PAOLO MAURENSIG – CANONE INVERSO

 

PAOLO MAURENSIG – CANONE INVERSO
MONDADORI – Collana Oscar Bestsellers n.852 – 2006

Un uomo acquista in un’asta, a Londra, un violino Steiner del ‘600 a modico prezzo. Lo strumento, dalla particolare testa antropomorfa intagliata sul cavigliere in luogo della chiocciola tradizionale, ha avuto come ultimo possessore un tale ricoverato in una clinica psichiatrica viennese…

Qualche tempo fa, a un’asta di strumenti musicali da Christie’s, a Londra, riuscii ad aggiudicarmi per sole ventimila sterline un violino di Jakob Stainer, uno dei più apprezzati liutai tirolesi del Seicento. Mi considerai fortunato: per averlo sarei stato disposto a pagare qualsiasi prezzo. Lo strumento mi venne recapitato la mattina dopo all’albergo Dorchester, dov’ero alloggiato. Sulla scheda informativa, come ultimo proprietario figura­va il nome di un istituto psichiatrico di Vienna che conoscevo bene. (p.10)
Un particolare notevole era costituito da una testi­na antropomorfa intagliata sul cavigliere al posto della chiocciola tradizionale. […]
Questa invece ripro­duceva molto finemente il volto di un uomo[…] (p.11)

Nella camera d’albergo in cui gli viene recapitato, adagiatolo su di una poltrona per osservarlo minuziosamente, mentre si appresta a pranzare ecco un uomo chiedere di poter salire. Accetta e lo accoglie… È nervoso il visitatore che alla fine gli propone di vendergli lo strumento a prezzo doppio, triplo… A poco a poco si cheta, chiedendo scusa nel congedarsi…

Mi ero appena seduto a tavola quando squillò il telefono. Dalla reception mi annunciavano la visita di una persona che veniva direttamente da Christie’s.[…]
Fui pre­so da una forte inquietudine. Già mi vedevo nell’atto di dover restituire il mio prezioso violino. (p.12)
E quel che temevo accadde quasi subito. Fattosi improvvisamente nervoso, quasi stesse per propormi qualcosa di poco pulito, l’uomo mi chiese se sarei stato disposto a cedergli il violino per il doppio, anzi per il triplo della cifra che avevo pagato. (p.13)

Il collezionista gli chiede spiegazioni. È uno scrittore, rivela allora i visitatore e quel violino gli serve per tentare la ricostruzione di una tragica storia. L’esistenza di quel violino prova infatti che chi gliel’ha raccontata è realmente esistito. Lo ha conosciuto anni addietro il possessore di quel violino, ma poi ha dubitato della sua esistenza…
Il collezionista lo invita allora a sedersi e a raccontagli la storia…

«E perché mai s’interessa a questo violino?»
«Sono uno scrittore, e questo strumento è legato a una storia. A una storia terribile a cui però vorrei mettere la parola fine. Ed è anche la prova che la persona che me l’ha raccontata è realmente esistita, sebbene questo non spieghi ancora tutto.»[…]
«Non vorrei essere preso per pazzo. Io ho conosciu­to il proprietario di questo violino, e poi in seguito ho dubitato della sua esistenza. Finché non mi è capitato per puro caso di sfogliare il catalogo di Chri­stie’s. Per questo mi premeva avere quest’unica pro­va. Ma forse dovrei raccontarle tutto dall’inizio.» Io sedetti in poltrona, invitandolo a fare altrettan­to, e a raccontare. Lo sconosciuto esitò un attimo, poi cominciò a parlare. (pp.15-16)

Melomane, l’anno prima lo scrittore si è recato a Vienna in occasione di una due giorni di concerti dedicati a Bach per il trecentesimo anniversario della sua nascita…

Il fatto che sto per narrarle avvenne un anno fa, a Vienna. Come ho già detto, non sono un musicista. Sono solo un appassionato, un melomane. La musica è la mia consolazione. Quest’arte, nella sua essenza sfuggente, nella continua vanificazione di se stessa, assomiglia all’idea che mi sono fatto della vita. L’anno scorso, dunque, ricorreva il trecentesimo anniversario della nascita di Bach, e in tutta Europa si commemorava questa data con una serie straordi­naria di concerti. […]

Una sera, nel quartiere di Grinzing, entra in una locanda la cui immagine dell’insegna raffigura la danza dei contadini al suono di una zampogna, particolare di un quadro di Bruegel…

Mi fermai a un ’insegna che riproduceva il particolare di un quadro di Bruegel il Vecchio: la
danza dei contadini al suono di una zampogna. (p.18)

È lì che si presenta un trasandato ma straordinariamente abile violinista che, tra bevute, scherzi e insolenze, finisce per chiedergli quale brano vuol che suoni e quanto sia disposto a pagarlo. La Ciaccona per mille scellini, chiede lo scrittore. Il violinista sembra andarsene, ma eccolo suonare alla grande un pezzo tanto difficile…
L’indomani lo scrittore si risveglia dopo mezzogiorno con i postumi della sbornia presa la sera prima. Anche il violinista era alla fine stramazzato per il troppo alcol…
Prima di recarsi al concerto di Bach decide di tornare alla Locanda per avere informazioni sul violinista, ma nessuno afferma di ricordarlo o di conoscerlo…
Dopo il concerto,vaga per la città nella vana speranza di incontrarlo, credendo infine di udirne il violino in ogni dove. È al tavolino esterno di una locanda sul Danubio che quello lo riconosce sedendosi al suo fianco. Tra una bevuta e l’altra parlano di musica. Il violinista gli racconterà una storia che, volendo, potrà un giorno scrivere per lui…

Poco dopo la porta d ’ingresso si aprì facendo tin­tinnare un grappolo di campanellini appeso sopra lo stipite. Ed entrò lui, l’uomo di questa storia. Era di età indefinibile, vestito come un cocchiere: stivali, mantello di cerata, e in testa una bombetta. (p.20)
Dalla platea si levò imme­diatamente un coro di richieste, che l’uomo dopo un po’ cominciò a soddisfare: Strauss, Lehàr, e La prin­cipessa della czarda e il Bel Danubio blu. Eseguiva
tutto con maestria e con un profluvio di variazioni che mandavano in visibilio l’uditorio. (p.21)
«Così questa sera abbiamo rinunciato alla buona musica per il solito folklore locale?»
Mi volto di scatto e me lo ritrovo dinanzi col suo mantello scuro, la bombetta calcata in testa e il violi­no a tracolla. Credo che neppure di fronte all’appa­rizione del demonio avrei provato una tale sorpresa. (p.33)
«Per aiutarla a comprendere che cos’è la musica e a che cosa può portare questa tremenda passione dovrei raccontarle dal principio la storia di quel vio­linista che aveva l’anima imprigionata nel violino. Ma c’è un’altra storia che non ho mai raccontato a nessuno. Non mi resta molto tempo, credo, ma pri­ma di tornarmene da dove sono venuto vorrei rac­contarla proprio a lei. E chissà che un giorno lei non possa scriverla per me.» (p.40)

È il 28 agosto 1985 e il musicista inizia il racconto della propria vita. Si chiama Jeno Varga ed è nato a Nagyret, in Ungheria, dove è cresciuto senza aver mai conosciuto il padre, a detta della madre disperso in guerra. Dell’uomo la donna conserva un solo medaglione e il magnifico violino che ora suona. ..

L’uomo esordì in maniera singolare:
Quello che sto per raccontarle qui a Vienna, oggi, il 28 agosto 1985, corrisponde a sacrosanta verità. Mi chiamo Jenò Varga e sono originario di Nagyret, un paese dell’Ungheria ai confini con la Slovenia e l’Austria. Sono figlio naturale, tanto per intenderci.
Non ho mai saputo il nome di mio padre, seppure qualche sospetto infine l’abbia anche avuto. Mia ma­dre, quando incominciai a farle le prime imbaraz­zanti domande, mi disse che mio padre era disperso in guerra. Ma lei conservava sempre la speranza di vederlo tornare, un giorno. Mi parlava spesso di lui. (p.42)
Mia madre custodiva solo due oggetti che erano appartenuti a mio padre: un medaglione d’oro, che lei portava sempre al collo, e questo violino al quale si è legato il destino della mia vita. (p.43)

Fin da piccolo è sempre stato affascinato dal suono del violino. La madre, rimasta sola, si risposa con il fattore presso cui lavorava e la cui azienda si fa sempre più prospera…
Al ritorno da un viaggio d’affari, l’uomo gli porta un violino in dono e così, a sette anni, Jeno inizia a suonare… Fin da subito è evidente la sua bravura, pur non sapendo leggere la musica. Il professore di musica convince allora la madre a mandarlo a lezione da un ex-violinista dell’Orchestra di Stato…

Fu proprio al ritorno da uno di quei viaggi d ’affari che mi portò in regalo un violino. In realtà era stata mia madre a commissionarglielo, ma io gliene fui grato ugualmente. Era un violino in miniatura, un quarto di violino, poiché avevo solo sette anni. E quando lo imbracciai per la prima volta, solletican­done le corde con l’archetto, sentii come se una ma­no si sovrapponesse alla mia, per guidarla. Quasi senza accorgermene accennai le note di una canzone che era solita cantare mia madre. (pp.45-46)
 Così, per qualche anno, suonai il violino come per gioco. Senza che nessuno me l’insegnasse, impa­rai ad accordarlo, e già riuscivo a eseguire tutte le canzoni che conoscevo, con tanto di variazioni e di­minuzioni. Se qualcuno accennava con la voce a un motivo nuovo, ero in grado di riprodurlo immedia­tamente. Ed ero anche capace di improvvisare melo­die di mia invenzione. Non sapevo però leggere le note, e ignoravo assolutamente che cosa fosse la teo­ria musicale, se si esclude quel poco che stavo apprendendo a scuola durante l’ora di canto. (p.46)

Passano gli anni e, trasferitisi a Budapest, neppure al Conservatorio sembra aver più molto da apprendere… La musica diviene così la sua unica ragione di vita, finendo però per ammalarsi e per dover riposare lontano dal violino. Un pomeriggio, nello squallido albergo sul lago Balaton in cui sono alloggiati, udite le note di un violino, resta estasiato nell’ascoltare gli esercizi di un virtuoso all’opera nell’appartamento sottostante. Chi poteva essere? La celebre Sophie Hirschbaum, scopre l’indomani…

Ma torniamo a noi. Gli affari del mio patrigno an­davano sempre meglio, e dopo qualche anno ci tra­sferimmo a Budapest dove cominciai a frequentare corsi regolari. (p.49)
«Hirschbaum?» chiesi, quasi accecato da un’im­provvisa vampata di sangue al volto. «Sophie Hir­schbaum?»
Appresi così che la famosa concertista austriaca era scesa da pochi giorni al nostro albergo. (p.55)

L’indomani, scortala in terrazza, si fa coraggio andando a presentarsi, innamorato a prima vista. La ragazza lo invita a sentirla suonare nel pomeriggio e così, alle sedici in punto, eccolo su una poltrona ad assistere ai virtuosismi di Sophie che, dopo un po’, gli chiede di suonare con lei. Seppur emozionato, Jeno non sbaglia, ricevendo un bacio e l’incitamento a non mollare la musica…

Non la conoscevo, non l’avevo mai vista, ma quan­do proprio quella mattina venne a sedersi sul terraz­zo a pochi metri dal posto in cui mi trovavo con mia madre, non ebbi alcun dubbio: la riconobbi con quello scarto di preveggenza che ci fa ricordare un volto ancora prima di scorgerlo, come se affiorasse da una memoria che non ci appartiene. Era seduta poco distante. Accortasi a un tratto che la stavo fissando, mi rivolse un sorriso. (p.55)
Deve essere lei, mi dicevo. Ma ne ebbi la certezza solo nell’istante in cui, rovesciando all’indietro la testa per voltarsi verso il cameriere che le era arriva­to alle spalle, scoprì quella bruciatura brunastra tra il collo e la mascella, quel segno che i violinisti si procurano negli anni poggiando la guancia sulla dura conchiglia d’ebano del loro strumento. Non c’era dubbio, mi trovavo al cospetto di Sophie Hirschbaum. E sentii già di esserne innamorato. Non aspettai tuttavia un solo m inuto per cono­scerla. In coraggio superai me stesso. Andai senza esitare al suo tavolo e, presentatomi, le dissi che an­ch’io suonavo il violino, e che ero un suo grande am­miratore.[…]
[…]mi propose di rinunciare a una posizione così scomoda e di andare da lei a prendere il tè quel pomeriggio stesso, alle quattro. Così, disse, avrei potuto ascoltarla seduto comodamente in poltrona. Ottenuto il permesso da mia madre, alle quattro, puntualmente, bussai all’appartam ento di Sophie. (p.56)
Sentii che l’avrei amata per tutta la vita. Non mi importava che lei fosse una donna adulta e io solo un bambino, che a dividerci ci fossero più di dieci anni di età (a quel tempo Sophie Hirschbaum aveva ven­tiquattro anni, io tredici non ancora compiuti), né mi preoccupavo del fatto che lei avrebbe proseguito la sua tournée in Europa, e io invece me ne sarei tor­ nato presto a Budapest. (p.57)
«E un vero peccato che tu non abbia portato il tuo violino» disse lei. «Ma per adesso si può rimediare.» E porgendomi il suo, quello con cui aveva appena suonato, mi chiese di farle sentire qualcosa. […] Sophie mi si affiancò subito con la viola, sostenendo le mie note in con­trappunto. E quando la musica si dissolse sulla do­minante, restammo lì fermi, vicini, uniti dalla stessa emozione. Lei mi guardò allora in modo strano e poi, strettomi tra le braccia, mi baciò sulla bocca. (p.58)

L’indomani giungono in albergo tre inservienti e il fidanzato di Sophie che, dopo l’ennesimo litigio, se ne va lasciando sola la donna che si taglia i polsi dopo aver ingerito un tubetto di Veronal…

Subito dopo, soccorsa dal medico dell’albergo, il quale riuscì ad arrestarle l’emorragia, Sophie Hir­schbaum fu portata al più vicino ospedale. Prima di tagliarsi i polsi con la punta di una forbice, aveva in­gerito un intero tubetto di veronal. (p.60)

Dopo pochi giorni anche  Jeno, sollevato nel leggere sul giornale della sopravvivenza di Sophie, lascia assieme alla madre l’albergo per rientrare a Budapest. Una sorpresa lo attende: la madre ha deciso di lasciargli usare il violino del padre…

Già sentivo che non avrei resistito alla dispe­razione, quando, seguendo il suo sguardo, vidi, po­sato sul tavolo, il violino che era appartenuto a mio padre.
«E arrivato il momento di consegnartelo» disse abbracciandomi. (p.61)

Jeno prosegue il racconto…
1932… A tredici anni, vincendo un concorso, ottiene una borsa di studio per il celebre Collegium Musicum di Vienna dove anche la sua amata Sophie ha studiato. Ed eccolo già a sognare di suonare un giorno assieme a lei… Ma il Collegium si rivela opprimente luogo nel quale il talento non è riconosciuto, mortificato anzi in favore della tecnica. Impossibile uscirne se non da morti o sconfitti…
Inospitale l’ambiente, ferrea la disciplina e infinite le regole e le proibizioni da rispettare e sopportare… un vero e proprio inferno…

Era il 1932 e io compivo il tredicesimo anno. Un an­no importante. Mi distinsi a tal punto nello studio da essere ammesso a un concorso internazionale, intito­lato alla memoria del grande Joseph Joachim. […]
L’importanza di questo concorso consisteva nel fatto che al vincitore veniva assegnata una borsa di studio che gli permetteva di accedere al Collegium Musicum, il sogno di ogni giovane violinista. Il Collegium Musicum, non lontano da Viennera, tra le tante strade che portano all’Olimpo, la più ardua, ma anche la più diretta. Diplomarsi al Collegium significava infatti avere un posto garanti­to in qualche grande orchestra stabile. (p.63)
Già nel preciso istante in cui il portone di ferro si richiudeva alle mie spalle capii che da quel luogo c’era un solo modo per uscire, sopportando cioè fino all’ultimo ogni umiliazione, ogni volontà di chi vole­va rallentare la mia crescita.[…]
Avrei dovuto quindi concludere con successo i miei studi, o morirci. (p.67)
Da lontano appariva come una fortezza costruita sulla nuda roccia. E anche all’interno tutto sembrava rivolto su se stesso e chiuso al mondo esterno, ché al di fuori l’edificio apriva solo rare feritoie su un paesaggio brullo e pietroso, su un orizzonte offuscato che non lasciava intravedere neppure lontanamente un solo segno di quel consor­zio umano che temevamo di aver lasciato per sem­pre. (pp.66-67)
Ma in realtà nessuno correva questo rischio, perché il Collegium Musicum era un campo
di competizione feroce, dove ognuno pensava solo a se stesso. Ogni sgarro aveva una precisa valutazione sulla pagella dell’allievo, e bastava poco per rischiare l’espulsione. Regole e proibizioni non si contavano. (p.69)

Il professor “Calante”, grassone invidioso dei giovani talenti, dopo averlo ascoltato suonare gli impone di consegnare il violino del padre per usarne uno della scuola con il quale lavorare sull’intonazione. Dopo gli scontri iniziali, Jeno si adatta riuscendo a riavere il proprio violino in pochi mesi…

Gli insegnanti, invece, erano dei reclusi come noi (ma è risaputo che aguzzini e vittime dividono in qualche modo la stessa sorte). Ho parlato a ragione di vittime e di aguzzini. I nostri insegnanti di musica, per lo più anziani, erano stati tutti allievi del Colle­gium. Qualcosa però doveva avergli impedito, al ter­mine degli studi, di spiccare il volo. (p.72)
«Mmmh, mmmh, vedo, vedo» ripetè osservando il violino. «Però questo violino mi sembra troppo grande per la sua mano, e quando lo strum ento è troppo grande è inevitabile che le note risultino ca­lanti. Dovrà esercitarsi, piccioncino mio, dovrà esercitarsi molto. Non creda di sapere già tutto. La velo­cità a scapito dell’intonazione è il difetto più frequente in chi si sente di essere un genio, come lei. […]
Sarei morto, piuttosto! Eppure l’ebbe vinta lui, dovetti consegnare il mio prezioso strumento al magazziniere, il quale mi firmò tanto di ri­cevuta e in cambio mi dette un violino luccicante e anonimo. (p.74)
Ma lui non si accorgeva di niente. Credo che alla fine provasse per me addirittura una certa sim­patia. Tant’è che dopo qualche mese mi fece riavere il mio violino. (p.75)

In estate, finita la scuola, il rientro a casa è sempre privo di felicità, ormai assuefatto al rigore del Collegio e dedito agli esercizi musicali. Talmente alienato poi, da restare quasi insensibile alla morte della madre per i postumi di un parto…

Improvvisamente mi sen­tivo straniero in mezzo a tutta quella gente chiassosa che nulla aveva a che vedere con la musica, e parlava di tutt’altro, e si agitava per cose che non capivo. A casa, il mio tempo era dedicato esclusivamente all’esercizio, alla pratica strumentale. Tutto il resto mi era estraneo, e anch’io apparivo estraneo agli al­tri. Persino mia madre diceva di non riconoscermi più. L’ultima volta che la vidi, però, anche lei mi sembrò cambiata. La trovai appesantita. […]
Fu durante il quarto anno di collegio, all’inizio del primo trimestre, che ricevetti un telegramma da ca­sa: il mio patrigno mi pregava di rientrare al più pre­sto perché mia madre stava male. (p.80)
Tutto si era svolto in mia presenza, eppure era in me se mi trovassi altrove. Non provavo dolore, ero diventato duro come un orcio, l’anima mia non c’era più, solo la ragione osservava con occhio distaccato ogni dettaglio. Ma la ragione non conosce il pianto. Se mai provavo qualcosa era solo un sentimento di disagio dovuto al fatto che sarei stato costretto ad accantonare il mio violino. In un momento in cui avrei dovuto pensare solo alla perdita subita, vivevo quell’evento come un fastidioso accidente che mi distoglieva dalla mia disciplina. Mi sentivo irritato perché per tutto il tempo delle esequie non mi sarei potuto dedicare alla musica. […]
Le basti questo per capire quanto distorta era or­mai la mia mente. (p.81)

Ha diciassette anni e ottiene una rendita mensile fino ai ventuno e la garanzia dal patrigno di porter restare lì a lavorare nella sua azienda…
Tornato al Collegio, a poco a poco il dolore e la tristezza si impadroniscono di lui, rendendolo un freddo musicista…

Scoprii la gelida struttura della tecnica – corpus sine spiritu – gesti automatici che provocavano diatonie, cromatismi, dissonanze, melodie. Eppure di là da tutto questo restava un ostinato silenzio. (p.84)

Ma, in quel terribile anno durante il quale più volte ha meditato l’abbandono, eccolo fare la conoscenza casuale con un abilissimo violinista, Kuno Blau, erede di una nobile famiglia…

Fu anche l’anno in cui conobbi Kuno, il mio pri­mo amico. (p.86)
Questo accadde anche fra me e Kuno. La sua pre­senza mi si manifestò un giorno, per la prima volta, durante gli esercizi mattutini. (p.87)
Per un istante mi sentii gelare. Quel ragazzo mi as­somigliava, aveva sicuramente la mia età, la stessa corporatura, le stesse mani, ma aveva soprattutto quella espressione rapita che mi sentivo dipinta sul volto mentre suonavo. (p.88)

Saranno loro i due violini designati per il saggio di fine anno, nettamente più bravi di tutti gli altri allievi…

Kuno e io eravamo i migliori del nostro corso, e forse di tutta la scuola. Ad attrarci all’inizio fu un sentimento di reciproca ammirazione. […]
Per il saggio di fine anno fummo noi due i violini prescelti per suonare, di Mozart, il quartetto Le dis­sonanze, con il grande Piatigorskij al violoncello.(p.91)

Terminato l’anno di studio, Jeno si trasferisce a Vienna per l’estate, suonando quattro ore al giorno e dedicandosi a lunghe passeggiate. Letto su un giornale di corsi di Sophie per giovani diplomati da tenersi l’anno seguente, ottenuto l’indirizzo della donna al Conservtorio, eccolo appostarvisi. Al terzo giorno un uomo gli chiede chi stia cercando, invitandolo a salire dopo aver sentito nominare Sophie. L’uomo si rivela essere il padre della ragazza, professor Albert Ganz (la ragazza ha tenuto il cognome della madre), che gli mostra un album fotografico prima di invitarlo a suonare qualcosa assieme. Tornerà spesso Jeno, lasciandogli anche una lettera per Sophie…

 E poi, notando la mia sorpresa, aggiunse: «Sì, mia figlia Sophie ha voluto mantenere il cognome di sua madre, ritenendolo più adatto alla carriera». (p.96)
Mi porse quindi uno dei due volumi, un album di fotografie, che cominciai a sfogliare dapprima con curiosità, poi con commosso interesse. Lì dentro c’era tutta la vita di Sophie.[…]
Infine, era già pomeriggio inoltrato, il professor Ganz mi chiese se mi andava di suonare qualcosa as­sieme a lui. Passammo nella stanza del pianoforte. (p.97)
In quella casa tornai altre volte, e prima di partire per il collegio lasciai al professor Ganz una lettera per Sophie[…] (p.98)

Tornato al Collegium, l’amicizia con Kuno si rafforza senza competizione su chi sia il migliore tra di loro. Ma ecco che per il saggio di fine anno uno solo di loro potrà essere primo violino. Inizialmente disposto a lasciargli il posto, Jeno ci ripensa nell’apprendere che ospite da affiancare sarà Sophie! Una Commissione entra però in scena interrogando studenti che poi scompaiono. I saggi di fine anno sono annullati e così l’esperienza al Collegium si conclude nella maniera più triste e mediocre possibile…

Feci dunque ritorno al collegio. Mi restava solo un anno. (p.98)
Ma la presenza di Kuno mi fu di conforto. La nostra amicizia durante quell’anno si saldò e superò tutte le ostilità. […]
La formazione dell’orchestra per il saggio di fine anno prevedeva che uno solo degli allievi diplomati avrebbe eseguito la parte del primo violino. O me­glio, quella parte sarebbe stata sicuramente affidata a Kuno o a me. Ma non ci sarebbe stata contesa, per­ché gli avrei ceduto volentieri il mio posto.(p.99)
Ma quando a metà corso si diffuse la notizia che il concerto sarebbe stato eseguito a Vienna e tra­smesso dalla radio nazionale austriaca, e che il soli­sta sarebbe stata Sophie Hirschbaum, dovetti ricre­dermi sul mio sentim ento d ’altruismo. In quel concerto il primo violino non potevo che essere io, il più vicino a Sophie. Perché così voleva sicura­mente il destino.[…]
In realtà non successe nulla di tutto questo. Il programma fu tutt’a un tratto cancellato. (p.100)
Sta di fatto comunque che il concerto viennese non si fece. E così ancora una volta il tanto atteso incontro con Sophie H irschbaum sfumò. L’anno si concluse come tutti gli altri. Anzi, peggio. Non ci furono gli ormai tradizionali seminari di grandi violinisti. Non ci fu neppure il concerto di chiusura. Dovemmo ascoltare lunghi discorsi sulla musica e il patriottismo, sulla funzione della musica nella società, sulla degenerazione della musica con­ temporanea. (p.101)
Addirittura, prima di lasciare il collegio guardai con altri occhi i miei compagni e anche gli insegnan­ti. Provavo per loro non solo dell’affetto, ma anche un po’ d ’invidia. Io dovevo andarmene, loro poteva­no restare. (p.102)

Passato per Vienna a ritirare il sussidio, scoperto che il signor Ganz è partito dopo aver venduto tutto, Jeno si reca infine al castello di Kuno a Hofstein, tenendo così fede alla promessa fattagli al termine degli studi… Il Castello è immenso e Jeno ci si trova bene, sebbene le giornate scorrano lente e quasi immobili, per lo più in solitudine…

In confronto alla vita frenetica ma disciplinata che conducevamo in collegio, il tempo sembrava essersi fatto immobile. Tutto sembrava racchiuso in una boccia di cristallo. Le giornate trascorrevano con in­ credibile lentezza. Kuno si esercitava al violino nella sua stanza, io nella mia. (p.111)

Cerca di essere il più riservato e appartato possibile. Tutti lo trattano bene e solo il barone sembra volerlo evitare…
Ogni giorno giungono in visita al castello una serie di ospiti fissi o di passaggio che si fermano per la cena, un appuntamento al quale la vecchia e inferma nonna non manca mai. La donna, semiparalizzata, invoca sovente piangendo il figlio Gustav. Tra storie di avi e leggende, Kuno gli mostra la tomba dello zio raccontandogliene la storia. L’uomo, scomparso improvvisamente, viene identificato in un cadavere annegato e seppellito nella tomba a lui dedicata. Ma il cadavere scompare la sera stessa della sepoltura. Secondo Kuno non è affatto morto, ma vivo e ricco…

E mentre tor­navamo verso il castello egli mi raccontò la storia dello zio Gustav, fratello di suo padre, medico e scienziato. Gustav era scomparso misteriosamente prima che Kuno nascesse. Q ualcuno parlava di minacce di morte, altri della fuga da un amore impossibile. Qualche settimana dopo fu ripescato dal fiume un cadavere irriconoscibile che però, per alcuni partico­lari, venne identificato per quello di Gustav. Così il suo corpo, o meglio, quello che si presumeva fosse il suo corpo, fu seppellito in quel cimitero di famiglia. Ma la terra non fece in tem po a rassodarsi che la tomba venne profanata e il corpo trafugato. La cosa fece grande impressione, e non molto tempo dopo, per il dolore, la baronessa fu colpita da un’apoples­sia che la immobilizzo su una sedia a rotelle. «Ma io non credo che lo zio Gustav sia morto» disse Kuno. (pp. 116-117)

I due amici suonano duetti di ignoti autori reperiti tra le carte della biblioteca e parlano d’immortalità riprendendo il principale argomento di conversazione delle cene…

Kuno e io, invece, ci appartavamo nella sala di musica, dove suonavamo duetti per violino, pescan­do tra gli innumerevoli spartiti inediti conservati, o meglio, accatastati in un armadio. (p.120)
L’argomento degli argomenti era l’immortalità. (p.121)

Ma, di giorno in giorno, ecco che il rapporto di amicizia inizia a incrinarsi… Kuno si mostra capace, per un no ricevuto, di gesti d’insensata crudeltà o di rimangiarsi la parola data, come quando Jeno rifiuta di cedergli il violino del padre e, in una successiva battuta di caccia, uccide il cane reo di non aver lasciato l’uccello colpito dall’amico; o di quando non conferma al padre di aver regalato un prezioso archetto a Jeno, archetto che spezza al successivo rifiuto dell’amico di tenerlo…

Mi sentivo smarrito. Cominciavo a pensare che l’amicizia con Kuno avesse avuto la sua vera ragion d ’essere solo tra le mura del Collegium Musicum. Lì dentro entrambi avevamo lottato per anni contro in­segnanti nemici, eravamo stati costretti a servire l’idolo della tecnica, avevamo cercato di annullare il peso e la ribellione dell’arco. Lì dentro eravamo uguali. Ma ora qualcosa era cambiato, Kuno non era più quello di un tempo. Già cominciava a prendere le distanze. Tutte le volte che suonavamo assieme, lui si arrogava il diritto di scegliere la parte che più gli piaceva. Voleva prevalere in ogni occasione. (p.123)
Pro­vavo la netta sensazione che egli volesse servirsi di me. Eppure stavo al suo giuoco e, sordo a ogni ri­chiamo della ragione, mi lasciavo coinvolgere sem­pre più. Senza che me ne avvedessi, ciò che aveva trovato il suo supremo compimento nella folgorazio­ne iniziale, aveva già cominciato da tempo la sua cor­sa retrograda, il suo conto alla rovescia, o, se voglia­mo usare un termine musicale: il suo canone inverso. (p.125)
Me ne avrebbe dato un altro di uguale valore, mi disse, oppure me l’avrebbe anche pagato. A quella proposta non potei fare a meno di manifestare il mio sconcerto. Per me quel violino aveva un valore ine­stimabile. Avrei mai potuto barattare o vendere la mia testa, il mio cuore? Naturalmente rifiutai. (p.126)

Il tempo passa e Jeno è ormai al castello da oltre un mese, vivendoci sempre più isolato…  Una sera, a cena, il ragazzo interviene in una conversazione contraddicendo il barone: il talento non è ereditario, ma dono dello spirito… Il gesto impudente provoca le ire di Kuno che per giorni non gli rivolgerà la parola, mentre il barone accetterà invece le sue scuse chiedendogli informazioni sul suo passato…

 Era già passato un mese dal gior­no del mio arrivo, e la stagione ormai volgeva al ter­mine. (p.131)
Non era possibile, dicevo, che il ta­lento fosse solo la somma di tanta mediocrità sparsa
qua e là nel passato, il talento non veniva da lì, non era un’eredità del sangue, ma un dono dello spirito. (p.136)
«Ho detto che il talento è un dono e non un’ere­dità. Tutto qui.» (p.138)

Qualche giorno dopo giunge al castello un pianista compositore amico di famiglia, Hans Benda, che porta seco una sonata per piano e due violini da eseguire assieme ai due ragazzi. Ma Kuno, presa come sempre la parte di primo violino, sbaglia in continuazione la parte più bella e difficile facendo infuriare Benda. Jeno gli mostra come eseguire la parte e così Benda propone ai due di invertire le parti. Al colmo dell’ira, Kuno è colto da un attacco epilettico…

Qualche giorno dopo giunse al castello un certo Hans Benda, musicista, amico di famiglia, un uomo imponente, dai capelli e dalla barba grigi e dall’aria burbera. Oltre che pianista, Hans Benda era anche un eccellente compositore. A colazione ci disse che aveva saputo della presenza al castello di due “giova­ni virtuosi”, e che aveva portato con sé una delle sue composizioni: la Sonata in mi minore per pianoforte e due violini concertanti, e che avrebbe avuto piace­ re di eseguirla con noi. (p.139)
  Kuno aveva deciso, come sempre, di riser­varsi la parte del primo violino, che era più interes­sante, ma comportava anche alcuni passaggi piutto­sto ardui. […]
Provammo ancora a lungo, ma c’era un punto in cui Kuno finiva regolarmente per impigliarsi. Alla fine Benda si spazientì. Una pausa, disse, ci avrebbe fatto bene. Kuno però non volle darsi per vinto e insistet­te per continuare a provare. Era rosso in viso per il
dispetto, e il dispetto divenne rabbia quando per l’ultima volta finì per arenarsi. (p.140)
Mentre Kuno si apprestava a tentare ancora una vol­ta quell’insidioso passaggio, pensai di suggerirgli co­me avrebbe dovuto suonare, eseguendolo con dia­bolica facilità, e senza neppure guardare lo spartito.
«Bravo» disse Benda nel sentire che alla sua musi­ca veniva resa giustizia. «Molto bravo. Forse sarà meglio che vi scambiate le parti.»[…]
«Sarà meglio riprendere più tardi» disse con un alito di voce, e, voltatosi come se volesse andarsene, si avvitò improvvisamente su se stesso, accasciandosi a terra, scosso da incontenibili tremiti. Benda e io ci precipitammo a soccorrerlo, ma Kuno, steso sul pavimento, continuava a scalciare, in faccia era stravol­to, con gli occhi rivoltati e dalla bocca contrattaemetteva un pennacchio di bava. Chiamammo aiuto. (p.141)

Quella stessa notte Jeno sogna di raggiungere suo padre: il barone Blau! Svegliatosi di soprassalto, ricorda di avergli sentito nominare Nagyret come tappa di passaggio durante la guerra e, nel vederlo suonare, era stato il violino e non l’archetto ad attirarne l’attenzione. Felice ma impaurto, l’indomani chiede di poter vedere Kuno prima di lasciare il castello…
Prima di riceverlo, il fratellastro lo fa condurre in uno stanzino dove un quadro, tolto prima del suo arrivo dalla camera in cui pernotta, ritrae il barone con il violino in suo possesso. I due si incontrano infine, ma Kuno, pur di negare l’evidenza, gli racconta che il violino era stato rubato al padre durante la guerra…

Quella notte feci un sogno da cui mi svegliai di soprassalto.[…]
Andavo incontro a mio padre. (p.142)
Nelll’avvicinarmi mi accorgevo, ma senza sorprendermi, che aveva l’aspetto del barone Blau. Era attorniato da un gruppo di amici che par­lavano e le loro voci si confondevano al punto che non si capiva quel che dicevano. Raggiunsi mio padre, sbirciai oltre la sua spalla e vidi che reggeva sulle ginocchia il mio violino.
A quel punto mi svegliai. Il cuore mi batteva forte.[…]
«Come quella volta,» aveva detto il barone «quando il nostro reggimento era di stanza a Nagyret…» (p.143)
In quel momento scattò in me qualcosa, come una molla incontenibile. Improvvisamente tutta una se­rie di labili indizi si solidificò in una convinzione inattaccabile. […]
Ora tutto si faceva chiaro: non era stato l’archetto di Kuno ad at­trarre l’attenzione del barone, ma il mio inconfondi­bile strumento, quello che lui aveva lasciato a mia madre, durante la guerra, “mentre si trovava di stan­za a Nagyret”, e che, dopo tanti anni, si era ritrovato inspiegabilmente davanti.
Anch’io dunque avevo un padre, anch’io avevo una schiatta alle spalle, un posto sul ramo, seppure su quello dei bastardi, anch’io mi sarei salvato dall’oblio e dalla morte. Anche nelle mie vene scor­reva il sangue dei Blau. E Kuno era mio fratello. (p.144)
Allo stesso tempo mi rendevo conto che, com’era nelle regole, per me era giunta l’ora di andarmene, di portare lon­tano la mia persona, con la tacita promessa di non ri­tornare mai più. (p.145)
  E ciò che già mi aspet­tavo di trovare, stava lì, ai suoi piedi: un violino. Il mio violino. Che il pittore aveva riprodotto nei mi­nimi particolari, fin nella testa che appariva in pri­mo piano, con quel volto crudele e dolente.
Contemplai a lungo il dipinto in una sorta di luci­do deliquio. Era a tutti gli effetti la riprova inconfu­tabile delle mie congetture. […] (p.147)
E quando partì per la guerra se lo portò al fronte. Dove gli fu rubato. Per questo ti ho chiesto di cedermelo, perché quel violino non ti appartiene. Non so come sia arrivato nelle tue mani, ma chiunque te l’abbia dato, fosse anche tuo padre, sappi che era un furfante.» (p.148)

Jeno, scolata la grappa contenuta nella boccetta che porta seco, interrompe il racconto riprendendo il cammino. Ma lo scrittore lo segue e, raggiuntolo, si fa raccontare il resto…

Jenò Varga si alzò dalla sedia barcollando. Era esau­sto. Bevve le ultime gocce di grappa dalla bottiglia vuota e la rimise in tasca. […]
L’uomo si aggiustò la mantella sulle spalle, calcò la bombetta in testa, si rimise il violino a tracolla e mi salutò:[…]
Lo raggiunsi e mi affiancai a lui: «Permetta che l’accompagni. La sua storia non è finita. E Sophie? la rivide? Che ne fu di Sophie?». (p.149)
Facemmo un po’ di strada assieme, e finalmente ricominciò a parlare:(p.150)

Tornato a Vienna, Jeno cade in depressione non riuscendo più a suonare nel momento in cui la città è sempre più scossa da echi di guerra, con folla nelle strade, continui comizi e transito di truppe…
Proprio mentre è ormai convinto che la musica sia ormai lontana, dimentico di Sophie, ecco il manifesto di un concerto della donna. Ma il concerto finisce male, con la contestazione all’artista costretta a fuggire in auto sotto lo sguardo di Jeno che invano ha cercato di incontrarla…

Per la prima volta mi accorgevo che il mondo era cambiato, era come privato della propria luce. Non sopportavo di stare in mezzo alla gente, non mi rico­noscevo nei miei simili, non ne condividevo gli idea­li, non li capivo. Andando per le strade e per le piaz­ze sentivo aprirsi in me brecce di panico. La gente era diventata folla, ottusa folla, sospinta dallo smar­rimento, che si incanalava nella rigida planimetria della città. C’era una smania allucinata di aggregarsi.
Nessuno voleva restare solo con la propria coscien­za. (p.151)
Ero convin­to che non avrei suonato più, che la seduzione della musica si fosse ormai spenta in me per sempre, e con essa anche l ’immagine di Sophie, e ogni sogno di amore e di perfezione. (p.151)
Un giorno, mentre vagavo per le strade della città, fui attratto da un manifesto affisso di fresco su una staccionata. Mi avvicinai e lessi una notizia folgoran­te: Sophie Hirschbaum in concerto, a Vienna. (p.151)
Così, dopo cinque anni la rividi. (p.152)
Uscii all’aperto e mi mescolai tra quella gente che gesticolava ancora nella direzione in cui si era allon­tanata l’automobile. E non erano certo ammiratori quelli che l’avevano aspettata all’uscita degli artisti. (p.156)

Pochi giorni dopo, un funzionario di polizia già visto dai Blau, giunge a prendere il violino su istanza di Kuno Blau, violino che il rassegnato Jeno consegna senza opporre resistenza…
Nel marzo 1939 si arruola ma, tornato vivo nel 1946, scopre che anche il patrigno è morto in un incidente stradale. Sophie è invece morta di tisi dopo esser sopravvissuta al lager di Treblinka…
Lo scrittore non comprende però le parole finali di Jeno che dichiara di esser morto, come promesso, dopo aver saputo di Sophie…

Era un funzionario, non mi ero sbagliato nel giudicarlo, un funzionario di poli­zia. E mi chiedeva il mio violino. Mi mostrò un do­cumento, datato 1698, che ne comprovava l’acquisto da parte di un Johann Blau. E ora Kuno Blau preten­deva la restituzione dello strumento. Volevo affrontare un processo? vedere offesa la memoria di mio padre? venire giudicato un ricettatore? (p.157)
Qualche mese dopo le truppe del Terzo Reich in­ vasero l’Austria senza colpo ferire, anzi accolte a braccia aperte. N el marzo 1939 mi arruolai. […]
Ma nel 1946 era morto in un incidente stradale. Di Kuno Blau non seppi più nulla. Quanto a Sophie, dopo essere sopravvis­suta al campo di Treblinka, era stata stroncata dalla tisi in un sanatorio svizzero. E io la seguii. Così come avevo giurato che avrei fatto nella vita, feci anche nella morte. (p.158)

Il racconto di Jeno Varga si interrompe qui con il violinista che accelera sempre più il passo fino a distanziare lo scrittore che, tornato in albergo, annota su un taccuino quanto ricorda di quello sentito al fine di scriverci una storia…

 Lo seguii ancora, rallentando sempre più, finché, a una svolta, lo persi di vista. Tornai in albergo alle prime luci dell’alba e non andai neppure a letto, ma, presa carta e penna, cominciai ad annotare ciò che ricordavo. Sentivo di avere gli elementi di una storia.(p.159)

Nei giorni seguenti avvia ricerche, ma nomi e luoghi risultano ignoti, probabilmente modificati da Jeno che invano cerca in città. Decide quindi di recarsi a Nagyret dove il parroco gli mostra la tomba del violinista, nato nel 1919 e morto nel 1947. Frastornato, lo scrittore parte in fretta finendo fuori strada con l’auto. Ripresosi dopo due giorni, non trova più il taccuino degli appunti. Ma li aveva mai scritti? Lo ha mai incontrato Jeno? Era tutto un sogno?…

 E neppure di una violinista di nome Sophie Hirsch­baum riuscii a trovare nulla. Evidentemente il mio narratore aveva, come usa fare, cambiato i nomi dei luoghi e delle persone. (p.159)
Lo seguii oltre il cancello, in mezzo alle tombe, fin­ché lui non si arrestò davanti a una lapide attorno al­la quale cresceva rigogliosa la sassifraga.. Lessi, inciso sulla pietra, il nome di Jenò Varga e le date di nascita e di morte: 1919-1947.[…]
Il parroco scosse la testa, perplesso. «Sembrereb­be proprio che lei abbia parlato con Jenò» disse. «Sennonché io stesso ho assistito alla sua sepoltura quarant’anni fa. E laggiù, venga a vedere, c’è la tom­ba di sua madre, morta di parto a trentasette anni.» (p.163)
Sulla strada del ritorno, nei pressi di Sollenau, for­se vinto dalla stanchezza, mi addormentai al volante e uscii di strada. Mi risvegliai all’ospedale con tutte e due le braccia spezzate e con una grave contusione cranica. Ero rimasto privo di conoscenza per due giorni. Q uando fui dimesso, ritrovai i miei bagagli con tutti i miei effetti personali, salvo il quaderno di appunti che tenevo sul sedile accanto a me. Era an­dato perduto nell’incidente. Ma li avevo veramente scritti quegli appunti? Avevo veramente incontrato Jenò Varga? Avevo visto davvero la sua tomba a Nagyret? Non osai più indagare. Preferii pensare che, dopo l’incidente, realtà e sogno si fossero so­vrapposti in maniera tale che non era più possibile distinguerli. (p.164)

EPILOGO p. 165

Diverso tempo è passato dall’incontro tra l’acquirente del violino e lo scrittore in quell’albergo di Londra…
A comprare il violino all’asta è stato… il barone Gustav Blau!, arricchitosi in Sudamerica dopo avervi scoperto un giacimento petrolifero. L’uomo sta ricomprando quanto andato perduto della sua famiglia…
Torna quindi al Castello di Hofstein da cui si era allontanato perché innamorato della moglie di suo fratello, la bellissima Margarete. Torna solo ora che lei è morta, come promesso al momento della partenza. Di Blau è rimasto in vita solamente lui…
Kuno Blau, ricoverato all’Istituto psichiatrico di Mariahilf di Vienna per sdoppiamento della personalità, è morto pochi giorni prima, per arresto cardiaco, il 18 dicembre 1985 e il suo violino venduto all’asta. Negli ultimi tempi si era totalmente immedesimato nel violinista Jeno Varga…

È passato del tempo da quello strano incontro al Dorchester di Londra. (p.165)
Ma la fretta è un privilegio dei giovani, e lui non si rende conto che è proprio nella fretta che si spen­de la vita. Quanto più in fretta procediamo tanto più consumiamo del poco tempo che abbiamo a disposi­zione. […]
Mi ha permesso nel corso degli anni di recuperare tutto ciò che della mia famiglia era andato perduto. Per ultimo, il violino a cui è le­gata questa storia. (p.167)
Che cosa resta a un vecchio come me? Resta il passato, quel nostro abisso rigurgitante, resta qual­che ricordo che si posa a volte sul suo ciglio scosceso e tentenna come una farfalla nella brezza. Lascio la tavola con la cena ancora quasi intatta, e mi avvio verso il salone. Siedo sul divanetto proprio di fronte al grande ritratto di M argarete, e il mio cuore comincia a farsi sentire. Se mai la vecchiaia porta dei doni, questi non sono né la saggezza né l’esperienza, ma solo la memoria ritrovata della no­stra giovinezza. (p.169)
E io non seppi accettarlo. Fuggii all’altro capo del mondo, dopo aver giurato di non ritornare finché lei fosse rimasta in vita. Ma non potevo mai immaginare che quella lettera spedita a mia madre, in cui le co­municavo la decisione e il motivo della mia partenza, potesse arrivare con tanto ritardo, e, che per uno strano caso di errata identificazione, nel cimitero di famiglia venisse sepolto, al posto mio, il corpo di uno sconosciuto suicida. Ora la fossa è vuota. Ho sa­puto anche di quella notte in cui il corpo di un estra­neo fu segretamente riesumato e portato a riposare sotto altra terra benedetta. Ma mia madre non resse all’emozione. E ne rimase segnata per il resto dei suoi giorni. (p.170)