POL VANDROMME – LOUIS-FERDINAND CÉLINE [ITALIA STORICA, 2021]

POL VANDROMME – LOUIS-FERDINAND CÉLINE [ITALIA STORICA, 2021]
POL VANDROMME – LOUIS-FERDINAND CÉLINE [ITALIA STORICA, 2021]

POL VANDROMME – LOUIS-FERDINAND CÉLINE [ITALIA STORICA, 2021]

La Italia Storia di Andrea Lombardi ristampa, nella collana Off Topic, il saggio di Pol Vandromme edito per la prima nel novembre 1964 dall’editore Borla con traduzione di Alfredo Cattabiani e presentazione di Angelo Jacomuzzi… Il libro ha una nuova prefazione dell’autore, scritta per la ristampa del libro nel 2001 e un apparato fotografico su carta patinata (23 immagini in b/n)…

PREFAZIONE

Questo piccolo libro fu pubblicato agli inizi del 1963, l’indomani della morte di Cèline. […]

Quale era nel 1963 la situazione di Céline? Grossomodo questa, nell’opinione della maggioranza: non poteva essere un grande scrittore perché era un farabutto.

Quando Céline fu preso in esame dai pedanti glossatori universitari, si ricorse a un sotterfugio di un manicheismo specioso: rimaneva un farabutto, ma si acconsentiva a riconoscere che non lo era stato sempre, almeno nelle sue opere. Si aveva quindi il buon Céline, quello del Viaggio e di Morte a credito, e il cattivo, quello di Bagatelle per un massacro e La scuola dei cadaveri. (p. 5)

I pamphlet sono più, e ben altro, che l’ammasso di divagazioni di un antisemitismo maniaco e delle fobie di un razzismo da medico igienista. (p. 7)

INTRODUZIONE p. 9

Vi sono scrittori che non offrono notizie biografiche di rilievo e ne fanno motivo di orgoglio. È il caso di Céline. […]

In un certo senso Céline lascerà alle generazioni future un’immagine simile a quella di Proust: occupata tutta dal lavoro, dedicata interamente alla trascrizione letteraria del suo mondo interiore.

Ci sono senza dubbio nel Viaggio al termine della notte, in Morte a credito, in Normance, in Da un castello all’altro e in Nord molti elementi autobiografici. Ma non sono assolutamente utili a chi voglia ricostruire la vita di Céline[…]. (p. 9)

Bisogna aggiungere che Céline[…] ha sempre indossato una maschera, in pubblico, e persino davanti ai suoi familiari e amici. (pp. 9-10)

Ricorreva a molti espedienti per sfuggire agli altri: all’inizio si nascondeva dietro uno pseudonimo[…].

La biografia di Céline non è ancora stata scritta e non lo sarà per molto tempo per alcuni motivi: perché i suoi scritti la romanzano[…].

[…]perché infine Céline sfuggiva alla confessione con la ripetizione ossessiva del suo delirio[…]; perché la solitudine e la congiura del silenzio, che l’esasperò ancora di più, contribuirono a tenere Céline nell’ombra[…]. (p. 10)

IL REFRATTARIO p. 19

L’indomani della Liberazione. Era un’epoca strana.[…]

Poi la letteratura a poco a poco riprese i suoi diritti e restaurò la sua gerarchia. Tutti gli scrittori importanti rioccuparono i posti che erano stati tolti loro. […]

Solo un nome non è stato recuperato dalla massoneria letteraria. Gli avevano ordinato di tacere. E quando, per caso, parlava, un lungo rumore feroce e silenzioso cospirava contro di lui. Oggi si comincia a pronunciarlo senza timore. Questo nome maledetto, che continua a intimidire e a scandalizzare, è quello di Céline. (p.25)

Egli però ha voluto dire tutto quel che doveva dire e nel tono che gli pareva più adat­to, senza badare alle convenzioni dei salotti, delle accademie e degli stati maggiori. (pp. 25-26)

E l’importanza di Céline nella storia letteraria è dovuta a un fatto evidente, che sarà con l’andar del tempo sempre più riconosciuto e non più contestato: quest’uomo senza misura, che si eccitava nei suoi deliri, è stato un grande scrittore, il prodigioso inventore di una nuova musica che non sarà capita pienamente se non nel XXI secolo. In lui vi erano tutti gli eccessi del genio, senza però quell’astuzia propria del talento; e in più alcuni furori e alcune audacie: tutto ciò non poteva certo ispirare simpatia ai contemporanei.

Céline si disinteressò sempre della sua carriera. Anzi costruì la sua vita contro di essa, preferendo alle verità mediocri e confortevoli, che gli venivano proposte, il coraggio e gli imprevisti della sua intemperanza.(pp. 26-27)

Le sue rotture, le sue bizzarrie, tutto ciò che assumeva in lui un aspetto pazzesco alla luce del buon senso, non erano altro che una fedeltà ostinata a se stesso. Piuttosto di creare un personaggio, Céline mise a nudo il suo smarrimento. (pp. 20-21)

Céline non era il ribelle volgare che si vendicava nella sua opera delle umiliazioni e delle sconfitte che la società gli aveva inflitto nella vita. Non cercava alibi alla sua incapacità o giustificazioni ai suoi sentimenti. […]

Sarebbe bastato che Céline accettasse il solito tran tran della vita di provincia borghese e avrebbe fatto carriera, avrebbe diretto una clinica di lusso[…]. (p. 21)

Ma Céline sentiva dentro di sé voci infernali che si ribellavano contro quelle regole, quei riti, quella pazienza rassegnata, quella marmellata di buoni sentimenti: il tono della sua vita esprimeva già il tono della sua opera.

Questa rivolta segreta diventò improvvisamente pubblica con il Viaggio al termine della notte (1932), libro colmo di tenebre, che fu salutato come l’alba di una rivoluzione. […]

Come sempre, la prima impressione non fu quella giusta: la gente rimase stupita di fronte a una originalità così violenta e improvvisa e fu sorpresa e sdegnata. (p. 22)

Da un giorno all’altro Céline diventò celebre, fu acclamato da Léon Daudet e da Georges Bernanos, vinse un premio letterario e vide la sua opera venduta a migliaia di copie. La sinistra scopriva il grande scrittore popolare che le mancava ormai dai tempi di Zola; gli apriva i suoi giornali, i cenacoli, le porte del paradiso sovietico (con la traduzione in russo del romanzo da parte di Elsa Triolet e con l’incasso di diritti d’autore favolosi). Ormai egli non doveva più che smorzare la sua collera e immergerla nelle acqua acidule e sentimentali del populismo: e il successo si sarebbe trasformato in trionfo.

In quel momento Céline doveva solo lasciarsi trasportare dall’onda della moda: la sua carriera artistica era bell’e fatta. La società letteraria gli offriva tutto, come poco prima aveva fatto la società provinciale. Ma Céline ancora una volta la respinse. (pp. 22-23)

Impiegò quattro anni a scrivere il secondo romanzo, destinato alla piccola massoneria dei celiniani, modulando con una finezza maggiore il ritmo del suo motivo geniale. (p. 23)

Appena ritornato dalla Russia, dove era andato a spendere i diritti d’autore guadagnati con la traduzione del Viaggio, pubblicò Mea Culpa, che attaccava il comunismo e ne calpestava i miti. Ma quella violenza era sconveniente; nessuno se la sarebbe aspettata da un grande scrittore della sinistra. Céline non conosceva la diplomazia letteraria: incapace di soffocare un grido per a trattar bene un alleato, per rinforzare la situazione, per salvare il diritto di appartenere al partito dei potenti.[…]

Bagattelle per un massacro fu uno degli avvenimenti del 1937: libro torrenziale, intorbidato dalle nebbie di un antisemitismo nevrotico. Tutti rimasero sbalorditi. La sinistra, che s’era poco prima annesso d’ufficio Céline, si affrettò a lasciarlo libero. La destra non lo stimò recuperabile e lo sospettò di gettare, con i suoi atteggiamenti estremisti, discredito su quella che era allora la sua passione più frivola e che sarebbe diventata più tardi la passione più vergognosa. Per la prima volta un libro di Céline non ebbe più alcun alleato. Lo scrittore cominciò allora la sua interminabile ruminazione di solitario. Tutti avevano letto Bagattelle per un massacro parola per parola e lo avevano giudicato un libro folle: l’autore conquistava il posto che gli apparteneva sulla lista nera.

Scomunicato dalla sinistra, tenuto a bada dalla destra, questo energumeno si avvolgeva nella sua maledizione, incarnava il personaggio dell’avventuriero che cospira contro le idee e la ragione dell’epoca. (pp. 24-25)

Io penso, da parte mia, che l’antisemitismo è una stupidaggine, una enorme stupidaggine. Ma è anche stupido porre una stella gialla sui pamphlet di Céline. Non dobbiamo avere paura dei suoi libri. (p. 25)

Non nascondere niente di se stessi, esprimere tutte le collere nate dalle antipatie e dalle volgarità, non è certo un ruolo facile da sostenersi e non tenta molta gente. Quasi da solo Céline l’ha sostenuto in un ambiente lettario in cui si pensa solo alla reputazione che si può ottenere presso i benpensanti, anche quando si assumono atteggiamenti di rivolta o antipatici. (pp. 25-26)

Ma in Céline il poeta possiede il senso della buffoneria, che è una maniera pudica di avere il senso della pietà. Il modo più sicuro che ha scoperto per liberarsi dalle sue ossessioni, è di metterle in ridicolo. La risata è sempre scossa dall’amarezza; è una rabbia che scoppia in un ghigno: Ma l’ossessione giunge da troppo lontano, da una memoria che si ricorda di troppe cose, di tutto, per poter svanire. Per questo rinasce da un libro all’altro; si rimescola febbrilmente su se stessa; per questo Céline è un unico blocco, e Bagatelle per un massacro nascono naturalmente dal Viaggio. Finora nessuno l’ha rilevato e noi vorremmo appunto dimostrare che l’opera intera dello scrittore è guidata da un’intuizione che opera ininterrottamente.

Portare alle stelle il Viaggio e far silenzio sui pamphlet è dunque un’ingenuità.[…]

La congiura del silenzio sui pamphlet cominciò quando Céline era ancora vivo. (p. 26)

Se Bagattelle per un massacro provocò una violenta polemica, La scuola dei cadaveri — che fu pubblicato un anno più tardi, nel 1938 — non suscitò alcuna eco. Céline, da pacifista irriducibile, tuonava contro le minacce di una nuova guerra e, per distruggerle, chiedeva un’alleanza con la Germania. (pp. 26-27)

Non cercava di essere capito o anche solo di essere ascoltato. Adoperava i modi meno adatti per far accogliere le sue opinioni, indisponendo la sinistra come la destra, chiudendosi in un ghetto spirituale, lanciando i suoi anatemi senza alcuna astuzia. (p. 27)

Coloro che pensano che Bagattelle e La scuola dei cadaveri siano le arringhe di un cinico si sbagliano di grosso. Invece sono le invettive d’un ingenuo che si lascia trasportare da tutte le sue illusioni. Il carattere che colpisce di più in Céline è l’innocenza. Un’innocenza da furioso che non si ferma davanti a niente. Egli immagina che i libri possano assolvere a una funzione di riforma e che si possa salvare il mondo assalendolo con gli insulti; non facendo un discorso razionale, ma scatenando i rancori, le grida dei suppliziati in un carnevale d’agonia. […]

La smania, che invadeva questo Don Chisciotte dall’insulto osceno e violento, era la smania di convincere. Céline si credeva depositario di una profezia la cui rivelazione era fondamentale per la salvezza dell’umanità. (p. 28)

Il lettore mi perdonerà se mi servo di una espressione ormai male usata e che in genere viene riferita ad altri autori; ma per Céline la letteratura era un servizio, anzi un servizio pubblico. (pp. 29-30)

Bagatelle, La scuola dei cadaveri, La bella rogna[…] a modo loro sono invocazioni alla rinascita. (p. 30)

Nessuno ha ancora notato come Céline, per il quale un libro era frutto di un lavoro paziente e faticoso, scrisse in pochi mesi due opere voluminose come Bagattelle per un massacro e La scuola dei cadaveri sentiva la necessità di scriverli subito. Questa strana fretta in un lavoratore tranquillo e calmo come lui denunciava la preoccupazione di cogliere l’avvenimento, di gravare su di esso e di piegarlo secondo la propria volontà. Céline si sentiva costretto e spinto. Non scriveva per piacere ma per necessità. (pp. 30-31)

Non procedendo con calma, non prendendo le precauzioni lessicali, che rassicurano i moderati e lusingano le demagogie trionfanti, era per forza condannato a perdere la faccia. […]

Si lanciava nell’anatema senza alcuna riserva mentale. (p. 31)

Si era gettato a corpo morto nelle sue fissazioni, senza alcuna prudenza, proprio perché scriveva per se stesso, per fissare la linea interiore del suo tumulto spirituale. […]

Céline scrisse uno dopo l’altro Bagattelle per un massacro e La scuola dei cadaveri per tuonare contro la guerra che sentiva avvicinarsi. Quando la guerra giunse insieme alla sconfitta del 1940, pubblicò La bella rogna per mostrare l’esattezza di alcune sue profezie e, al di là dei pretesti che gli offriva l’attualità (e che non erano pretesti molto onorevoli), per continuare la denuncia dell’impostura contemporanea, del lungo combattimento vittorioso che la decadenza stava conducendo contro l’istinto della specie: e questo è a parer nostro il solo e vero profondo argomento della sua opera. (p. 32)

Speghiamoci meglio. Dal 1937 al 1939 Céline, che non nutriva alcuna illusione sulla natura umana, ne conservava ancora qualcuna sull’umanità. Nel 1940 non si era ancora rassegnato, nei confronti dell’Europa, all’irreparabile. Ma all’inizio del 1942 la speranza cominciò ad abbandonarlo e allora — prima ancora di essere un vinto — assunse un atteggiamento distaccato, si rese conto che l’umanità doveva essere giustiziata e punita con la catastrofe e la maledizione.

Così il vigore fanatico della reazione lasciò il posto a un atteggiamento disincantato che vedeva l’Europa in un’atmosfera di decomposizione. Le disgrazie e le vicende, che gli piombarono addosso durante l’esilio in Germania e in Danimarca, lo confermarono ancor di più nella sua disperazione.

Sulle rovine d’una vita devastata recitò la sua versione dell’apocalisse occidentale e fece avanzare nella sua immaginazione il suono dei canti di guerra mongolici. (p. 33)

Nella sua opera si compiva una svolta prodigiosa. Una parte della sensibilità di Céline (quella che lo spingeva alla sfida) crollava, e sulle sue macerie pullulava, come un groviglio di insetti e di vermi, la sua agitazione stravagante ed esasperata, espressione di un nichilismo ormai irriducibile. Spinto dall’ironia vendicatrice lo scrittore faceva sghignazzare le favole barocche della morte che erano per lui nient’altro che grida lanciate dall’umanità europea alla vigilia del suo trapasso.

Alla fine, le certezze dell’inizio si erano rovesciate e Céline, invece di ricercare la strada per risalire al paradiso perduto, guardava sparire le vestigia del mondo civilizzato. (pp. 33-34)

Uno scrittore scaltro avrebbe fatto meno rumore. Convinto che l’umanità sarebbe morta molto presto, l’avrebbe lasciata morire in pace. Céline invece turbò la sua agonia sino alla fine.

Nessuno gliel’ha perdonato. Il conformismo, che protegge la buona coscienza delle società, non vuol essere disturbato e a maggior ragione deriso. Céline non è stato solo un agente provocatore, ma anche una specie di energumeno intestardito nella provocazione. I benpensanti hanno trovato insopportabile non tanto la materia dei libri, quanto l‘accento. Lo si è attaccato per il suo linguaggio senza capire che quel linguaggio, considerato come qualcosa di sconveniente, non era altro che il riflesso fedele delle ossessioni del suo animo. Ma di questo riparlerò più innanzi.

Céline ha portato su di sé, durante tutta la vita di scrittore, una maledizione costante. (pp. 35-36)

Altri autori hanno detto quanto lui, se non di più (con un altro tono, bisogna riconoscerlo) senza essere perseguitati da un odio così implacabile. […]

[…]malgrado ciò il nome di Céline continua a suscitare la collera di certi resistenti. Perché lui, e lui solo? (p. 36)

Le forze sociali da lui attaccate gli hanno a loro volta scagliato addosso i proiettili che Céline aveva loro indirizzato. Lo scrittore aveva scatenato contro di loro una polemica che sboccava nel massacro. Una polemica violenta che nasceva e si accaniva su tutti i fronti. Céline non discuteva solo un aspetto della società, ma la società intera e, al di là delle apparenze societarie, l’uomo stesso nella sua miseria, nel suo disgusto, nel suo genio suicida.

Così la società gli ha rispostosullo stesso tono e con proiettili dello stesso calibro.[…]

Per vendicarsi dell’immagine schifosa con cui ne aveva dipinto le male azioni e le gesticolazioni senza senso, lo ha qualificato come un mostro, come una bestia pericolosa e ripugnante.

E nessuno è intervenuto in sua difesa. Céline non si era venduto a nessun partito: non aveva aderito a nessuno, non serviva che la propria opera. Era quindi facile sopprimerlo, senza temere l’intervento di clan avversari o di manifesti di intellettuali impegnati. (pp. 36-37)

Franco tiratore isolato sul cammino percorso da pericolose pattuglie nemiche, Céline fu subito scoperto, maltrattato, liquidato senza nemmeno potersi difendere. (p. 38)

LA PAURA p. 41

Aveva il classico vizio degli intellettuali: era futile.

Così dice Bardamu di Princhard nel Viaggio al termine della notte. L ’opera di Céline non è certo guastata da questo vizio; è seria, possiede quella serietà che nasce da un turbamento interiore colmo di rabbia, dalle insolenze di un pessimismo che vien fuori con violenza e si scatena senza limiti. […]

Céline stringe nelle sue mani la disperazione contemporanea, come ha ben visto Gaetan Picon. La stringe nelle sue mani perché per lui la disperazione non è solo un divertimento, un pretesto per variazioni letterarie, ma una condizione naturale, uno stato d’animo, la tentazione permanente della miseria e dell’assurdo. È la compagna per cui passiamo la nostra vita ad intercedere. […]

Una protesta contro l’impostura, l’atto di una coscienza che si tende nello sforzo. Non una disperazione che si crogiola nell’impotenza, ma una disperazione che si esaspera e insorge. (p. 41)

Il pessimismo di Céline è legato strettamente alla sua collera. Egli non coglie semplicemente le umiliazioni o le lordure della vita, non le registra senza eloquenza; ma si scaglia su di esse e le fa gridare con una voce rauca e irreprimibile. […]

Per questa ragione il narratore è sempre presente nelle sue opere: il Viaggio, Morte a credito o Nord, malgrado la ricchezza degli episodi, sono libri con un solo personaggio, con una sola voce.

Una voce che vomita, si potrebbe dire, nel senso che si sgrava delle amarezze che la deprimono e che le danno la nausea. (p. 42)

Dai primi agli ultimi libri è diventata forse più incalzante, più aggressiva; ma i motivi che l’animano non sono cambiati. Nell’opera di Céline non c’è che Céline, ed egli non dà la parola che a se stesso. Il mondo che crea è quindi un mondo chiuso, una piccola regione dell’indignazione dove lo scrittore si agita con l’impazienza di una fiera in gabbia. (pp. 42-43)

Giudicare gli altri degradandoli non è sempre effetto di bassezza d’animo. Anzi, talvolta è il contrario. La volgarità di Céline non è mai tranquilla: è una volgarità che si ubriaca ed esagera. […]è l’espressione di una rivolta, di una volontà tesa a cercare qualcosa di diverso.

La volgarità di Céline è la smorfia di una nobiltà che la vita ha metodicamente avvilito.

Una smorfia che si fonde con un atteggiamento triviale per mascherare la delicatezza di un animo che ha smarrito la sua vera natura attraverso delusioni terribili e snervanti. Anche la sua cattiveria è una bontà che mal dissimula le ferite provocate dalla vita: una bontà colpita a morte e che, prima di cedere, urla per l’ultima volta la sua impotenza. (p. 44)

La volgarità, la vera bassezza sarebbero nel far finta di non vedere queste miserie, nel non denunciarle, nell’adattarsi a loro addomesticandole. C’è un pessimismo che vede il mondo com’è, ma non può accettare che sia così, e lo vorrebbe diverso. (pp. 44-45)

Il solo modo per costringere gli uomini a sentire questo sentimento è di ispirar loro il terrore per ciò che sono diventati.

Non è tanto il pessimismo, dunque, che invade l’opera di Céline, quanto, in primo luogo, l’angoscia di fronte al mondo e ai suoi decreti sempre più opprimenti.[…]

La musica di Céline cerca di vincere o di stregare in un certo senso questa notte profonda, colma di tenebre sudicie, che lo segue a passo a passo, compagna familiare e losca: la notte della paura. (p. 45)

Céline è un uomo sempre in guardia. Si aspetta sempre il peggio, si sente minacciato da un’oscura e continua persecuzione. (p. 46)

Céline trovava la malattia ovunque. (p. 47)

In qualunque posto si trovi non riesce mai a sentirsi sicuro di fronte a ciò che lo circonda. (p. 50)

Il mondo di Céline, dominato dalla paura è un mondo di gente perseguitata.

I suoi personaggi sono colpiti dalla grande malattia moderna: non riescono a star fermi.

La sola loro risorsa, la sola salvezza è di vagare per strade senza luce, in bracci di trincea dove sognano combattimenti di retroguardia. Hanno sempre voglia di partire perché fuggono fantasmi che li opprimono.[…]

Ma quella paura che li spinge altrove, li riconduce sempre al punto di partenza: nel labirinto della loro paura. Non riescono a sfuggire; vanno incontro a nuovi terrori. Il loro primo impulso è di riderne, di metterli in ridicolo; ma alla fine lo stesso ridicolo s’impadronisce di loro e li trascina al naufragio.

I personaggi di Céline sono minacciati da una congiura, dalla tirannia delle idee folli, dei sentimenti prefabbricati. Le menzogne dell’ordine sociale sono crudeltà codificate che lacerano e sconvolgono questi animi sensibili. (p. 51)

Céline spaventa e mette in fuga le imposture che consolano e illudono gli uomini. […]

Il sogno: ecco che cosa conduce alla demistificazione. (p. 53)

Se c’è qualcosa di monotono e ossessivo, è il furore. Céline esige che i personaggi fissino continuamente gli abissi che sono in loro, intorno a loro e che egli rivela loro. (p. 54)

Céline ha capito che solo l’eccesso e l’esagerazione potevano salvare la sua opera.

Tutti gli eccessi: dalla risata ilare a quella angosciata, deformata da una smorfia di dolore.

Il talento di Céline si rivela appunto nell’esagerazione e nell’enfasi: è ricco di modulazioni e sa scatenare indifferentemente la potenza della tragedia e la violenza della satira e del comico. (p. 55)

Noi non riusciamo più a ridere di Bardamu: è un compagno che ci intimidisce e che conosciamo molto bene: è il portavoce della sensibilità che si annida nel nostro cinismo, delle incoerenze che si gitano confusamente nel nostro animo, di tutto ciò che esiste in noi di naturalmente barbaro, di brutale e di poco degno. (p. 56)

Infatti nei primi libri di Céline c’è una comicità selvaggia’ e violenta come l’inquietudine che sottende. Essi sono per molti aspetti dei romanzi picareschi. (p. 58)

Céline ha finito per identificarsi con il personaggio di se stesso che aveva inventato. La sua vita, la sua sensibilità, il suo mondo personale sono stati alla fine annientati da quel che nella sua opera era meno personale. Il solo pastiche riuscito dei suoi libri è la sua esistenza.

Il celinismo anticipava Céline stesso e Céline non l’ha raggiunto che dopo qualche tempo. (p. 60)

« La realtà descritta da Céline — osservava André Gide — è l’allucinazione provocata dalla realtà ». L ’opera di Céline è infatti un’allucinazione. In essa vi sono pochi avvenimenti, che in genere rappresentano la materia prima dei romanzi. Non c’è quasi trama; i fatti vanno e vengono come possono e — salvo che in alcuni brani del Viaggio — non si dispongono mai con ordine intorno a dei temi. Tutto ha l’aria di un vero e proprio sfacelo, di un fiume uscito dai suoi argini, di una marea che sale con il suo carico di gente sbandata e di corsari affamati. (p. 61)

Così attraverso il linguaggio l’allucinazione di cui parlava Gide può liberarsi e rivelarsi. […]

L’opera di Céline è un sogno nato da una fantasia in rivolta. (p. 63)

La realtà è per Céline un delirio. Ma un delirio incantatore. Non sono solo le parole a oscillare, ma anche il mondo che esse evocano. Tutto viene trascinato in una sarabanda che urla, si dibatte, si rivolta splendidamente. (p. 64)

LA MORTE p. 65

Il libro meno conosciuto di Céline è la tesi di laurea in medicina dedicata al chirurgo ungherese del xix secolo Ignazio-Filippo Semmelweis. Pur non avendo una grande rilevanza dal punto di vista estetico, è forse il suo libro più importante perché ci dà le chiavi per capire esattamente l’opera celiniana. Quel che ci colpisce subito è il tono dello scritto. Infatti non ha nulla in comune con il solito stile di una tesi universitaria: non ha il tono pesante, noioso dell’opera accademica, non esprime quella serenità forzata e quella piattezza laboriosa di uno scritto senza vita; è invece una specie di poema sinfonico e cavalleresco dove le parole vagano alla ricerca di paesaggi e di sorprese inattese.

Inoltre questo libro non ha l’accento e il ritmo delle altre opere di Céline: non è certo uno scritto calmo, però è contenuto; trattiene il respiro, si concentra, si struttura ancora in una forma tradizionale. (p. 65)

Céline non è ancora Céline; tuttavia rivela già interamente la sua personalità. Gli manca solo lo stile. (p. 66)

C’è già però il tono celiniano: quello dell’evocazione visionaria, dell’emozione cruda, della spontaneità che si ubriaca. (p. 67)

Céline è un poeta dell’amore; un forsennato, senz’altro, ma un forsennato sentimentale che nasconde nell’invettiva una delicatezza naturale. Ciò che brucia nella sua opera è un grande amore deluso della vita e del mondo, è una formidabile collera infantile che non si rassegna di fronte alla profanazione dei suoi sogni. Tutta una parte del suo animo — che i suoi libri coprono d ’ingiurie, ma che affiora nel ritmo delle sue storie — esprime un sentimento colmo di una sottile tenerezza, di una magia modulata sul filo dell’adolescenza e di ingenui ritornelli. (p. 69)

Céline, fin qui ancorato, rompe ora gli ormeggi; si tuffa nel linguaggio parlato. Sente che è il suo: quello che esprime meglio il suo temperamento, il suo mondo. Ma deve trovare adesso la sua melodia. […]

Lo stile celiniano è dunque una conquista, una conquista difficile. Non è stato ottenuto subito: è il contrario d’una intuizione fortunata, di un caso felice. È maturato in Céline lentamente, obbligandolo a una ricerca continua e faticosa, esigendo da lui un’ostinazione senza tregua. (p. 70)

Se il suo linguaggio personale non appare ancora, sono già presenti invece i temi della futura opera narrativa. […]

Semmelweis è per Céline uno specchio che gli rimanda la propria immagine, o per lo meno quella particolare immagine che riesce a cogliere. E non si sbaglierà: la sua vita s’identificherà con quella di Semmelweis. (p. 71)

La società non accetta volentieri una vocazione. Essa infatti è un’insolenza, un fatto che sfugge ad ogni classificazione e previsione. Rispetto all’ordine stabilito è un’eccezione scandalosa. Nelle società contemporanee, che sono state fondate per alterare i risultati della selezione naturale, per livellare sempre più in basso e per distruggere le gerarchie del merito, la vocazione è un’offesa alla mistica egualitaria. (pp. 72-73)

Una follia: ecco come la considera la società.[…]

Semmelweis narra la storia di un Céline che ha scelto la medicina invece della letteratura: la storia di una vocazione incompresa, perseguitata e minacciata dalle consuetudini quotidiane, dalle aggressioni dell’imbecillità, dalla coalizione degli orgogli feriti: insomma dall’ipocrisia di tutti i conformisti. (p. 73)

Quell’uomo il cui viso farà paura; quel grande essere disarticolato, assalito dall’odio dei furbi e dalla tempesta delle imprecazioni; quel vinto, isolato nel quartiere degli appestati, un giorno sarà li, Céline. (p. 75)

Il suo disgusto non è il disgusto per la vita, ma una ripugnanza istintiva per tutto quel che guasta e corrompe la vita. Céline non odia l’umanità, ma le malattie che la corrompono.

Egli denuncia nei suoi libri la morbosa passione per la distruzione che invade gli uomini di oggi. (p. 78)

Ma Céline vuol dire ancora che l’uomo moderno ne ha fatto una sua complice. La morte non ci viene a prendere; siamo noi ad andarle incontro. Noi provochiamo quasi tutte le agonie, e la nostra prima di tutte. (p. 82)

Céline è l’uomo che impersona il furore di vivere. (p. 83)

Per vivere bisogna morire a se stessi e al mondo. (p. 84)

La vigliaccheria è uno dei riflessi dell’istinto di conservazione. È meglio essere un poveraccio qualunque in buona salute che un eroe morto. (p. 85)

Un animo nobile è quasi sempre un animo diviso.

La paura, poi la sfida. Aver voglia di fuggire, poi fronteggiare. Céline si rivela proprio in questi due eccessi, che egli finge di non conciliare mai, passando dall’uno all’altro con un impeto stupefacente. (p. 86)

GLI EBREI p. 88

Si son fatti sparire dalle opere complete di Céline tre libri: Bagattelle per un massacro, La scuola dei cadaveri, La bella rogna. Sono diventati i classici della letteratura clandestina. (p. 88)

Queste scelte hanno un solo scopo, di impedire che il buon Céline sia contaminato dal cattivo. Così si adotta per Céline la stessa disciplina vigente nei collegi. Il cattivo Céline, coperto di note negative e sottoposto a un castigo interminabile, è quello dei pamphlet. […]

Ma noi non crediamo sia cosa onesta, e nemmeno astuta, cancellare i pamphlets dall’opera celiniana. Essi ne fanno parte, hanno un loro posto ben preciso, anche se secondario[…]. (p. 89)

Da un punto di vista letterario non sono assolutamente libri trascurabili. […] Intendiamoci bene. I pamphlets celiniani sono a modo loro dei capolavori, ma nello stesso tempo libri falliti, quasi insopportabili. […]

Ma assumono un significato per il loro lirismo, per lo stile e per la paranoia che li agita e li stimola. (p. 90)[…]

Andando in ogni senso, spinti in ogni direzione, sono i sogni velenosi e complicati di un ossesso, di un maniaco. (p.104)

Nel caso di Céline l’apparenza è la follia: è un antisemitismo concepito come un odio viscerale.

Nei pamphlets gli Ebrei sono considerati responsabili di tutti i peccati, sia di quelli d’Israele, sia degli altri. Sono insomma i capri espiatori. Verrebbe voglia di credere che Céline li abbia inventati per far portare loro il peso di tutte le malformazioni di questo mondo. (p. 92)

Su un termine del vocabolario Céline fonda il suo Terrore. La parola Ebreo è sempre scritta da lui in maiuscolo.[…]

Quando a Céline un ebreo, odierna, pronuncia ma passata all’insieme la parola e futura. Ebreo degli Non , ebrei noti fa distinzioni. Amalgama, saltando le frontiere ed i secoli, raccogliendo pettegolezzi e verità insieme, correggendo i testi di storia, riunendo tutte le leggende che circolano sui ghetti e, per finire, gridando con una voce sconvolta dal furore: ecco l’Ebreo, l’immagine-slogan, il ritratto robot, la quintessenza d’Israele. (pp. 96-97)

Israele è per sempre ciò che ne dice lui, perché lui ha deciso di dire così. […]

Si tratta infatti di una follia, di una specie di furore sacro. Che cos’è l’ebreo di cui parla Céline? Un fantasma, un sogno colmo di collera. È un mostro per una farsa macabra, un essere senza consistenza, senza realtà. Come la maggior parte dei polemisti Céline si batte contro le ombre suscitate dalle collere della sua immaginazione. Non conosce i suoi avversari, cosa molto frequente negli scrittori di pamphlets. Egli si costruisce un’idea di Israele adatta al suo disgusto: è un popolo effeminato, decaduto, che è impegnato ad affrettare la corruzione della società e che usa tutte le qualità umane per compiere le bassezze più perfide e più infami, rifiutando per debolezza di risolvere la contesa con Hitler e ordinando ai giovani francesi, per mezzo delle pressioni della sua forza occulta, di risolverla al suo posto. (pp. 97-98)

Céline si serve della parola ebreo senza conoscerne l’esatto significato. La distorce a tal punto da ridurla a un vocabolo senza senso.

Ma il fatto più curioso è che egli non si limita solo a identificare Israele con l’idea preconcetta che se ne è fatta. Va ancora oltre; esige che tutta la parte più rilevante del popolo francese strappi le sue carte d’identità e si faccia naturalizzare israelita. Perché per lui tutti sono ebrei[…].

Se si dovesse interpretare Céline letteralmente, se si dovessero leggere i suoi pamphlets riga per riga, non si comprenderebbe più niente. (p. 99)

L ’Ebreo è un neologismo bizzarro che è sorto inavvertito nel linguaggio di Céline. […] Ritorna così spesso, riferito a tutto, come un leit-motiv, con un’insistenza monotona e aggressiva, pro­prio perché indica l’insieme dei terrori dello scrittore. […]

L’Ebreo può essere chiunque; siete voi, sono io, è (non inganniamoci), in alcuni momenti, lo stesso Céline. (p. 100)

Un polemista ha sempre bisogno di capri espiatori per rendere più concreta la sua indignazion e questi capri espiatori sono generalmente le autorità dell’ordine sociale. In Céline l’odio si rivolge contro le élites della società francese in ogni campo. Ma, secondo lui, le forze che dirigono la nazione sono nascoste nell’ombra, dissimulate dovunque, persino in noi stessi. (p. 101)

Quindi i suoi pamphlets non sono rivolti tanto contro una persona determinata, quanto piuttosto contro qualcosa. Contro che cosa? Contro una sostanza torbida, contro una paura invincibile. […]

Nel 1932 Céline diceva: la natura. Alcuni anni dopo dirà: l’Ebreo. […] La natura o l’Ebreo sono la stessa cosa. I termini sono diversi: ma il loro significato è identico. […]

Quando il termine Ebreo diventerà inutilizzabile nella sua opera per il troppo uso, lo sostituirà con la parola Cinese. Così ritroviamo nei pamphlet lo stesso mondo narrativo di Céline. Ci hanno fatto credere che essi ne erano mille miglia lontani; invece vi sono strettamente congiunti. (p. 102)

Céline è prigioniero in una caverna infestata dai fantasmi. O meglio infestata dall’Ebreo, dall’Ebreo errante. Dall’inizio alla fine della sua opera, da Semmelweis a Nord, l’Ebreo è presente. (p. 103)

È, dunque, ridicolo voler salvare una parte dell’opera célinina adoperandola in opposizione all’altra.[…]Tutti i libri di un rande scrittore hanno valore: sono come gli anelli di una catena. Rompere la catena significa distruggere la sua personalità.

Questo errore è ancora più imperdonabile nei confronti di Céline. Ci sono infatti due categorie di scrittori: quelli che si contraddicono e quelli che si ripetono. Céline appartiene alla seconda categoria. Scrive sempre lo stesso libro: ma non lo scrive mai nello stesso modo. Cambia tono, accento.

L ’accento grave è stato messo da Céline sui romanzi; e l’accento acuto sui pamphlet. […]

La polemica per lui non è altro che un attacco violento contro la paura. (p. 104)

La paura che dipinge Céline è l’allucinazione provocata dalla paura. È più o meno la definizione di André Gide. I pamphlet dunque sono strettamente legati ai romanzi. Benché la parola Ebreo sia in essi un errore eccessivo, noi possiamo rimetterli al loro posto, nelle opere complete di Céline. (p. 105)

LA GUERRA p. 106

Ora sappiamo che l’Ebreo è il nome della paura celiniana. Ma perché questo nome appare solo nel 1937 e non prima? Perché l’angoscia di Céline è l’angoscia della Morte; perché la guerra è per lui l’immagine più folle, più consistente, più disgustosa di questa Morte; perché, secondo lo scrittore, l’Ebreo vuole che la Francia faccia la guerra al suo posto[…]. (p. 106)

L’Europa è morta, seppellita sotto le macerie del 1914 e del 1940. Il suo tempo è passato. […]

Ma quando Céline si alzò in piedi e gridò: “Abbasso la guerra! Viva la pace europea!”, era ormai troppo tardi. […]

La guerra divenne inevitabile. (p. 107)

Céline invece cominciò a delirare quando esse erano ormai insediate[…] (p. 107)

Egli chiamava in soccorso l’istinto della vita quando ormai aveva trionfato l’istinto della morte. […]

L’Europa ormai correva verso la distruzione e la sconfitta; non per colpa degli ebrei, degli ebrei immaginati e dipinti da Céline, ma perché Hitler era il più violento nazionalista di tutta la storia tedesca. Fu lui a volere la guerra; a prepararla; e le democrazie occidentali ebbero solo un torto, di essere state due volte imprevidenti; di giudicare il nazismo debole e di considerare se stesse molto forti; insomma di essersi sbagliate sulle reali condizioni dell’equilibrio europeo e di averlo poi, con poca saggezza politica, spezzato. (p. 108)

Malgrado questa mancanza di senso critico e l’assurdo atteggiamento nei confronti degli Ebrei, Céline aveva colto una situazione reale: l’Europa stava per uccidersi. […]

Se Céline conosceva gli ebrei male e inesattamente, conosceva però molto bene la guerra e i suoi effetti, cose che i pacifisti abitualmente ignorano. Quindi il suo pacifismo era profondo e ragionato, sentito con tutto il cuore.

La guerra è per Céline un ricordo spaventoso. (p. 109)

È la sua guerra. La mette dappertutto. La sua opera è colma, ripiena di ricordi di guerra; vacilla sotto il peso di questi. […]

Per Céline non esiste una guerra giusta. […]

La guerra è, di per se stessa, la maggiore atrocità mai vista sulla faccia della terra. (p. 110)

La guerra che Céline descrive nel Viaggio al termine della notte non è una parata militare con cavalieri impennacchiati; e non è nemmeno un discorso sulle virtù virili. È una profezia di morte, il girotondo degli sventurati, dei decapitati, degli amputati, il corteo della demenza pidocchiosa. Non ha nulla di nobile; è una porcheria schifosa, un carnaio putrido dove la povera gente annega. (pp. 110-111)

La guerra l’ha iniziato: non all’amore o all’ebrezza del piacere, ma alla follia e alla morte. (p. 112)

Se non ci fosse stata la guerra, l’opera di Céline non avrebbe assunto lo stesso tono. E, sicuramente, non sarebbero stati scritti i pamphlet. Essi infatti sono ricordi di guerra[…]. (p. 113)

Invece di descrivere la guerra o di raccontarcela, la piazza davanti a noi. (pp. 115-116)

Di fronte a questa guerra apocalittica e disumana Céline costruisce l’immagine del pacifismo del ventesimo secolo. I pamphlet sono in un certo senso un trattato intorno a questo pacifismo. (p. 116)

Céline chiede allo Stato di farsi obiettore di coscienza. Gli dice che, anche se la vittoria fosse a portata di mano, conviene trovare un accordo con l’avversario. (pp. 118-119)

La chiede in nome di un principio assoluto: perché la guerra moderna è un attentato contro l’umanità, un agguato da cui è impossibile tornare indietro. I pamphlet sono l’espressione violenta di questa esigenza. (p. 119)

Secondo Céline non esiste più una vera élite; ma solo degli stomachi deformati dall’ingordigia, dei ventri grassi il cui primo dovere pubblico è la gastronomia. (p. 123)

Il medico Céline parla dell’uomo come di uno stomaco rovinato perché vuole renderlo sensibile a sollecitazioni diverse da quelle puramente elementari. Vuole che ritorniamo alla natura e ad una vita autentica. (p. 127)

Céline crede nella sola cosa necessaria, nel ritorno a una vita nobile. (p. 128)

IL LINGUAGGIO p. 131

Il linguaggio di Céline non passò certo inosservato. Era così nuovo e geniale da bruciare gli occhi. Ma la bruciatura impedì ai critici di tenerli aperti. Così essi li chiusero e non si accorsero per molto tempo di nulla. (p. 131)

Sia nei Colloqui che in Bagattelle per un massacro, Céline tratta la letteratura contemporanea come un bersaglio da fiera. […] Céline non si scaglia contro i letterati, ma contro la letteratura moderna. (p. 133)

Che cosa ha inventato? Ha introdotto nella lingua scritta l’emozione e il ritmo della lingua parlata.

Céline non può perdonare alla letteratura contemporanea un difetto per lui decisivo: la mancanza di una carica emotiva. Cerchiamo di spiegare meglio questa affermazione. Che cos’è l’emozione del linguaggio parlato? (p. 136)

Lo stile celiniano è un lavoro paziente: costruito punto per punto, esatto, minuzioso. Le frasi paiono non avere né capo né coda. (p. 137)

La scrittura di Céline non è altro che l’effetto, il riflesso del suo modo di sentire, la trascrizione letteraria del suo mondo interiore. Così possiamo dire con sicurezza che la scrittura è l’interprete della sensibilità celiniana. Lo stile è l’uomo stesso.

Questa scrittura non ha un ritmo regolare. Le parole fuggono, ma al passo di carica, in uno scompiglio che non si calma mai. La frase non respira: ansima, soffoca. (p. 141)

L’errore commesso da Céline è di aver voluto imporre nei manifesti letterari il suo stile a scrittori che non avevano il suo temperamento. (p. 143)

La sua vulnerabilità era dovuta al fatto che né culturalmente né letterariamente apparteneva alla tradizione del francese medio. Prima di tutto non nascondeva certo la sua follia, le tenebre da cui sorgeva. (p. 146)

Gettare in piena luce la notte dell’uomo e dell’umanità è il fine dell’opera di Céline. (p. 147)

Quando Céline è morto, non l’ha saputo quasi nessuno, eccetto alcuni amici che lo hanno sotterrato in una clandestinità gloriosa. I suoi parenti hanno rivelato allora che questo medico non aveva né clienti, né la cameriera, né l’automobile, il che ha impressionato più della sua muta di molossi ringhianti. Così si è scoperto che era l’unico medico al mondo a vivere in quelle condizioni. (pp. 148-149)

RICORDO DI POL VANDROMME p. 163

BIBLIOGRAFIA (1963) p.164