Da Rimbaud a Molière – Di Suzanne Lafont

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Da Rimbaud a Molière
I due autori sono gli spettri letterari più attivi
nell’opera di Céline – il poeta nella sua prima parte, Poquelin in
quella finale.
Di Suzanne Lafont
Per leggere Céline,
forse, è preferibile essere sensibili alle questioni dei fantasmi,
anzi, fare in modo d’essere se stessi ossessionati dai testi, dagli
itinerari, un tipo di domanda. I suoi romanzi, in effetti, fanno
bella figura sui fantasmi – quegli spettri che fanno ritorno nel
presente e nei confronti dei quali si sente in debito, anche se tutto
porta a pensare che li tradisce. Tra di loro, fantasmi letterari, e
non sempre i più attesi. Lo si è detto ispirato da Rabelais,
Barbusse, Ramuz… Si è cercato in lui un’ascendenza dal lato dei
romanzi, privilegiando la vena realista, e anche picaresca. Céline,
da parte sua, non rivela mai le sue vere fonti e preferisce
confessare l’influenza di Dostoevski, di Vallès e di Shakespeare,
essendo quest’ultimo effettivamente molto presente. Proust, unico
scrittore contemporaneo citato nel Voyage au bout de la nuit,
è stato senza dubbio il suo grande rivale, almeno fino a D’un
château l’autre
, racconto a partire dal quale Céline
«celinizza» invece di «proustizzare». Eppure non si dovrebbe
dimenticare la sua connivenza con i poeti, non solo per via dello
scopo che persegue – far ascoltare e trasmettere «il canto
dell’anima» così come arriva fino a noi attraverso le vicissitudini
della Storia – , ma anche nei suoi scritti, innervati da un capo
all’altro da un lirismo scontroso, dalla cantilena rabbiosa del primo
romanzo fino all’aspro desiderio di melodia di Rigodon. Quello
che si sa dell’itinerario ideologico celiniano, ancor più della
tradizionale distinzione dei generi letterari, fa schermo
all’evidenza. La vocazione poetica s’esprime con veemenza in
Bagatelles pour un massacre: «Adesso ti faccio vedere cos’è
un poema ripreso!», scaglia Ferdinand a Gutmanm che torna dal
fallito tentativo di piazzare i suoi balletti presso dei direttori di
teatro (BM, p.41). Quello che Céline chiama poesia copre un vasto
campo che va dal poema tradizionale all’opera, dal balletto alla
pantomima, passando per la leggenda e la canzone. Le vocazioni alle
quali ha dovuto rinunciare, in mancanza di talento secondo lui per la
poesia, la musica e il teatro, continueranno a lasciare tracce
nell’opera.
Da Arthur Ganate ad
Alcide Bava
Il Voyage si apre
su due poemi, una quartina di canzone e un «invito al viaggio»
messe in strofe; all’inizio del racconto, Bardamu recita ad Arthur
Ganate «Le ali dorate», «un modo di pregare vendicativo e sociale»
(V, p.9) in cui la tematica e la tonalità fanno pensare a Rimbaud,
tanto che Ganate ne ha il nome. L’impressione di una presenza latente
dell’«uomo con le suole di vento» si conferma con l’incontro di
Robinson, vero eroe del romanzo a detta di Céline: «Céline fa
delirare Bardamu che dice quello che sa di Robinson», confida in
un’intervista, riprendendo così le gesta rimbaldiano di «Deliri»
in Una stagione all’inferno dove Rimbaud parla di lui
attraverso Verlaine. «Il cuore pazzo Robinsonizza attraverso il
romanzo», scriveva Rimbaud in «Roman». Al centro del romanzo di
Céline, una romanza recita la parte dell’altra nella costituzione di
sé, la parte d’ombra e, per lo scrittore, la voce che parla al posto
suo. Questo Robinson taciturno e sardonico, anarchico, disertore,
partito per l’Africa in cerca della vera vita, tornato a mani vuote,
assomiglia a un Rimbaud sconfitto. Non è il poeta pimpante adulato
dai surrealisti (che Céline esecrava), ma quello che è partito
perché «ne aveva abbastanza di mentire». Alimentata da numerosi
indizi, la pista Rimbaud resta tuttavia in parte nascosta, e bisogna
andare a cercare nelle lettere, alcune inedite, la conferma delle
nostre intuizioni di lettore: Céline ha ben in testa i poemi di
Rimbaud. Conosce senza dubbio, malgrado la sua avversione ostentata
per Mallarmé, le righe che quello ha consacrato a Rimbaud in
«Quelques médaillons et portraits en pied» e che hanno contribuito
alla sua leggenda.
Robinson, con la sua faccia da rivolta e la sua voce
triste, assume solo la parte nichilista del mito rimbaldiano, e
Bardamu prende poco a poco le distanze da lui, è una forma di
fedeltà al tacito contratto intercorso tra di loro. Il paradossale
imperativo di affrancamento nei confronti di ogni autorità – tale
è la lezione di Robinson – esige di liberarsi dall’ossessione
d’esser libero, senza più legami con la comunità umana. Robinson
fallisce nel «reinventare l’amore», una dei desideri di Rimbaud in
cui Céline precisa che è il fondo misconosciuto del Voyage au
bout de la nuit
(CCI, p. 31). Si deve, per ricomporre la figura
di Rimbaud così come Céline l’immagina, associare a Robinson il
personaggio di Alcide. Il lettore attento ai suoni sussulterà al
nome di questo sergente della coloniale, vera «suora di carità»
malgrado delle rudi apparenze, che consacra la sua paga al
mantenimento di una lontana nipote orfana e si accanisce a coltivare,
in piena foresta tropicale, modesti convolvoli intorno alla capanna
dove sbavano i bruchi: questi indizi disseminati invitano a
ricostruire lo pseudonimo «Alcide Bava» con cui Rimbaud firmava il
poema inviato a Banville, «Quello che si dice al poeta riguardo i
fiori». Così, un riferimento ostentato (al Robinson di Defoe) può
nascondere un altro, tale da modificare la lettura del Voyage.
Pantomime comuni
I titoli delle poesie di
Rimbaud trovano una strana risonanza nei romanzi di Céline: «Notte
dell’inferno», «Deliri», «Sangue cattivo»… Céline prende in
prestito il suo lessico – pantomime, fanfare e orpheon [strumenti
musicali NdT] sono frequenti sotto la sua penna; prediligono gli
stessi scenari – città, ponti, chiuse, cascate –, hanno i loro
personaggi prediletti – bambini ridenti in farandola, ballerine,
saltimbanchi –, i propri nemici giurati – Ipocriti e devoti di
ogni genere, «Tribunali» o imboscati. Quello che condividono più
profondamente è il sentimento d’una sconfitta, personale e
collettiva, quella degli ideali libertari traditi dai tempi della
Comune fino alla Grande Guerra; ancor più condividono l’intima
coscienza della loro buffoneria, nella condiscendenza per le proprie
estasi – gusto dell’infanzia, allucinazioni, pretese legate alla
funzione d’autore. Da un campo all’altro il desidero del «disimpegno
ideale», evocato in «Génie» (Illuminations) e portato più
spesso dalla musica. La lettera detta del Voyant, indirizzata dal
giovane Arthur a Paul Demeny, e la critica che ne è fatta da Rimbaud
stesso in «Alchimie du Verbe» sono l’oggetto di una riscrittura
minuziosa in Mort à crédit. Il progetto di Céline è di
preparare accuratamente una lingua che sarebbe «dell’anima per
l’anima» nello spazio d’un romanzo riconfigurato. Lo dice sotto la
copertura del delirio, quando la febbre dà a Ferdinand il furioso
desiderio di comporre «l’opera del diluvio», degno prosecutore
dell’«opera favolosa» del suo predecessore. Céline orchestra, in
una sinfonia di dissonanze, canti d’uccelli, rumori assordanti,
tromba, Niagara e grandi organi. Bisogna assistere il lettore alla
nascita d’un soggetto che si scopre immediatamente spodestato da
quello che ha fatto schiudere: il «lo è un altro» rimbaldiano
diventa in Céline il punto di partenza del racconto. Al contempo, la
cornice del romanzo scoppia e si apre al canto che racchiude. Si può
ancora situare nella scia di Rimbaud lo zio Arthur di Mort à
crédit
che porta alto i colori della bohème, ne ha le maniere
mascalzone e la disposizione per il romanzo, di preferenza un poco
salace. Affascinato dai battelli ubriachi quanto lui, scrive sulla
sua porta in onore dei creditori questa chiave d’accesso della
memoria associata all’avventura rimbaldiana: «Non tornerò mai»
(MC, p.118). Più avanti nel romanzo, una certa «Mésange Rimbot»
particolarmente sfacciata elettrizza la banda di ragazzetti ospitati
nel Familistero di Courtial (MC, p.131). Se Ferdinand sogna la sua
vita sui poemi di Rimbaud, Céline scrive il romanzo della poesia che
ha dovuto rifare e che può sempre risorgere inopinatamente. Il
prologo di Guignol’s Band mette in scena, su una cadenza
indiavolata, i poemi «Paga» o «Guerra» de Illuminations.
Lo spettacolo suoni e luci del bombardamento del porto d’Orleans nel
1940 è reso in ottosillabi, una forte tendenza della prosa
celiniana. Guignol’s Band è il libro della scappatella
inglese, delle bagarre di ragazzacci dalle battute pittoresche («non
amo i pidocchi», urla Ferdinand durante una serata da orgia, GB,
p.150); maneggiano con maestria esplosivi, droghe e strumenti
musicali. Il tempo d’una Stagione. Poi finiscono «dannati» e
assassini, stregati dall’alcol, dall’hashich e dalle melodie. Uno di
loro si chiama Cascade; un altro, Borokrom, s’intende di ritornelli;
la coppia burrascosa che forma con Ferdinand sembra un’allegoria
dell’oscillazione di Céline tra il sentimentale e il bellicoso o, in
termini estetici, tra il melodico alla Verlaine e il ritmico
rimbaldiano. Il ritornello di Boro che «mai né disdetta… né
sospiro… posa!» (GB, p.124) s’ispira all’«Arte poetica»
verlaniana e del suo verso dispari «senza nulla in lui che pesi o
che posi». Le allusioni a Verlaine sono discrete ma insistenti, più
chiare in Féerie pour une autre fois dove, nella sua cella
danese, Céline sente «i singhiozzi dei viooooolini» della «Canzone
d’autunno». «Il violino e i singhiozzi mi ossessionano», scrive
senza temere il gioco di parole, pensando «alle estati terribili di
romanze» a Saint-Malo (F, p.89). La prosa romanzesca s’impregna d’un
lirismo dolce e sbiadito, in contrasto con i violenti alterchi, in
una nebbia sonora in cui si mescolano altre voci. Si riconosceranno
al volo gli scoppi Hugoliani («Un grande ammasso d’orrore e
d’ombra!…», GB, p.21), dei pizzichini di Villon: «Che ognuno se
la prenda col diavolo! […] ritrovi in cuor suo la canzone
appassita… […] o meglio che perisca di mille morti e resusciti
con mille pene! Al soffocamento atrocissimo, mille scorticature di
piacere[…]» (GB, p.21).
Dal 1936, la traccia di Rimbaud s’affaccia senza
scomparire, il modello teatrale relega sullo sfondo le reminiscenze
poetiche. Un’altra amicizia letteraria diventa evidente e, dopo aver
seguito il cammino di Rimbaud, Céline scivola dietro l’ombra di
Molière. In Mea Culpa, fa di George Dandin un rappresentante
del popolo («Spezza le tue catene, Popu! Raddrizzati, Dandin!…»),
stronzo quanto il borghese che detronizza. L’epoca dà ai battaglieri
della politica l’occasione di occupare i palchi, e Céline, che
s’immischia nel gioco, ha bisogno per sostenerlo di un esperto in
farsa sociale, in messa in scena di grande spettacolo e in pastorali
di compensazione.
Il
gusto per le commedie-balletto
Céline è uno dei pochi a
ricordarsi che la pièce di Molière comportava intermezzi
cantati-danzati, e riempie il pamphlet di canzoni danzanti, almeno da
Progrès, una pièce composta nel 1927. Mescolato a un
vaudeville, è una pantomima di macchine dotate di un composito
personale drammatico: due amanti, un marito irascibile, un girotondo
di angioletti e una nonna musicista che ha libero accesso a Dio. Si
vede che Céline non fa del piatto realismo. La sua ammirazione per
Molière va del resto meno all’autore de L’Avare, analista dei
costumi del suo secolo, che a quello delle commedie-balletto
stravaganti (osanna a Milton Hindus Le Bourgeois gentilhomme e
Le Sicilien. Ha saputo, ai suoi occhi, comporre delle forme di
delirio incantevoli, ma ancor più gli ha assegnato dei limiti al di
là dei quali notano pericolosi scettri (è lì uno dei punti di
convergenza con Rimbaud). Sul suo esempio, Céline nutre la
tentazione di un’arte totale che vorrebbe far contenere nello spazio
del romanzo, non senza correre il rischio di renderla illegibile a
forza d’ambizione.
Avendo indossato, nel corso del suo viaggio, l’abito di
vari personaggi di Molière, divenuto lo zimbello delle sue stesse
farse, un Impostore truffato dalle sue stesse imposture, un Alceste
velenoso unito a uno Sganarelle buffone, è a Poquelin in persona che
si riferisce nella sua ultima opera, Rigodon, nel momento in
cui sente «le Parche tagliarg[li] il filo». La posizione che lo
ossessiona è quella dell’artista morto al lavoro, attore e
sceneggiatore della propria morte, come Molière lo fu ne Le
Malade imaginaire
. Céline s’é costruito un mito Molière,
autore d’una opera-vita, in una costellazione di liberi pensatori dei
quali frequenta Rimbaud e Vallès. Offre l’esempio invidiabile
dell’uomo che ha saputo assumere la propria difesa nei processi di
cui era oggetto e trasformare la sua collera in arte. Più
intimamente, il desiderio che ha Céline di iscriversi nel patrimonio
[letterario], malgrado i suoi errori criminali, lo spinge a ricercare
la compagnia del classico più consensuale che gli servirà, senza
altra ragione, da cauzione estetica e morale.
Fingendo di credere, contro ogni evidenza, che hanno
commesso lo stesso genere di sbagli – attaccarsi ai vizi dei propri
tempi – , Céline propone di farsi perdonare da dove ha peccato: le
sue opere. Ha già scritto un manifesto poetico in forma di
improvvisazione farsesca, Entretiens avec le professeur Y, ha
inserito dei balletti «Grand Siècle» in un pamphlet (Bagatelles);
si prepara a costruire Rigodon sulla struttura dei Facheux,
la prima commedia-balletto di Molière, interrompendo la sua cronaca
della guerra con degli intermezzi digressivi e rivolgendosi al
lettore; prende in prestito al Misanthrope, oltre la prima
replica di Alceste («Lasciatemi vi prego…», R, p.29), il
principio di contrarietà, caratteristica del personaggio, del quale
fa il motore della recita e dei propri interventi. Si presenta
implicitamente come uno di quegli importuni che disturbano il maestro
per una causa che non è la sua. La strumentalizzazione di Molière
non cancella la bellezza dell’incontro tra due fantasmi di cui non si
sa quale sia più vivo dell’altro. In virtuosità, come per
rivaleggiare con l’ultimo Molière, Céline narratore e autore fa il
malato che gioca a [fare] il medico, un doppio ruolo in cui eccelle.
Lui che aveva voluto la Purga del genere umano, accanito a purgare il
mondo dai suoi mali, finisce nei panni di Argan: non è guarito dalle
sue follie, ma un altro lui le offre in spettacolo, offrendo ragioni
di ridere di tanta irragionvolezza.
Così, il canto dell’anima che Céline voleva
trasmettere si rivela essere quello dei morti. Tenta di cogliere
quello che avevano da dirgli e che non ha saputo comprendere (è uno
dei suoi leitmotive). Intermediario di fantasmi, li fa
dialogare, anche a secoli di distanza, e li fa accordare su problemi
comuni. Facendo ciò, ci obbliga a tendere l’orecchio per ascoltarli
– si tratta allora di ben altro che di reperire le influenze
letterarie. Il più alto grado del romanzo secondo Céline è il dar
voce a voci che si sono spente e delle quali fa risuonare il silenzio
attraverso le voci della storia.
TRADUZIONE
Stefano Fiorucci e Jeannine Renaux