PIERRE DRIEU LA ROCHELLE – SOCIALISMO FASCISTA


PIERRE DRIEU LA ROCHELLE – SOCIALISMO FASCISTA

RITTER – Collana LA SPADA E IL MARTELLO –  III Ed 2015

 

PREFAZIONE

Di Jean Mabire p. 10

 

DISCORSO AI TEDESCHI p. 17

 

Non possiamo sperare più nulla da nessun popolo in quanto nazione. Non ci resta cheunavia, richiamarciagli uomini, agli europei. (p. 17)

 

SUL NAZIONALISMO p. 21

 

SULL’EUROPA OCCIDENTALE E SULL’EUROPA ORIENTALE p. 23

 

SULLA SOVRANITà EUROPEA p. 25

 

INTRODUZIONE. UN SOLO STENDARDO ROSSO STA SULLA CIMA DELLE ALPI

Di Maurizio Rossi p. 27

 

SOCIALISMO FASCISTA p. 43

 

I – CONTRO MARX p.45

 

1 – IL CONCETTO DI PROLETARIATO p. 47

 

Il proletariato, come nuova condizione sociale, esiste solo da poco più di un secolo: Antichità e Medioevo non l’hanno conosciuto. […]

Con caratteri tipicamente suoi il proletariato ha fatto la sua comparsa, lentamente, nelle grandi città del mondo, mano a mano che vi si sviluppava il complesso regno dell’industria, del capitalismo e della democrazia.

Economisti e letterati cominciarono ad individuarlo, quindi a definirlo, al principio del XIX secolo in Inghilterra ed in Francia. Inizialmente fu guardato con una punta di compassione. Successivamente si sollecitò in suo favore l’indignazione degli spiriti liberi. Infine si giudicò più conveniente ed efficace provocare e coltivare la sua rabbia: tattica, questa, che ha dato grandi risultati. Ma ciò che il proletariato è riuscito a guadagnare da una parte lo ha perduto dall’altra: più ottiene vantaggi, più perde la sua fisionomia ed il suo carattere.  (p. 47)

 


La gravità del problema posto da una condizione che fu per molto tempo del tutto particolare ha riecheggiato negli animi attraverso le varie forme del pensiero socialista, una delle quali si è ben presto imposta dominando a lungo su tutte le altre: è il marxismo, che agli occhi dei più, sostenitori ed avversari, male informati dei grandi avvenimenti di cui il mondo parla a proposito ed a sproposito, sembra ancora dominare. Il marxismo è tutto nel preciso e ben delimitato concetto che ha del proletariato, della sua origine, delle sue sofferenze, delle sue virtù, delle sue possibilità, del suo destino; concetto che — imposto come un dogma — è divenuto il fondamento di tuttp il pensiero socialista.

La concezione marxista del proletariato ha trovato piena affermazione nel Manifesto Comunista del 1847, e benché l’abbiano seguito opere più ampie e complesse, da allora essa non ha subito sostanziali modifiche né nello spirito di Marx né in quello dei marxisti. Essendo una concezione di brutale semplicità, è possibile riassumerla in due postulati senza correre il rischio di impoverirla;

 

  • Come la borghesia ha rovesciato la nobiltà, così il proletariato rovescerà la borghesia;
  • La rivoluzione che libererà le classi del sistema capitalista sarà fatta dal proletariato, e solo da esso.

 

Vorrei analizzare questi due postulati alla luce della storia, dimostrarne la falsità fondamentale, e allo stesso tempo mettere in evidenza l’affermazione implicita nella loro negazione.

Il primo postulato pone la tesi della lotta di classe; il secondo ne deduce la ragione della rivoluzione proletaria.

 

 

  • Mitologia della lotta di classe

 

Esaminiamo alcuni passi fondamentali del Manifesto.

« La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi ». Ecco il principio! (p. 48)

 

Questo è il punto. Poiché la stòria è storia di lotte di classi, come la borghesia ha abbattuto la nobiltà così il proletariato abbatterà la borghesia. Poiché si è passati da A a B, si passerà da B a C. (p. 49)

 

[…]è opportuno ricordare che il principio fondamentale del marxismo poggia su alcuni postulati che Marx non ha mai approfondito psicologicamente, né tanto meno ha dimostrato in sede storica. E cioè:

  1. a) Mito della classe governante. Una classe può esercitare effettivamente, in quanto classe, il dominio politico esclusivo; essa può dunque essere sostituita in questo dominio da un’altra classe;

 

  1. b) Mito della lotta fra due classi. La lotta di classe che si combatte per la conquista di questo dominio esclusivo si riduce in ultima analisi alla lotta fra due ‘classi;

 

  1. c) Mito della sostituzione di una classe con un’altra. Avviene una vera e propria sostituzione, nel godimento dei privilegi materiali e morali e non soltanto politici, da parte i una classe più numerosa, più giovane, meglio adattata si confronti di una classe meno numerosa, stanca, superata.

 

 

  • Il mito della classe governante

 

Per cominciare, esaminiamo la concezione marxiana delle classi nei suoi aspetti polìtici.

Si crede che una classe, in un dato momento, domini politicamente in quanto tale le altre classi: cioè che detenga ì nella sua totalità il potere politico. Per esempio: si crede che la nobiltà ed il clero abbiano detenuto collettivamente il potere e che, in seguito, la borghesia abbia conquistato collettivamente tale potere.

Questa premessa può essere categoricamente negata. Una classe è formata da un gran numero di individui; ora, il potere di fatto è stato sempre tenuto ed esercitato da una ristretta minoranza. È dunque a priori arbitrario e falso dire che una classe detiene il potere politico, il  dominio politico esclusivo. (p. 50)

 

In realtà è sempre e soltanto una ristretta cerchia che governa e che per governare si appoggia ad una o più classi o, più precisamente, ad un complesso di classi. Questa minoranza è formata da uomini di ventura: chi entra a farvi parte si impone individualmente. Uomini di ventura che sono più numerosi delle cariche da ricoprire, che aspettano e premono per giungere, ognuno per sé, alle leve di comando. (p. 51)

Una minoranza come questa, eterogenea e tenace, è aperta a elementi che spesso sono estranei alle classi sulle quali si appoggia. (p. 52)

 

Una classe, dunque, non governa: tutt’al più appoggia un governo. La teoria del dominio di una classe su tutte le altre deriva da un banale errore: la confusione del potere politico con i privilegi sociali. […]

La classe nella sua totalità, cioè collettivamente, non governa. Di conseguenza, quando si verificano grandi cambiamenti politici e sociali non avviene la sostituzione di una classe (quella « governante ») con un’altra (una di quelle « governate ») ma più semplicemente la sostituzione di una minoranza organizzata con un’altra, animata da un nuovo spirito, armata di un nuovo metodo. (p. 53)

Dopo questa analisi possiamo ritornare al ragionamento di Marx: da A e B… Possiamo negare che il potere politico sia passato da A a B, dalla nobiltà alla borghesia. Possiamo affermare, invece — ed è tutt’altra cosa — che il potere è passato da un tipo di minoranza organizzata estranea a qualunque classe, ad un altro tipo ugualmente « senza classe »; e che al di sotto di questa élite nuovi privilegi hanno fatto nascere una nùova classe privilegiata. Sostituzione di un metodo politico con un altro, quindi di un ordine di privilegi con un altro.

Nessun cambiamento avviene però nel rapporto delle quantità. Malgrado gli schemi del suffragio universale e della rappresentanza parlamentare, la sovranità non passa da una classe meno numerosa ad una più numerosa: nessun ampliamento avviene alla base della struttura politica. Il rapporto delle quantità resta fisso. Il flusso sociale passa entro questi limiti come l’acqua dì un fiume scorre attraverso le chiuse.

Dall’analisi del rapporto tra A e B possiamo dedurre quello che può essere il rapporto tra B é C. Dopo esserci posti sul terreno scelto da Marx — cioè quello dei precedenti la cui ripetizione deve far apparire l’azione come risultante di una legge storica — abbiamo il diritto di | capovolgere il suo ragionamento e di proporre: « come la | borghesia non ha sostituito la nobiltà in quanto classe | governante, così il proletariato non sostituirà la borghesia I in questo ruolo ». La dittatura politica del proletariato 1 sembra essere un mito costruito in antitesi a quello della f dittatura della borghesia: una impossibilità nel futuro di : fronte ad una irrealtà nel passato. (p. 56)

 

  1. A) II mito della lotta fra due classi

[…]

 

Essi intuiscono che c’è distanza fra la classe profittatrice e la minoranza che governa. Ma poi, contraddicendosi, parlano di dominio politico esclusivo devoluto alla classe borghese, e promettono questo dominio politico esclusivo ad un’altra classe: il proletariato. È questa la sostanza della loro concezione.[…]

 

  • Il potere politico non può appartenere alla rappresentanza di una classe poiché esistono numerose classi.

 

Giungiamo così a considerare un altro postulato su cui poggia la concezione marxista della lotta di classe: la riduzione delle classi a due. (p. 57)

 

Ci sono sempre state più di due classi. (p. 58)

 

Dunque non può esistere un governo di classe né diretto, per la ragione psicologica che solo pochi uomini possono governare, né indiretto, per la ragione di ordine sociale che, posto comunque davanti ad un complesso di classi, un governo può mantenersi solo riconoscendole tutte: non negando cioè la complessità della struttura dei rapporti a profitto dell’una o dell’altra classe. (p. 59)

 

 

  • II mito della sostituzione di una classe con un’altra

 

Nella filosofia marxista c’è sottinteso anche un altro presupposto, ed è necessario analizzarlo. Quando parla del passaggio da A a B, Marx suppone non soltanto che una classe si sostituisca ad un’altra nell’esercizio effettivo del potere politico, ma anche che essa ne prenda il posto nel godimento di nuovi privilegi, con una traslazione materiale, fisica, quantitativa. Là dove era seduto un nobile, ora siede un borghese.

Con buona pace dei lettori di libri storici, soprattutto di storia francese, e dei pregiudizi che ingombrano la loro mente, io nego tutto ciò. Nego che ci sia stata sostituzione

di una classe con un’altra. (pp. 59-60)

Ora, a mio avviso, sotto il segno di questa necessità non è avvenuta la sostituzione di una classe culturalmente disadattata con una meglio adattata, ma un mutamento progressivo dei costumi e dello spirito dell’intera società, che ha portato una massa confusa di elementi provenienti da tutte le classi alla formazione di una nuova classe.

| Contrariamente a quanto crede Marx, non avviene mai & che una classe nuova si formi di fronte a una preesistente: per esempio, nelle città dell’alto Medioevo è sempre esistita una borghesia, erede di quella gallo-romana. Accade invece | che il reclutamento avvenga ad un ritmo maggiore da una | parte e minore dall’altra. Le classi non sono mai statiche:

 

  • avanzano e regrediscono continuamente. Il reclutamento continuo che avviene partendo dal basso, si orienta in ogni epoca verso una nuova direzione in base alle esigenze della tecnica. Inoltre, secondo queste necessità cambiano gli ideali e gli obiettivi delle classi alte. Nel Medioevo la minoranza I dominante reclutava le nuove leve esclusivamente attraverso la professione delle armi: chi « sfondava » entrava a far parte della nobiltà di spada. Ben presto anche la giustizia e l’amministrazione parvero importanti quanto le armi; il clima delle classi alte non fu più tanto la guerra ^ quanto il governo. Gli ambiziosi si indirizzarono quindi ‘ verso i pubblici uffici e verso la Chiesa. Intorno all’Ottan- tanove avviene un altro cambiamento: la nobiltà di spada e quella di toga ed una nuova aristocrazia proveniente dalla finanza, dal commercio e dall’industria tendono a fondersi in una nuova minoranza dominante. I matrimoni e le investiture sanzionano e affrettano la fusione. L’atmosfera che si respira in seno alla nuova élite è più quella del denaro che quella del governo. Gli ambiziosi delle classi alte e basse si indirizzano quindi da questa parte. (pp.60-61)

 

 

Marx ed Engels hanno commesso l’errore di prendere sempre la Francia come punto di riferimento e di considerare, quindi, la sconvolgente e appariscente rivoluzione dell’Ottantanove; come modello di ogni evoluzione sociale. In Inghilterra, secondo un processo più lungo e più elastico, vediamo un’aristocrazia militare ed agricola trasformarsi in una grande borghesia mercantile ed industriale. I discendenti dell’antica nobiltà conservano alcuni privilegi formali, adattandosi però interamente ai nuovi mezzi di dominio. D’altro canto la borghesia, con l’apporto di cadetti della nobiltà e di ambiziosi plebei, ricerca e condivide gli antichi privilegi dopo essersi procurati i nuovi. Così non ci fu affatto la sostituzione di una classe con un’altra, ma la fusione di due classi in una sola, alla luce di una nuova regola di vita. Cosa che, dopo tutto, in seguito si è verificata anche in Francia come in Italia e in Germania. (p. 61)

 

Dobbiamo concludere, in contrasto con Gobineau e Marx, che le classi non formano degli insiemi omogenei e duraturi. (p. 63)

 


Marx finisce per diventare inconsistente ai nostri occhi. C’è sempre una larga e indeterminata « classe superiore » che di epoca in epoca cambia costumi, tecnica, spirito e, senza dubbio, almeno in parte, contenuto umano;ma non vi è sostituzione di classi.(p. 64)

 

 

  • Il mito del proletariato, classe rivoluzionaria

 

| Riflettiamo sull’ultima constatazione che abbiamo fatto. | Il passaggio da A a B descritto da Marx non c’è stato, f Vi è stata, invece, come abbiamo visto, metamorfosi di un complesso di classi superiori in un altro del tutto nuovo. Inoltre, come abbiamo notato, in seno a ciascuno di questi complessi si mantiene costante un certo rapporto quantitativo tra la équipe di governo, le classi cui essa si appoggia e le clientele. Rimane da precisare che cosa avviene al di sotto di questi gruppi.

Le necessità della divisione del lavoro mantengono, al di sotto di un complesso di classi vagamente superiori, un | complesso di classi vagamente inferiori. Constatiamo così | una divisione sommaria tra alto e basso ceto. Il punto su cui essa avviene è, in linea di massima, la distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Questa distinzione va attenuandosi di pari passo con l’evoluzione dell’economia, e senza dubbio sarà sempre meno decisa. Nella società in seno alla quale si opporrano ogni giorno di meno il lavoro manuale e quello intellettuale ci sarà una confusione sempre maggiore. Ma nel frattempo?

È importante sottolineare il cambiamento di prospettiva che qui si produce. La discussione fin qui condotta cambia ora terreno. Nel passaggio dal feudalesimo alla borghesia abbiamo rivelato la semplice sostituzione di una aristocrazia di privilegi con un’altra, senza constatare alcuna innovazione nella struttura della società. Ma il passaggio dalla borghesia al proletariato, al contrario, potrebbe avvenire solo con il rovesciamento totale delle leggi storiche

 

  • rovesciamento di cui, contrariamente a quanto dice Marx, l non esistono né precedenti né possibilità. Non sarebbe una

 

continuazione della storia, come egli pretende, ma un’alternativa alla storia.   

Si può credere, secondo una formula diversa da quella di Marx, alla progressiva riduzione della gerarchia sociale.

Ma bisogna anche riconoscere che in questo momento esistono notevoli difficoltà per uno sviluppo in questo senso. Difficoltà consistenti nella divisione del lavoro, che da una parte oppone una ristretta cerchia di potere alla collettività, e dall’altra oppone le categorie intellettuali alle masse r dedite ai lavori manuali. Certo, Marx ha colto il legame tra u la divisione del lavoro e la divisione delle classi, ma ha i creduto, da buon razionalista, da buon meccanicista qual j era, che la divisione delle classi fosse diventata la causa della divisione del lavoro, dopo esserne stata l’effetto, e che eliminando la causa si sarebbe eliminato l’effetto. Non è  così, e la divisione del lavoro che, a quanto pare, non  preoccupa affatto la Russia bolscevica, comincia a produrvi una nuova divisione di classi.   

Ponendoci dunque in una prospettiva diversa da quella marxista adottata all’inizio di questo saggio, senza più preoccuparci del rapporto A-B possiamo negare il rapporto B-C, basandoci sulle nuove riflessioni che questo preteso rapporto ci porta a fare.

C’è innanzitutto da rilevare che la persistente fatalità del lavoro manuale costituisce una difficoltà decisiva che impedisce al proletariato (che è, con quella contadina, una delle classi dedite al lavoro manuale) di fare da solo una rivoluzione. E ciò ammesso che non esistano gli altri ostacoli che ho indicato.

Come potrebbe il proletariato fare una rivoluzione e formare un governo? In effetti, la ragione stessa che lo spinge a fare una rivoluzione — la necessità, cioè, di uscire da una miserabile condizione che lo priva delle qualità umane — gli impedisce di compiere la rivoluzione.   

Dove potrebbe il proletariato acquisire le qualità intellettuali e morali che deve conquistare? (pp. 64-65)

 

Il proletariato, dunque, si trova in un circolo vizioso dal quale non può uscire almeno da solo.[…]

E in effetti nel proletariato queste qualità esistono in germe, ma non possono svilupparsi come carattere collettivo: possono manifestarsi solo in alcuni individui — i migliori — facendoli uscire dalla loro classe; il loro esodo fa sì che, a maggior ragione, il proletariato rimanga nel suo stato di relativa povertà intellettuale e di impotenza. I proletari che posseggono qualità politiche si fanno agitatori della loro classe costituita in partito; talvolta accade anche che diventino capi di tutto il popolo. Quando entrano a far parte della minoranza che trascende le classi — quella dei governanti — essi si staccano dalla loro classe pur re- / stando dei capi proletari. (p. 66)

 

D’altra parte, i capi proletari figli del proletariato stesso sono in realtà poco numerosi e poco capaci. Gli uomini politici che fanno leva sul mito del proletariato sono in generale dei borghesi (Marx, Engels, Bakunin, Trotzkij, Lenin, Jaurès; di origine anche più modesta sono i dittatori come Stalin, Mussolini, Hitler) vale a dire individui che si avvantaggiano dell’evoluzione di una o due generazioni al di sopra del livello più modesto. (pp. 66-67)

 

Così nell’immaginazione dei poeti gli dèi nascono gli uni dagli altri. (p. 67)

 

II proletariato dava vita soltanto ad un’oscura differenti ziazione interna. Da una parte i manovali generici, umiliati ìjj e schiacciati; dall’altra gli operai qualificati che, autosufficienti come gli artigiani, risalendo la corrente tendevano a  confondersi con la piccola borghesia. Gli uni sembravano troppo in basso, gli altri già troppo in alto per fare una rivoluzione. Plebe o piccola borghesia.

Questa decadenza del proletariato si è verificata, oltre che in Inghilterra, anche in Francia, in Germania e in Italia. Il suo ritardo in Russia è stato uno dei motivi — per nulla marxisti — che hanno permesso la rivoluzione leninista. D’altra parte, anche nei paesi più industrializzati il proletariato rimane una minoranza in seno al popolo, una classe tra numerose altre. (p. 68)

 

Il proletariato sta passando dal secondo al terzo stadio del suo sviluppo storico. La condizione di parziale isolamento e di quasi completa decadenza sta per essere sostituita da un’altra. In questa nuova situazione la prospettiva marxista dell’evoluzione del proletariato verso condizioni rivoluzionarie sempre più nette è annullata dal dato di fatto sempre più evidente costituito dalla molteplicità e dalla indeterminatezza delle classi. (pp. 68-69)

 

Ma fra esse c’è oggi una zona di interpenetrazione diffusa dappertutto, ineguale, fluttuante, sottile, dove è impossibile cogliere le differenze. Ad esempio, quand’è che l’operaio diventa piccolo-borghese? Come operaio qualificato o come capo-reparto, come artigiano più o meno indipendente oppure come impiegato, o infine come piccolo commerciante?

In quale momento di questa metamorfosi il piccolo-borghese perde la sua pelle di operaio? E quante sono le persone che subiscono questa metamorfosi?

Come può essere definita la borghesia? Essa infatti non i si è ancora confusa con la nobiltà. (p. 68)

 

In provincia, in campagna, diventa ancora più difficile cogliere le differenze fra l’operaio, il piccolo-borghese e il contadino. D’altronde sulla parola « borghesia » grava un malinteso. Marx la confonde con « capitalismo ». Ma il termine capitalismo non riesce assolutamente a definire questa massa fluttuante e complessa.

D’altra parte in che modo è possibile definire il proletariato? (pp. 69-70)

 

A questo punto potremmo chiederci se il « borghese » non sia un termine molto generalizzante che il indica certi costumi nati alla fine del Medioevo. Sono borghesi tutti coloro che vivono del commercio e dell’industria — della pace e non della guerra. Da questo punto di vista oggi tutti sarebbero borghesi. Un (operaio è un borghese in quanto divide la stessa vita tranquilla dell’imprenditore.

L’operaio va in fabbrica e ne ritorna, così come il borghese va al suo ufficio e ne ritorna. Va al caffè e al cinema come il borghese; ha una famiglia o vive in una casa curata da una donna. […]

Tutte queste considerazioni ci fanno dubitare del principio marxista in base al quale vi è una classe più adatta e preparata delle altre, per le sue condizioni di vita, a compiere la rivoluzione e quindi a conseguire la vittoria. Oggi più che mai la lotta di classe a senso unico è diventata impossibile per la molteplicità indefinita delle classi. (p. 70)

 

In questo debole caos il proletariato non riuscirà mai a formare un vero partito dì classe. Questo partito sarà sempre impotente perché se sarà molto esigente nel reclutamento rimarrà troppo piccolo, e se esagererà in senso contrario cesserà di esistere.

Termina così l’analisi della teoria della lotta di classe, nel corso della quale abbiamo stabilito i seguenti punti:

 

  • Una classe non può esercitare il potere politico che appartiene sempre ad una minoranza indipendente dalle classi. Quindi, non c’è stato prima un potere della nobiltà e poi uno della borghesia, come non ci sarà un potere del proletariato. La lotta di classe marxista per la conquista del potere è dunque senza scopo;
  • D’altra parte ci troviamo sempre dinanzi un complesso di classi che mutano e si rinnovano incessantemente. Se c’è lotta all’interno di esso, è una lotta diffusa e senza termine che non può ridursi, alla fine, contrariamente a quel che dice Marx, ad un duello die terminerebbe con il trionfo netto e totale di una di esse;
  • Se sostituiamo il presupposto di due classi che lottano per conservare o conquistare il potere politico con quello di più classi che si agitano intono a privilegi sociali ed a vantaggi materiali, vediamo che non c’è affatto sostituzione di una classe con un’altra, ma fusione di vecchi elementi in una nuova formazione che corrisponde a nuovi bisogni e che agisce sotto il segno di una nuova tecnica. Non ce sostituzione di una classe meno numerosa, stanca, virtualmente inferiore, con una più numerosa, fresca, destinata a divenire dominante. Semplicemente, gli strati superiori della società, continuamente rinnovati dalle perdite e dai reclutamenti, si orientano in una diversa direzione attraverso contrasti violenti più o meno caratterizzati. Se la ripartizione sociale e l’ineguaglianza relativa fra gli strati superiori e quelli inferiori tendono ad attenuarsi, ciò avviene in modo insensibile attraverso un processo indeterminato.

 

Dobbiamo dunque respingere la teoria della lotta di classe che sfocia nella prospettiva della rivoluzione del proletariato. (pp. 71-72)

 

Mi sembra che lo studio delle rivoluzioni europee del XIX secolo imponga due conclusioni:

 

  • il proletariato è un fattore necessario ma insufficiente della rivoluzione;
  • una rivoluzione tentata dal solo proletariato fallisce sempre. (p. 73)

 

 

La storia del proletariato inglese è una continua derisione dei principi e delle profezie di Marx: pur essendosi formato prima di qualunque altro, e vantando quindi una più lunga storia di sofferenze, il proletariato inglese si è mostrato meno rivoluzionario di tutti gli altri. Fra il ’30 e il ’48, come contraccolpo delle rivoluzioni francesi, ha appena abbozzato un movimento di un certo rilievo, quello cartista, che ha finito per sciogliersi approdando a realizzazioni democratiche. Il partito socialista, che lo ha rappresentato in seguito, è sempre rimasto una forza indeterminata, instabile, debole, malgrado la tradizionale fermezza dei quadri quasi-corporativi grazie ai quali, di volta in volta, si innalza e si abbassa. La storia del partito socialista inglese ci fornisce un insegnamento che troverà conferma ovunque, e cioè che il proletariato è incapace di porsi autonomamente come forza sufficiente, di costituirsi come un esercito in cui soldati e capi della stessa origine sono

sicuri gli uni degli altri e capaci di giungere ad una vittoria creatrice. (p. 74)

 


La classe privilegiata in Russia non è il proletariato ma la burocrazia: una nuova classe composta, secondo il processo di cui si è già parlato, di elementi di diversa provenienza. I bolscevichi, intellettuali nutriti di storia, hanno preteso, secondo una falsa interpretazione della storia, di impossessarsi della immensa e indefinita rivoluzione russa in nome e a profitto del proletariato, come credevano che prima di loro avesse fatto la borghesia). Ma hanno soltanto creato un nuovo gruppo di potere altrettanto ristretto o più ristretto degli altri e una nuova classe di privilegiati. Sotto questo doppio cerchio la massa russa (contadini e operai) resta forzata- mente esclusa da quella realtà per sempre vietata alle masse che è il potere politico. D’altronde la dittatura esercitata in nome del proletariato non ha abolito le classi né la loro molteplicità. Almeno tre classi sussistono o si ricostituiscono una di fronte all’altra: operai, contadini e burocrati. (p. 78)

 

Questo il bilancio della situazione, ottantasei anni dopo la pubblicazione del Manifesto Comunista in cui è esposta la dottrina proletaria. In Europa, rivoluzioni democratiche e fasciste fatte da tutte le classi; nessuna rivoluzione proletaria che sia riuscita. In Russia, la rivoluzione democratica è stata appena bloccata in nome del proletariato e già manifestano di nuovo il loro potere, e in modo estremo, le regole che escludono le classi intellettuali dal governo a causa del loro continuo moltiplicarsi e della loro instabilità e che mantengono quelle manuali in una relativa inferiorità.

Che cosa ne deriva? che il processo evolutivo non è quello previsto da Marx.

Le forme sono stabili. La società presenta sempre una struttura gerarchica: équipe di governo, gruppi fiancheggiatori, la massa delle classi intellettuali e manuali. Le rivoluzioni rinnovano il contenuto, ma non alterano il contenente. Marx crede che da una rivoluzione all’altra si ampli la base che partecipa al governo e che profitta dei vantaggi economici. Il che, rispetto al primo punto è falso e rispetto al secondo è vero solo vagamente e per di più in un senso che non è affatto quello marxista.

La mia conclusione è dunque reazionaria?

Niente affatto. I reazionari ritengono che le rivoluzioni siano inutili; io credo invece che siano necessarie — e sono lieto che sia così. (p. 79)

 

È una rivoluzione profonda pur non essendo proletaria: resa necessaria dalla rovina dell’economia capitalista, del sistema parlamentare, della civiltà democratica, sta distruggendo il complesso delle vecchie classi e ne sta creando uno nuovo. (p. 80)

 

Per mettere le cose a posto da questo lato esaminiamo l’applicazione al ciclo delle rivoluzioni autoritarie delle regole dedotte da ciclo delle rivoluzioni parlamentari.

Andiamo al nocciolo della questione, cioè al mutamento economico. L’ordinamento economico richiesto dai nuovi tempi consiste nella disciplina della produzione. Le forze della produzione sono diventate immense e folli, come è risultato in modo più che evidente in tempo di guerra: occorre un pugno di ferro per controllarle. Da ciò l’esigenza di quella disciplina istituita e gestita dal capitalismo di Stato. Il capitalismo agonizzante può sopravvivere solo dandosi da sé la morte, trasformandosi cioè in qualcosa che è più o meno il suo contrario. Diventa una istituzione di Stato. Non rimane che un solo capitalista sotto iì quale si pongono tutti gli altri come in passato i grandi feudatari si ponevano sotto la monarchia assoluta. Come il Medioevo delle libertà ha dato vita alTassoIutismo del Rinascimento, così oggi la fine del capitalismo democratico porta alFasso- lutismo fascista, inventato nel paese degli zar.

Secondo le necessità della nuova tecnica politica, della tecnica autoritaria, vediamo facilmente rinnovarsi il meccanismo che ci è diventato familiare. Un nuovo gruppo di potere si fa strada ed intorno gli si forma una nuova classe fiancheggiatrice privilegiata.

Esaminiamo innanzitutto questa classe. I regimi che direttamente o indirettamente si ispirano a Marx mostrano cinicamente e brutalmente ciò che alla lunga traspare dal regime parlamentare: il principio partitocratico. Si perfeziona quella perversione che è la partitocrazia e se ne ricava la frode della dittatura di partito. (pp. 80-81)

 

In questo partito che forgia la nazione dobbiamo riconoscere la classe fiancheggiatrice privilegiata di cui s’è parlato, che però non ha più quel carattere spontaneo, aperto, indeterminato e bonario comune alle altre classi fiancheg- giatrici (nobiltà, borghesia). È certo un aggregato dalla base sociale ancora più debole, ma molto più astratto e sistematico nel suo ruolo politico. (pp.81-82)

 

Abbiamo visto che il gruppo fiancheggiatore di solito si formava grazie agli apporti di un po’ tutte le vecchie classi. Nel caso del partito questa eterogeneità raggiunge l’estremo limite: il reclutamento avviene in modo sistematico e presso tutte le classi. Nelle file dei partiti fascisti e comunisti incontriamo, gomito a gomito, aristocratici, borghesi, proletari che confessano di avere in comune solo una qualità astratta: quella di membri del partito. In una epoca di estrema coscienza storica e, allo stesso tempo, di totale sfaldamento sociale, è naturale riconoscersi in un aggregato volontario. Schematicamente ridotto al proprio ruolo politico, il gruppo fiancheggiatore non è niente altro che un partito.

Come tale parteciperà al governo ancor meno della’borghesia e della nobiltà. Il partito è un ordine in cui si pronunciano voti: obbedienza, se non povertà. In ciò è il secondo carattere delle antiche classi fiancheggiatrici portato all’estremo: la subordinazione. Tutti gli incarichi, tutte le prebende, ma in compenso l’obbedienza più assoluta. Lungi dall’esserci una dittatura di classe, non c’è nemmeno una dittatura di partito: c’è solo l’obbedienza di partito. E questo tanto a Mosca quanto a Roma e Berlino. (p. 82)

 

Da chi è costituita la nuova élite, che sta al di sopra del partito come corona di esso? Più che mai da elementi provenienti da tutte le classi. A volte sono nuovi affiliati, se non addirittura stranieri (Stalin caucasico, Hitler austriaco, Va- lera spagnolo, come in altri tempi Mazzarino, Bonaparte, Disraeli, Gambetta). Vi sono nobili come Pilsudsky, uomini ‘ formatisi nel capitalismo come Krassine, piccoli borghesi come Lenin, figli di operai e di impiegati come Mussolini e Hitler. La Scuola Unica è l’istituzione-tipo della nostra civiltà in cui il ricambio àéiYélite deve essere sempre più rapido per riempire i vuoti che si moltiplicano negli alti ranghi (come nella Roma dei Cesari, che era la Roma degli schiavi affrancati). La formazione dell’élite avviene attraverso quella misteriosa cooptazione, quella sottile complicità dei rivali! che ormai conosciamo e che è eterna.

Questa élite farà mostra di nuovo spirito e si forgerà una nuova tecnica. Gli strumenti non sono più né la tribuna parlamentare né l’influenza indiretta attraverso i discorsi pronunciati dinanzi a ristrette assemblee. Gli strumenti sono più diretti e incisivi: la stampa e la radio.

La stampa, come un tempo la cattedra universitaria, è divenuta agli inizi del XX secolo il vero strumento di governo, e tale rimane dividendo poco a poco il suo potere con la radio. (p. 83)

 

I1 Parlamento è un’istituzione uccisa dalla stampa e dalla I radio, come le ferrovie — dove i parlamentari non pagano 1 biglietto —sono uccise daH’automobile e dall’aereo. Il dittatore è un giornalista come Mussolini o, meglio, un sonnambulo dellaltoparlante e della radio come Hitler. Demagogia del XX secolo: l’eroe sussurrante viene a sedurvi nel vostro letto.

| Ma l’eroe è anche un poliziotto. In effetti egli esprime I le decisioni di un comitato di economisti. L’economia, oggi, è disciplina della produzione e quindi indirettamente della ripartizione dei beni. Quest’opera disciplinatrice non può essere esercitata che con i mezzi eterni della polizia. Nei  periodi di torbidi, la polizia che impone una nuova legge è ’ in parte formata dai fuorilegge di ieri e usa i loro metodi.

Ecco perché non ci si deve meravigliare se Hitler o Stalin, I vissuti a lungo nell’illegalità, si comportano come dei gangster. (p. 84)

 

Per finire; ricapitoliamo. È evidente che se non ci sono classi detentrici del potere, non ci sono neppure classi rivoluzionarie. Se nessuna classe può arrogarsi collettivamente quella funzione precisa che è governare, a maggior ragione nessuna classe può arrogarsi la funzione, ugualmente precisa, che consiste nel modificare con metodo le condizioni politiche e sociali di un paese in vista della formazione di un nuovo governo. Una classe può ribellarsi, ma è necessario che una élite la inciti efficacemente a farlo; inoltre,, solo Vélite può compiere la rivoluzione che segue la rivolta. Una classe non solo non può esercitare la dittatura, ma non può nemmeno spingere la rivoluzione fino al punto in cui questa si concretizza e si stabilizza in una dittatura.

Se occorrono poche persone per governare, non ne occorrono certo di più per sovvertire lo Stato. Qualche centinaio di agitatori provenienti a caso da tutte le classi, che si confondano nella folla e che lavorino per alcuni capi: ecco ciò che basta. Tutto questo può essere anche passabilmente improvvisato. Oltre a ciò occorrono, in margine, gruppi intellettuali coerenti. E numerose fazioni, prima confuse, possono concorrere ad una rivoluzione. (pp. 85-86)

 

I gangster realizzano l’ordine economico, per lo meno allo stadio embrionale, nei ristretti orizzonti delle patrie. Grazie a questo ordine elementare, l’uomo potrà forse liberarsi della macchina, della grande città, e rinascere — luo- mo: borghese, contadino o proletario.

(Giugno 1934.) (p. 86)

 

II – NIETZSCHE CONTRO MARX p. 87

 

Lo spirito di Nietzsche non si trova forse nel cuore di tutti i grandi movimenti sociali che si sono verificati da ventanni a questa parte sotto i nostri occhi?

È ormai assodato che Nietzsche ha avuto un’influenza determinante su Mussolini. Ma non ha avuto un’influenza anche su Lenin? (p. 87)

 

La filosofia nicciana combatteva soprattutto il razionalismo determinista che sta alla base del marxismo. In tal modo, per tutta una serie di reazioni indirette, dava al marxismo dei colpi terribili, la cui estrema efficacia solo oggi riusciamo a vedere.

Eppure, quando il futuro capo del partito socialista italiano, Mussolini, comincia a leggere Nietzsche — sarebbe interessante sapere se lo ha fatto prima o dopo aver letto Marx — siamo sicuri che lascia penetrare nel suo spirito una filosofia che distruggerà l’altra? No. Niccianesimo e marxismo si distruggono a vicenda nella fisionomia essenziale, ma rinascono subito dopo con le parti più importanti di ambedue le dottrine nella nuova forma sociale cui conduce il mescolarsi delle loro influenze.

Ebbene, non potrebbe essere accaduta la stessa cosa a Lenin, sia pure in una prospettiva inversa, attraverso la via indiretta dei contagi incoscienti? Infatti in Lenin c’è qualcosa di diverso da Marx.  (p. 88)

 

Lenin ha finto di accettare il corpus culturale marxiano, ma in realtà se ne è allontanato. Si è allontanato dal marxismo sulle orme dello stesso Marx, di quel Marx vigilante e segreto che alla fine della vita negava il marxismo — come senza dubbio Cristo avrebbe negato il cristianesimo — ma che non è stato seguito dagli apostoli coscienti della loro mediocrità e bisognosi di un sistema chiuso e sicuro. Lenin, cioè, ha conservato di Marx solo l’insegnamento adatto alla nuova epoca, la parte che poteva meglio adattarsi al nostro tempo relativista: i consigli pratici e lo slancio rivoluzionario. La sua elasticità e il senso d’opportunità disprezzano la rigidezza dottrinale. Senza dubbio, se Lenin fosse vissuto si sarebbe sottomesso, come tutti i grandi uomini d’azione, alle necessità della realtà concreta. E in questa prospettiva si sarebbe avvicinato sia a Mussolini che a Stalin. (p. 89)

 

Ambedue hanno criticato e messo in ridicolo la filosofia classica tedesca, l’idealismo. Ambedue hanno fatto

o    hanno avuto la pretesa di fare tabula rasa di tutti i valori antichi — Dio, essere, sostanza, anima. […]

Ad ogni modo i successi conseguiti dall’antimarxismo negli ultimi lustri nell’Europa centrale e segretamente in Russia ci spingono a formulare questa tesi: Nietzsche contro Marx, Nietzsche che succede a Marx, Nietzsche vero profeta delle rivoluzioni del dopoguerra.

È chiaro che non possiamo parlare di un’influenza politica di Nietzsche senza conoscere prima i gravi malintesi che ha provocato una simile tesi. Nietzsche è un poeta, un artista. Il suo è un insegnamento multiforme, sibillino come quello di tutti gli artisti. Un insegnamento che si sottrarrà sempre a ogni tentativo di definitivo possesso da parte di un partito e di un’epoca e sarà sempre disponibile per una ricerca compiuta da un altro partito in un altro momento. In ogni caso sarà sempre un residuo del suo pensiero ad essere brutalmente sfruttato dagli uomini di azione. Detto ciò, tentiamo di cogliere costoro nell’attimo in cui si impossessano dei testi del filosofo solitario.

Nietzsche dice sostanzialmente: l’uomo è un accidente in un mondo di accidenti. Il mondo non ha un senso generale. Ha solo quel significato che noi gli diamo a un certo momento nello sviluppo di una nostra passione o di una nostra azione. (p. 91)

 

Su questa base metafisica l’epoca fascista ha fondato le sue affermazioni basilari.

 

 

  • Se il mondo non ha senso, non può di conseguenza essere identificato con quel mondo marxista che, malgrado I le molteplici ritrattazioni di Marx e di Engels, è in fondo un mondo hegeliano e postula un senso del « progresso » ! il cui sbocco finale è il « trionfo del proletariato ». Il principio nicciano invece, sparso nell’aria fra il 1900 e il 1920, ha preparato gli animi a superare l’orizzonte dentro il quale i marxisti avevano creduto di chiuderli.

 

  1. Il continuo invito, espresso da ogni riga de La volontà di potenza, a dar libero corso alle passioni e all’azione, ha trovato un’eco sicura e pronta nel principio motore del fascismo mussoliniano e hitleriano, la fede nella pura e semplice azione, nella virtù dell’azione. « Prima l’azione, poi il pensiero!»: questa è stata la parola d’ordine degli Arditi ! e dei Baltikum nel  1919. Invece per i marxisti ci sono due cose che precedono l’azione: prima di tutto lo sviluppo della materia, il concatenamento delle condizioni materiali della storia; poi il pensiero che era intimamente legato a questo movimento; e infine l’azione.

 

 

  • Nietzsche, postulando sotto la forma della volontà di potenza l’autonomia dell’uomo nell’universo e l’autonomia dell’azione dell’uomo, dice conseguentemente che la cellula dell’energia umana, del movimento sociale, è l’individuo capace del massimo di azione, è insomma l’individuo di élite, il capo. Egli pone in tal modo, sia pure implicitamente, il duplice elemento sociale sul quale si fonda il fascismo: il capo è il gruppo che circonda il capo. (p. 92)

 

 

Non esiste forse un idealismo di destra e uno di sinistra? Quindi può esserci un niccianesimo di destra e uno di sinistra. Mi pare ad esempio che la Mosca di Lenin e la Roma di Mussolini, la seconda coscientemente, la prima inconsapevolmente, siano espressione dei due niccianesimi. […]

Il nicciano invece crede che in un mondo contingente la sua azione possa provocare in qualunque momento un’esplosione e modificare il volto dell’universo.

Questa riflessione ci dà la possibilità di capire un fatto molto importante, e cioè che tutte le rivoluzioni avvenute in questi ultimi venti anni sono state compiute malgrado lo spirito marxista o addirittura contro di esso.

La stessa rivoluzione del 19.17 è stata leninista e non marxista. (p. 93)

 

Allora, ll’improwiso una filosofia relativista come quella di Nietzsche o una filosofia del divenire come quella di Hegel e di Marx si confondono di fronte a una necessità imprescindibile: per dare una realtà al movimento sono costrette a sottolinearne i punti fermi e gli istanti, quindi devono porre l’Essere, arrestare il moto stesso. Le rivoluzioni tendono a creare delle istituzioni. E nelle istituzioni l’Essere, posto per un istante, tende poi a perseverare in se stesso.

In ogni caso Hitler, con la sua autarchia economica, il suo conservatorismo eugenetico, la volontà di definire lo spirito tedesco che minaccia di fissarlo per sempre a un istante, raggiunge il Nietzsche della legge di Manu.

E proprio in questo caso è facile cogliere l’immediata ironia della storia: dopo l’hegelismo, il niccianesimo diventa

un pretesto

per l’inerzia. È una legge eterna.

 

(Giugno 1933.)  (p.95)

 

II – LA SITUAZIONE IN FRANCIA p. 97

 

1 – GLI AVVENIMENTI DI FEBBRAIO OVVERO L’ALTALENA p. 99

 

1 – ESISTONO DUE DESTRE

 

Per cominciare, l’Action Française. (p. 99)

 

E tuttavia L’Action Frangaise ha delle radici; e sono radici profonde, come d’altronde quelle delle formazioni nazional-repubblicane che hanno ripreso e sviluppato la sua azione. Le radici dell‘Ac tion Frangaise affondano nel tufo di cinquantamila famiglie; quelle di Jeunesses Patriotes e delle Croix de Feu nel tufo un po’ meno profondo ma più vasto di tre o quattrocentomila famiglie.

In fin dei conti — e lo si vede ad ogni consultazione elettorale — le quattrocentomila famiglie di cui parlo sono circondate da molte altre. Il mondo repubblicano, nazionale, conservatore in Francia riscuote quasi la metà dei suffragi. Ma la massa attiva è rappresentata da queste quattrocentomila famiglie. (pp. 100-101)

 

Bisognerebbe forse aggiungere a questi due gruppi un certo mondo radical-nazionale, libero pensatore, socialmente più indipendente, ma che fa blocco con essi nei momenti di inquietudine poiché come essi è attivamente nazionale.

Esistono poi le varie correnti del mondo cattolico che circolano fra questi gruppi di famiglie. (p. 101)

 

Benché il mondo nazional-repubblicano sia impegnato nella vita economica del paese molto più che non L’Action Frangaise, quando esso assume una posizione politica si  dimostra estraneo alla realtà ed alle preoccupazioni della vita quotidiana e non manifesta nessuna concezione viva e nuova dell’universo materiale, che pure eccita le sue proteste abituali contro il regime attuale. L’Action Frangaise in altri tempi ha per lo meno tratteggiato il programma corporativo; il mondo nazional-repubblicano invece è rimasto fermo ad un vago antisocialismo, ad un liberalismo che cade nel nulla del silenzio tra le muraglie della socializzazione aperta o subdola che innalzano ovunque Mosca, Roma, Berlino, Washington. (p. 102)

 

2 – Esistono due sinistre

Passiamo alla sinistra, al mondo radicale e a quello socialista.

Ancora due mondi vicini e solidali che sfociano l’uno nell’altro. (p. 103)

Di fatto, però, il mondo radicale non è meno nazionale di quello detto nazionale. (p. 103)

 

La sinistra fa del pacifismo solo per non fare del socialismo. […]

In linea di massima il mondo « nazionale », di destra, è quello che si arroga i vantaggi economici, mentre il mondo « sociale », di sinistra, è quello che monopolizza i vantaggi politici. Sempre in! linea di massima, il mondo radicale è quello che si appoggia all’apparato politico piuttosto che a quello economico. Ed è così anche per il mondo socialista, attraverso i sindacati degli impiegati, dei funzionari e degli operai che lavorano nei grandi servizi pubblici. Il mondo di sinistra, segretamente nazionale e vagamente sociale, non è affatto socialista e ancor meno proletario. È molto più contadino e borghese che operaio, e molto impiegatizio.

Esìste un terzo mondo di sinistra, certo : il piccolo mondo comunista che è, sì, proletario, ma il cui ruolo è limitato

 

  • lo vedremo più avanti — come quello àe\YAction Frangaise. (p. 104)

 

L’insufficienza delle definizioni tentate è dovuta al fatto che questi due mondi, pur opponendosi per le necessità de] gioco politico parlamentare, sono strettamente legati ed inestricabilmente invischiati a causa del meccanismo econo- mico-politico.

 

  • Destra e sinistra sono legate fra loro

 

Destra e sinistra in profondità sono legate fra loro e non possono separarsi. Entrambe inserite nella realtà nazionale e con una base sociale espressione di tutte le classi, fanno parte del sistema economico-politico della democrazia capitalista. Il mondo radical-socialista esprime in particolar modo il lato democratico del capitalismo, ma difendendo la democrazia difende il capitalismo, che se ne avvantaggia. Il mondo nazionalista sente piuttosto il lato capitalista della democrazia, ma nei traffici è legato al mondo della democrazia ed ha bisogno della democrazia per salvaguardare gli agi che gli vengono da essa. Il mondo di sinistra è più direttamente legato al regime democraticoparlamentare; tuttavia quello di destra di fatto non Io è di meno poiché, non essendo padrone del meccanismo di go verno ma potendolo influenzare attraverso la stampa e la

 

  • opinione pubblica, ha bisogno della libertà di stampa e di
  • opinione. Il mondo capitalista, legato alla destra e alla | sinistra, ha bisogno del regime liberale, ovvero si appoggia p ad alcune sue sopravvivenze. Parimenti il mondo contadino. (pp. 105-106)

 

 

II – SCRITTO IN PIAZZA p. 113

 

Un’ipocrisia vecchia e radicata è in un paese come il verme in un frutto. I demagoghi difendono quelli che sembrano attaccare e di cui appaiono vittime, è il caso dei radicali. Il capita lismo non ha difensori migliori dei radicali, perché sono difensori segreti, sfacciatamente esiliatisi nel campo av verso. (p. 113)

 

L’opposizione fra destra e sinistra è una farsa, e in essa è tutto il segreto del nostro sistema di governo.[…]

Si possono conservare realtà contrastanti. Si possono conservare la Chiesa e la massoneria, la grande banca e la demagogia elettorale, il militarismo e il pacifismo verbale. Ad una condizione, però: far finta di battersi. (p. 114)

 

Ora che i radicali vanno confondendosi fra i ranghi conservatori, i socialisti cominciano a trovarsi scoperti: si vedrà ben presto che in sostanza sono dei radicali. Con il pretesto della libertà, e particolarmente della libertà del proletariato, i socialisti difendono il Parlamento, la palestra del compromesso dove si sono logorati i radicali e dove anch’essi si logoreranno.

Poi sarà la volta dei comunisti di Mosca. Appena un’ombra li separerà a loro volta dal grande giorno. Non sarà più questione di socialismo: vecchia sinistra libertaria contro vecchia destra reazionaria, tutta la vecchia Francia, p Mi si dirà che la menzogna radical-socialista non ha ì niente di segreto, che è fin troppo evidente. Non è vero: j essa è tuttora segreta. È una menzogna radicata nell’inconscio ad una profondità inimmaginabile; soprattutto nell’inconscio dei complici: i capitalisti. I corruttori amano i corrotti molto più di quanto i corrotti amino i corruttori. Questo non lo sanno né gli uni né gli altri: ho ragione quindi se parlo di verità segreta.

Simili ai radicali (e ai socialisti) sono i loro complici. Deputati e giornalisti di destra, legati al sistema parlamentare, attaccano la sinistra per strapparle una maggioranza che vogliono soltanto provvisoria. La cosa più evidente qui è il fatto che la destra, una volta al potere, non si preoccupa affatto del ministero degli Interni, cioè del meccanismo che permetterà la sua prossima disfatta e nuove elezioni di sinistra. Anche L’Action Frangaise è legata al regime, e lo dimostra il modo stesso in cui conduce l’opposizione: umi lia gli esponenti del sistema ma non rompe con la vera essenza di esso — cioè la complicità fra capitalisti e demagoghi. Ho il sospetto che L’Action Française realizzi a destra la stessa collusione che la SFIO realizza a sinistra.

Ma i padroni della banca, dell’industria e della stampa amano i demagoghi ancor più teneramente, pur augurandosi dentro di sé la loro rovina. Preferiscono questa segreta complicità piuttosto che giocare a carte scoperte con un governo di destra. Di fatto, vogliono perpetuare questo regime di cui si lamentano. (pp. 114-115)

 

III – CONTRO LA DITTATURA p. 127

 

I – LA DITTATURA NELLA STORIA p. 129

 


Un’idea s’impone poco a poco a colui che riflette: la Francia non ha disposizione per il regime dittatoriale più di qualunque altro paese; anzi ne ha forse meno. (p. 129)

 

In verità tutti i popoli europei hanno conosciuto di volta in volta il proprio secolo di rivoluzioni e, quindi, di ditta ture.[…]

Ma c’è di più: si può sostenere che, nell’insieme della sua storia, la Francia ha mostrato meno disposizione della maggior parte dei popoli a generare tiranni. (p. 130)

Personalità italiane o corse, tradizione italiana, tradizione spagnola della monarchia assoluta: possiamo ripor tare a queste due cause la maggior parte dei fenomeni

  1. del tutto eccezionali — di autoritarismo in Francia. È dunque legittimo concludere che la Francia in sé ha poca disposizione a generare dittatori.

Avete pensato che terribile trauma il giorno in cui uno dei nostri grandi uomini abbandonerà la scena? Quel giorno l’Europa del XX secolo comincerà a meditare sugli inconvenienti della dittatura, come ha già avuto occasione di fare l’Europa del XIX secolo dopo Waterloo e Sedan. Un dittatore che muore nel proprio letto lascia un vuoto grande quanto quello di un dittatore battuto.

Quando morrà Mussolini — o Hitler, o Pilsudsky, o Stalin — avverranno cose che mostreranno agli europei l’inconveniente capitale della dittatura: quello di dover un giorno finire. (p. 131)

 

È difficile farne a meno: la nostra storia ne è testimone. Per i popoli la nostalgia dell’eccezionale negli uomini di Stato è una lunga malattia. (p. 132)

 


Mi sembra impossibile che in tre o quattro grandi paesi vivano contemporaneamente dei dittatori per oltre una ven tina d’anni. Certo Stalin, Mussolini, Hitler sono giovani. Ma se raggiungeranno la vecchiaia non potranno tenere i rispettivi paesi nello stato di tensione in cui si trovano ormai da tempo.

Le stesse ragioni che giustificano una dittatura, atte nuandosi ne rendono difficile, se non impossibile, la conser vazione. Una dittatura è sempre la conseguenza di una rivoluzione: si ha bisogno di un grande capo non tanto per iniziare una rivoluzione quanto per fissarne i risultati. Dal momento che questi cominciano a far parte integrante di una certa realtà, non si ha più bisogno del dittatore. Al contrario, egli diventa un peso perché impedisce alla vita di riprendere flessibilità. Mussolini o Stalin possono mo rire, ma l’essenziale del regime che essi hanno instaurato sopravviverà (se analizzo severamente l’idea di dittatura non crediate per questo che io sia antifascista), anche se tenendo un ritmo del tutto diverso. Ora, una loro troppo prolungata presenza impedirebbe l’imporsi del nuovo ritmo.

Se non scoppia una guerra europea, i dittatori dovranno riportare di propria iniziativa i loro paesi ad un regime più moderato. Ma è difficile uscire dall’assolutismo. (pp. 132- 133)

 

II – MERITARE UN CAPO p. 135

 

Quando gli uomini si sentono più deboli e più disarmati, reclamano un capo. Questo fatto poco onorevole dovrebbe far riflettere i migliori sul carattere disastroso di un atteg giamento che consiste nell’abbandonarsi, come semplici uomini, a un altro uomo. Infatti quasi sempre si tratta di un vero e proprio abbandono. Non riuscendo più ad autogovernarsi, ci si libera di questa funzione virile dele gandola a qualcun altro.

Ma perché mai un altro sarebbe moralmente più capace di noi o di voi? Non vive nello stesso nostro tempo? Non ha subito le stesse situazioni vergognose di cui soffriamo anche noi? Perché dovrebbe essere migliore di noi, che ci sentiamo così malvagi?

Un grande uomo — un uomo superiore per intelligenza e volontà — non è mai moralmente più grande del suo tempo, non può essere che la somma delle forze e delle debolezze morali di un’epoca.

Ecco qual è la vera voce della ragione. Ma su questo argomento la gente non ragiona: compie un atto di fede. L’umanità è costantemente un bilico fra i due movimenti della ragione e della fede. (P. 135)

 

Le masse sono sempre pronte ad abbandonarsi  tra le braccia di idoli viventi. Solo le élites, più o meno aristocratiche, sono capaci di mantenere un atteggiamento di diffidenza nei confronti di questi idoli che conoscono troppo bene per considerare esseri superiori. Gli intellettuali si rivelano spesso femminei ed isterici come le masse. Per questa ragione noi vedremo lungo tutto il secolo diciannovesimo aumentare sempre più freneticamente l’apologia romantica dei grandi uomini.[…]

Oggi è facile constatare che all’inizio del secolo quasi tutti gli animi erano contaminati da una fede irrazionale e furiosa nelle virtù mistiche del Capo. La prova migliore è che l’idolatria del grand’uomo ai nostri tempi si è affermata proprio nel mondo marxista con Lenin. Il mondo marxista, che si considerava razionale, ha ceduto con una facilità sconcertante ai moti dell’animo popolare. (p. 136)

 

Il fascismo non deriva dalla dittatura; è la dittatura che deriva dal fascismo. Il fascismo non è uscito dalla testa di Mussolini come Minerva dalla fronte di Giove. In Italia tutto il movimento, tutto lo slancio di una generazione ha cercato e trovato il fascismo; una generazione che nello stesso tempo o in seguito si è cercata e si è trovata in Mussolini. Un individuo non può dar vita a nulla, non può creare una struttura politica in tutta la sua complessità: può solo prendere in mano uno slancio collettivo, stringerlo in pugno e lanciarlo in avanti. Perché ci sia un eletto sono necessari molti chiamati. È necessario che molti uomini cerchino, riflettano, agiscano affinché il migliore di loro, lanciato in avanti, rilanci a sua volta tutti.

L’attesa in cui vivono oggi molti francesi è sterile. È un segno di poca riflessione e di debolezza. Non si può sperare in un deus ex machina. Gli uomini devono lavorare, togliersi dai pasticci da soli: e se sanno aiutarsi, saranno poi aiutati a loro volta da un capo. (p. 137)

 

IV – GUERRA E RIVOLUZIONE p. 139

 

I – LA GIOVENTÙ FRANCESE CONTRO LA GUERRA p. 141

 

Di primo acchito, preso dalla vivezza del ricordo, l’uomo maturo ha voglia di gridare: che la gioventù sia contro la guerra, non c’è altro da pensare né da dire.

Ma non appena il nostro sguardo si fa più attento, vediamo che esistono la guerra militare e quella civile, la guerra tra le nazioni e quella tra partiti. E la guerra civile è la strada che porta alla rivoluzione. […]

Ora, si può ammettere la guerra civile senza ammettere quella militare? Ad una prima considerazione, sembra che non si possa che condannare o ammettere insieme i due tipi di guerra, e non tanto per il fatto che l’uno deriva normal mente dall’altro, quanto soprattutto perché per fare una guerra civile (come per condurre quella militare) occorre esercitare virtù guerriere che sono proprie all’una e all’altra guerra, che sono proprie alla guerra in sé. Poiché guerra e rivoluzione hanno in comune qualche cosa che è lo spirito guerriero, bisogna condannare o approvare in blocco guerra e rivoluzione. (P. 141)

 

È possibile uscire da questo dilemma? La storia del l’Europa da vent’anni sembra dimostrare che non si può, che se si è pacifisti in politica estera lo si è anche all’interno, e che, inversamente, se si è rivoluzionari all’interno non si teme affatto di riaccendere la guerra fra le nazioni. Il rivoluzionario comincia e finisce là dove comincia e finisce il guerriero.[…]

Propongo alla gioventù francese di essere ragionevole nei confronti di quella russa, italiana e tedesca, di guardare in faccia il bene e il male, di fare propria la lezione positiva che le offrono queste gioventù e di rifiutare quella negativa. Di essere sportiva e rivoluzionaria come queste gioventù, ma di rompere con la guerra militare. Di essere cosciente e forte nello steso tempo, concependo lo sport come sublimazione della guerra e liberazione da essa, e concependo la rivoluzione come una vera guerra dalle conseguenze pericolose ma limitabili. (p.142)

 

2 – LA GUERRA MODERNA p. 142

 

La guerra moderna è esecrabile in tutti i suoi aspetti. Da quindici anni mi sforzo di dimostrare e di far sentire che questo tipo di guerra, di fatto, distrugge ogni valore virile. (p. 142)

 

Per uno spirito imbevuto di filosofia e di storia la parola guerra rappresenta un insieme complesso, un mi scuglio di bene e di male, di verità e di menzogna, di forza e di debolezza. Prendiamo il lato forte della cosa, quello che senza dubbio fa presa sugli spiriti sinceri e sui cuori valorosi. Vi sono virtù che si manifestano durante la guerra; esse formano un insieme di fatti, profondi e necessari all’uomo. Giudichiamo la guerra moderna dal punto di vista di queste virtù. Esaminiamo la guerra moderna dal punto di vista del guerriero. (p. 143)

 

Un uomo parte giovane per la guerra insieme ad altri giovani. Lascia in città, a casa, tutto ciò che deve essere risparmiato: donne, vecchi, bambini, bellezza e dolcezza. Corre alla guerra come all’amore per impegnare il suo corpo, per mettere alla prova i suoi nervi e i suoi muscoli, per spargere il suo sangue. La guerra scoppia in primavera e si svolge in campagna. Ci va anche per trovare degli amici — molto più che dei nemici. Ha in sé molto più amore che odio. Il suo è uno slancio d’amore per una causa, non una negazione. Grida: «viva questo o quello» e non « abbasso questo o quello ». Nessuno si è mai lanciato al l’attacco gridando « abbasso ». La collera, l’odio, non sono che l’alterazione, il decadimento del primo slancio d’amore, sotto il peso della fatica, della sofferenza o del profilarsi minaccioso della disfatta. Ma presto si trova di fronte al nemico, si getta avanti per attaccarlo. Lo raggiunge, si cimenta con lui. Misurarsi con qualcuno: ecco un fatto di capitale importanza. Conoscersi conoscendo gli altri. Misu rarsi con chi è della propria forza o non può superarla di molto. Può essere ferito, ucciso, oppure rimanere indenne. Se resta indenne, finito il combattimento, avanza o indie treggia per ricominciare, fino alla disfatta o alla morte o alla ferita grave. Tra dtie combattimenti ritrova tutti i lavori e tutte le pene che aveva conosciuto fin dall’inizio, ed altri lavori e altre pene. Ma nel combattimento e fuori del com battimento trova anche delle gioie. L’insieme delle gioie e delle pene provoca in lui ed intorno a lui una grande eccita zione: la gloria.

Ecco lo schema della guerra tout-court, della guerra eterna, che è poi lo stesso della rivoluzione. Ora, che cosa diventa questo schema nella guerra moderna, nella guerra di oggi?

L’uomo « mobilitato » va incontro al nemico confuso in un’immensa massa di altri uomini; massa disparata, pesan te, goffa. Egli può subito accorgersi di far parte di uno smisurato gregge di uomini di ogni età ed estrazione, nel quale il cameratismo annega; uomini insufficientemente pre parati, dal momento che neppure il fascismo è in grado di tenere la nazione perennemente mobilitata; incapacità e de bolezze che ne derivano vengono mascherate sotto un am masso di armi e di mezzi sofisticati: al centro di un conti nente folle avanzano in assetto mostruoso.

E già da tutte le parti il cielo colpisce la terra; nugoli di aerei attaccano avamposti e retroguardie, imponendo al l’uomo una terza dimensione fra l’incertezza e la sofferenza. In un involucro grande quanto una mela portano un’infinita potenza di distruzione. La più piccola bomba provoca la morte in un raggio di centinaia di metri. L’uomo non si è ancora mosso, non ha avuto nemmeno il tempo di armarsi che già è colpito, e con lui è colpito quanto doveva proteg gere contro qualunque attacco, facendogli scudo: le donne, i bambini, i vecchi, i capi, i monumenti.

Appena è iniziata la sofferenza ecco giungere la lotta. Poiché infine gli uomini stanno ancora sulla terra e, mal grado il forsennato zelo del cielo, è ancora della terra che si decidono le sorti. L’uomo si lancia all’attacco. Ma quando comincia quest’attacco? L’uomo è ancora lontano dal ne mico che già Io colpisce. Tira su di lui, al di là degli oriz zonti, senza vederlo. Ma a poco a poco si avvicina; dopo i cannoni si serve di armi più corte; mentre gli aerei, come fin dal primo giorno, volano sempre sulla sua testa, e gli obici non sono più che una cateratta continua, egli si getta su quella furia micidiale che è la mitragliatrice. Forse sta per intravedere il nemico — ombra in lontananza. Ma non sono mai stati così distanti: un uragano di ferro e inarre stabili ondate di gas li dividono. Si incontreranno mai? No.

Ecco il secondo grado della conoscenza dell’uomo. Egli è ora di fronte alla realtà della guerra moderna: è a terra, strisciante, spaventato e pieno di vergogna e comprende di essere solo. L’immenso gregge è sparito; gli amici sono diventati invisibili quasi quanto i nemici, e nessuno avrà mai visto i capi. Solitudine più che spavento — e vergogna: questo è il destino dell’uomo nella guerra moderna. Sepa rato da tutti, amici, capi, nemici, preda di un collettivismo astratto, non li vede e non vede quello che fa né ciò che gli viene fatto. I due avversari sono poveri esseri in guerra con elementi coalizzati contro di loro, ma che non si cono scono né si cimentano.

Resisteranno. Certo che resisteranno. Dietro di loro uf ficiali, Ghepeu, S.A. o guardie mobili, rivoltella in pugno. Meglio cadere per mano del nemico. Ma avranno un bel- l’accanirsi, non si raggiungeranno mai. Se si raggiungono, se arrivano all’umano faccia a faccia, al corpo a corpo, questa interruzione dei rapporti astratti che dominano la guerra moderna sarà un caso. E la granata impedirà ancora che si arrivi al coltello, alle mani. Non vi saranno che flussi e riflussi di sparute linee di tiratori che si perdono tra l’acciaio e i gas, come fiammiferi in un braciere.

Neppure l’ombra deH’avventura, poiché il fattore indi viduale è ridotto al minimo per mancanza di contatto fra gli avversari. In futuro questo sarà vero per l’aviazione, come per la fanteria e l’artiglieria. Nelle retroguardie la vita di caserma sarà regolata, automatica, come negli avam posti. Niente avventure, quindi niente gloria.

Ecco la guerra moderna: non ha più nulla di umano.

E qual è il risultato? Milioni di morti, di feriti e di invalidi. Niente gloria e invece immense distruzioni. Le città annientate: Londra, Parigi, Berlino, Milano cancel late dalla carta sin dal primo giorno. Le donne, i bambini, i vecchi, gli animali, le piante, l’aspetto stesso del paesag gio, tutto annullato come il corpo dei soldati.

Un’Europa ridotta alla disperazione, alla negazione di tutto.

.La gioventù che è vita e bellezza non può non essere contro tutto ciò. (pp. 144-145-146)

 

3 – LA GUERRA CIVILE p. 146

 

Immaginiamo un uomo consapevole, deciso, perseveran te che considera e teme la rovina della razza europea. Che cosa farà? Egli sente che deve prendere una decisione definitiva, che deve capire l’immensità delle cause dell’in combènte rovina. Un male che va così lontano deve venire da molto lontano. Occorre risalire altrettanto indietro.

Ora, non si va mai così lontano come in se stessi. Egli si preoccuperà quindi di annientare in sé tutti gli stimoli della guerra. Vorrà assicurare la pace dentro di sé. Risa lendo dal fatto al principio, spingerà i suoi sforzi fino ad attaccare il principio, ad estirparlo dalla propria anima e dal proprio corpo. Negherà la violenza.

Negando la violenza, non comprometterà la forza? Di venterà un pacifista che nega la guerra, che ne ignora tutto. Tuttavia la guerra è una scuola di forza e di coraggio. Il coraggio di uccidere, ma anche di essere ucciso, il coraggio di ferire, ma anche di essere ferito, il coraggio di distrug gere e di incendiare, ma anche di sopportare la fame, la sete, il freddo e il caldo, l’insonnia e la sporcizia, l’ozio ed i lavori pesanti, la solitudine e la promiscuità. Da un più profondo punto di vista, il coraggio è molto di più, è tutto. E conoscersi, affermarsi, essere qualcosa e qualcuno, mal grado gli ostacoli e le minacce. Il massimo della respon sabilità.

Che cosa può diventare il coraggio se non viene eser citato, se non viene messo alla prova? Muore prima ancora di essere nato. E con il coraggio è la forza stessa di coerenza che scompare, è l’essenza dell’uomo, è il legame del suo spirito.

Fuggendo un pericolo, cadiamo in un altro. Questo d’al tra parte è nella natura dell’universo in cui vive l’uomo, e dove ogni medaglia ha un rovescio e nessun bene viene senza essere accompagnato da un male. (pp. 146-147)

 

Lo Stato non può vivere e rinnovarsi che attraverso l’insurre zione, la rivoluzione, la guerra civile. (p. 147)

 

La Specie deve conservare uno sbocco per le proprie esplosioni. Se rifiutassimo la guerra, necessaria e naturale, nella forma di guerra militare e nazionale, saremmo forzati a riaccettarla sotto la forma di guerra civile, di rivoluzione.

Ma come prepararsi alla guerra civile sottraendosi a quella militare? Questo è il problema che si pone alla gioventù di oggi. (p. 148)

 

4 – LO SPIRITO GUERRIERO NELLE RIVOLUZIONI p. 148

 

Qualcuno potrà dire che le mie premesse sono false e che ricondurre la guerra alla rivoluzione è inesatto o, al meno, esagerato. Costui certo non ha guardato in faccia gli avvenimenti degli ultimi venti anni. La rivoluzione russa è stata una guerra condotta da uomini che non temevano la violenza, che la accettavano come una necessità. […]

Massacri, ospedali, prigioni: ecco le tappe obbligate della guerra civile e di quella mili tare. Le rivoluzioni italiana e tedesca sono state condotte da uomini che ammettevano francamente la violenza contro altri uomini che se ne sottraevano o la condannavano. (p. 148)

 

[…]le rivoluzioni di questi ultimi vent’anni sono state fatte, come tutte le rivo luzioni, da guerrieri contro pacifisti. Il bolscevico è un guerriero che si leva contro il guerriero aristocratico o borghese, ma anche contro il menscevico pacifista. Il fa scista è un guerriero che si leva contro il pacifista borghese e socialista, e non solo contro il guerriero comunista.

Ora, tutto ciò è stato approvato e compiuto dalla gioventù, poiché senza gioventù nessuna guerra, né rivoluzionaria né militare, è possibile. Negli ultimi vent’anni in molti grandi paesi la gioventù ha intuito Io spirito guerriero in quello rivoluzionario e lo ha restaurato, ha sentito e concepito profondamente lo spirito guerriero che anima sia la guerra militare che quella civile. (pp. 148-149)

 

Nei primi anni del nostro secolo questo duplice atteggiamento era divenuto una tendenza evidente in tutti i paesi, ed era essa che la gioventù europea aveva davanti agli occhi. La gioventù europea ha reagito violentemente contro il pacifismo perché ne vedeva il pericolo essenziale.

Ovunque i partiti socialisti si impantanavano nella vecchia strada parlamentare, diventavano sempre più concilianti e conducevano un’opposizione vaga e puramente verbale al mondo capitalista. Più guadagnavano in superficie, più perdevano in profondità. […]

Naturalmente la reazione contro il pacifismo è avvenuta a due diversi livelli: quello della lotta fra le classi e fra i partiti e quello della guerra tra nazioni. (p. 150)

 

5 – POSIZIONE DELLA GIOVENTÙ FRANCESCO p. 151

 

La gioventù europea ha dunque reagito nel senso della riflessione tipica che ho tratteggiato prima. Vedendo lo spirito della pace uccidere quello della rivoluzione, la gio ventù ha instaurato lo spirito della guerra per salvare quello della rivoluzione che al primo è intimamente legato. (p. 151)

 

Volendo serbare lo spirito rivoluzionario, sappiamo che vogliamo conservare lo spirito della vera guerra che ne è la sorgente e la garanzia. Bisogna che l’uomo si conservi come uomo, cioè come guerriero. Certo, nell’uomo c’è un’al tra natura: quella del sacerdote, dello studioso (in tutte le sue varietà: filosofo, artista, ecc.). Ma è anche fin troppo facile per l’uomo moderno diventare un intellettuale. Invece per rimanere guerriero gli occorre uno sforzo, ed è così che perde l’equilibrio e si rovina, e perciò deve fare atten zione. Per questo nel militarismo dei fascisti c’è più sforzo che non abbandono. Uno sforzo teso, esasperato.

Nel fascismo la tensione è eccessiva ed è sintomo di un errore. Il fascismo chiede troppo all’uomo. Mentre gli restituisce la vita e l’orgoglio della gioventù, lo prepara ad una morte orrenda e sterile. Il nostro sforzo potrebbe essere più felice se fosse più misurato. Analizzando il nostro scopo meglio degli altri, potremmo foggiarci ad una ten sione più sana e forse più duratura. A causa della devia zione demoniaca che ha subito la guerra nei tempi mo derni, ci contenteremo di quella sua sublimazione che è lo sport. La guerra, come l’amore, può ben sopportare di essere sublimata. Tra il ratto primitivo e l’amore senti mentale c’è gran differenza. Bisogna pure che la Specie si contenti di questa sublimazione e attenuazione dell’istinto di riproduzione. Sostituiamo le battaglie con le partite di football, l’eroismo della terra con quello del cielo.

Speriamo che lo spirito sportivo sia sufficiente a man tenerci tanto bellicosi da restare interiormente rivoluzionari. (pp. 153-154)

 

Il    mio sogno componeva lo slancio della gioventù se condo un duplice voto.[…]

La volevo dunque pacifica perché euro pea, perché preoccupata della salvezza europea, perché pronta a rifiutare l’inumana guerra moderna; e nello stesso tempo la volevo sportiva, indurita e rinvigorita dallo sport, ed allenata alla guerra civile, preparata alla rivoluzione necessaria, inquadrata per la lotta interna. (p. 154)

 

II – L’OBIETTORE DI COSCIENZA p. 155

 

Il    comunista francese non fa che parlare contro la « guerra capitalista », intendendo con ciò che tutte le guerre sono provocate dal capitalismo.

D’altra parte, se scoppia una guerra tra l’Unione Sovie tica e qualsiasi altro paese, egli è pronto a sostenerla, sia pure come una spiacevole ma ineluttabile necessità. Ma non è stato sempre così per tutte le guerre?

Una guerra ha sempre un contenuto spirituale, può sempre circoscriversi nei termini sostanziali di un conflitto ideologico.

Non è possibile affermare che tutte le guerre capitaliste si valgano e siano da rifiutare perché non sono che un aspetto delle lotte intestine del mondo capitalista all’inter no di ciascuno Stato. In queste lotte, per ragioni tattiche, i comunisti sono sempre chiamati a prendere posizione: fra Stati capitalisti come fra partiti capitalisti. D’altronde essi hanno già scelto.

L’Internazionale comunista si è schierata, di volta in volta, prò o contro il trattato di Versailles. Ragioni tattiche, certo. Ma Napoleone stesso non ha mai fatto la guerra che per ragioni tattiche. Il bellicismo puro non esiste che in letteratura. (p. 155)

 

La guerra scoppia per un complesso di fatti, di cause e di circostanze che rendono assurda e vana la questione delle responsabilità unilaterali, e di fronte ad essa occorre prendere posizione appena si pone come dato di fatto.

La certezza che si prenderà sempre posizione, che si accetterà ogni singola guerra, fa sembrare un semplice accorgimento oratorio del tutto ipocrita la condanna della guerra in generale.

Ecco perché se si vuole rifiutare assolutamente la guerra occorre porsi su un altro piano che non sia quello politico, dóve essa non cesserà mai; su un piano molto vicino a quello religioso. E quando dico religioso non intendo cri stiano, cioè il cristianesimo dei nostri tempi, ma cristiano ascetico, non conformista.[…]

I soli avversari della guerra, nella, nostra società, sono gli obiettori di coscienza. (p. 156)

 

E tuttavia egli non è forse il portavoce di qualcosa di eminentemente collettivo? Sensitivo, egli non incarna forse la più alta ragione? Ma è costretto à negare la rivoluzione insieme alla guerra. Riconduce lo spirito rivoluzionario a quella parola d’ordine della non resistenza al male che il cristianesimo non è mai riuscito ad instaurare né in Europa né in se stesso. È il punto di vista di Tolstoi abbandonato da Romain Rolland; il punto di vista che in Gandhi è solo una fantasmagoria.


Tuttavia, se non si vuole vivere in una cella bisogna non sottomettersi all’ingiunzione dei dilemmi astratti. Bi sogna cercare una scappatoia, sempre — ma per lo meno confessarlo francamente.

Ho provato a chiarire in queste pagine di quale scap patoia si tratta. Lottare contro l’evidenza, rompere il rap porto necessario fra guerra e rivoluzione (fascista o comu nista) sforzandosi continuamente di spezzare negli animi il legame fra l’una e l’altra guerra. Da parte nazionalista, rilevare il pericolo mortale che corre una nazione gettan dosi in una guerra esclusivamente distruttiva. Da parte comunista, rilevare il pericolo russofilo, la confusione tra politica filo-russa e politica del Komintern.

Fare distinzioni, evitare gli eccessi, seguire una via tor tuosa ma decisa, far fronte da ogni parte. Questo è un modo di trasporre, di sublimare l’obiezione di coscienza. (p. 157)

 

Tengo alla disciplina militare, all’ideale del vecchio eser cito, credo necessaria la fierezza dello sport, ho orrore del pacifismo astratto.

Ma ragionevolmente, virilmente, non posso ammettere questa guerra che insulta tutti gli ideali umani di destra e di sinistra, di oggi, di ieri, di sempre che minaccia di ridurre i popoli europei a tribù inebetite e indifese.

Tanto peggio se mi imprigionano, se mi fucilano. Devo riportare su me stesso il romanticismo suicida della razza.

Non nego affatto Io Stato e la Società. Dentro di me li esalto. Ma lo Stato è là dove si trova la salvezza degli uomini… (p. 158)

 

III – LA PROSSIMA GUERRA p. 161

 

La guerra scoppierà tra cinque anni. La Francia e la Germania si scaglieranno l’una contro l’altra. Soltanto la Francia sarà battuta, e ancor più sicuramente che nel ’14: per qualche anno ogni ragazzo francese si batterà contro due giovani tedeschi riarmati. Dunque, gli altri dovranno intervenire. Tutti gli altri. Non saranno di troppo. (p. 161)

 

E d’altronde è fuori dubbio che sarà la smisurata crescita del Giappone a provocare il conflitto mondiale, di cui il conflitto europeo non sarà che un con traccolpo.

L’Italia sa bene che alleandosi con la Germania, l’indo mani di una vittoria si troverà in uno stato di assoluta inferiorità di fronte all’alleata. Tutto ciò è ovvio, e non è quello che mi interessa.

Guardate dall’altra parte! Che cosa fa la Polonia? Mar cia contro la Germania. Ne siete ben certi? Ve lo chiedo perché vedo più lontano.

Che cosa fa la Russia, in effetti? Benché si trovi alle prese con il Giappone, essa marcia contro la Germania. Questo perché la Germania (hitleriana o no) rappresenta più di qualunque altra nazione un pericolo gravissimo per la Russia. La Germania è ancora per la Russia il grande vicino la cui superiorità tecnica non è stata affatto annul lata. Inoltre, fra il semi-socialismo dei fascisti tedeschi ed il semi-fascismo dei comunisti russi c’è lo stesso sordo odio familiare che c’era fra l’imperialismo dei Romanov, quello degli Hohenzollern e quello degli Asburgo. Da entrambe le parti c’è una base fortemente nazionale e c’è la stessa tendenza all’evangelizzazione mondiale. È questo che porta al conflitto. (pp. 161-162)

 

Dunque la Russia marcia contro la Germania. Ma allora? Vi volevo proprio qui.

Che la Polonia combatta con la Germania o contro di essa, la Russia la invaderà. Ecco il fenomeno che caratterizzerà la nuova grande guerra. Come amica o come nemica la Russia invaderà la Polonia, tutti i paesi slavi limitrofi, ed i paesi baltici. La Russia invaderà la Romania, la Polo nia, l’Estonia, dove — Mosca lo voglia o no — saranno proclamati i Soviet. (pp. 162-163)

 

Si vedono già da ora i contraccolpi che si ripercuoteranno fino al cuore della situazione europea, sconvolgendola. Contrac colpi che vi saranno al minimo sintomo di questi sviluppi, senza dubbio prima che essi si siano verificati.

 

  • La Polonia e la Romania tendono ad avvicinarsi alla Germania. I borghesi dell’Europa orientale preferiranno l’occupazione tedesca perché fascista, alla conquista russa perché comunista.
  • Si può prevedere che, se scoppia la guerra, la Ger mania avrà molto da fare, almeno quanto nel ’14 se non di più. (pp. 162-163)

 

 

[…]essa assumerà agli occhi di tutta la borghesia euro pea il ruolo di barricata contro la minaccia comunista.

Il    contraccolpo avrà di nuovo ripercussioni sul sintomo del fatto e non sul fatto stesso, e sarà fin dal primo mo mento in tutta Europa (Francia compresa) il germe di partiti fascisti filo-tedeschi. […]

La prossima volta ci sarà lotta all’ultimo sangue tra il fascismo e il comuniSmo.

Le necessità della guerra obbligheranno i borghesi d’Occidente, coinvolti nella lotta tra il governo totalitario russo ed il governo totalitario di Berlino, a gettare alle ortiche la loro maschera democratica.

Ma ciò non basterà. Abbandoneranno la democrazia per diventare filo-russi e quindi comunisti, oppure fascisti e quindi filo-tedeschi? Poiché, infine, se la borghesia occi dentale vincerà i tedeschi, anche i russi risulteranno vinci tori; gli eserciti borghesi d’Occidente incontreranno al cen tro della Germania l’esercito rosso che avrà diffuso i Soviet lungo tutta la propria strada. (p. 164)

 

L’Occidente diventerà comunista per odio contro la Germania?(p. 165)

 


L’alleanza Berlino-Parigi è troppo perico losa per Parigi, che vi si rassegnerà solo quando Berlino avrà l’Armata Rossa alle porte. In tal caso Parigi si rivol terà contro l’alleato di oggi.

Le due ipotesi sono comunque fin d’ora vive e allo stesso tempo terribili e seducenti. Le coscienze cominceranno a schierarsi per l’una o per l’altra e in Francia vi saranno un partito filo-tedesco e uno filo-russo. (p. 166)

Tutta questa nuova situazione enorme e confusa sembra dunque ridursi allo strano dilemma: i francesi preferiranno farsi comunisti per non diventare tedeschi, o diventare tedeschi per non farsi comunisti? E non si porrà lo stesso dilemma anche per l’Inghilterra e l’Italia? (p. 167)

A conferma di questa analisi vediamo delinearsi chiara mente i tre aspetti ignobili della prossima guerra che mi naccia l’Europa.

 

  • La lotta si svolgerà fra tre sistemi politici apparente mente dissimili: fascismo, comuniSmo, democrazia. In ef fetti, però, due di questi sistemi — tutti gli uomini di buona volontà oggi lo riconoscono, sia pure con molto ritardo — si assomigliano già molto e tendono a congiungersi. I socia listi ed i comunisti di Mosca fanno dell’antidemocrazia, dunque del fascismo; i fascisti, quelli di Roma e di Berlino, fanno gli uni del corporativismo e gli altri del capitalismo di Stato — il che significa indietreggiare per prendere la rincorsa e saltare meglio nel socialismo. È anche evidente che la democrazia francese non dovrà sforzarsi troppo per trasformarsi, secondo le necessità della lotta, in fascismo socializzante. La prossima guerra sarà dunque una mischia di tutti i tipi di fascismo, gli uni contro gli altri.

 


2 Questa guerra sarà inoltre un calderone oscuro di ogni tipo di nazionalismo. Tutte le potenze che si impegne ranno in questa guerra di inganni lo faranno con l’intento segreto di rivoltarsi sin dal primo giorno contro il rispettivo alleato (Italia-Germania; Francia-Russia). Ciò darà al con flitto il suo secondo carattere di turbine folle. Dalle rovine che lascerà dietro di sé non potrà nascere che la dittatura di uno di questi nazionalismi. Il nazionalismo vincitore non troverà più contrappesi alla prossima pace ed estenderà la sua egemonia sulle proprie rovine morali e materiali e su quelle degli altri. In Europa, dopo le libertà interne peri* ranno quelle nazionali.

3 Il terzo aspetto orrendo della prossima guerra è dato dalla potenza demoniaca degli strumenti, irrimediabilmente ostili all’umanità. Questo solo aspetto basterebbe a renderla esecrabile. (p. 168)

 

IV – IL NAZIONALISMO È OVUNQUE p. 169

 

Che possibilità di guerra vi sono oggi in Europa? Vorrei rispondere a questa domanda analizzando la spinta alla guerra che viene da ciascuna delle grandi correnti politiche che si disputano il nostro continente.

C’è chi vede nell’espansione del fascismo da un paese all’altro il principale fattore di guerra. Ma ciò significa dimenticare, da un lato, la critica severa che da quindici anni, tutti i giorni, i comunisti muovono alla politica delle democrazie capitaliste; e dall’altro la critica che sia i dissi denti comunisti sia i socialisti muovono alla politica russa. Dal numero e dalla forza delle accuse contenute in queste due critiche risulta che sia la democrazia capitalista sia il comuniSmo russo sono dei focolai di guerra internazionale tanto quanto il fascismo.

Vediamo, per cominciare, in quale modo le democrazie capitaliste conducono o si lasciano condurre alla guerra. È un dato di fatto che nessuna democrazia abbia potuto decidersi ad una politica radicalmente pacifica e soprattutto che abbia potuto attenervisi. Non si potrebbe citare che la democrazia danese, e credo che questo unico esempio sia svanito di fronte alla minaccia hitleriana! Sotto la comoda formula della difesa nazionale, le democrazie praticano ovunque il più acceso militarismo. (p. 169)

 

Perché le democrazie tengono un simile atteggiamento? Perché sono nazionaliste e capitaliste.

Capitalismo e nazionalismo sono dunque una sola cosa? Non lo credo affatto, contrariamente all’opinione unanime degli interessati e dei loro avversari. Credo che il capita lismo sia stato una grande forza internazionale che, nel suo periodo di sviluppo, ha contribuito potentemente al ravvicinamento dei popoli più che al loro antagonismo. La prova certamente ci verrà dalla storia: negli anni che verranno, volgendoci verso il XIX secolo, vedremo giusta mente una coincidenza tra l’espansione dell’economia capi talista e il moltiplicarsi dei legami spirituali e materiali tra i popoli.[…]

Era nell’interesse im mediato e finalistico del capitalismo infrangere le frontiere, spegnere i patriottismi, ingrossare incessantemente la cor rente dell’economia universale. E tuttavia non l’ha fatto,

 

  • Ovunque è indietreggiato di fronte all’ostacolo. Al contrario,
  • con l’influenza della propria stampa, con le tendenze e le decisioni individuali dei suoi uomini, il capitalismo ha favorito ogni ripresa nazionalista. (p. 170)

 

 

Certo, il capitalismo ha bisogno della mistica nazio nalista per difendersi dalla minaccia del socialismo, essendo ormai fuori Uso la vecchia mistica liberale. Ma è pur vero che ha scelto molto male il terreno su cui difendersi: ne avrebbe un altro decisamente migliore — lo stesso su cui teoricamente agisce il socialismo: quello dell’economia in ternazionale, universale — sul quale potrebbe battere in volata l’avversario.

Se sceglie così male il terreno su cui difendersi è perché non manovra ma, al contrario, è manovrato. Infatti il capi talismo, ben lontano dal volere il nazionalismo, Io subisce; e lo subisce nel peggiore dei modi: come un insieme di pregiudizi irresistibili contro il quale non esiste alcuna difesa intellettuale.

Ci troviamo di fronte all’incrociarsi di due determini smi: quello geografico e quello economico. Il primo si mostra più forte del secondo. Le democrazie con il capita lismo cadono nel nazionalismo.

Il    nazionalismo è un fenomeno esterno e superiore al capitalismo; un fenomeno che non soltanto è indipendente da ogni forma sociale e politica, ma che tiene le une e le altre sotto di sé. (p. 171)

 

Ma questa fatale confusione tra la patria russa (che, è vero, ha il vantaggio sulle patrie europee di essere un territorio vastissimo e non ristretto in brevi limiti e di poter servire da base ad un’autarchia grandiosa e non misera) e il comuniSmo, non è forse la prova che il nazionalismo vale di per sé ed agisce su tutte le forme economiche e sociali?

Un’altra prova viene dallo sviluppo del fascismo.

Il fascismo si serve dei nazionalismo per imporsi al capitalismo; in seguito turba ed altera il sistema capitalista nella misura in cùi le necessità del nazionalismo lo obbli gano a fare del socialismo — meno forse di quanto pro metta all’inizio, ma ben presto più di quanto vorrebbe. Di modo che ciò che all’origine unisce capitalismo e fascismo, ossia il nazionalismo, in seguito li divide poiché genera il socialismo.

Ovunque il nazionalismo, quindi — e nel mondo fascista né più né meno di quanto ve ne è nel mondo democratico

o    in quello comunista. E là dove ce il nazionalismo c’è anche il militarismo. Là dove ce il militarismo, esiste una minaccia di guerra. Dunque minaccia di guerra, da ogni parte, nello stesso tempo. L’internazionalismo è, quindi, una meta che si impone sempre e dovunque, indipendente da qualunque altra meta, poiché essa deve applicarsi a tutte le istituzioni politiche per correggerle e controllarle. (p. 172)

 


E ciò tanto più che è possibile sia stato esagerato l’aspetto nazionalista e militarista delle rivoluzioni fasciste. Notate che teoricamente i fascismi si pongono nella posizione che preconizzo. Essi dicono: « Noi non desideriamo la guerra: come voi, vediamo i perìcoli terribili che essa rappresenta per l’Europa e per la Specie. Ma non possiamo dimenticare che la guerra è inerente all’uomo e al suo sviluppo, che il suo male è misto al suo bene. La stessa forza che ci dà le rivoluzioni necessarie ci dà le guerre inevitabili. Quindi resteremo armati. Ma se non possiamo dire che faremo tutto per evitare la guerra, possiamo però dire che faremo molto ».

Posizione, questa, che equivale a quella delle democrazie capitaliste e del fascismo bolscevico, che dicono: « Abbiamo orrore della guerra, ma la prepariamo ugualmente ». Ci nismo ed ipocrisia si equivalgono.

Ma di fatto come andranno le cose? (p. 173)

 

Esso confonde nelle sue affermazioni sport e guerra, il benessere fisico del l’uomo — così ne cessario per lottare contro i danni della grande città e per mantenere l’uomo nelle sue facoltà essenziali — con la conservazione delle vecchie forme militari, ma è possibile che nel proprio intimo abbia già distinto fra la sublima zione dello spiritò guerriero in sport e parate e la conserva zione delle forme militari. Il fascismo aveva bisogno dello spirito guerriero per fare la sua rivoluzione e ne ha bisogno per continuarla. E forse esso gli basta.


Attraverso il fascismo l’Italia e la Germania stanno forse cercando la formula simile a quella che i popoli nordici hanno già trovato. Questi ultimi hanno stabilito il loro equilibrio tra la pace e la guerra, tra la realizzazione spor tiva e la tentazione militare. La Svizzera, l’Inghilterra, i paesi scandinavi sono nazioni che coltivano con( serietà e passione le virtù virili sotto la forma sublimata dello sport, e che allo stesso tempo serbano con devozione alcuni riti militari pur essendo profondamente pacifiche.

Prendere il militarismo fascista alia lettera è forse come fare di una goccia un oceano.

(Marzo 1934.) (pp. 173-174)

 

V – LA GERMANIA p. 174

 

I – UNITÀ FRANCESE E UNITÀ TEDESCA

 

Il Professore: Esistono diversi Stati…

L’Alunno: In che consiste la differenza?

Il Professore: Sono fondati su princìpi diversi.

L’Alunno: Ho sentito Hitler alla radio. Grida che lo Stato tedesco è fondato sul sangue.

Il Professore: Hitler è un pazzo.

L’Alunno: Ah!… Inoltre gli hitleriani parlano della lin gua. Essi hanno l’aria di dire che il sangue e la lingua sono la stessa cosa. Parlano tutti la stessa lingua perché sono tutti dello stesso sangue?

Il Professore: No di certo. C’è molto sangue celtico e

slavo in Germania. Hitler confonde ancora, come avveniva nel XIX secolo, la comunità di lingua con la comunità di sangue, il fatto linguistico con quello etnico.

L’Alunno: Hitler parla solo inizialmente del sangue e in seguito si riferisce alla lingua. È pronto ad annettere tutti quelli che parlano tedesco, siano o no dello stesso sangue. (pp. 177-178)

 

L’Alunno: Allora in Germania il principio è il sangue, il sangue nella lingua. In Francia, invece, i confini naturali.

Il Professore: Uhm, sì…

L’Alunno: Quali sono i confini naturali della Francia?

Il Professore: La Francia ha raggiunto i suoi confini naturali.

L’Alunno: Allora i confini naturali della Francia sono i suoi confini… attuali. E i suoi confini attuali sono i suoi confini naturali. È evidente. (p. 180)

 

L’Alunno: Secondo me la sua teoria dei confini naturali equivale alla teoria di Hitler del sangue nella lingua.

Il Professore: Questo è proprio divertente! Confusio nario!

L’Alunno: E sia! Bisogna pure che trovi i suoi confini anche questo poveraccio che, Bismarck essendo il Richelieu, è da solo il Robespierre ed il Bonaparte della Germania (per quanto riguarda l’unità nazionale). Hitler non conosce confini naturali; è ancora e cento volte meno inglese di

noi. Nient affatto isolano. (E ancora, quando si è isolani! Così come noi siamo passati da un bacino all’altro, gli inglesi sono saltati da un’isola all’altra: vedi l’Irlanda, senza contare Jersey e l’isola di Man e le Shetland.) Dove vuole che trovi i suoi confini? Sul Weser? Sulla Vistola? Allora? Li ha cercati nel sangue e poiché il sangue non è chiaro ! — ancor meno chiaro dei confini naturali — ripiegherebbe volentieri sulla lingua.

Il Professore: (Accigliato ed agitato) La lingua, la lingua…

L’Alunno: Ripiegare sulla lingua gli è vantaggioso, visto che si parla tedesco molto più lontano di dove al momento può pisciare un doganiere tedesco. (p. 184)

 

Non si può fare a meno degli Stati, e uno Stato deve ter minare da qualche parte, volente o nolente. Non cesserò mai di ripeterlo. (p. 185)

 

Alla fine del giochetto, con o senza guerra, ci ritroveremo in un’Europa con un’enorme Ger mania di 80 milioni di anime (comprendente l’Austria, la Sarre, Malmédy, qualche zona recuperata dalla Polonia, la Alsazia, la Svizzera tedesca, il Sud-Tirolo) circondata da una fascia di Stati… dissidenti.

Il Professore: È mostruoso ed impossibile. (p. 186)

 

L’elemento germanico anche nella sua totalità non rappresenterà mai, dunque, più di un terzo dell’Europa. Questa prospettiva estrema costituisce senza dubbio la vi sione inconscia che anima il movimento hitleriano, nel quale è possibile vedere molto più una contrazione angosciosa dinanzi ai limiti ineluttabili di un destino, che non un accesso di megalomania. (p. 187)

 

Ne ho abbastanza di questo professore. (Da solo) Profitterà il professore della mia lezione? In fondo che cosa ho voluto fargli intendere? Che i francesi hanno lo spirito offuscato dall’ipocrisia nazio nale. A forza di ripetere che i tedeschi sono malvagi, i francesi finiscono per crederlo; ne fanno dei mostri da cui sono poi terrorizzati. Ah! La paura francese… ecco uno dei flagelli dell’Europa. (p. 188)

 

La Germania va esaurendo le sue forze in un impegno di autonomia; e di chiarimento che aggiungerà solo un sintomo di più all’insieme. spaventoso dei segni che indi cano la decadenza spirituale dell’Europa. Quando si vuole e si può definire un aspetto della vita, vuol dire che questo aspetto è morto. La Germania tende a definirsi, a fissarsi, come già hanno fatto l’Inghilterra, la Francia, l’Italia. Così essa completerà il cerchio delle vecchie patrie mummificate.

Sin da ora, comunque, meditare su un tema nazionale è possibile solo in una prospettiva europea se non addirit tura mondiale. In effetti, questa meditazione è inserita in un ingranaggio propagandistico. Ora, chi dice propaganda dice demagogia; chi dice demagogia dice apertura mortale verso l’esterno, piegarsi a chi si vuol convincere, volgariz zazione e universalizzazione. Ma nella soppressione del l’Austria e senza dubbio della Svizzera e forse del Liech tenstein ecc. vedo un vantaggio materiale, l’abolizione di alcune frontiere, di alcune dogane: sarà pur sempre un guadagno.

Tutte le strade sono buone: per giungere in Europa alla soppressione delle frontiere posso valermi dei mezzi che mi offre la rivoluzione hitleriana, come di qualunque altro mezzo.

Già nel 1922, in Mesure de la France, avevo inneggiato alla Piccola Intesa come ad un agente di coagulazione. E non era certo meno temerario e pericoloso.

Ho sempre ricercato in Europa dei blocchi in forma zione. Ebbene, vedrò con gioia l’Europa ridursi a tre bloc chi: russo, centro-europeo e periferico. (p. 189)

 

Probabilmente le vecchie democrazie si daranno una vernice fascista, mentre il fascismo italiano ed il comuniSmo russo, l’uno e l’altro per opposizione all’hitlerismo, si tin geranno di una leggera sfumatura liberale — incontrandosi così a metà strada.    f

(Ottobre 1933.)

 

II – MISURA DELLA GERMANIA p. 191

 

Dopo due anni di lontananza ho ritrovato una Berlino che sembra più povera e opaca.

Berlino sembra povera, la Germania sembra povera. Continua rovina della classe media da quindici anni a questa parte; allontanamento degli ebrei; diminuzione dei profitti del grande capitale che vende ed esporta meno; parola d’ordine spartana. Le poche migliaia di ricchi che restano in Germania si godono modestamente a domicilio le loro ricchezze.

  1. nazionalismi si chiudono nell’austerità autarchica, in una povertà circondata dalle dogane che hanno voluto.

Una povertà che può essere ricchezza. Non sono fra coloro che rimproverano a Mosca la sua povertà. Non sono mai stato fiero —- al contrario! -“ della sovrabbondanza di una certa Francia locandiera e ruffiana. Mi chiedo se la povertà della Germania non nasconda una ricchezza morale.

Ebbene, sì! C’è nella Germania hitleriana una forza mo rale come nell’Italia di Mussolini. (p. 191)

Alla base dell’energia morale di ogni fascismo c’è innanzitutto un’attitudine al sacrificio, una volontà di combattere che sarebbe pericoloso negare. (pp. 191-192)

Il secondo pilastro su cui poggia l’energia morale del fascismo — un pilastro profondamente immerso nel limo delia civiltà delle grandi metropoli — è costituito da tutto il socialismo che ha assimilato. Lo si voglia o no, nel fa scismo tedesco si è trasferita gran parte della genuinità del sindacalismo dell’anteguerra e la maggior parte dell’energia morale che animava il marxismo dell’Europa occidentale e centrale nei primi anni di questo secolo.[…]

La marcia su Roma e quella su Berlino non costitui scono affatto una pura e semplice reazione alle lontane ondate dell’ottobre 1917. Sono derivazioni più che reazioni.

È significativo che nel negare questa interpretazione del fascismo si trovino d’accordo gli uomini di destra, che si uniscono al fascismo per i peggiori motivi, e gli uomini della più vecchia sinistra liberale o libertaria, camuffati da socialisti o da comunisti (non mi riferisco ai comunisti di Mosca, che invece comprendono molto bene il fascismo e giustamente si guardano dal sottovalutarlo), gli uni e gli altri sorpresi dalla novità politica, incapaci di guardare in faccia la realtà storica, pronti solo a nascondere la testa sotto il berretto d’asino della negazione pura e semplice. (p. 191)

 

Attraverso il fascismo sia a Berlino che a Roma si sta risvegliando il socialismo non marxista. (p. 193)

 

Ma fin dove può giungere, fino a che punto può svilup parsi l’innegabile energia socialista del fascismo? Quali obiettivi può raggiungere? A parer mio i progressi del socialismo a Berlino e a Roma saranno proporzionali alla persistenza del nazionalismo in Europa e al progressivo aumento dei suoi misfatti. Ancora un paradosso della sto ria! Socialismo e nazionalismo, che per la mentalità di fine Ottocento erano irrimediabilmente ostili, si avvicinano e si aiutano a vicenda. (p. 194)

 

Quindi dobbiamo lucidamente constatare che dall’Eu ropa orientale a quella occidentale, dal sud-est al nord-est, i nazionalismi sono riusciti in questo ultimo lustro a vincere le forze di espansione internazionalista, cioè il grande capi tale e il socialismo della Seconda Internazionale. Il grande capitalismo intemazionale delle banche e dei trust ha do vuto cedere di fronte al nazionalismo dei piccoli borghesi francesi, così come il socialismo ha dovuto cedere di fronte alle masse di operai e di impiegati dominati dalle banche e dai trust. Ma si è prodotta una controreazione inattesa: le patrie fasciste sono costrette, per mantenersi in vita, a fare del socialismo dietro le loro dogane. Ne devono fare molto e ne dovranno fare ancora di più in seguito.

Non è certo il socialismo che sognavano quanti fino a ieri venivano definiti socialisti: sono pronto ad ammetterlo. Ma anche il socialismo di Stalin non è quello che essi sognavano.

Ciò che importa è che questo socialismo sia stato suffi ciente ad incrinare per sempre il meccanismo del capita lismo mercantile così come funzionava nel secolo scorso. (p. 195)

 

Il    capitalismo è diventato una forza greve, inerte, conser vatrice, animata solo da istinti difensivi. Istinti che fini- scono con il rivoltarsi cpntro di esso spingendolo a conse gnarsi ad una forza estranea e in fondo nemica. Il capita lismo sfinito ha bisogno dello Stato per risollevarsi: quindi si dà anima e corpo allo Stato fascista. Il meccanismo in terno del capitalismo conduce direttamente alla sua: statiz zazione. (p. 196)

 


La costruzione socialista assume da noi un aspetto completamente diffe rente: un aspetto di consolidamento, di conservazione, di restaurazione dello spirito.

Il    socialismo si è inserito nell’edificio capitalista senza rovesciarlo. In Russia invece è stata distrutta la fragile impalcatura capitalista, appoggiata all’edificio medievale dello zarismo: la distruzione è stata minima. In Europa non è possibile rovesciare un edificio complesso, ricco, che ha radici e ramifidazioni a tutti i livelli e in ogni classe. Bisogna invece rinforzare la costruzione, arricchirla, modu larla secondo un ritmo nuovo. E ciò è tanto più facile dal momento che, come ho appena detto, il capitalismo ha ral lentato da solo la marcia ed ha preso l’andatura di una amministrazione statale senza esserlo ancora diventato.

Questo è il concetto centrale del fascismo. Chi non vede in esso la dottrina dello stesso socialismo riformista? Il •fascismo è un socialismo riformista, ma un socialismo che, a parer mio, ha maggiore ricchezza ed energia di quello dei vecchi partiti classici. (p. 197)

 

In effetti, se i capitalisti da un lato rinunciano ai possibili benefici che avrebbero ricavato dal l’estensione internazionale dei loro affari e dallo sfrutta mento sempre più intensivo di un’economia universale


  • che aveva ancora delle possibilità dinanzi a sé — dal l’altro vogliono e possono conservare i loro benefici attuali, che sono ancora rilevanti, a vantaggio di un pugno di grandi amministratori. Per essi la questione è tutta qui.
  1. grandi capitalisti in Germania ed in Italia si rasse gnano ad essere dei commissari del popolo per l’economia

ma commissari lautamente pagati, con stipendi che vanno dai cinquecentomila franchi in su.

Non sono più i proprietari e nemmeno i padroni che la critica marxista denunciava: sono alti funzionari, non per diritto di eredità ma reclutati per cooptazione, che divi dono prestigio e influenza con i loro sorveglianti statali.

Ecco la piega che le cose sembrano prendere al mo mento.

La conserveranno? I fascisti, gli hitleriani, dicono di no. Noi galvanizzeremo questo organismo modificandolo — af fermano —, lo impregneremo del senso dei valori spirituali che abbiamo riconquistato, sostituiremo la molla del lucro con quella del dovere.

In fondo essi tendono ad una concezione spirituale ed estetica della società. Bisogna lavorare per fare della Ger mania un tutto armonioso, un insieme limitato, chiuso, autosufficiente e soddisfatto di sé. Ognuno vive solo per gioire dèi tutto. È proprio la civiltà che può svilupparsi sotto il segno del cinema. È un ideale statico.

Sentire i tedeschi parlare del loro dinamismo mi fa ridere; meglio: mi fa sorridere amaramente, come mi ac cade quando sento i francesi parlare della loro chiarezza o gli inglesi del loro fair play. Quando si è dinamici non

si ha il tempo di accorgersene e ancora meno di parlarne. Vecchi ritornelli. Ritornelli di vecchie patrie rammollite. (pp. 198-199)

 

Tutto il sistema hitleriano vive all’insegna della staticità oltre che del razzismo e si esprime nella concezione della società che non è più economica ma « spirituale », gerar- chizzata, ordinata in corporazioni: va dolcemente verso il sistema indù delle caste, verso il modello di Manu caro a Nietzsche, passando per il Medioevo delle corporazioni.

Pragmatismo, relativismo e mobilismo estremi condu cono così, bruscamente, al risultato opposto, aH’immobilità. E quel che succede nella filosofia di Nietzsche dove, quando egli lascia indovinare il suo vero carattere, si vede improv visamente che questo apostolo deirazìone per l’azione sogna proprio il sistema delle caste.

Staticità interna e verso l’esterno. Staticità interna, per ché non è possibile che sia mobile una gerarchia così bella; se si muovesse farebbe delle pieghe, si sgualcirebbe, si spez zerebbe. Quando i giovani hitleriani ci mostrano con orgo glio nei loro uffici i ritratti sapientemente disposti dei Fiihrer, dal Fiihrer del Reich a quello della squadra, ci si crede trasportati in una sorta d’Egitto. Immobilismo an cora, per la ragione ben conosciuta — e cioè che pur tra sformandola, il nazismo eredita la sclerosi del capitalismo insieme alla pesantezza del socialismo marxista. Si ribella contro tutto ciò, ma vi corre incontro.

Immobilismo verso l’esterno. La Germania porta a ter mine la propria unità, cerca a tentoni l’esatto confine ad Est non ancora del tutto fissato.

Ha l’aria di volersi espandere; in realtà si chiude in se stessa, si irrigidisce. Si inasprisce, si irrigidisce accanto alla massa slava, che invece è ancora dinamica, prolifica. (p. 199)

 

La nuova Germania che sorge e trionfa in questo mo mento ha ragione di decantare tanto la sua gioventù, di metterla tanto in evidenza: è l’ultima generazione nume rosa in Germania. La curva, ascendente fino ad essa, ridi scenderà. Tra venti anni, salvo contrordine, la Germania comincerà a spopolarsi: sarà un modo di risolvere (come in Inghilterra e in Francia) il problema della disoccupazione. (p. 200)

 


E in effetti trovo la triste conferma dei miei timori nel fatto che, contemporaneamente al capitalismo, è il socialismo che dà segni di stanchezza, di decomposizione attra verso il suo stesso ultimo slancio fascista. (pp. 200-201)

 

La Germania di oggi è l’Europa troppo debole per dif fondere il capitalismo nel mondo e per accettare compieta- mente il socialismo; è l’Europa che stringe sul petto stanco queste due forze, questi due miti, e tenta di combinarli insieme in uno di quei sincretismi di cui la Roma Impe riale ci ha dato molti esempi. Questi sincretismi, sia reli giosi che sociali, sono i segni di una civiltà che mentre cade in ginocchio solleva il capo orgogliosamente.

(Marzo 1934.)(pp. 200-201)

 

VI – ITINERARIO p. 203

 

Sono nato da una famiglia piccolo-borghese, cattolica, repubblicana e nazionalista. Prima della guerra, tra i quin dici ed i vent’anni, scoprii in una volta sola, attraverso diverse personalità enigmatiche, i vari movimenti politici deirepoca: un cattolicesimo socializzante, modernista, paci fista; un radicalismo anticlericale, moderatamente nazio nale, verbalmente sociale; un socialismo parlamentare; un sindacalismo anarcoide. Allo stesso tempo ebbi occasione di avvicinare la setta ufficiale che confonde repubblica, democrazia, patria e capitale. Tutte queste sette si offrivano confusamente alla mia mente. In ciascuna vi era qualcosa che mi piaceva e qualcos’altro che mi repugnava.

Tuttavia fin da allora credevo fermamente in alcuni princìpi che avevo ricavato da tutte queste ideologie: mi sentivo repubblicano, ma interessato alla cooperazione so ciale; laico, ma per nulla antireligioso; patriota, ma non senza una punta di ironia e non senza uno sguardo volto sempre al di là delle frontiere, e sempre pronto di fronte a qualsiasi avvenimento a provare la validità di un’opinione contrapponendola a un’altra contraria. Come ora, disprez zavo la mentalità chiusa delle destre, il contrasto tra il loro calore patriottico e la freddezza di fronte ai problemi so ciali, ma apprezzavo la loro vaga aspirazione all’ordine e allo stile. Disprezzavo lo sbracamento delle sinistre, la dif fidenza di fronte alla fierezza e all’energia fisica; eppure stimavo la loro amarezza. (P. 205)

 

Sotto la mia prima giacca borghese, portando in me le idee appassionate di Interrogation (1917), la raccolta delle mie poesie di guerra, ero già fascista senza saperlo. […]

Action Frangaise e vecchia Destra. — Pur ascoltando stupito le vanterie dei giovani borghesi miei amici sulla nascita del partito comunista in cui militavano, facevo roc chiolino alVAction Frangaise. Intorno al genio seducente di Maurras c’erano uomini educati, istruiti, coraggiosi e uniti fra loro. Questa mia simpatia, che non si manifestò né con adesioni di gruppo né con amicizie più o meno dura ture, non fu accompagnata da convergenze ideologiche. Innanzitutto non ero monarchico. (P. 206)

 

Il mio socia lismo doveva scoprire il suo più saldo fondamento sotto il mio nazionalismo.

Tuttavia ho debuttato nella letteratura politica proprio in questa atmosfera. Nel 1922 Mesure de la France mi procurò la prima udienza pubblica, a destra e a sinistra. In Mesure de la France accettavo il nazionalismo come un fatto che non poteva essere negato ma doveva essere superato. In esso appariva già un embrione del mio pensiero europeista. Infatti riflettevo sulla Francia in una prospet tiva europea; la collegavo ad una ragione europea attra verso le riflessioni, i rimorsi, le inquietudini, i doveri che le suggerivo.

Mesure de la France era concepito in modo angusto. Per esempio, il problema sociale lo prospettavo esclusiva- mente nella prospettiva data dalla macchina. Abbagliato e spaventato dai successi del capitalismo americano, non riuscivo a scorgervi che i pericoli della macchina; denun ciavo, credendo di risolvere. Negavo fin da allora il mito del proletariato.

In seguito tentai più o meno di rinnovare i vecchi partiti repubblicani conservatori, naturalmente scuotendoli. Ebbi un primo choc in seguito ai fatti d’Italia, e composi una specie di programma per una Giovane Destra in cui espo nevo idee che, a giudizio di Paul Souday, erano tutte di sinistra.

Giunse infine il 1925, l’anno della grande svolta. Fu il tempo della rottura con la maggior parte dei miei amici che erano di sinistra e che andavano verso il comuniSmo in cui sarebbero sprofondati anche troppo. (P. 207)

Allargai l’orizzonte, esaminai i problemi in una prospet tiva più ampia. […]

Sentivo la profonda debolezza dei partiti europei sedicenti prole tari: in Germania ed in Inghilterra non avevano forse per duto la partita già da allora?

Vedevo altresì il capitalismo evolversi spontaneamente verso il suo contrario: non era più una forza spontanea, liberale, anarchica, ma una forma che cedeva, che poteva contare ormai solo suirorganizzazione, sulla costrizione. Concepito da borghesi, il socialismo non era che il presen timento del destino che attendeva la civiltà borghese, por tata a mutarsi nel suo contrario come tutte le cose umane. (P. 208)

 

Di fronte a questa realtà trovavo sterile assumere la posizione del vecchio socialista, detrattore di un regime che finiva di esistere. Volevo piuttosto diventare il consi gliere intellettuale della società così come si presentava ai miei occhi: in via di trasformazione. Una trasformazione non ancora compiutasi e che rischiava di interrompersi a causa di un ostacolo: il nazionalismo. Indicai nel nazio nalismo il rottame che impediva il cammino dall’anarchia alla gerarchia. In questa prospettiva mi aggrappai al mito di Ginevra. Volevo fare di Ginevra il simbolo di un indu strialismo intelligente, in grado di capire che l’angustia delle basi nazionali contrastava con l’esigenza universali stica della sua economia. Da ciò nacque la mia seconda opera politica, Genève ou Moscou (1927), che mi valse molta silenziosa diffidenza a destra e a sinistra. In questo libro, infatti, analizzavo e denunciavo il mito del proletariato, e nello stesso tempo mostravo il nazionalismo non più come una fatalità ma come un pericoloso arzigogolamento intorno ad un fatto un tempo vitale ma allora divenuto sterile, una sequela di parole che spingevano di nuovo alla guerra — al la guerra divenuta per l’Europa uno spaventoso flagello.

Progettai un patriottismo europeo su tre massime ar dite: necessità di superare l’inaridimento spirituale delle patrie, necessità di creare una vasta autarchia economica a misura del continente, necessità di evitare il suicidio per asfissia.

Attraverso tutto ciò si percepiva un sordo travaglio verso il socialismo. (P. 209)

Lenin scatena nel mondo la reazione anti democratica, antiliberale e antiparlamentare nello stesso momento in cui crea per sempre il socialismo economico. Mussolini e Hitler, sotto opposte apparenze, fanno lo stesso. (P. 210)

 

Avevo tuttavia aderito al Redressement frangais, un movimento che non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo della serie di stupidi tentativi di fascismo in Francia. Credevo che avreb be sviluppato un serio programma di collaborazione fra le classi, ma dopo aver visto Valois e Romier adoprarsi vana mente sotto lo sguardo spento di alcuni grandi capitalisti non vi tornai più. Tuttavia mi ero vantato poco prima, di fronte ai surrealisti che si volgevano al comuniSmo, di essere « tra Frangois-Poncet e Caillaux ».

Sul finire degli anni Venti pensai di riawicinarmi ai partiti di sinistra: ormai guardavo senza speranza alla cecità internazionale della destra. In tal modo ero convinto di servire prima di tutto il mio patriottismo europeo. Niente mi sembrava più vergognoso e più penoso della discordia di venti popoli chiusi nella loro stretta penisola, tra i grandi imperi, fra le immense autarchie della Russia e deirAmerica e in futuro del Giappone. Mi riavvicinai quindi a coloro che, anche se in una prospettiva ormai superata, sembravano muoversi nella mia stessa direzione.  (P.210-211)

 

Il guaio fu che questa nuova ondata di velleità d’azione, di adesione, di fedeltà che mi spingeva a sinistra dopo avermi portato a destra, stava per farmi perdere, malgrado le reticenze e le impennate, un po’ della mia lucidità. (P.212)

 

Malgrado tutto, dunque, non perdevo ogni contatto con ciò da cui mi ero maggiormente allontanato: per esempio,

lo    spirito nazionalista. Il nazionalismo che era in me — e. che mi aveva già permesso, al contrario dei miei amici filocomunisti, di intuire fin dal 1918 il carattere specifi camente russo della rivoluzione bolscevica — riaccenden dosi mi portò, nel 1931, ad attenuare le idee europeiste e ad analizzare le differenze nell’evoluzione nazionalista dei diversi popoli; differenze che preparano un nuovo conflitto. Pubblicai un terzo saggio — VEurope contre les Patries — nel quale mostravo il contrasto tra l’Europa occidentale, immobile più che mai, e l’Europa centrale ed orientale tormentate dall’incompiutezza delle loro forme politiche. (P. 213)

 

Rinnovavo inoltre la mia ferma condanna della guerra, che con il suo infinito orrore sarebbe stata fatale ad una civiltà stanca, ed affermavo che non avrei partecipato ad un’altra guerra: nel momento del diluvio non ce da prendere nessuna posizione.

La mia fede europea, la fede nella Società delle Nazioni, si affermava più che mai. Oggi, malgrado le difficoltà, essa è ancora salda. Attendo le metamorfosi dell’idea. f

Ho denunciato il nazionalismo di fronte ai capitalisti;

  1. denuncio ora davanti ai fascisti. A questo proposito, precedo di gran lunga tutti. Gli uomini di pensiero, comun que, non tarderanno a ritornare ad una concezione europea, come quanti sono investiti della responsabilità del potere: ne fanno fede Mussolini, Stalin e senza dubbio Hitler.

Nuovo socialismo e vecchi partiti socialisti — Nel giu gno del 1932 tenni a Buenos Aires alcune conferenze in cui esposi i miei sogni politici. (P. 214)

 

In quei tempi la mia preveggenza si adoperava moltis simo ma non riusciva a liberarmi completamente. Vedevo benissimo che il socialismo avanzava attraverso l’hitlerismo e me ne rallegravo perché allora — come in seguito •— credevo al fondamento di ogni dottrina socialista (esclusa quella marxista). D’altra parte, però, nella situazione parti colare della Francia, mi sforzavo di non vedere più in là del mio naso, e credevo che il mio socialismo mi obbligasse ad entrare nei rigidi quadri dei vecchi partiti proletari. Ne derivava quindi una contraddizione apparente nel mio at teggiamento: analizzavo con simpatia il fascismo e lo stali nismo e nello stesso tempo facevo dichiarazioni di socia lismo democratico. Per capire la mia posizione bisogna tener presente che assumevo un atteggiamento che teneva conto della situazione mondiale e, nel caso specifico, di quella franco-argentina.[…]

Sono profondamente con vinto che Io stalinismo sia un semi-fascismo ed il fascismo un semi-socialismo. (P. 215)

 

Nel 1930 mi dichiaravo socialista. Era come se Jourdain si fosse dichiarato prosatore. Oggi tutti sono socialisti, poiché tutti, consapevolmente o no, fanno del socialismo. I capitalisti impastoiati nel fallimento del regime e nel capovolgimento dei suoi valori (soppressione della concorrenza, appello alla protezione dello Stato, ridu zione neirambito dello Stato nazionalista della libertà di profitto), abbandonati a causa del loro nazionalismo al socialismo in veste fascista, lavorano contro se stessi, men tre credono di difendersi ancora. Fanno davvero come gli aristocratici del XVIII secolo, che sceglievano da soli la loro caratterizzazione sociale. Così il mio socialismo non era quello proletario dei comunisti: era evidentemente un socialismo fascista, un socialismo riformista.

Quello che pensavo per l’Europa non ero però ancora in grado di pensarlo per la Francia. AI mio ritorno scivolai un po’ più a sinistra. (PP. 215-216)

 

Nazionalismo capitalista e socialismo fascista. — Arri viamo infine al periodo attuale, che si delinea abbastanza attraverso gli altri scritti qui riuniti.

Il    capitalismo e il socialismo sono strettamente con giunti. L’uno suscita l’altro in un moto di paura.

È risaputo che gli esseri nutrono nello stesso tempo desideri diversi, ma che fra questi solo uno sarà realizzato. È un po’ la stessa cosa per il fascismo che porta in sé socialismo e nazionalismo. Il nazionalismo è l’asse della azione fascista. Un’asse non è però un fine.

Al fascismo importa soprattutto la rivoluzione sociale,

il    cammino lento, difficile, sconvolgente, sottile, secondo le possibilità europee, verso il socialismo. Se esistessero an cora dei difensori coscienti e sistematici del capitalismo, potrebbero accusare il fascismo di servirsi del ricatto nazio nalista per imporre il controllo dello Stato sull’economia.

  1. suoi difensori meno inconsapevoli e sprovveduti non sono lontani dal farlo. Ma la negazione furiosa dei socialisti e dei comunisti impedisce di vedere questa verità.

Non solo il nazionalismo è solo un pretesto, ma è anche una semplice tappa nell’evoluzione socialista del fascismo. Se infatti inizialmente i paesi fascisti dell’Europa possono trovare un rimedio nel quadro della nazione al soffoca mento dell’economia, ben presto però le limitazioni nazio nali si riveleranno per l’economia corretta crudeli e dan nose. Quindi, se vogliamo evitare una guerra pazzesca, do vremo tornare a Ginevra. (P. 217)

Sono giustificato dell’apparente contraddizione di oggi, consistente nel fatto che del fascismo mi interessa un solo aspetto a detrimento di tutti gli altri: il programma sociale ed economico, la direzione nuova che dà al socialismo, il riformismo attivo che realizza, è proprio dell’intellettuale operare queste dissociazioni.

Pur analizzando severamente il principio della dittatura e l’idea nazionalista, apprezzo tuttavia il fascismo conside randolo uno stadio inevitabile dell’evoluzione sociale.

Dopo aver letto queste righe, si può immaginare come abbia trovato grandi soddisfazioni nel clima del fascismo mio ondeggiamento vi si trova a suo agio e net è giusti ficato.[…]

 

Io lavorerò forse — ed anzi senza dubbio ho già lavorato — alla costituzione di un regime fascista in Fran cia, ma resterò sempre libero e indipendente nei confronti di esso, così come lo sono stato in passato. (p. 218)

 

Da molti anni, pur sentendo profondamente il genio francese, ma avendo esaminato ancora di più la cultura particolare degli altri paesi europei, per motivi quindi di concreta esperienza — non certo ro mantici, vaghi, approssimativi — credo alla necessità di una federazione europea, solo modo per evitare la rovina economica e la distruzione finale di tutte le patrie europee con la guerra.

D’altro canto, disprezzando il capitalismo ormai sfinito, che sopravvive grazie alla corruzione della democrazia, e nello stesso tempo disprezzando il socialismo proletario che da più di un secolo dà prova — nella cattiva sorte in

Europa, nella buona sorte in Russia — anzi ha dato cento prove di essere semplicemente un mito, io mi riconosco e mi dichiaro socialista.

Infine, benché nutrito di cultura cattolica e sebbene conosca le antiche dottrine dalle quali essa discende, non credo possibile la restaurazione totale ed esclusiva del rea lismo spirituale che preconizzano imminente la scuola maur- rassiana e quella tomista, innamorate della coerenza e della consequenzialità. Rifiuto questo dogmatismo come l’altro che gli fa da pendant -— il marxismo — che vorrebbe essere anche un realismo ed un umanismo. (pp. 220-221)

 

Se l’intellettuale si impegna nell’azione lo fa perché si abbandona ad una passione momentanea e senza seguito. (p. 222)

 

Le mie velleità di impegno hanno spesso coinciso con i periodi di depressione.[…]

Ma il segreto dei miei impulsi verso l’azione deriva anche e in gran parte dalle mie amicizie. Le amicizie giocano un ruolo di primo piano nella mia vita di intellettuale, senza dubbio superiore a quello dei miei amori. È curioso che le mie amicizie siano sempre state di sinistra. (p. 223)

 

L’evoluzione del mio impegno ideologico sembra seguire la curva della mia fortuna materiale. Quando propendevo per la destra, avevo denaro; quando simpatizzavo con la sinistra smettevo di averne. E -mai del tutto a sinistra o del tutto a destra: non ho mai avuto molto denaro e non ne sono mai stato totalmente privo.


Limitarsi a dire questo sarebbe come dimenticare che ho scelto esplicitamente di non avere denaro, dopo aver consumato allegramente quello che avevo ed evitato più di un mezzo che mi si offriva per averne dell’altro. Anche qui la mia linea di condotta si è sempre presentata come una continua oscillazione, ma perseverante nella delicata media.

(Agosto 1934.) (p. 225)

 

BIBLIOGRAFIA  p. 227