DOMINIQUE DE ROUX – LA MORTE DI CÉLINE

 

DOMINIQUE DE ROUX – LA MORTE DI CÉLINE
(La mort de Louis-Ferdinand Céline)
LANTANA EDITORE – Collana LE STELLE – 2015
PREFAZIONE: Marc Laudelot
TRADUZIONE: Valeria Ferretti
A CURA di Andrea Lombardi
La morte di Céline non è un saggio di critica letteraria né una biografia, bensì un omaggio al grande Louis-Ferdinand Céline. Nel libro, scritto nel 1966, De Roux ripercorre le principali tappe e vicende biografiche e letterarie dello scrittore, arricchendo il testo con una serie di rimandi e citazioni degni di nota per la massiccia dose di erudizione applicata. Resta il limite di uno scritto a tratti un po’ troppo apologetico e avverso ai salotti cultural-letterari del tempo (da subito fin dalla prefazione), alla decadente e omologata Letteratura commerciale, senz’altro schierato trattandosi di un “omaggio”, ma pur sempre rimarchevole per il momento storico in cui fu pubblicato per la prima volta, a soli cinque anni dalla morte di Céline (emarginato di fatto dal panorama culturale francese). Ma, del resto, a lui ha dedicato ben due volumi dei Cahiers
Appassionante e ricco di rimandi, un libro che dopo quasi cinquant’anni vede la luce anche in Italia e che non può essere assente dalle biblioteche celiniane che si rispettino…
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
Di Marc Laudelot p.5
LA MORTE DI CÉLINE p.9
PREFAZIONE
CÉLINE DA SOLO p.15

 

Abbiamo scelto di presentare Louis-Ferdinand Céline dottor Destouches affrontando il problema della Letteratura oggi, poiché Céline fu ucciso dai suoi colleghi scrittori; da questa consorteria di gentucola unita (in ogni epoca) per autocompiacersi del proprio ta­lento e scacciare l’uomo libero, lo scrittore senza compromessi, colui che finisce in cella, in fin dei conti, per il suo rifiuto di appartenere a chicchessia. Dal 1932 Céline, malgrado il successo, o lo scandalo, fu maledetto. Rifiutò subito di entrar a far parte della «su a» famiglia e, come scriveva, dei «suoi» compagni di strada.(p.15)
Nel 1932, Céline pubblicò il Viaggio , e i suoi colleghi si accaniran­no tutta la vita per fargli pagare lo scandalo della verità. (p.16)
È morto come aveva iniziato, fedele al destino céliniano, nascosto, solitario sulla collina di Meudon, circondato da sua moglie Lucette e dai suoi animali, trasportato in questa serata di opprimente afa africa­na, il suo sorriso subito fisso, tenero e melanconico. (p.17)
Céline era un delicato, un giusto sotto la sua scorza di ingrato urlatore. (p.18)
NELL’ASSENZA DI QUALSIASI LETTERATURA p.19
[…] Louis-Ferdinand Céline scriveva in un francese sfortunatamente troppo bello per essere ancora francese. (p.21)
Nel frattempo regnano il notariato più arido e lo stile letterario misurato. Dappertutto, descrizioni amorevoli del mestiere di scrivere o il processo-verbale autobiografico. (p.22)
COME LO SPARVIERO SENTE ECHEGGIARE IL SUO GRIDO p.23
 Assalto totale! Lungo il sentiero, attaccato dalla malattia fino alla caduta di Meudon, in quel caldo torrido, al di sopra dell’anamorfosi degli uomini, Louis-Ferdinand Céline era stato vivo, un illumi­nato, un uomo del mattino troppo unico per soddisfarli tutti, pazzo come Lutero e Rembrandt, senza peso. (p.23)
Poi, l’Europa si è intorpidita nel suo art and business, con una so­cietà letteraria senza letteratura, i letterati in abiti scuri che si avvili­scono con il loro «il fascismo non passerà». Letteratura meccanogra­fica. Editori o spie o entrambi; ma soprattutto spie. (p.25)
Rischiare tutto… osservo gli sguardi vuoti dei giovani scrittori. Dandy, paurosi come conigli, pubblicano, e pubblicano, sono delle pulci, ma non se ne rendono conto. Il sottomettersi a Joyce, Kafka, Borges, Faulkner dà la possibilità ogni anno a un non è un granché, ignorante il ritmo, il numero, la grammatica e manipolatore di stupi­daggini, di immaginarsi di essere l’autore per eccellenza.[…]
Scrivere, non è né fare carriera né prolungare gli studi umanistici. (p.26)
Se Céline fosse morto quando apparvero i suoi pamphlet, si sareb­be parlato solo del suo genio. Da tempo, le celebrazioni l’avrebbero decorato delle stesse violette di quelle della tomba di Eluard. La Sor­bona l’avrebbe riconosciuto, ufficializzato. (p.27)
Torcia davanti a lui, voleva sollevare il mondo appoggiandosi sul linguaggio. Le sue pagine gli restarono tra le dita. La guerra l’ha colto alla sprovvista, nel momento stesso del suo slancio estremo. Avrebbe potuto lasciare la patria, svignarsela in America, esibirsi dappertutto. Rifiutò di divincolarsi, di divertire l’occupante, di immergersi nei batti­becchi. Volle essere medico dalle pretese sociali, meditando sulla mise­ria. Gli «habitué» del voltafaccia dovevano odiarlo. […]E il suo lirismo a dare a Céline l’autentica grandezza, un nome
destinato ad assumere nella sua integrità la generazione che scompare.
E l’eterna mania del capro espiatorio: concentrare sulla carogna i corvi neri dei primi esordi. Si crede di assolvere gli errori del clan. (p.28)
Céline è quel ladrone del Vangelo, magro e rotto a tutto, colpevole, certo, come la talpa che sventra le radici nei campi. Fu lui l’ebreo, una volta sentito che avrebbe portato su di sé le colpe della massa, la depravazione dell’intelligenza, che avrebbe focalizzato in lui l’odio della sua epoca. (p.29)
ALLA MORTE, E RIMETTENDOCI p.30
Solo, sulle tracce pietose della vigliaccheria, sdegnoso di un’am­ministrazione letteraria appesantita da prefazioni, cercò di tirar fuori l’umanità dalla routine, e fece il passo in avanti. Il sovrumano lo fuor­viò. Fu adulato da coloro che non amava, schiacciato dai mafiosetti. I Bianchi restavano un enigma. Benedicenti? Hitlero-staliniani? Dap­pertutto coglioncelli di fine Impero.
Non si può insegnare Céline! La prospettiva dove conduce è di ordine poetico. F il solco di una violenza che si comanda come le cadenze di Geremia. Uomo dell’Antico Testamento, avrebbe potuto essere il cavallo di Troia dei nazisti. Rimase il medico dalle terribi­li emicranie, e i collaborazionisti marcirono nell’aspettare che la sua bocca si aprisse; così come quelli dall’altra parte, gli attendisti, gli in­tellettuali che non si perdono una manifestazione, lo spingono alla capanna dell’esilio, del supplice.
Fuggiasco tutta la vita, vuole conoscere e raccontare. Sotto pres­sione, assoluto, ai margini, ecco il suo destino, poco conforme alle regole, nemico della guerra, dell’obbedienza, della servitù gregaria. Liquidatore, scrive, aspira alla condizione di antico viaggiatore. (pp.30-31)
Erano dodici al cimitero e Gen Paul, il compagno della Butte, in­triso di trementina, che ritornava troppo tardi a salutarlo. Né preti né sorelle per quell’enorme porco. Pioveva sulle foglie. Per il momento, estate macabra. L’umidità delle piante. Nimier, Claude Gallimard sot­to un ombrello che si agganciava ai rovi e Arletty, eccola passata, al termine della canzone. Un p o ’ d’agrifoglio, un gatto, un bambino sul bordo della fresca trincea e l’energia del becchino. La zappa ricopre la sua testa. (pp.32-33)
LE RISERVE DI CACCIA DELAL DUCHEZZA D’UZÉS p.34
NEL VENTO DELL’EAST RIVER p.44
 
IL CORPO DI ELISABETH NELLA SUA DIMOSTRAZIONE p.47
L’ESTATE SI ADDENSAVA, NERASTRA p.56
 
L’EBREO SOLARE p.60
E il suo antisemitismo?
Spieghiamoci!
Per Céline, il termine Ebreo non ha il suo significato abituale. Non indica un preciso gruppo etnico o religioso: lo dimostra il fatto che sotto questo vocabolo avrebbe potuto raggruppare tutti gli uomini, compreso lui. Il termine, ai suoi occhi, ha qualcosa di magico. (p.63)
Come tanti altri sbirri, avrebbe potuto scegliere la parte vincente, ingozzarsi a tutte le mangiatoie e finire come un nano ridicolo sul trono ­(p.64)

LA NOTTE DI ALEXANDRINE DI MECLEMBURGO-SCHWERIN p.69

IL CICLO DEL GRANCHIO p.72
Céline, troglodita dell’Apocalisse, scriveva i suoi pamphlet per il bene della causa. A quei tempi, ce la si prendeva con gli ebrei. Oggi con i froci, domani con i musi gialli.
Veramente solo, Céline, condannato in ogni tempo, discende nell’abiezione, sempre più inafferrabile, sconvolto dalla pietà, la sua paura, al di là perfino della sua lunga marcia notturna, arenato nel suo stesso equivoco, esitante davanti alla rivoluzione nella pace o all’av­vento della morte della libertà, della morte della Rivoluzione? (p.72)
A differenza di un Benn o di un Pound, Céline non pretendeva di risolvere niente, moralista delle cause finali, severo ma fiacco. Era una voce ardente che non usciva. (p.74)
Credo che Céline dovesse soffrire di una pesante nostalgia, quando esprimeva il suo disgusto. La sua tragedia? La sua immensa tristezza e la sua paura. (p.75)
NEL TACCUINO DI UN PANZERGRENADIER p.79
LA CAVALLERIA CHE ATTRAVERSA LA PORTA DI BRANDEBURGO p.84
METTERE UNA MASCHERA DI BUDDHA SUL MUSO DEL LUPO p.90
CÉLINE SE NE VA NEL PAESE DEI LAGHI p.93
Non si voleva rimanesse niente di Céline, in Francia. L’opinione pubblica, a caldo, non poteva sopportarlo, e gli scrupoli svaniscono davanti alla realtà dei crimini politici. Essi non potevano capire che Céline aveva rischiato per tutti i letterati che non rischiano niente, lecchini e giustizieri. Céline aveva voluto essere il messaggero della totalità. Ma all’ultimo atto della tragedia, la catastrofe si esprime da sé in sentenza di morte. (p.94)
NELL’IMMINENZA DEL RISULTATO FINALE p.101
GLI ALBERI SONO RINVERDITI p.115
LA CIVETTA INCHIODATA ALLA PORTA DEL FIENILE p.121
Céline sarebbe potuto tornare in grazia se si fosse finalmente liberato della sua pelle, del suo inchiostro, se avesse rinunciato a questa idea fissa che gli uomini devono morire, per essere meno schifosi. Doveva scomparire o accettare di avvilirsi con il servitorame letterario, feuilletonizzare, pavoneggiarsi. La carriera dell’uomo di lettere non richiede né audacia né capacità. Si basa su così tanti stratagemmi infimi, che il primo venuto può arrampicarsi facilmente e ingannare il pubblico, con la complicità della moda del momento. (p.123)
Diventa molto difficile avvicinarlo. Sente che la spossatezza lo at­tacca trasversalmente, che dopo flussi e riflussi di tensione, questo stridore si manifesterà, l’enorme globo di sangue che rompe la vena. Sacrifica le sue ultime ore a Rigo don, la sua danza macabra, che ruota attorno al tema de «la Verità è la Morte». (p.125)
Il 1° luglio 1961, Louis-Ferdinand Céline è morto nel più grande se­greto, colpito, sul suo copriletto scarlatto, dalla rottura di un aneuri­sma. […]
E nella calma delle condoglianze distratte, sotto la pietra tombale incisa da un veliero, Destouches, escluso dall’orda, diventava per sempre l’uccello bizzarro al di sopra dei Totem, e con lui i suoi stessi libri. (p.128)
LE MEMBRA SPARSE DI CÉLINE p.129
Nell’ora in cui la miseranda situazione della letteratura francese ci co­stringe alla lunga marcia, solitari al fianco di altri solitari, sino alla fine, non per volerla ricostituire ma anzi contro essa, non imitiamo Céline, logorandoci sterilmente nelPimpadronirci di una tale maestria.
 Ascoltiamo Céline. Compromettiamoci senza mai rompere i no­stri legami con la vita. Perché questo è il tempo per un’unica e sola. Contro tutte le difficoltà, contro tutti i sistemi e i monopoli, Céline non ha mai cessato di mettere in gioco la sua opera. Ha perso la testa, al punto tale che nessuno lo può rivendicare come proprio. Attraverso la sua ordalia, egli ha creato la sua luce, e lui sa. Allora gli scrittori che non vogliano sottomettersi alle parole d’or­dine, alle macchinazioni della critica ufficiale, che lotteranno contro le leggi e la vile dittatura delle mode, che dimostreranno con la loro opera vivente, con la provocazione delle loro vite – contro i traditori incoscienti e i falsi testimoni di professione, contro la razza degli spi­riti prostrati – costoro raggiungeranno le sparse membra di Céline, deposte nella terra il 1° luglio 1961, in questo deserto dei Tartari dove monta la guardia contro chi non giungerà mai. Lavoreranno così an­che per l’aldilà della Rivoluzione, organizzando la strategia dell’Apocalisse in termini di vittoria.
Perché i tempi cambiano, e sono i tempi del Grande Cambiamen­to, quelli ora prossimi.
Fare chiarezza, cambiare tutto.
Fare chiarezza.
Céline l’ha fatta. (pp.129-130)
PREFAZIONE p.131
INDICE p.135