POL VANDROMME – LOUIS-FERDINAND CÉLINE (Borla)

POL VANDROMME – LOUIS-FERDINAND CÉLINE
BORLA – Collana: Scrittori del Secolo n°10 – Novembre 1964
TRADUZIONE di Alfredo Cattabiani
 
PRESENTAZIONE
di Angelo Jacomuzzi p.7
INTRODUZIONE p.11
Capitolo Primo
IL REFRATTARIO p.23

[…]

Tutti gli scrittori importanti rioc­cuparono i posti che erano stati tolti loro.[…]
Solo un nome non è stato recuperato dalla massoneria letteraria. (p.25)
Questo nome maledetto, che con­tinua a intimidire e a scandalizzare, è quello di Céline.[…]
Egli però ha voluto dire tutto quel che doveva dire e nel tono che gli pareva più adat­to, senza badare alle convenzioni dei salotti, delle accademie e degli stati maggiori. […]
 quest’uomo senza misura, che si eccitava nei suoi deliri, è stato un gran­de scrittore, il prodigioso inventore di una nuo­va musica che non sarà capita pienamente se non nel xxi secolo. In lui vi erano tutti gli ec­cessi del genio, senza però quell’astuzia propria del talento; e in più alcuni furori e alcune auda­cie: tutto ciò non poteva certo ispirare simpatia ai contemporanei.

Céline si disinteressò sempre della sua car­riera. Anzi costruì la sua vita contro di essa, preferendo alle verità mediocri e confortevoli, che gli venivano proposte, il coraggio e gli im­previsti della sua intemperanza.(pp.26-27)

Questa rivolta segreta diventò improvvisa­mente pubblica con il Viaggio al termine della notte ( 1932), libro colmo di tenebre, che fu salutato come l’alba di una rivoluzione. (p.28)
Da un giorno all’altro Céline diventò cele­bre, fu acclamato da Léon Daudet e da Georges Bernanos, vinse un premio letterario e vide la sua opera venduta a migliaia di copie. La si­nistra scopriva il grande scrittore popolare che le mancava ormai dai tempi di Zola; gli apriva i suoi giornali, i cenacoli, le porte del paradiso sovietico[…]
In quel momento Céline doveva solo lasciar­ si trasportare dall’onda della moda: la sua car­riera artistica era bell’e fatta. La società lette­raria gli offriva tutto, come poco prima aveva fatto la società provinciale. Ma Céline ancora una volta la respinse (p.29)
Appena ritornato dalla Russia, dove era an­dato a spendere i diritti d’autore guadagnati con la traduzione del Viaggio, pubblicò Mea Culpa, che attaccava il comunismo e ne calpe­ stava i miti. Ma quella violenza era sconvenien­te; nessuno se la sarebbe aspettata da un gran­de scrittore della sinistra.[…]
Bagattelle per un massacro fu uno de­gli avvenimenti del 1937: libro torrenziale, in­torbidato dalle nebbie di un antisemitismo ne­vrotico. Tutti rimasero sbalorditi. La sinistra,che s’era poco prima annesso d’ufficio Céline,si affrettò a lasciarlo libero. La destra non lo stimò recuperabile e lo sospettò di gettare, con i suoi atteggiamenti estremisti, discredito su quella che era allora la sua passione più frivola e che sarebbe diventata più tardi la passione più vergognosa. Per la prima volta un libro di Céline non ebbe più alcun alleato. Lo scrittore cominciò allora la sua interminabile rumina­zione di solitario. Tutti avevano letto Bagattel­le per un massacro parola per parola e lo ave­vano giudicato un libro folle: Fautore conquistava il posto che gli apparteneva sulla lista nera.

Scomunicato dalla sinistra, tenuto a bada dal­la destra, questo energumeno si avvolgeva nella sua maledizione, incarnava il personaggio dell’avventuriero che cospira contro le idee e la ragione dell’epoca. (pp.30-31)

Non nascondere niente di se stessi, esprimere tutte le collere nate dalle antipatie e dalle volgarità, non è certo un ruolo facile da sostenersi e non tenta molta gente. […]

Il modo più sicuro che ha scoperto per liberarsi dalle sue ossessioni, è di metterle in ridicolo. La risata è sempre scossa dall’amarezza; è una rabbia che scoppia in un ghigno: Ma l’ossessione giunge da troppo lon­tano, da una memoria che si ricorda di troppe cose, di tutto, per poter svanire. (p.32)
 Se Bagattelle per un massacro provocò una violenta polemi­ca, Uécole des cadavres — che fu pubblicato un anno più tardi, nel 1938 — non suscitò al­cuna eco. Céline, da pacifista irriducibile, tuo­ nava contro le minacce di una nuova guerra e, per distruggerle, chiedeva un’alleanza con la Germania. […]
Non cercava di essere capito o anche solo di essere ascoltato. Adoperava i modi meno adatti per far accogliere le sue opinioni, indi­sponendo la sinistra come la destra, chiuden­dosi in un ghetto spirituale, lanciando i suoi anatemi senza alcuna astuzia. (p.33)
Coloro che pensano che Bagattelle e L ’école des cadavres siano le arringhe di un cinico si sbagliano di grosso. Invece sono le invettive d’un ingenuo che si lascia trasportare da tutte le sue illusioni. Il carattere che colpisce di più in Céline è l’innocenza. Un’innocenza da furio­so che non si ferma davanti a niente. Egli immagina che i libri possano assolvere a una fun­zione di riforma e che si possa salvare il mondo assalendolo con gli insulti; non facendo un di­scorso razionale, ma scatenando i rancori, le grida dei suppliziati in un carnevale d’agonia. […]
La smania, che inva­ deva questo Don Chisciotte dall’insulto osceno e violento, era la smania di convincere. Céline si credeva depositario di una profezia la cui ri­velazione era fondamentale per la salvezza del­l’umanità. (p.34)
Il lettore mi perdonerà se mi servo di una espressione ormai male usata e che in genere viene riferita ad altri autori; ma per Céline la letteratura era un servizio, anzi un servizio pub­blico. (p.36)
Nessuno ha ancora notato come Céline, per il quale un libro era frutto di un lavoro pa­ziente e faticoso, scrisse in pochi mesi due ope­re voluminose come Bagattelle per un massacro e L ’école des cadavres sentiva la necessità di scriverli subito. Questa strana fretta in un la­voratore tranquillo e calmo come lui denuncia­va la preoccupazione di cogliere Pavvenimento, di gravare su di esso e di piegarlo secondo la propria volontà. Céline si sentiva costretto e spinto. Non scriveva per piacere ma per ne­cessità.[…]
L’arte della polemica in Céline lo con­duceva a compromettersi, a rompere tutti i pon­ti, a giocare subito tutto. (p.37)
Si era gettato a corpo morto nelle sue fissa­zioni, senza alcuna prudenza, proprio perché scriveva per se stesso, per fissare la linea inte­riore del suo tumulto spirituale. […]
Céline scrisse uno dopo l’altro Bagattelle per un massacro e Uécole des cadavres per tuo­nare contro la guerra che sentiva avvicinarsi.
Quando la guerra giunse insieme alla sconfitta del 1940, pubblicò Les beaux draps per mo­strare l’esattezza di alcune sue profezie[…] (p.38)
Ma all’inizio del 1942 la speranza cominciò ad abbandonarlo e allora — prima ancora di es­sere un vinto — assunse un atteggiamento di­ staccato, si rese conto che l’umanità doveva es­sere giustiziata e punita con la catastrofe e la maledizione.
Così il vigore fanatico della reazione lasciò il posto a un atteggiamento disincantato che vedeva l’Europa in un’atmosfera di decompo­sizione. Le disgrazie e le vicende, che gli piom­barono addosso durante l’esilio in Germania e in Danimarca, lo confermarono ancor di più nella sua disperazione.
Sulle rovine d’una vita devastata recitò la sua versione dell’apocalisse occidentale e fece avanzare nella sua immaginazione il suono dei canti di guerra mongolici. (p.39)
Nella sua opera si compiva una svolta pro­digiosa. Una parte della sensibilità di Céline (quella che lo spingeva alla sfida) crollava, e sulle sue macerie pullulava, come un groviglio di insetti e di vermi, la sua agitazione strava­gante ed esasperata, espressione di un nichili­smo ormai irriducibile. Spinto dall’ironia vendicatrice lo scrittore faceva sghignazzare le fa­vole barocche della morte che erano per lui nient’altro che grida lanciate dall’umanità eu­ropea alla vigilia del suo trapasso.
Alla fine, le certezze dell’inizio si erano ro­vesciate e Céline, invece di ricercare la strada per risalire al paradiso perduto, guardava spa­rire le vestigi a del mondo civilizzato. (p.40)
bari.
« Dopo il 1952, nel ritiro di Meudon — os­serva ancora Marcel Aymé — Céline era diven­tato un altro uomo. […]
Attento ad os­servare i moderni procedimenti di alienazione e di disumanizzazione, egli considerava con di­sgusto, e talvolta ancora con un moto di collera, il torpore dei contemporanei, la loro strana in­differenza di fronte a tutti quegli avvenimenti che lo concernevano direttamente. (p.41)
Céline non è stato solo un agente provocatore, ma anche una specie di energumeno intestardito nella provocazione. I benpen­santi hanno trovato insopportabile non tanto la materia dei libri, quanto l ‘accento. Lo si è attaccato per il suo linguaggio senza capire che quel linguaggio, considerato come qualcosa di sconveniente, non era altro che il riflesso fe­dele delle ossessioni del suo animo. Ma di questo riparlerò più innanzi.
Céline ha portato su di sé, durante tutta la vita di scrittore, una maledizione costante. (p.42)
[…]malgrado ciò il nome di Céline continua a suscitare la collera di certi resistenti. Perché lui , e lui solo?
Le forze sociali da lui attaccate gli hanno a loro volta scagliato addosso i proiettili che Cé­line aveva loro indirizzato. Lo scrittore aveva scatenato contro di loro una polemica che sboc­cava nel massacro. Una polemica violenta che nasceva e si accaniva su tutti i fronti. Céline non discuteva solo un aspetto della società, ma
la società intera e, al di là delle apparenze so­cietarie, l’uomo stesso nella sua miseria, nel suo disgusto, nel suo genio suicida.
[…]
E nessuno è intervenuto in sua difesa. Cé­line non si era venduto a nessun partito: non aveva aderito a nessuno, non serviva che la propria opera. Era quindi facile sopprimerlo[…] (p.43)
Céline invece non esprimeva l’intolleranza di un clan, ma Pintolleranza che nasceva dalla sua generosità disperata.  (p.44)
Franco tiratore isolato sul cammino per­corso da pericolose pattuglie nemiche, Céline fu subito scoperto, maltrattato, liquidato senza nemmeno potersi difendere. […]
Di volta in volta i moderati, la sinistra, Pestrema sinistra, la de­stra e Pestrema destra lo conciarono a modo loro. Infine, a coronamento di tutto questo, i sopravvissuti di Sigmaringen lo definirono un rinnegato, e il Saint-Just dei collaborazionisti francesi ( Pierre-Antoine Cousteau) lo trattò co­me lui aveva trattato gli editori, gli ebrei, i ca­pitalisti e i nazionalisti. (p.45)
Capitolo secondo
LA PAURA p.47
Aveva il classico vizio degli intellettuali: era futile.
Così dice Bardamu di Princhard nel Viaggio al termine della notte. L ’opera di Céline non è certo guastata da questo vizio; è seria, pos­siede quella serietà che nasce da un turbamento interiore colmo di rabbia, dalle insolenze di un pessimismo che vien fuori con violenza e si sca­tena senza limiti. […]
La stringe nelle sue mani perché per lui la disperazione non è solo un divertimento, un pretesto per variazioni lette­rarie, ma una condizione naturale, uno stato d’animo, la tentazione permanente della mise­ria e dell’assurdo. È la compagna per cui pas­siamo la nostra vita ad intercedere. (p.49)
Il pessimismo di Céline è legato strettamente alla sua collera. Egli non coglie semplicemente le umiliazioni o le lordure della vita, non le registra senza eloquenza; ma si scaglia su di esse e le fa gridare con una voce rauca e irreprimibile. (p.50)
Una voce che vomita , si po­trebbe dire, nel senso che si sgrava delle ama­rezze che la deprimono e che le danno la nau­sea. Una voce scossa da singhiozzi terribili e la cui eco trema dalla prima all’ultima pagina.[…]
Dai primi agli ultimi libri è diven­tata forse più incalzante, più aggressiva; ma i motivi che V animano non sono cambiati. Nel­l’opera di Céline non c’è che Céline, ed egli non dà la parola che a se stesso. Il mondo che crea è quindi un mondo chiuso, una piccola regione dell’indignazione dove lo scrittore si agita con l’impazienza di una fiera in gabbia. (p.51)
Giudicare gli altri degradandoli non è sem­pre effetto di bassezza d’animo. Anzi, talvolta è il contrario. La volgarità di Céline non è mai tranquilla: è una volgarità che si ubriaca ed esa­gera. […]
La volgarità di Céline è la smorfia di una nobiltà che la vita ha metodicamente avvilito.
Una smorfia che si fonde con un atteggiamento triviale per mascherare la delicatezza di un ani­mo che ha smarrito la sua vera natura attraver­so delusioni terribili e snervanti. Anche la sua cattiveria è una bontà che mal dissimula le ferite provocate dalla vita: una bontà colpita a morte e che, prima di cedere, urla per l’ultima volta la sua impotenza. (pp.52-53)
C’è un pessimismo che vede il mondo com’è, ma non può accettare che sia così, e lo vor­rebbe diverso. (p.53)
Non è tanto il pessimismo, dunque, che in­vade l’opera di Céline, quanto, in primo luogo, l’angoscia di fronte al mondo e ai suoi decreti sempre più opprimenti.[…]
La musica di Céline cerca di vincere o di stre­gare in un certo senso questa notte profonda, colma di tenebre sudicie, che lo segue a passo a passo, compagna familiare e losca: la notte della paura.[…]
Céline è un uomo sempre in guardia. Si aspetta sempre il peggio, si sente minacciato da un’oscura e continua persecuzione. (p.54)
Céline non parla mai dell’uomo come di una solenne astrazione che serva ad abbellire opere decorose e conformiste, ma come di una crea­tura nata in un terreno infetto, destinata a ritor­narvi molto in fretta e che già qui, in questa vita, fa un po’ di pratica per imparare a percorrere il triste cammino della putrefazione. (p.56)
Céline trasmette nella sua opera un senso di sospetto e di diffidenza, cui reagisce in modi contrastanti, poiché si lascia trascinare dai suoi impulsi.(p.57)
La natura lo circonda come una potenza ostile. È una piovra che lo agguanta e lo stringe.
Oppure, come nel caso della campagna, è qual­cosa di estraneo che lo lega indissolubilmente alla sua noia.[…]
In qualunque posto si trovi non riesce mai a sentirsi sicuro di fronte a ciò che lo circonda.[…]
Per Céline il mondo è un tranello: il mondo degli uomini come quello delle foreste, dei campi, delle città.
Ma c’è una zona ai bordi della città che si salva di fronte ai suoi sarcasmi colmi di spa­vento; allora le sue parole sono come un volo di gabbiani, battiti gioiosi che benedicono l ’ac­qua, il cielo e le vele che si gonfiano al vento. (p.58)
La vera periferia di Parigi […] è il mare.
Il mondo di Céline, dominato dalla pauraè un mondo di gente perseguitata.
I suoi personaggi sono colpiti dalla grandmalattia moderna: non riescono a star fermi.
La sola loro risorsa, la sola salvezza è di vagare per strade senza luce, in bracci di trincea dove sognano combattimenti di retroguardia. Hanno sempre voglia di partire perché fuggono fan­tasmi che li opprimono.[…]Ma quella paura che li spinge altrove, li ricon­duce sempre al punto di partenza: nel labirinto della loro paura. Non riescono a sfuggire; vanno incontro a nuovi terrori. Il loro primo impulso è di riderne, di metterli in ridicolo; ma alla fine lo stesso ridicolo s’impadronisce di loro e li trascina al naufragio. (pp.59-60)
Céline spaventa e mette in fuga le imposture che consolano e illudono gli uomini. […]
Egli li mette in fuga con quel suo sguardo senza pietà che li riduce alla loro nudità essenziale, a una nudità che essi non hanno il coraggio di fissare. (p.61)
Il sogno, secondo Céline, è ciò che cambia la vita, ma solo quella vita che nasconde dietro un velo di apparenze la povertà e la solitudine.[..]
Il sogno: ecco che cosa conduce alla demistificazione.[…]
Il momento della verità si rinnova ad ogni istante; per questo nei suoi libri non c’è mai un momento di tregua, di calma dopo la tempesta, ma solo una febbre inestinguibile, un’angoscia continua. Se c’è qualcosa di mono­tono e ossessivo, è il furore. Céline esige che i personaggi fissino continuamente gli abissi che sono in loro, intorno a loro e che egli rivela loro. (p.62)
Céline teme e odia quel mondo apparente e falso in cui vorrebbero rifugiarsi i suoi personaggi e che lo spinge alle bravate alla Don Chisciotte.
[…]
Céline non racconta la sua vita; rac­conta i suoi sogni e le allucinazioni colme di de­lusione. […]
Céline ha capito che solo l’eccesso e l’esage­razione potevano salvare la sua opera.
Tutti gli eccessi: dalla risata ilare a quella angosciata, deformata da una smorfia di dolore.
Il talento di Céline si rivela appunto nell’esa­gerazione e nell’enfasi: è ricco di modulazioni e sa scatenare indifferentemente la potenza del­ la tragedia e la violenza della satira e del co­mico. (pp.63-64)
Infatti nei primi libri di Céline c’è una co­micità selvaggia’ e violenta come l’inquietudine che sottende. Essi sono per molti aspetti dei romanzi picareschi. […]
 La realtà, che egli sostiene di offrirci, non è una realtà ogget­tiva. In ogni caso non in senso assoluto. (p.67)
Céline aveva bisogno, da un punto di vista letterario, di questo personaggio. Quando infatti egli non riesce a dominare la sua natura, quan­do rinuncia al celinismo — e questo gli suc­cede anche nel Viaggio e in Morte a credito — cala di tono, giunge ai confini della risata disor­dinata e persino della commozione, del lamen­toso sentimentalismo. (p.68)
Céline ha finito per identificarsi con il per­sonaggio di se stesso che aveva inventato. La sua vita, la sua sensibilità, il suo mondo perso­nale sono stati alla fine annientati da quel che nella sua opera era meno personale. Il solo pas­tiche riuscito dei suoi libri è la sua esistenza.
Il celinismo anticipava Céline stesso e Céline non l’ha raggiunto che dopo qualche tempo. La profezia aveva preceduto il profeta. Ci è vo­luto un diluvio e la prospettiva dell’Apocalisse perché il ritardo fosse colmato. L ’insediamento di Céline nel celinismo è avvenuta dopo molti sforzi. Le tracce di questo travaglio contrastato appaiono molto chiaramente nei due volumi di Féerie pour une autre fois. Ma, a partire da D ’un chàteau à Vautre, Céline ha recitato a memoria e senza errori il suo nuovo personaggio.
Ormai non esistono più dubbi: il mondo celi­niano è uno dei grandi mondi della nostra let­teratura, non si limita a registrare la realtà, ma anzi persegue proprio il contrario in un disor­dine sfarzoso.(p.69)
« La realtà descritta da Céline — osservava André Gide — è l’allucinazione provocata dalla realtà ». L ’opera di Céline è infatti un’alluci­nazione. In essa vi sono pochi avvenimenti, che in genere rappresentano la materia prima dei romanzi. Non c’è quasi trama; i fatti vanno e vengono come possono e — salvo che in alcuni brani del Viaggio — non si dispongono mai con ordine intorno a dei temi. Tutto ha l’aria di un vero e proprio sfacelo, di un fiume uscito dai suoi argini, di una marea che sale con il suo ca­rico di gente sbandata e di corsari affamati. (p.70)
In Céline la realtà ha perso la testa. Ha perso la ragione. Non è più la realtà del geometra; è una realtà da poeta epico, da sonnambulo che si butta nella tempesta come in un sonno. […]
Lo strumento di questa metamorfosi è l’emo­zione del narratore. Quest’emozione, che tra­ sporta con sé le angosce e le fobie, è integrata nel linguaggio. […]
È il linguaggio, ed esso solo, che dà al mondo di Céline il colore e il movimento della sua originalità; non ha il compito di definire le cose, ma di comunicare loro una febbre.
Così attraverso il linguaggio l ’allucinazione di cui parlava Gide può liberarsi e rivelarsi. (pp.71-72)
L ’opera di Céline è un sogno nato da una fantasia in rivolta. […]
La realtà è per Céline un delirio. Ma un deli­rio incantatore. Non sono solo le parole a oscil­lare, ma anche il mondo che esse evocano. Tutto viene trascinato in una sarabanda che urla, si dibatte, si rivolta splendidamente. (pp.72-73)
Capitolo Terzo
LA MORTE p.75
Il libro meno conosciuto di Céline è la tesi di laurea in medicina dedicata al chirurgo un­gherese del xix secolo Ignazio-Filippo Sem­melweis. Pur non avendo una grande rilevanza dal punto di vista estetico, è forse il suo libro più importante perché ci dà le chiavi per capire esattamente l’opera celiniana. Quel che ci col­pisce subito è il tono dello scritto. Infatti non ha nulla in comune con il solito stile di una tesi universitaria: non ha il tono pesante, noioso dell’opera accademica, non esprime quella sere­nità forzata e quella piattezza laboriosa di uno scritto senza vita; è invece una specie di poema sinfonico e cavalleresco dove le parole vagano alla ricerca di paesaggi e di sorprese inattese.
Inoltre questo libro non ha l’accento e il ritmo delle altre opere di Céline: non è certo uno scritto calmo, però è contenuto; trattiene il respiro, si concentra, si struttura ancora in una forma tradizionale. (p.77)
Céline non è ancora Céline; tuttavia rivela già interamente la sua personalità. Gli manca solo lo stile. […]
C’è già però il tono celiniano: quello del­l’evocazione visionaria, dell’emozione cruda, della spontaneità che si ubriaca. Ma lo stru­mento dello scrittore non è ancora perfetta­mente accordato- Céline non riesce ad esprimere compiutamente il suo stato emotivo: lo osser­va, lo descrive dall’esterno. (pp.79-80)
Il problema che Céline doveva risolvere era di riportare negli scritti gli eccessi e le esage­razioni del suo animo. Era dunque un problema di linguaggio. (p.80)
Céline è un poeta dell’amore; un forsennato, senz’altro, ma un forsennato sentimentale che nasconde nell’invettiva una deli­catezza naturale. Ciò che brucia nella sua opera è un grande amore deluso della vita e del mon­do, è una formidabile collera infantile che non si rassegna di fronte alla profanazione dei suoi sogni. Tutta una parte del suo animo — che i suoi libri coprono d ’ingiurie, ma che affiora nel ritmo delle sue storie — esprime un sentimento colmo di una sottile tenerezza, di una magia modulata sul filo dell’adolescenza e di ingenui ritornelli. (p.81)
Poi, d’improvviso, Céline maltratta le sue frasi bene ordinate, le scompone, le frantuma in tronconi, semina fra di esse dei puntini di sospensione; le scuote e le setaccia. (p.82)
Céline, fin qui ancorato, rompe ora gli or­meggi; si tuffa nel linguaggio parlato. Sente che è il suo: quello che esprime meglio il suo temperamento, il suo mondo. Ma deve trovare adesso la sua melodia. È ancora un canto in­ certo, una voce tremante. Eppure è già il motivo tempestoso che tormenterà più tardi i suoi libri, li colpirà come un fulmine, spargerà su di loro, in ogni direzione, i suoi lampi.
Lo stile celiniano è dunque una conquista, una conquista difficile. Non è stato ottenuto su­bito: è il contrario d’una intuizione fortunata, di un caso felice. È maturato in Céline lenta­mente, obbligandolo a una ricerca continua e faticosa, esigendo da lui un’ostinazione senza tregua. (p.82)
In Semmelweis il linguaggio parlato sor­prende Céline. Lo sorprende in due modi: prima di tutto lo afferra; poi lo intimorisce. Per que­sta ragione le sue apparizioni sono ancora timide e fugaci. Il principiante Céline componeva le frasi meglio di uno scrittore maturo: le parole si allineavano in bell’ordine e i buoni professori d’università erano contenti. […]
Se il suo linguaggio personale non appare an­cora, sono già presenti invece i temi della fu­tura opera narrativa. (p.83)
Céline non era fatto per lasciarsi scivolare a poco a poco in una disperazione senza soluzioni.
Sperava in una salvezza. Per lunghi anni ha ten­tato di far cessare la guerra che l’umanità con­duceva contro se stessa e la sua conservazione.
Ma l’umanità non ha voluto ascoltarlo. […]
Il suo disgusto non è il disgusto per la vitama una ripugnanza istintiva per tutto quel che guasta e corrompe la vita. Céline non odia l’umanità, ma le malattie che la corrompono.
Egli denuncia nei suoi libri la morbosa passio­ne per la distruzione che invade gli uomini di oggi. (p.89)
È la sola giusti­zia. Ma dopo, come prima, le menzogne conti­nuano ad esistere: le orazioni funebri, le ese­quie nazionali, tutte le parate della futilità. (pp.90-91)
Sguazzando nel marciume, Céline con travviene, senza dubbio, alle regole della buona educazione. Ma le buone maniere sono talvolta l’alibi e la giustificazione dell’ignoranza degli ipocriti. Questi anestetici molto efficaci ser­vono solo ad addormentare i dolori, a confor­tare le agonie. Circondato da tutti i luoghi co­muni della demagogia, l’uomo non sa più rico­noscere la sua sofferenza. I ciarlatani glielo proi­biscono. (p.92)
eroi di Céline, vi dirà che Céline ha ragione ».
I personaggi di Céline sono infatti dei proscritti. Dei reprobi che agonizzano da soli e per i quali l’agonia, a differenza degli eroi di Bernanos, non è santificata da Cristo. La Morte, per loro, non suscita la grazia, ma introduce nel regno del Nulla; è una strega gobba e sdentata, che rotea come un rapace su prede ancora calde.
Ma Céline vuol dire ancora che l’uomo mo­derno ne ha fatto una sua complice. La morte non ci viene a prendere; siamo noi ad andarle incontro. Noi provochiamo quasi tutte le ago­nie, e la nostra prima di tutte. (p.94)
Il rimprovero fondamentale fatto da Céline alla società contemporanea è di saper ritro­vare la sua generosità e gli strumenti della sua salvezza solo per l’agonia dei moribondi e per la sepoltura dei morti. (p.95)
Per vivere bisogna morire a se stessi e al mondo. Céline benedice questa morte, la consi­dera sacra, e le dedica tutti i suoi slanci di te­nerezza. (p.96)
La vigliaccheria è uno dei riflessi dell’istinto di conservazione. È meglio essere un poveraccio qualunque in buona salute che un eroe morto. […]
Un animo nobile è quasi sempre un animo diviso.
La paura, poi la sfida. Aver voglia di fuggire, poi fronteggiare. Céline si rivela proprio in que­sti due eccessi, che egli finge di non conciliare mai, passando dall’uno all’altro con un impeto stupefacente. (p.97)
Capitolo Quarto
GLI EBREI p.99
Si son fatti sparire dalle opere complete di Céline tre libri: Bagattelle per un massacro, L ’école des cadavres, Les beaux draps. Sono diventati i classici della letteratura clandestina. (p.101)
Queste scelte hanno un solo scopo, di impe­dire che il buon Céline sia contaminato dal cat­tivo. Così si adotta per Céline la stessa disci­plina vigente nei collegi. Il cattivo Céline, co­perto di note negative e sottoposto a un casti­go interminabile, è quello dei pamphlets. (p.102)
Ma noi non crediamo sia cosa onesta, e nemmeno astuta, cancellare i pamphlets dal­l’opera celiniana. Essi ne fanno parte, hanno un loro posto ben preciso, anche se secondario; e, poiché le censure sono punizioni troppo umi­lianti perché noi ci permettiamo di infliggerle, poiché i libri non devono rendere conto alla ragion di Stato o a quella dei partiti, noi non faremo entrare i pamphlets nel catalogo dell’indice repubblicano. Da un punto di vista letterario non sono assolutamente libri trascurabili. […] Intendiamoci bene. I pamphlets celiniani sono a modo loro dei capolavori, ma nello stesso tempo libri falliti, quasi insopportabili. (p.103)
Ma assumono un significato per il loro lirismo, per lo stile e per la paranoia che li agita e li sti­mola. […]
Andando in ogni senso, spinti in ogni direzione, sono i sogni velenosi e com­plicati di un ossesso, di un maniaco. (p.104)
I pamphlets sono riunioni pubbliche dove il suo delirio non abbandona mai la tribuna e conti­nua ad urlare al microfono. […]
Nel caso di Céline l’appa­renza è la follia: è un antisemitismo concepito come un odio viscerale.
Nei pamphlets gli Ebrei sono considerati re­sponsabili di tutti i peccati, sia di quelli d’Israe­le, sia degli altri. Sono insomma i capri espia­tori. (p.105)
Su un termine del vocabolario Céline fonda il suo Terrore. La parola Ebreo è sempre scritta da lui in maiuscolo.[…]
pensa dell’umanità Quando a Céline un ebreo, odierna, pronuncia ma passata all’insieme la parola e futura. Ebreo degli Non , ebrei noti fa distinzioni. Amalgama, saltando le frontiere ed i secoli, raccogliendo pettegolezzi e verità insieme, correggendo i testi di storia, riunendo tutte le leggende che circolano sui ghetti e, per finire, gridando con una voce sconvolta dal furore: ecco l’Ebreo, l’immagine-slogan, il ri­tratto robot, la quintessenza d’Israele.  (pp.109-110)
Si tratta infatti di una follia, di una specie di furore sacro. Che cos’è l’ebreo di cui parla Céline? Un fantasma, un sogno colmo di col­lera. È un mostro per una farsa macabra, un essere senza consistenza, senza realtà. Come la maggior parte dei polemisti Céline si batte con­tro le ombre suscitate dalle collere della sua immaginazione. Non conosce i suoi avversari, cosa molto frequente negli scrittori di pam­phlets. Egli si costruisce un’idea di Israele adatta al suo disgusto: è un popolo effeminato, deca­duto, che è impegnato ad affrettare la corru­zione della società e che usa tutte le qualità umane per compiere le bassezze più perfide e più infami, rifiutando per debolezza di risolvere la contesa con Hitler e ordinando ai giovani francesi, per mezzo delle pressioni della sua forza occulta, di risolverla al suo posto. (p.111)
Céline si serve della parola ebreo senza co­noscerne l’esatto significato. La distorce a tal punto da ridurla a un vocabolo senza senso.
Ma il fatto più curioso è che egli non si limita solo a identificare Israele con l’idea preconcetta che se ne è fatta. Va ancora oltre; esige che tutta la parte più rilevante del popolo francese strap­pi le sue carte d’identità e si faccia naturalizzare israelita. Perché per lui tutti sono ebrei, con ­riti sanguinosi. Non è nemmeno più l’ebreo che viene considerato normalmente dall’anti­semitismo; è qualcos’altro, un mito, una follia che si instaura, che prospera, che arruola i suoi seguaci ogni giorno, che colonizza l’universo intero.
Se si dovesse interpretare Céline letteral­mente, se si dovessero leggere i suoi pamphlets riga per riga, non si comprenderebbe più niente. (p.112)
Ma, è questo il punto, non bisogna prendere Céline troppo alla lettera… Se consideria­mo questi pamphlets nella loro vera es­senza, come una sorta di estrapolazioni liriche, tutto diventa chiaro, logico e la nostra ricerca trova finalmente una soluzione.
L ’Ebreo è un neologismo bizzarro che è sorto inavvertito nel linguaggio di Céline. Ci si può sbagliare sul significato di molti termini del­l’Argot celiniano, ma non possiamo permetterci di interpretare erroneamente questo. Ritorna così spesso, riferito a tutto, come un leit-motiv, con un’insistenza monotona e aggressiva, pro­prio perché indica l’insieme dei terrori dello scrittore. (p.113)
 L ’Ebreo può essere chiunque; siete voi, sono io, è (non inganniamoci), in alcuni momenti, lo stesso Céline. (pp.113-114)
In Céline l’odio si rivolge contro le élites della società  francese in ogni campo. Ma, secondo lui, le forze che dirigono la nazione sono nascoste nell’ombra, dissimulate dovunque, persino in noi stessi. (p.114)
Quindi i suoi pamphlets non sono rivolti tanto contro una persona determinata, quanto piuttosto contro qualcosa. Contro che cosa? Contro una sostanza torbida, contro una paura invincibile. (p.115)
Quando il termine Ebreo diventerà inutilizzabile nella sua opera per il troppo uso, lo sostituirà con la parola Cinese.(pp.115-116)
Questo errore è ancora più imperdonabile nei confronti di Céline. Ci sono infatti due cate­gorie di scrittori: quelli che si contraddicono e quelli che si ripetono. Céline appartiene alla seconda categoria. Scrive sempre lo stesso libro: ma non lo scrive mai nello stesso modo. Cambia tono, accento.
L ’accento grave è stato messo da Céline sui romanzi; e l’accento acuto sui pamphlets. Ecco perché ci paiono importanti. Sono opere più acute, hanno punte più affilate, dirette meglio.
I romanzi raccontano la paura; i pamphlettentano di distruggerla. (p.117)
La polemica per lui non è altro che un attacco violento con­tro la paura. […]
La paura che dipinge Céline è l’allucinazione provocata dalla paura. È più o meno la defi­nizione di André Gide. I pamphlets dunque sono strettamente legati ai romanzi. Benché la parola Ebreo sia in essi un errore eccessivo, noi possiamo rimetterli al loro posto, nelle opere complete di Céline. (p.118)
Capitolo quinto
LA GUERRA p.119
Ora sappiamo che YEbreo è il nome della paura celiniana. Ma perché questo nome appare solo nel 1937 e non prima? Perché l’angoscia di Céline è l’angoscia della Morte; perché la guerra è per lui l’immagine più folle, più con­sistente, più disgustosa di questa Morte; per­ché, secondo lo scrittore, l’Ebreo vuole che la Francia faccia la guerra al suo posto. (p.121)
Scrivere la storia dell’ultimo anteguerra, co­me ha fatto Céline, parlando di Hitler come di un uomo gentile e ragionevole, è uno scherzo piuttosto infelice. (p.123)
Céline ha tra­sformato questa giusta intuizione in un’idea ai confini con la follia, facendola entrare nella sua mitologia personale.
Se Céline conosceva gli ebrei male e inesat­tamente, conosceva però molto bene la guerra e i suoi effetti, cose che i pacifisti abitualmente ignorano. Quindi il suo pacifismo era profondo e ragionato, sentito con tutto il cuore.
La guerra è per Céline un ricordo spaven­toso. Poelkapelle, nel 1914, gli aveva lasciato una ferita che non si era più rimarginata. (pp.124-125)
L ’opera di uno scrittore è un armadio a muro dentro il quale c’è un cadavere. Un cadavere che profuma o che puzza. Quello di Céline am­morba l’aria. È una carogna. È la sua guerra.
La mette dappertutto. La sua opera è colma, ripiena di ricordi di guerra; vacilla sotto il peso di questi. (p.123)
Céline si era dapprima lasciato in­gannare, vittima come tutti noi della lettera­tura e della poesia di guerra. Anche lui aveva fatto marciare al passo il suo coraggio e l’aveva vestito secondo le norme: non gli mancava nulla, aveva anche una bella uniforme. Ma sul campo di battaglia s’accorse che la vera uni­forme dei soldati era fatta con i colori della putrefazione. (p.126)
La guerra l’ha iniziato: non all’amore o all’ebrezza del piacere, ma alla follia e alla
morte. (p.127)
Se non ci fosse stata la guerra, l’opera di Céline non avrebbe assunto lo stesso tono. E, sicuramente, non sarebbero stati scritti i pam­phlets. (p.128)
Ma nello stesso tempo Céline ne rivela la ferocia moderna: parla della guerra che dila­nia e imputridisce, che riduce ogni cosa in pol­tiglia o in cenere, in cui si incontra la barbarie di sempre con la barbarie del futuro, che di­venta una carneficina al servizio di una scienza impazzita. (p.131)
Céline non ha dimenticato il passage Choiseul, il suo calore che sapeva di stufa, le lam­pade a gas, il formicaio dei poveri. Egli sente dappertutto quel ricordo, lo porta con sé, lo trasforma in un universo : universo puzzolente, mondo sfinito, preso dal panico, colmo di sputi nerastri, di catastrofi sordide che si trascinano senza mai scomparire. (p.137)
Il medico Céline parla dell’uomo come di uno stomaco rovinato perché vuole renderlo sensi­bile a sollecitazioni diverse da quelle puramente elementari. Vuole che ritorniamo alla natura e ad una vita autentica. (p.142)
Un giorno si sco­prirà che questo rivoluzionario, il quale infar­civa le sue pagine di parole triviali, è stato uno dei grandi scrittori spiritualisti del nostro se­colo. Ma bisognerà aspettare qualche anno; sarà il ventunesimo secolo a scoprirlo. (p.143)

 

Capitolo sesto
IL LINGUAGGIO p.145
Il linguaggio di Céline non passò certo inos­servato. Era così nuovo e geniale da bruciare gli occhi. Ma la bruciatura impedì ai critici di te­nerli aperti. Così essi li chiusero e non si accor­sero per molto tempo di nulla. (p.147)
Sia negli Entretiens che in Bagattelle per un massacro, Céline tratta la letteratura contempo­ranea come un bersaglio da fiera. Schiera i libri dei suoi colleghi uno di fianco all’altro co­me pupazzi di stoffa, poi si avventa contro scagliando su di loro scariche di invettive. Anche questa volta i critici hanno giudicato erronea­ mente il comportamento di Céline. Céline non si scaglia contro i letterati, ma contro la lette­ratura moderna. (p.149)
Che cosa ha inventato? Ha introdotto nella lingua scritta l’emozione e il ritmo della lingua parlata.
Céline non può perdonare alla letteratura contemporanea un difetto per lui decisivo: la mancanza di una carica emotiva. Cerchiamo di spiegare meglio questa affermazione. Che cos’è l’emozione del linguaggio parlato? (p.152)
Tutto il problema consiste nel trasformare una lingua parlata in una lingua scritta senza che dia Pimpressione di essere troppo scritta : ma è un problema diffi­cile da risolvere. Al professor Y Céline di­chiara:
L ’emozione si ritrova, con uno sforzo enorme, solo nel parlato… L ’emozione si lascia captare solo nel parlato… e si lascia riprodurre attraverso lo scritto al prezzo di una fatica, di una pazienza incredibile.
Chi immagina un Céline che scrive di getto e che lascia scorrere le parole disordinatamente, è almeno un ingenuo. Lo stile celiniano è un lavoro paziente: costruito punto per punto, esatto, minuzioso. Le frasi paiono non avere né capo né coda. Ma se le mettete in ordine, vi accorgete allora che hanno perduto il loro ritmo. Lo stile si crea; le parole non vengono alla penna così per caso. Bisogna cercarle e, quando le si trova, è perché è successo un miracolo, si è avuta una grazia. Ora c’è solo più un pro­blema da risolvere: qual è questa famosa emo­zione captata dal parlato e riprodotta attraverso lo scritto?
Céline non ne sa certo più di noi. Non ci spiega perché prova quelPemozione: ci dice solo perché la maggior parte dei suoi colleghi non la sente. (p.153)
L ’emozione, senza la quale non esiste stile, è prodotta dalla vita che a sua volta è breve: a dodici anni finisce il tempo dell’emozione creatrice e comincia la sclerosi del cuore. (p.155)
È facile accorgerci che l’emozione esplode nel­l’opera di Céline e finisce addirittura per farla scoppiare. La frase è disarticolata perché il racconto è nato già disarticolato, ed essa in fondo non fa altro che riprodurre sotto detta­tura quell’itinerario senza rima e senza ragione.
La scrittura di Céline non è altro che l’effetto, il riflesso del suo modo di sentire, la trascri­zione letteraria del suo mondo interiore. Così possiamo dire con sicurezza che la scrittura è l’interprete della sensibilità celiniana. Lo stile è l’uomo stesso.
Questa scrittura non ha un ritmo regolare. Le parole fuggono, ma al passo di carica, in uno scompiglio che non si calma mai. La frase non respira: ansima, soffoca. Le costa fatica fer­marsi, mettere un punto finale e andare a capo. (p.157)
Ogni artista conosce la sua emozione e la riceve da qualunque aspetto della realtà; la capta, la scrive in brutta copia, e infine la riscrive in bella copia secondo il suo talento personale. Insomma, la crea scoprendo lo stile che più le si adatta. (p.159)
Prima di tutto una naturalezza nel linguaggio. Céline dava questa lezione di naturalezza con ricercatezza, con un certo preziosismo.(p.160)
Gli eccessi di Céline in questa materia, i suoi eccessi smodati non sono che l’espressione di una rabbia impotente. La volgarità mediocre e con­trollata dà piuttosto lezioni di contegno, non certo lezioni d ’oscenità. Si rende simpatica ma­ scherandosi con un velo d’ipocrisia. Ma quando si toglie la maschera, la si riconosce facilmente per un segno infallibile: non s’inquieta mai; fa sempre ridere o sognare (le oscenità senza peri­coli comuni e banali). (p.164)
BIBLIOGRAFIA p.164