DOMINIQUE DE ROUX – LA MORTE DI CÉLINE. A CURA DI ANDREA LOMBARDI

DOMINIQUE DE ROUX – LA MORTE DI CÉLINE. A CURA DI ANDREA LOMBARDI
DOMINIQUE DE ROUX – LA MORTE DI CÉLINE. A CURA DI ANDREA LOMBARDI

DOMINIQUE DE ROUX – LA MORTE DI CÉLINE. A CURA DI ANDREA LOMBARDI

PASSAGGIO AL BOSCO – Collana SEMPREVERDI – 2022

Con uno scritto di Stenio Solinas

Prefazione di Marc Laudelot

Traduzione di Valeria Ferretti

La morte di Céline non è un saggio di critica letteraria né una biografia, bensì un omaggio al grande Louis-Ferdinand Céline. Nel libro, scritto nel 1966, De Roux ripercorre le principali tappe e vicende biografiche e letterarie dello scrittore, arricchendo il testo con una serie di rimandi e citazioni degni di nota per la massiccia dose di erudizione applicata. Resta il limite di uno scritto a tratti un po’ troppo apologetico e avverso ai salotti cultural-letterari del tempo (da subito fin dalla prefazione), alla decadente e omologata Letteratura commerciale, senz’altro schierato trattandosi di un “omaggio”, ma pur sempre rimarchevole per il momento storico in cui fu pubblicato per la prima volta, a soli cinque anni dalla morte di Céline (emarginato di fatto dal panorama culturale francese). Ma, del resto, a lui ha dedicato ben due volumi dei Cahiers…

Appassionante e ricco di rimandi, un libro che dopo quasi cinquant’anni vede la luce anche in Italia e che non può essere assente dalle biblioteche celiniane che si rispettino, ristampato nel 2022 da Passaggio al Bosco…

IL DESTINO DI CÉLINE CHE ABBANDONÒ LA VITA PER LA LETTERATURA

[Il Giornale, 24 aprile 2015]

Di Stenio Solinas p. 11

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE ITALIANA

Di Marc Laudelot p. 17

È nel 1961, anno della morte di Céline, che Dominique de Roux fonda i Cahiers de l’Herne. Si imporranno grazie al terzo numero, dedicato appunto a Céline. (p. 17)

Fatto sta che nel 1966 pubblica questo saggio folgorante il quale, nonostante qualche errore di interpretazione, segna la svolta in un’esegesi céliniana fino ad allora relativamente convenzionale. (p. 18)

Se Dominique de Roux non arrivò a capire la vera natura del razzismo céliniano, aveva, invece, ben compreso quanto céline fosse ossessionato, come medico, dalla decomposizione del mondo moderno, oltre che dalla sua rassegnazione. Prima di essere un anacoreta disilluso, Céline propose un programma di rinascita basato sul culto della salute e della bellezza. […]

Mai Dominique de Roux cedette alla stupidità di separare il buon Céline (dei romanzi) dal cattivo Céline (dei pamphlet). (p. 20)

LA MORTE DI CÉLINE p. 23

PREFAZIONE

CÉLINE DA SOLO p. 25

Questo libro non è un saggio critico. (p. 25)

Abbiamo scelto di presentare Louis-Ferdinand Céline dottor Destouches affrontando il problema della Letteratura oggi, poiché Céline fu ucciso dai suoi colleghi scrittori; da questa consorteria di gentucola unita (in ogni epoca) per autocompiacersi del proprio talento e scacciare l’uomo libero, lo scrittore senza compromessi, colui che finisce in cella, in fin dei conti, per il suo rifiuto di appartenere a chicchessia. Dal 1932 Céline, malgrado il successo, o lo scandalo, fu maledetto. Rifiutò subito di entrar a far parte della «su a» famiglia e, come scriveva, dei «suoi» compagni di strada. (pp.25-26)

Nel 1932, Céline pubblicò il Viaggio , e i suoi colleghi si accaniranno tutta la vita per fargli pagare lo scandalo della verità. (p. 27)

È morto come aveva iniziato, fedele al destino céliniano, nascosto, solitario sulla collina di Meudon, circondato da sua moglie Lucette e dai suoi animali, trasportato in questa serata di opprimente afa africana, il suo sorriso subito fisso, tenero e melanconico. […]

Céline era un delicato, un giusto sotto la sua scorza di ingrato urlatore. (p. 29)

«NELL’ASSENZA DI QUALSIASI LETTERATURA» p. 31

[…]almeno Céline avrebbe tentato di porre rimedio alla peste letteraria[…]. (p. 34)

[…] Louis-Ferdinand Céline scriveva in un francese sfortunatamente troppo bello per essere ancora francese. (pp. 34-35)

[…] condannato come il diavolo, ripagato d’ingiustizia, effigie di quei tempi[…]. (p. 35)

Nel frattempo regnano il notariato più arido e lo stile letterario misurato. Dappertutto, descrizioni amorevoli del mestiere di scrivere o il processo-verbale autobiografico. (p. 36)

«COME LO SPARVIERO SENTE ECHEGGIARE IL SUO GRIDO» p. 37

Assalto totale! Lungo il sentiero, attaccato dalla malattia fino alla caduta di Meudon, in quel caldo torrido, al di sopra dell’anamorfosi degli uomini, Louis-Ferdinand Céline era stato vivo, un illuminato, un uomo del mattino troppo unico per soddisfarli tutti, pazzo come Lutero e Rembrandt, senza peso. (p. 37)

Si volle fare di lui un uomo di partito. Spariglierà tutti i calcoli degli altri attraverso lo schermo delle sue parole, della sua voce che indisponeva ancor più della sua morte. (p. 39)

Poi, l’Europa si è intorpidita nel suo art and business, con una società letteraria senza letteratura, i letterati in abiti scuri che si avviliscono con il loro «il fascismo non passerà». Letteratura meccanografica. Editori o spie o entrambi; ma soprattutto spie. (p. 40)

Il delitto di Céline è l’aver svelato un’impostura, come il preteso nazista Gobineau.[…]

Rischiare tutto… osservo gli sguardi vuoti dei giovani scrittori. Dandy, paurosi come conigli, pubblicano, e pubblicano, sono delle pulci, ma non se ne rendono conto. Il sottomettersi a Joyce, Kafka, Borges, Faulkner dà la possibilità ogni anno a un non è un granché, ignorante il ritmo, il numero, la grammatica e manipolatore di stupidaggini, di immaginarsi di essere l’autore per eccellenza. (pp. 41-42)

Scrivere, non è né fare carriera né prolungare gli studi umanistici. (p. 42)

Se Céline fosse morto quando apparvero i suoi pamphlet, si sarebbe parlato solo del suo genio. Da tempo, le celebrazioni l’avrebbero decorato delle stesse violette di quelle della tomba di Eluard. La Sorbona l’avrebbe riconosciuto, ufficializzato. (pp. 44-45)

Torcia davanti a lui, voleva sollevare il mondo appoggiandosi sul linguaggio. Le sue pagine gli restarono tra le dita. La guerra l’ha colto alla sprovvista, nel momento stesso del suo slancio estremo. Avrebbe potuto lasciare la patria, svignarsela in America, esibirsi dappertutto. Rifiutò di divincolarsi, di divertire l’occupante, di immergersi nei battibecchi. Volle essere medico dalle pretese sociali, meditando sulla miseria. Gli «habitué» del voltafaccia dovevano odiarlo. (p. 45)

È il suo lirismo a dare a Céline l’autentica grandezza, un nome destinato ad assumere nella sua integrità la generazione che scompare. (p. 46)

Fu lui l’ebreo, una volta sentito che avrebbe portato su di sé le colpe della massa, la depravazione dell’intelligenza, che avrebbe focalizzato in lui l’odio della sua epoca.

Criminale per aver parlato come Amleto nei suoi monologhi, di essersi volontariamente sacrificato per preparare la rivolta. (p. 47)

«ALLA MORTE, E RIMETTENDOCI» p. 49

Solo, sulle tracce pietose della vigliaccheria, sdegnoso di un’amministrazione letteraria appesantita da prefazioni, cercò di tirar fuori l’umanità dalla routine, e fece il passo in avanti. Il sovrumano lo fuorviò. Fu adulato da coloro che non amava, schiacciato dai mafiosetti. I Bianchi restavano un enigma. Benedicenti? Hitlero-staliniani? Dappertutto coglioncelli di fine Impero.

Non si può insegnare Céline! La prospettiva dove conduce è di ordine poetico. È il solco di una violenza che si comanda come le cadenze di Geremia. Uomo dell’Antico Testamento, avrebbe potuto essere il cavallo di Troia dei nazisti. Rimase il medico dalle terribili emicranie, e i collaborazionisti marcirono nell’aspettare che la sua bocca si aprisse; così come quelli dall’altra parte, gli attendisti, gli intellettuali che non si perdono una manifestazione, lo spingono alla capanna dell’esilio, del supplice.

Fuggiasco tutta la vita, vuole conoscere e raccontare. (pp. 49-50)

Lo si vede turbinare tra il bene e il male, ricusare tutti gli uomini, ricordarsi della fedeltà di alcuni, amici, giovani donne che aveva sedotto, passati amori[…]. (p. 50)

D’ora in poi, silenzio![…]

La notizia si diffondeva. Céline è morto. (p. 51)

Erano dodici al cimitero e Gen Paul, il compagno della Butte, intriso di trementina, che ritornava troppo tardi a salutarlo. Né preti né sorelle per quell’enorme porco. Pioveva sulle foglie. Per il momento, estate macabra. L’umidità delle piante. Nimier, Claude Gallimard sotto un ombrello che si agganciava ai rovi e Arletty, eccola passata, al termine della canzone. Un p o ’ d’agrifoglio, un gatto, un bambino sul bordo della fresca trincea e l’energia del becchino. La zappa ricopre la sua testa. (pp. 53-54)

«LE RISERVE DI CACCIA DELLA DUCHESSA D’UZÉS p. 57

[…]L’innocenza di Destouches moriva su un banco chirurgico: non ci sono guerre pulite. […]

non poteva difendersi dalla paura che scrivendo. (p. 64)

«NEL VENTO DELL’EAST RIVER» p. 75

«IL CORPO DI ELISABETH NELLA SUA DIMOSTRAZIONE» p. 79

Céline si manifestava, sorgeva dalle tenebre – questa scrittura, la sua parola, il grande tema del Viaggio. Nessuno, né Elisabeth, né Gen Paul, né Vivette – un’amichetta in gonna corta – poteva capire questa rabbia di accumulare pagine su pagine al punto di non esistere più per nessuno. […]

[…]Durante la notte spingeva la penna, trasportato come in un’estasi[…]. (p. 80)

Era un personaggio straordinario, quello che ti osservava e restava lì! E ancora: le mani, quel gesto di fare tabula rasa. La presenza della morte, della sua e di quella degli altri ritornava nel suo discorso. Diceva quello che si legge nelle sue opere. (p. 84)

[…] usava la parola per provocare emozione. (p. 85)

«L’ESTATE SI ADDENSAVA, NERASTRA» p. 95

Céline, come Flaubert dopo il 1870[…], si accaniva sui suoi pamphlet, credendo di fare opera salvifica, preparando invece un Petain rimbecillito, amante del Viandox. (p. 95)

«L’EBREO SOLARE» p. 103

E dire che Céline attribuiva al poeta il poter di cambiare il mondo! Scrive pamphlet inauditi fu il suo destino, perché voleva che la sua protesta fosse udita. […]

Quando era partito per l’Urss, credeva nella rivoluzione d’Ottobre, ma ritornò disilluso, ormai più socialista alla Babeuf che comunista. (p. 104)

La sua sorte sarebbe dipesa da quel primo pamphlet. (p. 105)

E il suo antisemitismo?

Spieghiamoci!

Per Céline, il termine Ebreo non ha il suo significato abituale. Non indica un preciso gruppo etnico o religioso: lo dimostra il fatto che sotto questo vocabolo avrebbe potuto raggruppare tutti gli uomini, compreso lui. Il termine, ai suoi occhi, ha qualcosa di magico. Vi ripone tutta la sua paura. L’ebreo, per lui, è il profittatore della guerra, quello che la voce popolare chiama il mercante di armi, le Duecento Famiglie. (p. 109)

Come tanti altri sbirri, avrebbe potuto scegliere la parte vincente, ingozzarsi a tutte le mangiatoie e finire come un nano ridicolo sul trono. (p. 111)

Istintivamente, il poeta non può trovarsi a casa sua in un regime dispotico, o viceversa. (p. 114)

«LA NOTTE DI ALEXANDRINE DI MECLEMBURGO-SCHWERIN» p. 119

Céline parte per Le Havre a rinchiudersi e a scrivere Bagatelle per un massacro, isolato all’hotel Frascati. […]

A differenza dei romanzi che impiegava quattro anni a scrivere, conclude quel libro in sei mesi, immagini proiettate al millesimo di secondo, visioni che si affastellano, vaticini, formule, slogan, vertigini, giochi di parole, ammassi sontuosi che ricordano Agrippa d’Aubigné. Annuncia la caduta di Hitler, desidera l’alleanza franco-tedesca, avalla i Protocolli dei Savi di Sion, un falso, se la prende con Luigi XVI, con il papa. (p. 119)

Desidera far rinascere la Francia, a partire da una mistica mondiale, una volta che l’anti-Francia sarà stata liquidata dall’esterno[…]. (p. 120)

«IL CICLO DEL GRANCHIO» p. 123

Céline, troglodita dell’Apocalisse, scriveva i suoi pamphlet per il bene della causa. A quei tempi, ce la si prendeva con gli ebrei. Oggi con i froci, domani con i musi gialli. (p. 123)

A differenza di un Benn o di un Pound, Céline non pretendeva di risolvere niente, moralista delle cause finali, severo ma fiacco. Era una voce ardente che non usciva. (p. 126)

Non si amava più Céline. La sua disgrazia così grande oltraggiava la logica del mondo – i dittatori e i loro signorotti e il radical-socialismo. (p. 128)

Credo che Céline dovesse soffrire di una pesante nostalgia, quando esprimeva il suo disgusto. La sua tragedia? La sua immensa tristezza e la sua paura. (p. 129)

«NEL TACCUINO DI UN PANZERGRENADIER» p. 135

«LA CAVALLERIA CHE ATTRAVERSA LA PORTA DI BRANDEBURGO» p. 143

Non si sottomette alle regole, resta pericoloso, intransigente. L’ambasciata della Germania diffida di questo pazzo. (p. 145)

Potete quindi informarvi: Céline non ha tradito mai, né flirtato con la Gestapo. Sotto la cappa malva, con il suo nasone, la sua apparenza massiccia, non perseguì che il suo stesso annientamento, identificato con quello del mondo. Destouches era sulla Butte, circondato dai suoi amici, imbonitori che discutevano, si ficcavano idee in testa, all’interno di questa città rinnegata, consumata, fradicia. (pp. 150-151)

«METTERE UNA MASCHERA DI BUDDHA SUL MUSO DEL LUPO» p. 155

Continuava a scrivere per non morire. (p. 156)

«CÉLINE SE NE VA NEL PAESE DEI LAGHI» p. 159

Non si voleva rimanesse niente di Céline, in Francia. L’opinione pubblica, a caldo, non poteva sopportarlo, e gli scrupoli svaniscono davanti alla realtà dei crimini politici. Essi non potevano capire che Céline aveva rischiato per tutti i letterati che non rischiano niente, lecchini e giustizieri. Céline aveva voluto essere il messaggero della totalità. Ma all’ultimo atto della tragedia, la catastrofe si esprime da sé in sentenza di morte. (p. 160)

«NELL’IMMINENZA DEL RISULTATO FINALE» p. 173

«GLI ALBERI SONO RINVERDITI» p. 197

«LA CIVETTA INCHIODATA ALLA PORTA DEL FIENILE» p. 207

In questa cronaca buffoneggiava attraverso il dolore, come conviene al pensiero più sincero e a una tenerezza costante, nascosta da un pudore, da un orgoglio che sarà scambiato per odio.

Ormai della sua reputazione gli importava poco. Avrebbe perseverato, anche per non venir meno al suo personaggio, a oltraggiare, a vomitare insulti. (pp. 208-209)

Céline sarebbe potuto tornare in grazia se si fosse finalmente liberato della sua pelle, del suo inchiostro, se avesse rinunciato a questa idea fissa che gli uomini devono morire, per essere meno schifosi. Doveva scomparire o accettare di avvilirsi con il servitorame letterario, feuilletonizzare, pavoneggiarsi.[…]

Il saluto di Céline al mondo è quello del Corvo di Edgar Poe. Dopo i curiosi, i giornalisti, gli stranieri vengono a constatare la sua esistenza. (p. 210)

Sacrifica le sue ultime ore a Rigodon, la sua danza macabra, che ruota attorno al tema de «la Verità è la Morte». (p. 214)

Il 1° luglio 1961, Louis-Ferdinand Céline è morto nel più grande segreto, colpito, sul suo copriletto scarlatto, dalla rottura di un aneurisma. (p. 219)

«LE MEMBRA SPARSE DI CÉLINE» p. 221

Allora gli scrittori che non vogliano sottomettersi alle parole d’ordine, alle macchinazioni della critica ufficiale, che lotteranno contro le leggi e la vile dittatura delle mode, che dimostreranno con la loro opera vivente, con la provocazione delle loro vite – contro i traditori incoscienti e i falsi testimoni di professione, contro la razza degli spiriti prostrati – costoro raggiungeranno le sparse membra di Céline, deposte nella terra il 1° luglio 1961, in questo deserto dei Tartari dove monta la guardia contro chi non giungerà mai. […]

Fare chiarezza, cambiare tutto.

Fare chiarezza.

Céline l’ha fatta. (pp.129-130)

POSTFAZIONE p. 223

INDICE p. 227