il “Soma” degli Indù, per esempio, o lo “Haoma” dei Persiani, la «bevanda d’immortalità» che ha appunto un rapporto molto diretto col “Graal” poiché questo, si dice, è il vaso sacro che contiene il sangue di Cristo, anch’esso «bevanda d’immortalità». Altrove, il simbolismo è diverso: così, presso gli Ebrei, ciò che è andato perduto è la pronuncia del gran Nome divino (1); ma l’idea fondamentale è sempre la stessa e vedremo poi a che cosa corrisponde esattamente. Il Santo Graal, si dice, è la coppa che servì alla Cena e nella quale Giuseppe d’Arimatea raccolse poi il sangue e l’acqua che sgorgavano dalla ferita aperta nel fianco di Cristo dalla lancia del centurione Longino (2). Questa coppa, secondo la leggenda, sarebbe stata trasportata in Gran Bretagna da Giuseppe d’Arimatea e da Nicodemo (3); e in questo si deve vedere un legame fra la tradizione celtica e il Cristianesimo. (pp.47-48)

Ciò che ci mostra forse nel modo più netto il significato essenziale del Graal è quanto ci viene detto sulla sua origine: la coppa sarebbe stata intagliata dagli Angeli in uno smeraldo staccatosi dalla fronte di Lucifero al momento della sua caduta (5). Tale smeraldo ricorda in modo sorprendente l'”urnƒ”, la perla frontale che nel simbolismo indù (dal quale è passata nel Buddismo) spesso occupa il posto del terzo occhio di “Shiva”, rappresentando il «senso dell’eternità», se così si può dire, come abbiamo spiegato in altra sede (6). Del resto si dice poi che il Graal fu affidato ad Adamo nel Paradiso terrestre ma che, al momento della sua caduta, Adamo lo perse a sua volta. E infatti non poté portarlo con sé quando fu cacciato dall’Eden; cosa che diventa chiarissima se sottintendiamo il significato che abbiamo appena indicato. (pp.48-49)

In altri termini, il possesso del «senso dell’eternità» è legato a quello che tutte le tradizioni chiamano, come abbiamo già ricordato, lo «stato primordiale», la cui restaurazione costituisce il primo stadio della vera iniziazione, essendo la condizione preliminare per la conquista effettiva degli stati a sovrumani» (7). Il Paradiso terrestre, per altro, rappresenta propriamente il «Centro del Mondo» e quanto diremo in seguito sul significato originario della parola “Paradiso” lo farà capire ancor meglio.

Quanto segue può apparire più enigmatico: Seth ottenne di rientrare nel Paradiso terrestre e poté recuperare il prezioso vaso; ora il nome “Seth” esprime le idee di fondamento e di stabilità e perciò indica, in qualche modo, la restaurazione dell’ordine primordiale distrutto dalla caduta dell’uomo (8). E’ comprensibile dunque che Seth e quelli che dopo di lui possedettero il Graal abbiano potuto proprio per questo fondare un centro spirituale destinato a sostituire il Paradiso perduto, e che era come un’immagine di esso; dunque il possesso del Graal rappresenta la conservazione della tradizione primordiale nella sua integrità in un simile centro spirituale. La leggenda, del resto, non dice né dove né da chi il Graal fu custodito fino all’epoca di Cristo; ma l’origine celtica che gli si riconosce lascia intendere senza dubbio che i Druidi vi ebbero una parte importante e che devono essere considerati fra i custodi regolari della tradizione primordiale.

La perdita del Graal, o di qualcuno dei suoi equivalenti simbolici, significa in definitiva la perdita della tradizione con tutto ciò che essa comporta; ma, a dire il vero, tale tradizione è piuttosto nascosta che perduta, o almeno può essere perduta solo per quei centri secondari che abbiano cessato di essere in relazione diretta col centro supremo.(p.50)

si può dire allora che la tradizione è perduta per l’insieme dell’umanità, perché è conservata solo in alcuni centri rigorosamente chiusi, mentre la massa degli uomini non vi partecipa più in modo cosciente ed effettivo, contrariamente a quanto avveniva nello stato originario(11); tale è appunto la condizione dell’epoca attuale, il cui inizio risale, del resto, molto di là da quanto è accessibile alla storia ordinaria e «profana». (p.51)

[…] Secondo quanto abbiamo detto ora, il Graal rappresenta al tempo stesso due cose strettamente solidali l’una con l’altra: colui che possiede integralmente la «tradizione primordiale», che è giunto al grado di conoscenza effettiva che tale possesso implica essenzialmente, è, di fatto, proprio per questo reintegrato nella pienezza dello «stato primordiale». A queste due cose, «stato primordiale» e «tradizione primordiale», si riferisce il doppio senso che è inerente alla parola “Graal” […] (p.52)

[…] ricorderemo soltanto che la «Tavola Rotonda», costruita da Re Artù (13) secondo i piani di Merlino, era destinata a ricevere il Graal quando uno dei Cavalieri fosse riuscito a conquistarlo e l’avesse trasportato dalla Gran Bretagna in Armorica. La Tavola Rotonda è verosimilmente un simbolo molto antico, di quelli che furono sempre associati all’idea dei centri spirituali, custodi della tradizione […] (pp.52-53)

Per tornare al Graal, è facile rendersi conto che, fondamentalmente, il suo significato primo è in fondo lo stesso di quello che generalmente ha il vaso sacro, ovunque si trovi, e, in Oriente, la coppa sacrificale che in origine conteneva, come abbiamo osservato, il “Soma” vedico o lo “Haoma” mazdeo, cioè la «bevanda d’immortalità» capace di conferire o restituire, a coloro che la ricevono con le disposizioni richieste, il «senso dell’eternità». (p.54)

VI – «MELKI-TSEDEQ» p.55

Nelle tradizioni orientali si dice che, in una certa epoca, il “Soma” divenne sconosciuto sicché, nei riti sacrificali, si dovette sostituirlo con un’altra bevanda che di quel “Soma” primitivo era soltanto una figura (1); tale ruolo fu svolto principalmente dal vino, e a ciò si riferisce, presso i Greci, una gran parte della leggenda di Dioniso (2). Il vino, del resto, è spesso usato per rappresentare la vera tradizione iniziatica[…] (p.55)

Risulta da ciò che l’impiego del vino in un rito gli conferisce un carattere chiaramente iniziatico; tale è segnatamente il caso del sacrificio «eucaristico» di Melchisedec (4).

Ed è questo il punto essenziale su cui dobbiamo ora soffermarci.

Il nome Melchisedec, o più esattamente “Melki-Tsedeq”, di fatto non è che il nome con cui la funzione stessa del «Re del Mondo» si trova espressamente designata nella tradizione giudeo-cristiana. (pp.55-56)

“Melki-Tsedeq” è dunque re e sacerdote insieme; il suo nome significa «re di Giustizia», e nello stesso tempo è re di “Salem”, cioè della «Pace»; ritroviamo dunque qui, innanzitutto, la «Giustizia» e la «Pace», cioè proprio i due attributi fondamentali del «Re del Mondo».

Bisogna notare che la parola “Salem”, contrariamente all’opinione comune, in realtà non ha mai designato una città, ma che, se la si prende quale nome simbolico della residenza di “Melki-Tsedeq”, può essere considerata come un equivalente del termine “Agarttha”.(p.57)

[…]

Ora, “Melki-Tsedeq” è rappresentato come superiore ad Abramo, poiché lo benedice, e «senza possibilità di contraddizione, è l’inferiore che è benedetto dal superiore» (10); e, da parte sua, Abramo riconosce tale superiorità poiché gli fa dono delle decime, in segno di dipendenza.[…]

Se “Melki-Tsedeq” è dunque superiore ad Abramo, così è perché l’«Altissimo» (“Elion”), che è il Dio di “Melki-Tsedeq”, è a sua volta superiore all’«Onnipotente» (“Shaddai”), che è il Dio di Abramo[…] (p.58)

[…]il sacerdozio di “Melki-Tsedeq “è il sacerdozio di “El Elion”: dunque, se “El Elion” è “Emmanuel”, questi due sacerdozi sono uno solo, e il sacerdozio cristiano, che per altro comporta essenzialmente l’offerta eucaristica del pane e del vino, è veramente «secondo l’ordine di Melchisedec» (13). La tradizione giudeo-cristiana distingue due sacerdozi, uno «secondo l’ordine di Aronne», l’altro «secondo l’ordine di Melchisedec»; e questo è superiore a quello come Melchisedec è superiore ad Abramo, dal quale è uscita la tribù di Levi e, di conseguenza, la famiglia di Aronne (14). (p.59)

Per questo egli è «senza genealogia», poiché la sua origine «non è umana», essendo egli stesso il prototipo dell’uomo; ed è realmente «fatto simile al Figlio di Dio», poiché, attraverso la Legge che formula, egli è, per questo mondo, l’espressione e l’immagine del Verbo divino (17).

Si possono fare altre osservazioni, e prima di tutto questa: nella storia dei «Re Magi» noi vediamo tre personaggi distinti, che sono i tre capi della gerarchia iniziatica; in quella di “Melki-Tsedeq” ne vediamo uno solo, che però unisce in sé aspetti corrispondenti alle medesime tre funzioni. E’ così che taluni hanno potuto distinguere “Adoni-Tsedeq”, il «Signore di Giustizia», che si sdoppia in qualche modo in “Kohen-Tsedeq”, il «Sacerdote di Giustizia» e “Melki-Tsedeq”, il «Re di Giustizia»; questi tre aspetti possono di fatto essere considerati come riferentisi rispettivamente alle funzioni del “Brahƒtmƒ”, del “Mahƒtmƒ” e del “Mahƒnga” (18). Benché il nome “Melki-Tsedeq” designi propriamente solo il terzo aspetto, il suo significato generalmente si estende all’insieme dei tre, quindi, se è usato a preferenza degli altri, ciò avviene perché la funzione che esprime è la più vicina al mondo esterno, dunque quella che è manifestata nel modo più immediato. (pp.60-61)

Considerando il nome di “Melki-Tsedeq” nel suo significato più rigoroso, gli attributi propri del «Re di Giustizia» sono la bilancia e la spada; e tali appunto sono gli attributi di “Mikael”, considerato come l’«Angelo del Giudizio» (20). (p.61)

Per completare il discorso, citeremo quel che la Cabbala ebraica dice della “Shekinah”: essa è rappresentata nel «mondo inferiore» dall’ultima delle dieci “Sephiroth”, chiamata “Malkuth”, cioè il «Regno», designazione abbastanza interessante dal nostro attuale punto di vista. Ma è ancor più rilevante che, fra i sinonimi dati talora a “Malkuth”, si trovi “Tsedeq”, il «Giusto» (26). L’accostamento di “Malkuth” e di “Tsedeq”, ossia della Regalità (il governo del Mondo) e della Giustizia, si ritrova nel nome di “Melki-Tsedeq”. (p.63)

“Malkuth” è a il serbatoio in cui si riuniscono le acque che vengono dal fiume che sta in alto, cioè tutte le emanazioni (grazie o influssi spirituali) che essa poi diffonde in abbondanza» (27). (p.64)

Il serbatoio delle acque celesti è naturalmente identico al centro spirituale del nostro mondo: da lì partono i quattro fiumi del “Pardes”, dirigendosi verso i quattro punti cardinali. Per gli Ebrei, questo centro spirituale si identifica con la collina di Sion alla quale dànno l’appellativo di «Cuore del Mondo», comune per altro a tutte le a Terre Sante». (p.64)

«Il Tabernacolo della Santità” di Jehovah, la residenza della “Shekinah”, è il Santo dei Santi che è il cuore del Tempio, il quale è esso stesso il centro di Sion (Gerusalemme), come la santa Sion è il centro della Terra d’Israele, come la Terra d’Israele è il centro del mondo» (29). (p.65)

[…]

Tutti i centri spirituali secondari, costituiti in vista di adattamenti della tradizione primordiale a condizioni determinate, sono, come già abbiamo mostrato, immagini del centro supremo; Sion, in realtà, potrebbe non essere altro che uno di questi centri secondari e tuttavia identificarsi simbolicamente col centro supremo in virtù di tale similitudine. Come indica il suo nome, Gerusalemme è effettivamente un’immagine della vera “Salem”[…] (pp.65-66)

VII – «LUZ» E IL SOGGIORNO D’IMMORTALITÀ p.69

Le tradizioni riguardanti il «mondo sotterraneo» si ritrovano presso moltissimi popoli; non abbiamo intenzione di ricordarle tutte, anche perché alcune di esse non sembrano avere un rapporto diretto con l’argomento di cui ci occupiamo. Tuttavia si potrebbe osservare, in linea generale, che il «culto delle caverne» è sempre connesso all’idea di «luogo interiore» o di «luogo centrale», e che il simbolo della caverna e quello del cuore, sotto questo aspetto, sono assai vicini l’uno all’altro (1). D’altra parte, esistono realmente, in Asia centrale come in America e forse anche altrove, caverne e sotterranei dove alcuni centri iniziatici hanno potuto sussistere per secoli; ma, a prescindere da questo fatto, vi è, in tutto quanto viene riferito su questo argomento, una parte di simbolismo che non è difficile individuare; e possiamo ritenere persino che siano state ragioni di ordine simbolico a determinare la scelta di luoghi sotterranei dove installare tali centri iniziatici, piuttosto che ragioni di semplice prudenza.(p.69)

Fra le tradizioni a cui alludevamo, ve n’è una che presenta un interesse particolare: la troviamo nel Giudaismo e concerne una città misteriosa chiamata “Luz” (3). […]

Vicino a “Luz” vi è, si dice, un mandorlo (chiamato “luz” in ebraico) alla base del quale si trova una cavità attraverso cui si penetra in un sotterraneo (5); e questo sotterraneo conduce alla città, che è completamente nascosta. (p.70)

Da un altro punto di vista, va fatto anche un altro raffronto col Cielo: “Luz” è chiamata la «città azzurra», e questo colore, che è quello dello zaffiro (9), è il colore celeste. (p.72)

Torniamo alla parola ebraica “luz”, i cui diversi significati vanno esaminati con la massima attenzione: la parola ha comunemente il significato di «mandorla» (e anche di «mandorlo», poiché designa, per estensione, sia l’albero sia il frutto) o di «nocciolo»; ora il nocciolo è quanto vi è di più interiore e di più nascosto, ed è completamente chiuso, dal che deriva l’idea di «inviolabilità» (14) (che si ritrova nel nome dell'”Agarttha”). La parola “luz”, inoltre, è il nome che viene dato a una particella corporea indistruttibile, rappresentata simbolicamente come un osso durissimo, particella alla quale l’anima rimarrebbe legata dopo la morte e fino alla resurrezione (15). Come il nocciolo contiene il germe, e come l’osso contiene il midollo, questo “luz” contiene gli elementi virtuali necessari alla restaurazione dell’essere; essa si opererà sotto l’influsso della «rugiada celeste», rivivificando le ossa disseccate; a questo alludono le parole di san Paolo: «Seminato nella corruzione, risusciterà nella gloria» (16). Anche qui, come sempre, la «gloria» si riferisce alla “Shekinah”, considerata nel mondo superiore. La «rugiada celeste» è in stretta relazione con essa, come si è potuto vedere prima. Essendo imperituro (17), il “Luz” è nell’essere umano il «nocciolo d’immortalità», così come il luogo designato con lo stesso nome è il «soggiorno d’immortalità»: là si arresta, in entrambi i casi, il potere dell’«Angelo della Morte».(pp.74-75)

Si usa situare il “luz” verso l’estremità inferiore della colonna vertebrale, il che può sembrare abbastanza strano, ma può essere spiegato rifacendosi a ciò che la tradizione indù dice della forza chiamata “KundalinŒ” (20), che è una forma della “Shakti” considerata come immanente all’essere umano (21). Tale forza è rappresentata dalla figura di un serpente arrotolato su se stesso, in una regione dell’organismo sottile corrispondente all’estremità inferiore della colonna vertebrale. Così, almeno, nell’uomo comune; ma, per effetto di pratiche come quelle dello “Hatha-Yoga”, essa si risveglia, si dispiega e si eleva attraverso le «ruote» (“chakra”) o «loti» (“kamala”) che corrispondono ai diversi plessi, per raggiungere la regione corrispondente al «terzo occhio», cioè l’occhio frontale di “Shiva”. Questo stadio rappresenta la restaurazione dello «stato primordiale», in cui l’uomo ritrova il «senso dell’eternità» e, in tal modo, ottiene quello che altrove abbiamo chiamato l’immortalità virtuale. Fino a quel punto siamo ancora nello stato umano; in una fase ulteriore, “KundalinŒ” raggiunge finalmente la corona della testa, e quest’ultima fase si riferisce alla conquista effettiva degli stati superiori dell’essere. Da tale accostamento sembra risultare che la localizzazione del “luz” nella parte inferiore dell’organismo si riferisce soltanto alla condizione dell’«uomo decaduto»; e, per l’umanità terrestre considerata nel suo insieme, lo stesso vale per la localizzazione del centro spirituale supremo nel «mondo sotterraneo» (23). (pp.75-77)

VIII – IL CENTRO SUPREMO NASCOSTO DURANTE IL «KALI-YUGA» p.79

L'”Agarttha”, si dice, non fu sempre sotterranea, né lo rimarrà per sempre; verrà un tempo in cui, secondo le parole riportate da Ossendowski, «i popoli di “Agharti” usciranno dalle loro caverne e appariranno sulla superficie della terra» (1). […] (p.79)

[…]

Il periodo attuale è dunque un periodo di oscuramento e di confusione (3); le sue condizioni sono tali che, finché persistono, la conoscenza iniziatica deve necessariamente rimanere nascosta; da qui il carattere dei «Misteri» dell’antichità detta «storica» (la quale non risale neppure all’inizio di tale periodo) (4) e delle organizzazioni segrete di tutti i popoli: organizzazioni che conferiscono una iniziazione effettiva là dove sussiste ancora una vera dottrina tradizionale, ma non ne offrono che l’ombra quando lo spirito di tale dottrina ha cessato di vivificare i simboli, che ne sono soltanto la rappresentazione esteriore, e questo perché, per ragioni diverse, ogni legame cosciente col centro spirituale del mondo si è ormai spezzato; tale è il significato più specifico della perdita della tradizione, quello concernente in particolare determinati centri secondari che cessano di essere in rapporto diretto ed effettivo col centro supremo.

Si dovrebbe parlare, dunque, di qualcosa di nascosto, piuttosto che veramente perduto, perché non per tutti è perduto e vi è chi lo possiede ancora integralmente; se è così, altri hanno sempre la possibilità di ritrovarlo, purché sappiano cercarlo come si conviene, qualora cioè la loro intenzione sia diretta in modo che, attraverso le vibrazioni armoniche che risveglia secondo la legge delle «azioni e reazioni concordanti» (5), essa possa mettersi in comunicazione spirituale effettiva con il centro supremo (6).

Ossendowski precisa che il centro è divenuto sotterraneo «più di seimila anni fa», data che corrisponde con sufficiente approssimazione all’inizio del “Kali-Yuga” o «età nera», l’«età del ferro» degli antichi Occidentali, l’ultimo dei quattro periodi nei quali si divide il “Manvantara” (2); la sua ricomparsa deve coincidere con la fine di tale periodo. (p.81)

Tuttavia, man mano che si procede nel “Kali-Yuga”, l’unione con questo centro, sempre più chiuso e nascosto, diviene più difficile e nello stesso tempo divengono più rari i centri secondari che lo rappresentano esteriormente (8); sicché, quando questo periodo finirà, la tradizione dovrà essere di nuovo manifestata nella sua integrità, poiché l’inizio di ogni “Manvantara”, coincidendo con la fine del precedente, implica necessariamente, per l’umanità terrestre, il ritorno allo «stato primordiale» (9).

Attualmente in Europa ogni legame cosciente col centro per mezzo di organizzazioni regolari è interrotto, e così è da molti secoli; tale rottura, però, non è avvenuta tutt’a un tratto, ma in varie fasi successive (10). (p.82)

Il Rinascimento e la Riforma segnarono una nuova fase critica e, da ultimo, secondo quanto sembra indicare Saint-Yves, la rottura completa avrebbe coinciso coi trattati di Westfalia che, nel 1648, posero fine alla guerra dei Trent’Anni. […]

Da quell’epoca in poi, il deposito della conoscenza iniziatica non è più custodito realmente da nessuna organizzazione occidentale; così Swedenborg dichiara che la «Parola perduta» va ormai cercata fra i saggi del Tibet e della Tartaria;[…] (p.83)

IX – L’«OMPHALOS» E I BETILI p.85

Stando a quel che riferisce Ossendowski, il «Re del Mondo», in tempi lontani, apparve più volte in India e nel Siam «benedicendo il popolo con una mela d’oro sormontata da un agnello»; questo particolare assume tutta la sua importanza se lo si accosta a quanto dice Saint-Yves del «Ciclo dell’Agnello e dell’Ariete» (1). D’altra parte, e questo è ancora più notevole, nella simbolica cristiana esistono innumerevoli rappresentazioni dell’Agnello su una montagna dalla quale scendono quattro fiumi che sono evidentemente identici ai quattro fiumi del Paradiso terrestre (2). Abbiamo detto prima che l'”Agarttha”, anteriormente all’inizio del “Kali-Yuga”, portava un altro nome; tale nome era “Paradˆsha”, che in sanscrito significa «Contrada suprema», e ciò si adatta bene al centro spirituale per eccellenza, designato anche come il «Cuore del Mondo»; da questa parola i Caldei hanno tratto “Pardes” e gli Occidentali “Paradiso”.

Tale è il significato originario di quest’ultima parola, e questo deve permettere di capire pienamente perché dicevamo prima che si tratta sempre, in una forma o nell’altra, di ciò che la Cabbala ebraica chiama “Pardes”.

D’altra parte, riferendoci ancora a quanto abbiamo spiegato sul simbolismo del «Polo», è facile anche vedere che la montagna del Paradiso terrestre è identica alla «montagna polare» di cui si parla, sotto nomi diversi, in quasi tutte le tradizioni: abbiamo già menzionato il “Mˆru” degli Indù e l'”Alborj” dei Persiani, come anche il “Montsalvat” della leggenda occidentale del “Graal”; citeremo ancora la montagna di “Qƒf” degli Arabi (3) e anche l'”Olimpo” dei Greci che, per molti aspetti ha lo stesso significato. Si tratta sempre di una regione che, come il Paradiso terrestre, è divenuta inaccessibile all’umanità comune e che è situata al di fuori della portata di tutti i cataclismi che sconvolgono il mondo umano alla fine di determinati periodi ciclici. (pp.85-86)

La montagna, naturalmente, raffigura il «Centro del Mondo» prima del “Kali-Yuga”, quando cioè esso esisteva apertamente, in certo senso, e non era ancora sotterraneo; essa corrisponde dunque a quella che si potrebbe chiamare la sua situazione normale, al di fuori del periodo oscuro le cui condizioni particolari implicano una specie di rovesciamento dell’ordine stabilito. (p.87)

Vi sono anche altri simboli che, nelle tradizioni antiche, rappresentano il «Centro del Mondo»; forse uno dei più importanti è quello dell'”Omphalos”, che si ritrova anch’esso presso quasi tutti popoli (5). La parola greca “omphalos” significa «ombelico», ma designa anche, in generale, tutto ciò che è centro, e in particolare il mozzo della ruota;[…] (pp.87-88)

[…]l’idea qui espressa è dunque quella del Principio centrale. […]

Il simbolo dell'”Omphalos” poteva essere posto in un luogo che fosse semplicemente il centro di una determinata regione, centro spirituale, del resto, più che geografico, benché in particolari circostanze i due possano coincidere;[…] (pp.88-89)

Il più conosciuto, generalmente, è l'”Omphalos” del tempio di Delfi, il quale era davvero il centro spirituale della Grecia antica (8);[…]

L'”Omphalos”, di solito, era materialmente rappresentato da una pietra sacra, che spesso viene chiamata «betilo»; questa parola, probabilmente, non è altro che l’ebraico “Beith-El”, «casa di Dio»[…](p.89)

La pietra che rappresentava l'”Omphalos” poteva avere la forma di un pilastro, come la pietra di Giacobbe; ma è molto probabile che, presso i popoli celtici, certi menhir avessero questo significato; e gli oracoli venivano dati vicino a simili pietre, come a Delfi, il che si può spiegare col fatto che esse erano considerate la dimora della Divinità; la «casa di Dio», del resto, si identifica naturalmente col «Centro del Mondo». L'”Omphalos” poteva essere rappresentato anche da una pietra di forma conica, come la pietra nera di Cibele, oppure ovoidale; il cono ricordava la montagna sacra, simbolo del «Polo» o dell’«Asse del Mondo»; quanto alla forma ovoidale, essa si riferisce direttamente a un altro simbolo molto importante, quello dell’«Uovo del Mondo» (13). L'”Omphalos”, di solito, era rappresentato dunque da una pietra; talvolta però era rappresentato da una montagnola, una specie di tumulo, altra immagine della montagna sacra; così in Cina, al centro di ogni regno o Stato feudale, si elevava un tempo una montagnola di forma quadrangolare, costituita dalla terra delle «cinque regioni»: le quattro facce corrispondevano ai quattro punti cardinali, e la cima al centro stesso (14). Cosa singolare, queste «cinque regioni» le ritroveremo in Irlanda, dove similmente la «pietra eretta del capo» era innalzata al centro di ogni regno (15). (pp.91-92)

L’ideale è l’indifferenza (o piuttosto il distacco, nell’attività ‘non agente’) del super-uomo (19) il quale lascia che la ruota cosmica giri» (20). (pp.93-94)

X – NOMI E RAPPRESENTAZIONI SIMBOLICHE DEI CENTRI SPIRITUALI p.95

Potremmo citare, per quanto riguarda la «contrada suprema», molte altre tradizioni concordanti; in particolare, per designarla, vi è un altro nome, probabilmente ancora più antico di “Paradˆsha”: è il nome “Tula”, da cui i Greci derivarono “Thule”; e, come abbiamo visto, quella “Thule” era verosimilmente identica alla primitiva «isola dei quattro Signori». (p.95)

Ma, d’altra parte, bisogna distinguere la “Tula” atlantidea dalla “Tula” iperborea, ed è quest’ultima che, in realtà, rappresenta il centro primo e supremo per l’insieme del “Manvantara” attuale; essa fu l’«isola sacra» per eccellenza e, come dicevamo prima, la sua ubicazione era, in origine, veramente polare. Tutte le altre «isole sacre» che sono designate ovunque da nomi di significato identico, non furono che sue immagini; così è anche per il centro spirituale della tradizione atlantidea, che regge solo un ciclo storico secondario, subordinato al “Manvantara” (2). (pp.95-96)

“Tula” è chiamata anche l’«isola bianca» e, come abbiamo detto, il bianco rappresenta l’autorità spirituale; nelle tradizioni americane, “Aztlan” ha per simbolo una montagna bianca, ma questa raffigurazione era attribuita, in origine, alla “Tula” iperborea e alla «montagna polare».(p.97)

Alla designazione di centri spirituali come l’«isola bianca» (designazione che, ricordiamo, è stata attribuita anche a centri secondari, e non unicamente al centro supremo al quale si applicava in primo luogo), bisogna collegare i nomi di luoghi, contrade o città che similmente esprimono l’idea di bianchezza. (p.98)

C’è ancora un’osservazione da fare sulla rappresentazione del centro spirituale come isola che per altro racchiude la «montagna sacra»: infatti, anche se una simile localizzazione ha potuto esistere effettivamente (benché non tutte le «Terre Sante» siano isole), essa deve avere anche un significato simbolico. I fatti storici stessi, e soprattutto quelli della storia sacra, traducono, a loro modo, verità di ordine superiore, in ragione della legge di corrispondenza che è il fondamento stesso del simbolismo e che unisce tutti i mondi nell’armonia totale e universale. L’idea che evoca la rappresentazione di cui si tratta qui è essenzialmente quella di «stabilità», che abbiamo appunto indicata come caratteristica del Polo: l’isola rimane immobile in mezzo all’agitazione incessante dei flutti, la quale è un’immagine dell’agitazione del mondo esterno; e, per giungere alla «Montagna della Salvezza», al «Santuario della Pace» (14), bisogna aver attraversato il «mare delle passioni».(pp.99-100)

XI – LOCALIZZAZIONE DEI CENTRI SPIRITUALI p.101

Nelle pagine precedenti, abbiamo lasciato quasi completamente da parte la questione della localizzazione effettiva della «contrada suprema», questione molto complessa e del resto, dal punto di vista nel quale ci siamo posti, secondaria.

Sembra che si possano prendere in considerazione varie localizzazioni successive, corrispondenti ai diversi cicli, suddivisioni di un altro ciclo più esteso, il “Manvantara”; del resto, se si considerasse l’insieme di quest’ultimo mettendosi in qualche modo fuori del tempo, vi sarebbe da osservare, fra quelle localizzazioni, un ordine gerarchico corrispondente alla costituzione di forme tradizionali le quali poi non sono altro che adattamenti della tradizione principale e primordiale, che domina tutto il “Manvantara”. D’altra parte, ricorderemo ancora che possono esservi, simultaneamente, oltre al centro principale, molti altri centri ad esso collegati, e che sono altrettante immagini di esso, il che dà luogo facilmente a confusioni, tanto più che, essendo i centri secondari più esteriori, sono proprio per questo più appariscenti del centro supremo (1).

A questo proposito abbiamo già notato in particolare la somiglianza di Lhassa, centro del Lamaismo, con l'”Agarttha”; aggiungeremo ora che, anche in Occidente, sono note ancora almeno due città la cui disposizione topografica presenta particolarità che, in origine, hanno avuto una simile ragion d’essere: Roma e Gerusalemme (e abbiamo visto che quest’ultima era effettivamente un’immagine visibile della misteriosa “Salem” di “Melki-Tsedeq”). Esisteva infatti, nell’antichità, una sorta di geografia sacra o sacerdotale, e la posizione delle città e dei templi non era arbitraria ma determinata da leggi molto precise (2); (pp.101-102)

Bisogna rilevare inoltre il rapporto esistente fra il simbolismo dell’Arca e quello dell’arcobaleno, rapporto che nel testo biblico è suggerito dall’apparizione di quest’ultimo dopo il diluvio, come segno dell’alleanza fra Dio e le creature terrestri (14). L’Arca, durante il cataclisma, galleggia sull’oceano delle acque inferiori; l’arcobaleno, nel momento che indica la restaurazione dell’ordine e il rinnovarsi di tutte le cose, appare «nella nube», cioè nella regione delle acque superiori. Si tratta dunque di una relazione di analogia nel senso più stretto della parola, il che significa che le due figure sono inverse e complementari l’una rispetto all’altra: la convessità dell’Arca è volta verso il basso, quella dell’arcobaleno verso l’alto e la loro unione forma una figura circolare o ciclica completa, di cui essi rappresentano le due metà (15). Questa figura infatti all’inizio del ciclo era completa: essa è la sezione verticale di una sfera la cui sezione orizzontale è rappresentata dal recinto circolare del Paradiso terrestre (16); e il recinto è diviso da una croce formata dai quattro fiumi che escono dalla «montagna polare» (17). La ricostituzione deve operarsi alla fine del medesimo ciclo; ma allora, nella figura della Gerusalemme celeste, il cerchio è sostituito da un quadrato (18), il che indica la realizzazione di ciò che gli ermetici designano simbolicamente come la «quadratura del cerchio»: la sfera, che rappresenta lo sviluppo delle possibilità attraverso l’espansione del punto primordiale e centrale, si trasforma in un cubo quando tale sviluppo è compiuto e l’equilibrio finale è raggiunto per il ciclo considerato (19). (pp.105-107)

XII – ALCUNE CONCLUSIONI p.109

Dalla testimonianza concordante di tutte le tradizioni deriva chiaramente questa conclusione: che esiste una «Terra Santa» per eccellenza, prototipo di tutte le altre «Terre Sante», centro spirituale cui tutti gli altri centri sono subordinati. (p.109)

Si usa situare tale soggiorno in un «mondo invisibile»; ma, se si vuol capire di che cosa si tratta, non bisogna dimenticare che lo stesso accade per le «gerarchie spirituali» di cui tutte le tradizioni parlano e che rappresentano in realtà dei gradi di iniziazione (3).

Nel periodo attuale del nostro ciclo terrestre, cioè nel “Kali-Yuga”, questa «Terra Santa», difesa da «guardiani» che la nascondono agli sguardi profani garantendone tuttavia certe relazioni esterne, è di fatto invisibile, inaccessibile, ma soltanto per coloro che non possiedono le qualificazioni richieste per penetrarvi.(p.110)

NOTA DELL’EDITORE

Nel 1924 apparve a Parigi un singolare libro di Ferdinand Ossendowski, dal titolo “Bestie, uomini e dèi”. Vi si raccontava un avventuroso viaggio nell’Asia centrale, nel corso del quale l’autore affermava di essere venuto in contatto con un centro iniziatico misterioso, situato in un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estendono ovunque: il capo supremo di questo centro era detto Re del Mondo.

René Guénon (1856-1951) prese spunto da tale pubblicazione per mostrare, in questo breve e splendido libro, come, dietro alle confuse narrazioni di Ossendowski e di altri scrittori, si profilassero dottrine e miti immemoriali, di cui si ritrovavano tracce dal Tibet (con la sua nozione dell'”Agarttha”, la terra ‘inviolabile’) alla tradizione ebraica (con la figura di Melchisedec e della città di Salem), e così anche nei più antichi testi sanscriti, nel simbolismo del Graal, nelle leggende sull’Atlantide e in tanti altri miti e immagini. A mano a mano che si svelano questi rapporti, siamo còlti come da una vertigine: con pochi e sobri gesti Guénon riesce a mettere in contatto tali e così diverse cose che alla fine ci troviamo dinanzi a una sterminata prospettiva, che traversa tutta la storia fino a oggi, dalle origini inattingibili della Tule iperborea fino all’occultamento del centro iniziatico nella nostra ‘età nera’, il “Kali-Yuga”. In poche pagine, e tutto per immagini, Guénon disegna dunque la linea della trasmissione della Tradizione primordiale, sicché questo libro potrà valere per molti come introduzione al pensiero di un maestro solitario e indispensabile del nostro tempo.