INDRO MONTANELLI – I CONTI CON ME STESSO

 

INDRO MONTANELLI – I CONTI CON ME STESSO
RIZZOLI – Collana BURSaggi – 1 edizione marzo 2010
A CURA di Sergio Romano

 

Ne I conti con me stesso Rizzoli propone al pubblico i diari tenuti, saltuariamente, da Indro Montanelli tra il 1957 e il 1978. Il lettore può così ripercorrere vicende storiche con l’ottica del giornalista, divertendosi con alcuni suoi aneddoti e severi giudizi su altri protagonisti della vita economica e culturale del nostro paese, o carpirne il dolore per la perdita di alcuni amici e parenti o per via della sua depressione.
Sergio Romano, curatore dell’opera, oltre alla prefazione ha redatto un’introduzione per ciascun periodo storico in cui è stato suddiviso il libro unitamente alle note al testo.

PREFAZIONE

Di Sergio Romano p.5

I CONTI CON ME STESSO p.13

SETTEMBRE 1957 – GENNAIO 1958 p.15

1957 p.21

4 ottobre.

Tutta la mia vita è stata contesa fra la noia di vivere insieme e la paura di vivere solo.

[…]

La mia religione. Credo in Qualcuno. Non credo che saprò mai, né da vivo né da morto, chi è e com’è fatto. (p.22)

1958

Gennaio.

In fondo, che noia dover fingere la cattiveria perché la bontà è alla moda!

 

 «Mi descriva, caro amico, la sua donna ideale.»
«Alta, magra, vestita di velluto nero, con un lungo, bian­chissimo collo di cigno. Con gli occhi azzurri. I capelli d’oro. Infinitamente dolce, aerea, elegante. Ah, incontrassi una simi­le creatura! Ogni sera l’accompagnerei nella sua camera, la spoglierei, la metterei a letto cospargendoglielo di rose. E cor­rerei al bordello, da una puttana grassa, sguaiata e volgare. » (p.26)

Tra gli italiani la solidarietà non esiste. Esiste la complicità. (p.30)

In Italia un “buon padre di famiglia” può permettersi impunemente di essere un uomo malvagio, un cattivo cittadino, un disertore in guerra e un amministratore ladro. (pp.30-31)

Fascismo. Il più comico tentativo per instaurare la serietà. (p.31)

Il maggior difetto degl’italiani non è quello di essere servili. È quello di voler sempre a tutti i costi accusare qualcuno di averli asserviti. (p.32)

Preghiera laica per la sera, prima di addormentarsi: «Dio, dammi la forza di accettare le cose che non posso cambiare, di cambiare quelle che posso, e di capire sempre la differenza fra queste e quelle». (p.33)

SETTEMBRE-DICEMBRE 1966 p.37

Roma. 23 settembre.

[…]

Mi dice di avere scoperto che, come psicopatico, ho dei prece­denti illustri: Gogol e Lucrezio che soffrivano come me di crisi depressive cicliche. E non mi crede quando gli rispon­do che, per quanto onorato di una simile parentela, la ba­ratterei a occhi chiusi con quella del macellaio di fronte. Ma ormai son rassegnato all’incomprensione. Del resto, perché mi dovrebbero capire gli altri, se io stesso, quando esco da queste orribili crisi, non ricordo più di quali terrori e osses­sioni erano fatte? A chi e come posso spiegare che non ho voluto figli per la paura di trasmetter loro questa tara; e che di quello che mi è nato a tradimento e dietro le spalle, non ho mai voluto saper nulla appunto per evitare il rimorso di aver messo al mondo un infelice? (pp.45-46)
MAGGIO 1969 – APRILE 1972 p.67
1969
Fucecchio, 24 giugno.
[…]
Ed è su di me che mi accorgo a un tratto di piangere, e mi odio. Nel pomeriggio, tornato a casa, scrivo un articolo per il «Corriere». Lo scrivo con l’abituale concentrazione, che non s’incrina nemmeno quando mi telefonano che zio è spirato, e lo detto allo stenografo. Colette ha ragione quando dice che sono un mostro. Ma stanotte… Stanotte sarà una delle tante notti in cui mi sveglio di soprassalto, per l’improvvisa coscienza di dor­ mire avvinghiato a un mostro. (pp.82-83)
Castiglioncello, primo luglio. Sono qui da quattro giorni, ma il sole l’ho visto di rado. Appare soltanto nel bollettino meteo­rologico dei giornali. Pallino dice che il mare fa “bafogna” perché il cielo fa “buriana”. Io sento soltanto l’oppressione dello scirocco, che contribuisce a tenermi inchiodato nel pen­siero della morte. E già scoccata, anche per me, l’ora in cui si tenta di familiarizzare con la morte, di spogliarla della sua or­renda solennità, di darle del tu. Invidio coloro che temono l’inferno. Io non temo nulla. E per questo ho tanta paura. (p.83)
Roma, 3 agosto. Da due giorni qui, in casa dei miei vecchi. È sempre la solita storia. Ci vengo per mettermi al riparo dal ri­morso, il giorno in cui mi mancheranno. E ne riparto col ri­morso ancora più grande di non aver saputo nascondere la mia insofferenza. Malgrado i novant’anni e la completa sor­dità, non perdono a mio padre l’egoismo, il disperato attacca­mento alla vita, la paura di tutto, l’avarizia, il querulo vittimi­smo. Ma soprattutto non gli perdono il fatto di somigliargli. Da mia madre ho ereditato soltanto le terribili crisi depressi­ve che a regolari scadenze mi distruggono, ma non il coraggio con cui lei le affrontava: il coraggio di chi vive tutto e solo di cuore. L’ho odiata, per questo male di cui mi ha contaminato. Una volta, al colmo della disperazione, glielo rinfacciai. Ecco di cosa mi ricorderò, quando sarà morta. Di questo, e di un al­tro giorno in cui lei mi disse, ma quietamente, senza intenzio­ne di ferirmi: «Lo sai che ho soggezione di te?». Sono passati tanti anni da allora. Ora lei ne ha ottantatré, presto chiuderà gli occhi, e solo in quel momento io troverò la voce per dirle che non è vero, non potevo farle soggezione, non volevo far­gliela, era assurdo e mostruoso che gliela facessi… Perché non glielo dico ora, che mi può sentire? Perché? Perché?

Cortina, 4 agosto. La mia bella casa di montagna. La mia ca­meretta scavata nel legno. La grande vetrata sulle Tofane. Quest’aria odorosa d’abeti e di ghiacciai. Ma anche i rintoc­chi dell’orologio di piazza che mi ricordano, di quarto in quarto, le ore di tre anni fa, disperate e vuote. La notte mi tappo gli orecchi con la cera per non udirli. Sono una dellepoche cose che riescono a ricrearmi quegli stati d’animo d’angoscia, altrimenti irripetibili, quando la crisi è passata. Sotto la finestra, la tomba del mio cane Gomulka. Morì quando io non volevo più vivere. E ora provo un senso vago di colpa, come se l’avessi ingannato. (p.91)

Milano. 19 novembre.

[…]

Anche noi apparteniamo a questa borghesia codarda che pretende appaltare alle forze dell’or­dine il compito di farsi sputacchiare, pestare e ammazzare per tenerne al riparo se stessa. E non vuole nemmeno pagargli uno stipendio decente. (p.115)

1970

Cortina, 24 febbraio.

[…]

Per dirigere una discussione fra italiani, ci vuole il mitra. Parlano di democrazia, facendo della dittatura oratoria. (p.138)

 

Credo di essere l’autore italiano che più guadagna, anche perché sono l’unico che questa cifra la guadagna ogni anno, e senz’aiuto di premi letterari. Non ne sono contento per il denaro, di cui non so che farmi e che serve solo a paga­re i capricci di Colette (ne ha tanti!). Ne sono contento, anzi felice, per il mio status da autore stipendiato unicamente dal pubblico. C’è chi vive di partito. C’è chi vive di Eni. C’è chi vive di Agnelli, o di Perrone, o di Crespi. Io vivo di lettori. I lettori non m’impongono altra servitù che la sincerità: l’unica che non pesi. (p.139)
Firenze, 10 ottobre. Questa inchiesta sulla Regione mi confer­ma nel mio pessimismo. La Regione sarà soltanto uno stru­mento di lotta senza quartiere contro il potere centrale, e quindi un nuovo e più potente motivo di confusione e di pa­ralisi. (p.162)
Roma, 18 ottobre.
[…]
Anche Castiello gli ha dato una grande gioia mandando a suo nome alla biblioteca di Fucecchio tutta la collezione Vallecchi, circa quattrocento volumi. Gli dispia­ce solo di non averci potuto disseminare la sua firma, come fa regolarmente coi suoi, che si propone di lasciare allo stesso de­stinatario. Davanti alla morte, ha l’ansia di sopravvivervi in qualche modo, di far sì che il suo nome rimanga. [Si riferisce al padre. N.d.R.] (p.163)
1971
Cortina, 5 settembre. Piccola passeggiata con Buzzati. Almerina era felice di vederlo camminare: da mesi non ne aveva più la forza. Ma io ero agghiacciato. Procede – lui, fino all’altro gior­no scalatore e rocciatore – a piccoli e incerti passi, come un vec­chietto. E la sua faccia ! So che è divorato dall’angoscia: la si leg­ge nei suoi ultimi elzeviri dove proprio grazie all’angoscia ha ri­trovato la sua vena migliore e più buzzatiana. Ho cercato di strappargliela di corpo, invitandolo a qualche confidenza. Nul­la da fare. Immediatamente abbassa la saracinesca, e divaga. Lo fa cortesemente, anzi è proprio della cortesia che si serve per saracinesca. Ma nemmeno a me consente di avvicinarglisi. Sono trentanni che cerco di parlargli, e lui lo sa, e forse vorrebbe parlarmi anche lui. Ma non può. E un murato vivo. Ci guardia­mo e ci vogliamo bene attraverso una grata. I suoi medici non sanno, o dicono di non sapere, di che è malato. E lui è più con­tento così. Quando gli proposero di aprirlo per vedere cosa co­va dentro, rispose: «Avete dimenticato che ho scritto il caso cli­nico}». Già. Sembra proprio uscita da un suo racconto, questa morte che, senza mostrarsi, gli si avvicina per sentieri nascosti e avvolgenti. E tutto un giuoco, fra lui e lei, che lo atterrisce e lo affascina. Ma non può che restare segreto. (p.166)
1972
28 gennaio. Buzzati si è spento, oggi, alle 16.30. In questi ulti­mi giorni si era incarnato nella Morte, come la immaginava e tante volte l’ha disegnata e dipinta. Non avevo mai vista una Morte più Morte di quella. Fino a ieri sera era lucidissimo. Ha voluto che gli dessi le ultime notizie sul processo. Ogni tanto, stanco, chiudeva gli occhi, e io mi chetavo. Ma poi li riapriva, e mi chiedeva di riprendere il racconto. Non voleva pensare. Stamani, quando son tornato alle dieci, non mi ha riconosciu­to. Afeltra non ce l’ha fatta a restargli accanto sino in fondo: gi­rava per il corridoio, anche lui senza riconoscere nessuno. Io, non so per quale motivo – il fascino dell’orrore, credo, conta­giatomi da lui – sono rimasto ai piedi del suo letto, e l’ho visto spengersi come una candela. Poi sono fuggito. Ha lasciato un testamento di dieci righe. In fondo c’era scritto: «Niente partecipazioni. Cremazione». Ora devo dimenticarmi di lui, scac­ciarlo dal pensiero e dagli occhi. Ma come, come? (p.185)

MAGGIO 1977 – MAGGIO 1978 p.199

1977

Milano, 2 giugno. È la festa della Repubblica. Io la celebro ri­cevendo nelle gambe quattro pallottole di rivoltella, calibro 9. Me le sparano alle 10.10, appena uscito dall’albergo Manin, alle spalle. Faccio a tempo, voltandomi, a vedere uno dei due
killer che seguita a sparare da una distanza di 4-5 metri. Ma sono talmente sorpreso e frastornato che non riesco a fissarne nella memoria il volto. Aggrappandomi all’inferriata dei giar­dini pubblici, penso: «Devo morire in piedi!». Questo pen­siero stupido, retaggio sicuramente del Ventennio, è forse quello che mi salva: cadendo, avrei probabilmente preso l’ul­tima scarica nell’addome. Solo quando il killer ha finito, cedo al languore che m’invade e scivolo a terra. Potrei comoda­mente uccidere con la mia pistola l’uomo che ora mi volta le spalle per fuggire. Ma ce n’è un altro che lo protegge con l’ar­ma in pugno. Mi limito a gridargli: «Vigliacchi!». Un cane lu­po, dall’altra parte dell’inferriata, sporge la lingua fra le sbar­re e si mette a leccarmi la faccia. La donna, che lo tiene a guin­zaglio, è terrea. Le sorrido, e dico: «Non si spaventi!». Ho su­bito la sensazione che nessuna parte vitale è lesa. Intorno a me, coperto di sangue, è subito gran confusione. Tra i primi soccorritori riconosco i nostri autisti Mele e Colonna, e Pao­lino Longanesi. Erano alla finestra, e hanno visto, ma non ave­vano capito che la vittima ero io. Trovo la forza di dirgli in mo­do che tutti sentano: «Coraggio, ce la farò anche stavolta».
Poi tutto diventa spettacolo. Quanto l’autoambulanza arriva al Fatebenefratelli, c’è già una incredibile ressa di fotografi, cronisti, lettori, curiosi. I medici che mi prendono in cura mi spogliano e contano i buchi. Il conto non torna perché è di­ spari: sette. Tre pallottole sono entrate e uscite, una è ancora dentro. Ma le lastre rivelano che arterie, vene e ossa sono mi­racolosamente illese. (pp.216-217)

Milano, 3 giugno.

[…]

Continua l’alluvione dei telegrammi e la processione delle vi­site. I personaggi ufficiali non m’interessano, m’interessano gli anonimi. È dalle loro facce e parole che misuro l’affetto, il rispetto, la stima da cui sono circondato. Credo che nessun giornale sia mai riuscito a stabilire coi suoi lettori un legame così stretto e caldo. (p.218)
Milano, 4 giugno. Le ferite vanno bene anche perché non ho il tempo di pensarci: è tutto un viavai di amici, nemici, co­noscenti, sconosciuti[…].
Ma la notizia che in fondo mi fa più piacere è che in due salotti milanesi – quello di Inge Feltri­nelli e quello di Gae Aulenti – si è brindato all’attentato contro di me e deplorato solo il fatto che me la sia cavata. Ciò dimostra che, anche se non sempre scelgo bene i miei amici, scelgo benissimo i miei nemici. (pp.218-219)

1978

 

Milano, 3 febbraio. Remo Cantoni è morto. Suicida per una depressione nervosa di cui non riusciva più a liberarsi. Un an­no fa facevamo in casa sua i duetti d’opera. Era allegro, caldo, con quei suoi grandi occhi azzurri di fanciullo. Poi, la depres­sione, l’insonnia, lo sguardo ora spento, ora febbrile, i barbi­turici, la disperazione, una manciata di sonniferi, e via. Ho il rimorso di non averlo aiutato. Io solo, conoscendo quel male, potevo farlo. Ma non credevo che fosse così grave, eppoi il tempo. Una perdita grossa, per noi. Specie sul piano umano. (p.251)
NOTE p.259
INDICE DEI NOMI p.273

INDICE p.287