PAOLO CARILE – LOUIS-FERDINAND CÉLINE. UN ALLUCINATO DI GENIO
PATRON – 1969
PREMESSA p.7
Pubblichiamo qui in volume una breve serie di saggi consacrati a Louis-Ferdinand Céline. (p.7)
PREFAZIONE
CÉLINE AU-DELA DE LA MORT
Di Dominique De Roux p.11
I
L.F. CÉLINE, UN ALLUCINATO DI GENIO p.15
UNA TENACE INCOMPRENSIONE p.17
È opinione abbastanza diffusa inoltre che tutto, o quasi, sia stato chiarito intorno alle peregrinazioni, alle esperienze umane, professionali ed artistiche di Céline, sì da poter supporre di essere in possesso ormai di un ritratto fedele dell’uomo e dello scrittore.
Ma, in verità, se si è scritto parecchio, non si può tuttavia dire che la maggior parte di questi scritti abbia portato dei contributi attendibili alla biografia psicologica ed intellettuale dell’artista. In effetti molto inchiostro è stato versato per interpretare, in un senso o nell’altro, il suo preteso « engagement » politico,1 che è stato avvicinato con disinvoltura alle ideologie più contrastanti; si è parlato a non finire delle sue manie, delle sue « hantises », delle sue collere; si è cercato affannosamente e con risultati molto incerti, di catalogarlo, di classificarlo secondo una tipologia umana e letteraria inadatta ad interpretare la sua prepotente originalità.
Nel complesso si può quindi affermare che, lui vivente, la storia della sua critica è stata in fondo, per lo più, la storia di un lungo fraintendimento, di una tenace incomprensione.(pp.17-18)
[…]è nostra intenzione tuttavia puntualizzare quelli che ci paiono i tratti salienti della personalità di Céline allo scopo soprattutto di affrontare la lettura delle sue opere partendo da un’immagine il più possibile autentica dell’autore stesso.
Certo, il personaggio, per la singolarità del suo temperamento e dei suoi atteggiamenti, totalmente disinteressati ed anticonformisti, si prestava a diventare un « caso » atipico che stimolava ogni genere di curiosità ma favoriva, nel contempo, gli equivoci. (p.19)
Céline è sempre stato una figura « scomoda » e la sua vita come la sua opera una continua provocazione, uno scandalo difficilmente dissimulabile. Le sue azioni e i suoi scritti rappresentavano altrettante sfide al buon senso, alle abitudini borghesi, agli schieramenti politici, all’opportunismo generalizzato, 4 alle mode letterarie correnti, alla lingua accademica e allo stile narrativo, consacrati da una tenace tradizione.
Céline fu un uomo libero che fece un uso insolente e pressoché illimitato della sua libertà.5 Di fronte a lui non era possibile l’indifferenza, una posizione neutrale: si era spinti a schierarsi d’istinto « pour ou contre ». (pp.19-20)
Ogni sua opera è stata un avvenimento che ha sconcertato la repubblica delle lettere e ha fatto gridare al capolavoro o allo scandalo sotto la spinta di intuizioni, di simpatie, ovvero di umori e pregiudizi; rare sono le pagine a lui dedicate che non abbiano subito il condizionamento di fattori biografici o comunque extraletterari.
Molto, moltissimo di quanto è stato scritto sull’artista francese rimane quindi troppo legato alle complesse vicende sociali e politiche comprese tra il primo conflitto mondiale e il secondo dopoguerra, come anche al clima psicologico di quell’epoca, per poter servire, ancor oggi, da sicuro orientamento alla lettura di Céline.
Sono ben note, a questo proposito, le interferenze politiche che hanno spinto alcuni ad accusare lo scrittore volta a volta, di filocomunismo, antisemitismo, collaborazionismo, anarchismo, ed a strumentalizzare poi tali giudizi ideologici per esprimere riserve sul valore della sua opera letteraria.(p.21)
Céline è visto con ostinazione come una sorta di cometa sfolgorante, piombata sul Parnaso francese con un nucleo costituito dai due primi romanzi al quale è seguita una chioma lampeggiante formata dai libelli e poi una lunga coda, sempre meno vivida, composta dalla serie degli altri scritti, la cui originalità, salvo rari sprazzi, si sarebbe andata spegnendo in un verboso delirio.(p.23)
2 – IL TRAMONTO DELLE LEGGENDE p.25
La morte dello scrittore ha segnato comunque, fatalmente, l’inizio di una seconda stagione critica più portata verso la ricognizione totale dell’itinerario umano e letterario dell’artista e verso i primi bilanci complessivi.
Un contributo fondamentale a questa più recente fase degli studi celiniani è stato offerto da due grossi quaderni dell’« Herne » (n. 3, 1963; n. 5, 1965) che, sotto l’intelligente e coraggiosa direzione di Dominique de Roux, hanno raccolto un « corpus » considerevolissimo di inediti, epistolari, documenti, testimonianze e studi particolari. (p.25)
Il « dossier » risulta quindi un lavoro propedeutico, pieno di contraddizioni, di giu-dizi contrastanti, nel quale ogni contributo ha una sua assoluta autonomia. Marc Hanrez, Nicole Debrie-Panel e Poi Van- dromme, dal canto loro, hanno pubblicato nel 1961 e nel 1963 13 i più ampi studi consacrati all’autore di Nord. Pur non avendo la possibilità di utilizzare il materiale raccolto successivamente dai suddetti « Cahiers », i tre critici hanno tentato di dare un’interpretazione globale dell’opera celiniana, limitandosi intelligentemente, per quanto riguarda le vicende umane (sulle quali ci si era sempre soffermati con eccessivo interesse e scarsa informazione) ai dati essenziali.
Il pregio di questi lavori consiste quindi, soprattutto, nell’analisi letteraria di quasi tutti gli scritti celiniani (sono esclusi solo gli inediti pubblicati più recentemente). (pp.25-26)
In questo senso lo studio dello Hanrez ci pare sia degno di particolare interesse soprattutto nella parte dedicata allo stile e alla lingua, che egli esamina con precisione, ricavandone un quadro suggestivo delle innovazioni sintattiche, morfologiche, lessicali e ortografiche della prosa celiniana.[…]
A sua volta, la Debrie-Panel, nel suo saggio, enuclea con efficacia i grandi temi della narrativa celiniana. (p.27)
Céline è considerato quindi come un grande artista che, scagliandosi contro tutti i falsi idoli della nostra società borghese e denunciando senza reticenze la vertigine collettiva di un’umanità che egli vede correre verso la propria rovina, ha dato una sua risposta, al di fuori delle ideologie politiche, nella più sbrigliata finzione romanzesca e in una lingua vibrante di sofferto lirismo, al problema della condizione e del destino umani. (p.28)
Le pagine del Vandromme, a loro volta, si impongono all’attenzione per l’acutezza con la quale il critico ha saputo rievocare quello che crediamo sia il volto autentico dello scrittore e per la semplicità e la chiarezza con cui ha saputo leggerne le opere. La« lettura » del Vandromme tuttavia è quasi esclusivamente effettuata in chiave di interpretazione psicologica e mira alla enucleazione dei temi di fondo della « Weltanschauung » celiniana. (pp.28-29)
[…]sono apparsi per lo più scritti di scarsa originalità, di tono informativo o polemico, e riecheggianti le discussioni della critica francese. Non ci pare quindi metta conto soffermavisi.
Come si è detto siamo ad una prima tappa che può anche considerarsi un nuovo punto di partenza. Sgomberato il terreno dalle polemiche extraletterarie, restituiti i tratti autentici delPuomo-scrittore attraverso il mosaico « sconnesso » delle testimonianze dei « Cahiers de l’Herne » grazie all’opera del de Roux, ci si può ormai allontanare da tutto quanto costituisce la storia esteriore, la biografia pubblica di Céline. È ormai chiaro che, nonostante tutte le evidenti interferenze con l’opera letteraria, tale biografia incide meno di quanto si supponeva sulla leggibilità dei suoi scritti e sui problemi connessi con la sua tecnica narrativa.
Pare ormai senza dubbio più opportuno portare avanti un discorso esclusivamente letterario (p.31)
3 – L’ITINERARIO DEL ROMANZO CELINIANO p.32
L’opera celiniana che ha fatto più rumore, quella di cui anche i lettori non specialisti conoscono almeno il titolo, è certo stata la prima. È stata quel Voyage che ha disorientato un po’ tutti, critici e lettori.
La si è vista quale un’opera decisamente nuova, un’opera, come suol dirsi, di « rottura », che demoliva con prepotenza una gloriosa tradizione romanzesca fondata su una concezione umanistica dell’uomo. Questo primo romanzo metteva decisamente in crisi, e per di più con immagini di inusitata violenza, i valori essenziali su cui pareva fondata la nostra civiltà occidentale, scoprendone gli equivoci e le ipocrisie di fondo. La sua lettura rivelava una visione del mondo che postula l’amaro sentimento di uno sfacelo generale dovuto alla scomparsa di qualsiasi certezza, allo svuotamento di ogni valore tradizionale, in definitiva ad una mancanza quasi totale di fiducia nell’uomo. (p.32)
Il pessimismo che informa tutto il romanzo celi- niano, l’odio per la guerra, l’incombente sentimento dell’assurdo, come, d’altra parte, l’orrore quasi fisico per una decadenza che si avverte, nonostante i prodigi della tecnica, in tutti i settori dell’umano operare, sono in fondo temi ed atteggiamenti che si ritrovano, sia pure non in forma così acuta e viscerale, anche in altri scrittori di quell’epoca[…](p.33)
L’originalità del Voyage[…]a nostro avviso, si manifesta altresì nella struttura del romanzo, nella tecnica con cui è stato composto, come pure nel gioco delle metafore inedite e nell’uso di un originale impasto linguistico, libero da ogni convenzionale riguardo verso i nostri segreti pudori, verso le nostre meschine ipocrisie mascherate di perbenismo borghese. (p.36)
Il Voyage invece, anche se Céline procederà assai più avanti nella via delle innovazioni, presenta già non pochi aspetti inediti rispetto allo schema narrativo enunciato. Il lettore, ad esempio, è gettato « in medias res », è sollecitato a sintonizzarsi, a coincidere, di primo acchito, con una coscienza in situazione, con un personaggio immerso nell’opacità di una esperienza che sfugge alla razionalizzazione. La struttura del romanzo, poi, non ha l’aspetto di una parabola conclusa, la narrazione è piuttosto « aperta », procede in un flusso continuo senza una vera e propria suddivisione in capitoli, con scene dirette, « montate » per mezzo di una tecnica quasi cinematografica, costituite da una successione di momenti essenziali giustapposti senza precisi collegamenti. L’inizio e la fine paiono casuali: più che riflettere i veri confini logico-psicologici della vicenda, essi possono sembrare frutto degli umori o della fantasia del romanziere. (p.39)
A ciò va aggiunto che, nel contesto di una trama apparentemente realistica, ovvero legata ad un minimo di verosimiglianza, lo scrittore inserisce, a volte in modo improvviso, descrizioni di avvenimenti fan-tastici, anacronistici, di atmosfere irreali; la realtà romanzesca ed il sogno si mescolano nel corso di una narrazione che sul modulo proustiano si spezza, retrocede, riprende, dopo mille volute, senza una precisa successione cronologica.
Quanto alla struttura concettuale, di cui si è parlato in merito al tipo di romanzo tradizionale, essa ci pare invece ancora presente, in questa prima prova narrativa celiniana, anche se nelle forme e con i contenuti eterodossi già esaminati.
Le linee essenziali della portata ideologica del Voyage ci sono ormai note; ma si può aggiungere che Céline, pur non esponendo una concezione del mondo rigorosa e coerente (e questa potrebbe anche essere una novità, dopo la lunga serie di precarie certezze a cui ci avevano abituato gran parte dei romanzi fino a quell’epoca), frutto di una meditata filosofia della vita, manifesta una intermittente ma tenace preoccupazione morale che resta sottesa a tutto il romanzo.(p.41)
Ma è tempo di riprendere il filo centrale del nostro dire e individuare quanto ancora di originale presenta il Voyage.
[…]
il racconto di un « io » parlante, Ferdinand-Bardamu, — nel quale si identificano autore e personaggio — il quale descrive e giudica unicamente quanto è oggetto del proprio interesse e lo giudica dal proprio punto di vista soggettivo, magari attraverso la prospettiva deformata dalle sue particolari ossessioni.
Il « punto di vista »33 non è quindi più esterno,ma inserito nella vicenda attraverso gli occhi e la mente del protagonista. (p.43-44)
L’insistenza con la quale ci siamo soffermati su certi evidenti aspetti moralistici del primo romanzo celiniano non deve tuttavia nascondere la comicità e l’umorismo di cui sono anche ricche numerose pagine dell’opera. (p.44)
Comicità ed umorismo ci pare abbiano una du-plice funzione nell’opera del medico-scrittore, fin da questa sua prima prova. In primo luogo esse fungono da fattori sdrammatizzanti nelle situazioni di più acuta crisi tragico-drammatica. Quando l’autore ha spinto una situazione al limite dell’umana- mente possibile, quando la violenza, il pessimismo, la stupidità di certi personaggi hanno raggiunto punte intollerabili, ecco che la sapiente penna dell’artista volge la vicenda al riso o allo scherno, quasi a voler significare che, in fondo, « au bout de la nuit », una risata, una battuta ironica, possono sempre riequilibrare il delirio più cupo, il più acuto sentimento di alienazione; possono sempre offrire un sia pur effimero chiarore, la luce dell’intelligenza, all’incerto cammino dei suoi personaggi.
Ma esse assumono altresì una funzione che definiremmo parodistica, non solo rispetto al contenuto della vicenda narrata, ma anche verso il valore tradizionale attribuito al genere narrativo, cioè, in ultima analisi, alla letteratura. Il suo umorismo, quindi, si rivolge, e in maniera più sensibile nelle opere successive, verso la letteratura intesa in senso tradizionale, concepita cioè come istituzione che ha assunto una funzione rappresentativa nella società borghese.34 Céline non crede in tale funzione, tuttociò che è ufficiale, consacrato, universalmente accettato, gli ripugna, lo manda in escandescenze o lo stimola al sarcasmo più pungente; conosce il valore effimero, contradittorio di tutto quanto la nostra società ama ammantare di solennità ed egli invece è portato a servirsi della letteratura, meglio, della propria arte, come di un « jeu de massacre » per distruggere questa pretesa sacralità.
(pp.44-45-46)
Qualsiasi accenno all’autore del Voyage non può ovviamente andare disgiunto da un analogo riferimento alla lingua celiniana, altrettanto ricca di innovazioni sintattiche e lessicali.(p.47)
Quattro anni dopo il Voyage, Céline diede alle stampe un secondo grosso romanzo Mort à crédit, che, tuttavia, non fu accolto dalla critica con un concerto quasi unanime di giudizi come l’opera precedente.(p.48)
La struttura generale, l’impianto del romanzo, non si allontana, in sostanza, dal Voyage. Si ritrova lo stesso tipo di narrazione « aperta », senza un piano preordinato che organizzi programmaticamente la vicenda, come pure si ripetono le stesse interferenze tra realtà e sogno. La maggior parte dei personaggi, in modo analogo al Voyage, è descritta in forma sommaria. Essi ci sono noti soprattutto per le loro ossessioni, per i loro vizi che tendono a disumanizzarli.(p.50)
Il tono generale, il ritmo della narrazione, la lingua stessa, come pure la tipologia dei personaggi, subiscono trasformazioni più o meno sensibili.(p.51)
In Mort à crédit vi è una maggiore uniformità di stile e di tono, uniformità ottenuta tuttavia attraverso un processo di ulteriore abbassamento stilistico e linguistico.
In questo romanzo la prosa si frantuma in frasi tronche, spaziate da punti di sospensione; con sempre maggiore frequenza il ritmo diventa frenetico, « saccadé »; la lingua si trasforma in un « j argon » farcito di argotismi; la tinta di squallida volgarità si accentua; le oscenità si fanno più frequenti. Una insistente minuzia nelle descrizioni potrebbe fare pensare a preoccupazioni realistiche dello scrittore, ma è solo una prima impressione, i particolari realistici mettono per lo più in risalto scene sordide, violente, scabrose, mirano quindi a suscitare forti impressioni nel lettore, non cercano l’obbiettività di impersonali descrizioni, ogni dettaglio ha la funzione di un reattivo psicologico, tende ad esasperare la sensibilità del lettore. (p.52)
Questo processo di « degradazione » si nota anche nella costruzione dei personaggi che hanno perso molto della loro interiorità, delle normali reazioni psicologiche e intellettuali. Si sono trasformati in « pantins » che si agitano nevroticamente compiendo una serie di atti convulsi, senza la capacità di dialogare, di intendersi. La loro incomunicabilità si riflette in autolamentazioni ossessive, piagnistei, urla, impropreri, violenti scatti d’ira, tics nervosi. Appaiono irrimediabilmente immersi in situazioni « senza uscita », sempre braccati da una implacabile « malchance » che finisce per renderli ridicoli appunto per l’accumulazione abnorme delle disgrazie piccole e grandi.
[…]
Ferdinand non riflette più, reagisce quasi sempre come un automa, per un elementare spirito di sopravvivenza, agli stimoli esteriori, o oppone alle sollecitazioni della società, che egli vede profondamente ostile ed ingiusta, una sovrana indifferenza che si trasforma, durante il soggiorno inglese al Meanwell College, in un mutismo ostinato, unica manifestazione della sua ribellione, del suo rifiuto totale ad instaurare un qualsiasi rapporto con l’ambiente circostante. (p.53)
Negli otto anni che seguono la pubblicazione di Mort à crédit l’attività letteraria di Céline è orientata, attraverso i famosi quanto discussi « pam- phlets », verso un tipo di « engagement » di difficile definizione, se non si accettano le giustificazioni che ne fornisce l’autore medesimo nell’immediato dopoguerra.[…]
Perché il filone della narrativa riprenda il suo corso, bisogna quindi giungere alla primavera del 1944 quando, poco prima di partire per l’imprevisto esodo attraverso la Germania in sfacelo e per l’ancor più amara esperienza della prigionia danese, Céline pubblicò il suo terzo romanzo, Guignol’s Band. (p.54)
Con Guignol’s Band è stato abbandonato completamente il tipo del romanzo otto-novecentesco di cui, pur consci del valore approssimativo dello schema proposto, c’eravamo serviti come parametro
di raffronto. L’unico elemento che forse si può riallacciare ancora a quel tipo di romanzo, è l’importanza che conserva la trama; la successione degli accadimenti segue infatti una traccia ben individuabile nonostante i deliri verbali. Per il resto i personaggi, ad esempio, hanno perduto del tutto qualsiasi profondità umana, sono ridotti a tragiche figure di marionette che si agitano, sballottate dagli eventi, con movenze grottesche. (p.54-55)
La totale spersonalizzazione dei personaggi di Guignol’s Band attraverso l’annullamento della loro interiorità è intimamente correlata con altre profonde trasformazioni del romanzo che lo rendono molto differente dalle precedenti prove. Una di esse ad esempio è rappresentata dal nuovo stile del romanzo e della struttura della sua prosa. Avendo ridotto i personaggi a « clowns » scatenati in uno spettacolo di bravura, lo stile, di conseguenza, ha assunto un ritmo sempre più frenetico, tutto teso a produrre effetti musicali. Alla descrizione psico- logico-visiva se ne sostituisce un’altra di tipo sonoroimpressionistico che richiama, anzi imita, i ritmi del « jazz »:(p.56)
Le parole hanno la funzione di note, anzi di scoppi sonori, il loro valore semantico è spesso annullato e se la lingua, con i suoi mezzi tradizionali, non è sufficiente a creare il « crescendo » voluto, neologismi onomatopeici vengono numerosi in soccorso per accrescere l’effetto « cataclismatico » che la scena vuole evocare più che descrivere. Le frasi, a loro volta, disarticolate dalle ellissi, indicano solo una successione rapida di avvenimenti, di impulsi, di reazioni, ripetono ossessivamente alcuni particolari significativi, a volte acquistano il valore spettacolare di gesti ritmati dal fitto succedersi di esclamativi:(p.57)
Della dozzina di romanzi scritti da Céline non tutti però presentano un particolare interesse ai fini del nostro discorso. Alcuni di essi: Casse pipe (frammento, 1936?), Féerie pour une autre fois (1952), Normance (1954), non paiono offrire alcunelemento inedito di tecnica narrativa che giustifichi la necessità di soffermarvisi.
Volendo poi prescindere dagli orientamenti della nostra indagine, anche sul piano del valore letterario, abbiamo l’impressione che si tratti di opere minori e, nel caso di Féerie e di Normance, con una struttura eccessivamente caotica ed uno stile sempre più frantumato e frenetico che finisce col disorientare il lettore.
I romanzi che invece segnano, se non una fase di ulteriore evoluzione stilistica, tuttavia una notevole importanza nella definitiva messa a punto e nella completa realizzazione di quella tecnica di cui Guignol’s Band fu il primo prestigioso esempio, sono, in ordine cronologico di composizione: Le Pont de Londres (scritto nella primavera del 1944 quale continuazione di Guignol’s Band ma apparso postumo nel 1964), D’un chàteau l’autre (1957), Nord (1960) e Rigodon (1969). (p.59)
Quanto è stato osservato per Guignol’s Band può quindi essere esteso, ma solo nelle linee generali, pure all’opera successiva.(p.63)
Ma questa maggiore continuità narrativa non è l’unico elemento originale, i personaggi, o almeno alcuni di essi, e soprattutto Ferdinand, non sono ridotti a « clowns » grotteschi in perpetua agitazione in un mondo bizzarro, pur rimanendo al limite del credibile manifestano una loro individualità, il protagonista poi esprime una sia pur ristretta gamma di sentimenti; (p.63-64)
Va aggiunto infine che il tono generale della narrazione, nonostante la serie di piccoli e grandi incidenti che ne costellano lo svolgimento, non presenta le note insistentemente pessimistiche e sarcastiche che dominavano i primi romanzi. Una sana gioia di vivere e di amare, « malgré tout », sembra essere la forza propulsiva del protagonista, il quale con un buon senso istintivo e una notevole presenza di spirito si destreggia fra mille complicazioni.(p.64)
Il grande ritorno di Céline alla ribalta letteraria, successivamente all’esilio e al periodo di semi-oblio che ne seguì, avvenne nel novembre del 1957 con D’un chàteau l’autre, la prima opera composta dopo il rientro in Francia nel 1951.(p.66)
D’un chàteau l’autre segna la ripresa del filone più scopertamente autobiografico del Voyage e di Mort à crédit, ma su un tono ben diverso e con una struttura narrativa assai meno lineare. Il personaggio narrante — ossia la maschera verbale dell’autore — si mostra ormai sotto le spoglie di un vecchio pieno di acciacchi e di preoccupazioni che, di fronte ad un ipotetico pubblico, si abbandona ad un « rado tage » apparentemente caotico; e soltanto dopo centocinquanta pagine di verbose divagazioni, egli entra nel vivo della rievocazione delle esperienze vissute durante il suo soggiorno nel castello di Siegma- ringen con la forzata compagnia di un migliaio di rifugiati collaborazionisti.
Ma questo inizio così sconcertante è un pezzo di bravura, Celine si traveste in una moderna versione del « fool » della commedia rinascimentale, e sotto quelle spoglie, in un susseguirsi ininterrotto di « gag », lancia recriminazioni contro veri o presunti nemici,54 ironizza con feroce sarcasmo sull’avarizia del proprio editore,55 copre di ridicolo i più noti accademici e i grandi nomi del « Tout Paris », si fagioco delle ideologie e degli schieramenti politici,56 si impietosisce sulla propria situazione, sulle sofferenze patite, sui problemi domestici,57 giustifica il proprio passato, scopre infine ancora più la commedia, esortando il lettore ad aiutarlo a campare acquistando i suoi libri, e i critici a attribuirgli il premio Nobel per pagare le bollette del gas! (pp.66-67-68)
Il romanzo tuttavia non finisce qui, prosegue ancora per trecento pagine attingendo liberamente alle inesauribili esperienze dello scrittore come alla sua illimitata fantasia, e Celine ci fa dono, con un brio straordinario, di un’insolita epopea. (p.69)
Come era avvenuto per il Voyage e Mort à crédit che si erano liberamente ispirati, in senso anticronologico, prima alla giovinezza e alla maturità poi all’infanzia dello scrittore, in modo analogo Nord costituisce la prima parte di quella sorta di cronaca dell’esilio — dal 1944 al 1951 — iniziata però con D’un chàteau l’autre e che si concluderà con Rigo- don. La successione storico-biografica dei fatti raccontati in Nord si situa appunto in un’epoca immediatamente anteriore a quella delle vicende centrate sul soggiorno a Siegmaringen. I personaggi principali sono quindi gli stessi: Céline, la moglie Lucette, l’amico Le Vigan e il gatto Bébert, sballottati in un’affannosa peregrinazione nel tentativo di raggiungere la Danimarca. Lo scenario è anche il medesimo,la Germania in fiamme, la grande Nazione ridotta a cumuli di macerie nei mesi che precedono il crollo del terzo Reich. (pp.70-71)
[…]l’importanza e l’originalità di Nord non consistono comunque nell’intreccio ma bensì nella scelta, nell’invenzione dell’« écriture » che lo caratterizza, oltre che, su un piano ideologico, nel tipo di indiretto giudizio sulla realtà storica in esso contenuto. Anche in quest’opera, come nella quasi totalità degli scritti celiniani,61 il tema di fondo è la guerra; la guerra è la condizione prima da cui derivano tutti gli sviluppi della vicenda, tutte le reazioni dei personaggi; tutte le descrizioni di scenari trovano, nell’inesauribile gamma delle manifestazioni belliche, la loro fonte d’ispirazione. La guerra, con i suoi inevitabili caratteri di paura, fame, morte è il « Leit- motif », la nota di fondo, su cui si regge quindi la « chronique » costituita da queste tre ultime opere. Ma ora, contrariamente al Voyage, […]il personaggio narrante si limita a descrivere ciò che fa, ciò che vede, non protesta più, non si indigna contro i massacri e le devastazioni, non giudica ciò in cui è coinvolto, si pone al livello di tutte le altre comparse di questa bolgia infernale e accetta di recitare il ruolo di un vecchio ostinato che pretende di attraversare, zoppicando e con un gatto in bisaccia, la Germania in pieno sfacelo. (pp.72-73-74)
La vena comico-umoristica, presente in forma più o meno pronunciata in tutti i romanzi celiniani, riappare appunto anche in quest’opera. (p.74)
Come si può rilevare anche da questo esempio la lingua delle ultime prove si è notevolmente trasformata; è una delle caratteristiche non secondarie di queste opere. Il lessico è più sobrio, la scelta dei vocaboli è precisa, l’argot e tutti i neologismi creati da Céline, e di cui aveva fatto a volte un lussureggiante impiego — si pensi a Mort à crédit — sono quasi del tutto scomparsi, le immagini sono descritte con periodi secchi, essenziali, la struttura sintattica è ridotta al minimo, il ritmo, la potenza evocativa, la musicalità raggiungono risultati sorprendenti.(p.76)
L’ultima fatica dello scrittore, quella alla quale Céline consacrò gli ultimi mesi della propria sofferente esistenza, il terzo « volet » della « chronique » delle sue peregrinazioni in Germania, si concluse insieme con la sua vita stessa. È nota la fatalità che fece spirare Céline il giorno medesimo in cui aveva inviato una lettera a Gallimard annunciandogli che l’opera era finita. (pp.76-77)
4 – UNA CONCLUSIONE PROVVISORIA, UN BILANCIO APERTO p.80
L’esordio di Céline sulle scene letterarie è avvenuto quindi nell’ambito di quel tipo di letteratura che si può genericamente definire d’ispirazione moralistica. 75 II discorso sulla condizione umana, la ricerca di un’impossibile felicità, la sete di purezza, sono i nuclei centrali su cui si sviluppa tutto il romanzo. Il Voyage sottende in fondo un’ideologia abbastanza facilmente rintracciabile, un anarchismo di stampo piccolo-borghese, profondamente venato di umanitarismo, ancora capace di indignazioni autentiche, ancora illuso di poter trovare un esito alla propria rivolta; l’autore si identifica ancora, almeno in parte, sul piano psicologico, con il suo personaggio; i terrori, le angoscie, i risentimenti, le passioni, le idee di Bardamu sono forse quelle di Céline[…]. (p.81)
La nostra separazione artificiosa ha unicamente lo scopo di annettere la prima prova narrativa celiniana nell’ambito di un filone romanzesco nel quale le idee, i sentimenti, il messaggio etico, hanno una parte assai considerevole.
A partire da Mort à crédit si comincia ad avvertire però una incrinatura all’interno del mondo ideo- logico-morale di Céline (incrinatura e crisi di cui i « pamphlets », di poco posteriori, con la loro esasperata e parossistica denuncia delle tare e delle contraddizioni della nostra società, saranno un esempio significativo), e inizia quel processo mimetico e degradante che porterà, nelle opere successive, alla spersonalizzazione dei personaggi e allo svuotamento ideologico della narrazione, mentre, d’altro canto, il ricorso alle evasioni oniriche, alle digressioni fantastiche, in un « récit » sempre più dissociato, si farà più frequente.
(p.83)
Ormai l’assurdo e il caos gli sembrano essere diventati la causa e l’effetto ineluttabili di ogni situazione in cui si trovi coinvolta l’umanità.(p.84)
Le innovazioni ortografiche, lessicali, sintattiche e stilistiche che caratterizzano in vario modo le opere successive al Voyage 82 non vanno perciò considerate fini a se stesse, elementi esteriori, « decorativi », mutamenti di superfice, ma — come si è già sottolineato — non possono andare disgiunte dalla trasformazione ideologica di cui si è detto; esse sono in funzione del mutato clima psicologico, del diverso mondo interiore dell’artista, della sua rinuncia ad incidere, sia pur anche con l’invettiva, su una realtà che giudica ormai impossibile da trasformare ma nella quale si sente profondamente a disagio. (pp.84-85)
Le maschere del « pan- tin » del « fool », del « clochard » vengono dunque a coprire il volto del personaggio narrante, trasformandolo in un non integrato, in uno che non sta al gioco, che rifiuta le astuzie intellettualistiche delle persone « ragionevoli » e « responsabili », e si abbandona al « ricanement », alle recriminazioni gratuite, ai deliri di un linguaggio che ha perso ogni valore assertivo.(p.86)
In questo sbrigliato gioco di fughe dal mondo comune, istituzionalizzato, trova una sua precisa col- locazione l’entusiasmo per la danza; la danza, come la letteratura, è ormai per Céline una forma di evasione; essa neutralizza il tempo e le leggi di gravità, simboleggia la vita, l’emozione palpitante, il movimento gratuito, la partenza per un mondo di sogni e di leggende, lontano dal meccanicismo moderno che uccide la fantasia, l’inventiva, l’entusiasmo. (p.87)
Céline si è rivelato l’indiscusso creatore di uno stile « rendu émotif »87 che ha trasportato l’emozione nella lingua scritta; egli ha dato al linguaggio letterario l’espressività del « parlato », la vivacità del discorso orale, non ricostruito per mezzo di una tecnica filologica che riesuma un costrutto, una espressione colloquiale o un idiotismo con dei fini documentaristici, ma ricreato poeticamente, come elemento spettacolare,88 con tutti i suoi « underto-nes » e « overtones ». La lingua degli ultimi romanzi celiniani contiene infatti una serie di « supplementi di comunicazione » che non si riscontrano nella prosa letteraria tradizionale.
T famosi puntini di sospensione, le cascate di esclamativi, l’ecolalìa, i neologismi onomatopeici, le deformazioni di vocaboli, la frantumazione dei periodi, sono altrettanti espedienti per indicare il ritmo naturale delle percezioni emotive, l’intensità affettiva del messaggio, per fornire quel sovrappiù di espressività dato dalla mimica, dai gesti correlati con la parola, dagli sguardi, dal tono della voce del parlante.
Tutto ciò richiama un tipo di « narrazione-rappresentazione » dinamico-sonora che esula dagli schemi del romanzo ottocentesco e introduce nello stile narrativo delle componenti le quali provocano nel lettore un’emozione prima di tutto fisica, una reazione nervosa più che intellettuale e fanno dunque presa sulla sua attenzione attraverso dei procedimenti di aggressività psichica. (pp.88-89)
NOTA BIBLIOGRAFICA p.94
II
LA FORTUNA DI CÉLINE IN ITALIA p.107
CÉLINE E LA CULTURA ITALIANA D’ANTEGUERRA p.109
Ad alcuni critici italiani più attenti e sensibili agli avvenimenti letterari d’oltralpe, l’opera di un medico sconosciuto, improvvisatosi romanziere quasi per gioco, non era affatto sfuggita, fin dai primi rumori che essa aveva suscitato a Parigi.(p.109)
I primi echi nostrani di questo successo francese sono infatti delPinverno e della primavera del 1933, a pochissimi mesi, quindi, dalla comparsa del Voyage nelle vetrine delle librerie francesi.(pp.109-110)
Se non andiamo errati, il primo riferimento della nostra stampa alla pubblicazione del Voyage e alla « querelle » del Goncourt (premio che gli fu attribuito e poi ritirato nel giro di una settimana per concederlo ad un’opera di Guy Mazeline, Les Loups, di cui oggi ben pochi hanno ancora memoria), risale al dicembre 1932 ed è una nota siglata DAB (Enrico Falqui) intitolata Premi e pettegolezzi, apparsa in « L’Italia Letteraria »; in essa si riprendeva ironicamente un articolo delle « Nouvelles Litté- raires » sulle poco esemplari manovre della giuria del massimo premio letterario francese. È una pagina di costume più che di critica letteraria; a circa un mese dalla pubblicazione del Voyage […] (p.111)
Ma il romanzo di Céline non tardò molto a provocare le prime reazioni dirette, se appunto, nel gennaio dell’anno successivo, Guglielmo Serafini usciva con una lunga recensione nel « Saggiatore ».[…]
Il Serafini, in ossequio ad un modulo di chiara ispirazione fascista, tentava di far passare il Voyage come l’estremo limite di una decadenza civile e culturale a cui la Francia democratica sarebbe giunta alla vigilia del Fronte Popolare: […].(p.112)
L’errore del Serafini è in fondo abbastanza scusabile se si pensa che, sia pure in tono diverso, anche parte della critica francese, equivocando su certi toni populisti, aveva ravvisato nel primo romanzo celiniano un’ispirazione assai vicina al marxismo;[…](p.113)
Ma per fortuna, nonostante i tempi e un’innegabile dirigismo culturale, il discorso italiano su Céline, dopo questo inizio poco lusinghiero per l’autore del Voyage, ha intrapreso anche altre vie e si è reso, a volte, più indipendente da ideologie politiche e da interferenze biografiche. Un trafiletto dell’« Italia Letteraria » del 19 marzo 1933 sotto la sigla DAB, dopo aver citato parte di un articolo di M. Arland apparso nella « Nouvelie Revue Fran^aise » e favorevole a Céline, terminava, ad esempio, con delle considerazioni intelligenti che ci pare colgano alcune caratteristiche non trascurabili del romanzo. (pp.114-115)
A quest’epoca, cioè nella primavera del 1933, un fatto di notevole importanza allargava di molto la conoscenza nel nostro paese della prima opera del medico-scrittore parigino; alludiamo alla traduzione italiana del Voyage che uscì dai torchi di Corbaccio-dall’Oglio il 31 maggio 1933. (p.115)
[…]resta il fatto che, conclusa la lettura del libro, il Nalato-Dàuli ne propose subito la traduzione. Essa venne affidata a Luigi Alessio 11 (più noto sotto
lo pseudonimo di Alex Alexis), che la portò a termine in circa un mese, a tempo di primato.
Verso la metà del 1933 il pubblico italiano poteva quindi accostarsi al capolavoro celiniano nella propria lingua attraverso una traduzione imperfetta ma non certo spregevole 12), pubblicata in una edizione a larga tiratura.
Mentre in Francia il Voyage continuava a polarizzare l’interesse della critica più qualificata, anche da noi, dopo i primi « échos de presse » e le prime reazioni, il discorso sul romanzo di Céline non accennava infatti ad esaurirsi, anzi andava allargandosi tanto da suscitare una piccola polemica che mise in luce un giovane e promettente studioso, divenuto poi uno dei nostri maggiori critici di cose francesi. (p.117)
Le inequivocabili parole del Natoli non passarono sotto silenzio; « L’Italia Letteraria » del 30 luglio 1933, nella rubrica « Sforbiciatile », riportava uno stelloncino Noi siamo quelli a firma di DAB il quale citava brani della lettera aperta e si associava al giudizio del giovane critico. (pp.119-120)
M. Sarfatti, una delle penne più auliche e autorizzate di quel tempo, secondo una definizione del Natoli stesso, 16 sulla « Stampa » del 5 agosto successivo, insorgeva contro Pavolini, direttore dell’« Italia Letteraria » e contro la « conventicola chiusa dei suoi collaboratori ».
In ossequio a un inopportuno moralismo, essa biasimava i critici italiani che apprezzavano lo scrittore d’oltralpe e, criticando la concezione celiniana del mondo, condannava allo stesso tempo l’opera che l’esprimeva. Era insomma, quella della Sarfatti, la tesi vieta secondo la quale ci vogliono buoni sentimenti (intesi naturalmente come patrimonio del mondo e della morale borghesi) per fare della buona letteratura. Non è più il caso di spendere parole per controbatterla, è sufficiente riportare le ferme precisazioni che il Natoli le rivolse dalle pagine dell’« Italia Letteraria » il 17 settembre: (p.120)
La polemica della nostra stampa intorno al Voyage non si esaurì nel confronto fra le due tesi esposte; la cultura cattolica avanzò anch’essa le sue considerazioni che, come quelle della Sarfatti, avevano tuttavia ben poco da spartire con il problema letterario.
Nei giovani intellettuali de « Il Frontespizio » (p.121)
La polemica della nostra stampa intorno al Voyage non si esaurì nel confronto fra le due tesi esposte; la cultura cattolica avanzò anch’essa le sue considerazioni che, come quelle della Sarfatti, avevano tuttavia ben poco da spartire con il problema letterario.
Nei giovani intellettuali de « Il Frontespizio »
[…]un articolo del Bargellini del febbraio 1934[…] (p.124)
Una maggiore comprensione critica si nota in u- no scritto di Clemente Fusero, apparso anch’esso su « Il Frontespizio » nel maggio dello stesso anno [1934] (p.125)
[…]come abbiamo detto all’inizio di queste pagine, il distacco fra la nostra cultura, in fondo ancora piuttosto provinciale e conformista, e l’allucinante creazione celiniana, era troppo grande perchè tutti potessero cogliere appieno l’autentica forza del romanzo; è un fatto notevole se alcuni spiriti più sensibili, quali il Natoli e il Dàuli, forse per la loro più diretta conoscenza delle vicende culturali francesi, riuscirono a cogliere alcuni dei pregi dell’opera celiniana. (pp.126-127)
2 – LA RISCOPERTA DI CÉLINE UN LUSTRO PRIMA DELLA SUA MORTE p.127
La prima stagione della fortuna critica di Céline in Italia si conclude con un bilancio qualitativamente piuttosto modesto: molto rumore, molte voci si sono levate, ma poche, pochissime, sono riuscite a mettersi in sintonia con la possente opera del medico di Clichy.
A quanto ci è dato di sapere dovrà passare oltre un quarto di secolo perché il discorso italiano su questo romanziere affronti nuovi registri e offra interpretazioni fra le più suggestive e valide di tutta la critica celiniana. Ma prima di arrivare a questa riscoperta dell’autore del Voyage nell’ultimo decennio, bisogna appunto registrare un lungo periodo d’oblio.
Nel 1936 la pubblicazione del secondo capolavoro Mort à crédit, pur con le sue novità formali ancor più audaci, passò quasi inosservata senza riaccendere l’interesse per lo scrittore, né sul piano della critica specialistica, né su quello editoriale, visto che il nuovo romanzo non fu subito tradotto, come il precedente, ma dovette attendere quasi trent’anni per apparire in versione italiana.
Nel 1938 Alex Alexis, il traduttore del Voyage, pubblicò, sempre presso Corbaccio-dall’Oglio, la versione del primo « pamphlet » antisemita Baga- telles pour un massacre. (pp.127-128)
Su Céline quindi scendeva il silenzio più profondo. L’autore del Voyage dopo un primo breve interesse, legato all’attualità del suo rumoroso esordio parigino e alla traduzione italiana del primo romanzo, non aveva più destato da noi una particolare attenzione, neppure nella stampa divulgativa.
Il poderoso scossone che quest’originale medico condotto aveva inferto alla lingua letteraria francese non sembra nemmeno aver avuto in Italia una e- co immediata nel campo della nostra narrativa.
Il ricupero di Céline, dopo le tragiche vicende della guerra, dell’esilio, della condanna per collaborazionismo e del successivo ritiro in una misera villetta di Meudon, ormai vecchio e malandato, ma non per questo disposto a tacere e a considerare chiusa la sua stagione letteraria, il ricupero dello scrittore, dicevamo, è avvenuto attraverso gli stessi canali dell’attualità, dell’informazione, che ci a- vevano fatto conoscere il primo romanzo.(p.129)
Era facile per un buon giornalista fare un « pezzo di colore », in cui la letteratura non sarebbe stata in fondo che un pretesto; e così avvenne infatti con gli articoli di Giancarlo Marmori (L. F. Céline e il caos), Giacomo Antonini (Il ri- sentimento di Céline), Claudio Savonuzzi (La notte di Céline),29 brillanti e pieni di osservazioni acute, ma in fondo assai ingiusti verso Céline, del quale ci offrono un ritratto quanto mai corrosivo e impietoso.
Il collaborazionismo più o meno cosciente dello scrittore pesava in modo assai negativo agli occhi dei giornalisti italiani, dando la misura di un confusionismo ideologico e di un cedimento morale che si rifletteva, a loro avviso, anche nella sua opera letteraria:(p.130)
Se D’un chàteau l’autre e Nord, usciti nel 1957 e nel 1960, erano stati l’occasione della riapertura del discorso su Céline in Italia, sia pure in chiave solo parzialmente letteraria, la morte dello scrittore, avvenuta il primo luglio del 1961, provocava una catena di necrologi e di commemorazioni più o meno affrettate su moltissimi quotidiani e settimanali nazionali. Il fatto, naturalmente, ha scarsa incidenza culturale ma, a nostro avviso, non è del tutto privo di riflessi meno occasionali, poiché con la scomparsa dell’uomo, ricuperato proprio in questo estremo momento alla popolarità, si sentì il desiderio, anche da noi, di dare una risposta ormai solo letteraria al « caso » Céline, per attribuirgli un posto più preciso nella storia del romanzo novecentesco. (p.131)
A partire da questo ultimo lustro, lo scrittore è diventato infatti oggetto di tesi di laurea, articoli, saggi stilistici ed estetici che forniscono un contributo decisamente originale alla sua conoscenza e valutazione. Su di essi quindi converrà polarizzare l’attenzione nell’ultima parte della nostra rassegna.
Come era giusto, ci si è allontanati sempre più dai giudizi in chiave moralistica o politica (pure Carlo Bo ebbe a dichiarare: « naturalmente anche per noi i motivi politici non contano »),31 e dal biografismo, che avevano caratterizzato i primi incontri della nostra cultura con lo scrittore normanno. (p.132)
Il primo tentativo della nostra critica di vedere Céline inserito in una tradizione letteraria europea non fu quindi molto felice e partiva in fondo an- ch’esso da preconcetti extra-letterari; non altrettanto crediamo si possa dire di quanto venne scritto in Italia trent’anni dopo, durante la seconda ondata d’interesse che il romanziere suscitò anche da noi.
Va tenuto presente, a questo proposito, che, se si escludono generici richiami al lontano Rabelais, quali si possono trovare spesso nei « Cahiers de l’Herne », la critica francese era concorde nell’affer- mare che l’opera di Céline aveva trasformato in tal modo il romanzo da costituire quasi un genere letterario a sé, senza ascendenze dirette.(p.136)
Certo, leggendo gli scritti celiniani vien fatto di pensare ai romanzi picareschi del XVI secolo spagnolo, come anche alla visione corrosiva dell’u- manità espressa da Swift. D’altronde pure il genere pamphlettistico aveva avuto una lunga tradizione in terra di Francia prima di Bagatelles, di L’école des cadavres e di Les beaux draps, tuttavia Céline era un’altra cosa; tali riferimenti ad esperienze letterarie anteriori hanno più che altro un valore distintivo (p.138)
Queste considerazioni hanno portato perciò la critica francese a vedere, per lo più, nell’opera di Céline un punto di partenza, piuttosto che un momento intermedio di una tradizione letteraria in trasformazione. (p.139)
Nella cultura italiana dopo gli anni sessanta, invece, il discorso critico mirante ad inquadrare il fenomeno Céline nell’ambito di un preciso contesto letterario continuò, con altri esiti, approdando, a nostro avviso, ad interpretazioni che non hanno riscontro negli studi celiniani pubblicati oltralpe.
La prima voce degna di particolare attenzione in questo senso fu, verso il 1963, quella di Renato Barilli, il quale, pur non affrontando direttamente il problema dell’arte celiniana, vi alluse tuttavia con chiarezza nei due saggi Gli adolescenti senza qualità e Gadda e la fine del Naturalismo. (p.140)
Attraverso un attento esame dei temi più cari allo scrittore e delle particolarità del suo stile, il Barilli giungeva alla conclusione che l’opera celiniana costituisce un ultimo aberrante esempio di letteratura naturalistica […]. (p.141)
L’equivoco dei critici francesi è stato forse quello di pensare il « Naturalismo » nella sua veste zo- liana, nelle compassate forme stilistiche dei romanzi dei Goncourt, ovviamente assai diverse dalla pagina celiniana, invece di considerare il mondo ideologico in cui i personaggi dei Rougon Macquart si muovono, l’incidenza appunto degli impulsi fisiologici, del bisogno, il loro chiuso orizzonte sensoriale; sotto questa angolazione Bardamu-Ferdinand e le altre figure del Voyage come di Mort à crédit si avvicinano ai protagonisti del ciclo zoliano. (pp.142-143)
Potremmo dunque affermare che Céline conserva, forse, ma solo nei due primi romanzi, un certo sfondo naturalista suo malgrado, nonostante la malcelata antipatia per l’autore di Germinai; tuttavia, come già accennammo in precedenza, il naturalismo celi- niano non è quello di un tardo discepolo di Zola, ma r un’eredità ideologica configuratesi in un’espressione stilistica che ha infranto ogni impassibile aulicità pseudo-scientifica. Il modello naturalista ha perciò subito una notevole modificazione; il Barilli osserva infatti che il positivismo e il naturalismo di Céline hanno perso per strada tutta la loro fiducia ottimistica e razionalistica nel « progresso », nella perfettibilità del genere umano[…] (p.143)
L’autore, nei romanzi celiniani, è sempre meno l’onnisciente regista esterno che interviene dalla sua posizione privilegiata ad orchestrare lo svolgimento della narrazione, ad equilibrare gli eccessi dei personaggi, rappresentando il piano della legalità borghese. L’autore, come i protagonisti, si sente « dans le coup » si identifica con il piano basso, abolisce il contrappunto del commento letterario. Il classismo naturalistico che ammetteva un osservatore borghese interessato ad un mondo non suo, ad un proletariato che da lui si differenziava socialmente e linguisticamente non regge più. (p.144)
Céline non ci fa affacciare su un mondo miserabile dall’alto di un riparo di differenza sociale e di cultura, ci getta nella mischia, ci fa sballottare nel formicolio dell’umanità più derelitta e maleodorante, ci insegue con la sua prosa ansimante, con le sue ripetute imprecazioni, ci fa capire che il problema per lui e per i suoi personaggi è sopravvivere, non fare della letteratura.
Per concludere l’esame di questo importante contributo italiano allo studio di Céline, se è lecito a- vanzare qualche riserva, ci sembra che, pur nella sua lucida impostazione estetica, esso non dia ragione di tutta la ricchezza dell’esuberante mondo fantastico celiniano, e ci offra una tesi interpretativa riferibile, caso mai, solo alle prime opere narrative. (p.147)
Certe catene inverosimili di incidenti, certe esagerazioni progressive di un accadimento normale, la sua dilatazione fino all’assurdo più grottesco, richiamano inoltre alla memoria alcune scene dei fortunati romanzi umoristici di Jérome K. Jerome. Salve restando le profonde differenze fra i due scrittori, ci par pur vero che il comune procedimento di far susseguire gli eventi con un ritmo di accumulazione tragi-comica non sia privo di qualche analogia. (p.148)
Va rilevato infine come la rivolta celiniana, l’àpologìà dell’abiezione, non sia solo motivata da confuse istanze sociali, da istintive rivendicazioni di classe; certe pagine dello scrittore esprimono un malessere quasi esistenziale che non a caso è stato posto fra gli antecedenti della nausea sartriana. (p.149)
L’opera celiniana è perciò impensabile al di fuori del rapporto personaggio-lettore e si differenzia quindi, fin nelle premesse, dalla tecnica del « monologo interiore » impiegata dall’artista dublinese. (p.150)
L’apparente vaniloquio joyciano è quindi volto all’interno, è il borbottio a fior di labbra di qualcuno che non si cura di essere capito, non ha denominatore comune con le vociferazioni di Bar- damu-Ferdinand che presuppongono una vasta platea.
Anche Jean Bloch-Michel si rese conto che Céline non imitava la tecnica joyciana del monologo interiore e definì la forma espressiva di Bardamu piuttosto come un soliloquio ad alta voce, pronunciato da un parente prossimo di un « clochard ».(p.151)
Nell’arco di tempo in cui il Barilli veniva via via formulando, con sempre maggior precisione, le tesi suesposte, Carlo Bo, uno dei nostri maggiori studiosi di letteratura francese moderna, ritornava a parlare di Céline nel saggio « Il no di Céline », posto a prefazione della traduzione italiana di Mort à crédit.64
Dopo le prime esitazioni nell’accogliere il Voyage e Mort à crédit, (si veda a questo proposito PApologie de Mort à crédit scritta da Denoel, il primo editore del romanziere), e dopo le interferenze politiche dell’immediato dopoguerra, la critica francese più qualificata aveva riconosciuto, senza incertezze, la grandezza del medico-scrittore. (p.152)
Tutti i maggiori critici d’oltralpe, oltre a rivalutare, in una certa misura, l’uomo, sono concordi nel considerare lo scrittore di Nord fra i più grandi romanzieri della prima metà del secolo e si avvicinano alle sue opere con simpatia e ammirazione, attenti a scoprirvi sempre nuovi significati (quante interpretazioni sono state date dei suoi pamphlets?), inedite vibrazioni estetiche, tesi a rivalutare anche le pagine più torbide e inopportune, a dissipare tutti gli equivoci che hanno avvolto e compromesso per anni la figura e l’opera del dottor Destouches-Céline.
[…]Comunque, a questo coro quasi generale, di entusiastici estimatori, non si associa Carlo Bo[…]. (p.153)
Negli anni 1964 e 1965 anche noi scrivemmo, a nostra volta, un paio di saggi sullo scrittore da poco scomparso. In essi abbiamo esaminato alcuni problemi letterari relativi ai due primi romanzi (cercando di enucleare i principali temi del Voyage e discorrendo delle difficoltà della traduzione di Mort à crédit), e certi aspetti ideologici del « caso » Céline (come la natura dell’antisemitismo, il significato del collaborazionismo).(pp.156-157)
Fra le pagine degne di menzione in una rassegna della critica italiana sul medico-scrittore, non vanno dimenticate nemmeno quelle di Mario Lava- getto, uscite sulla rivista parmense « Palatina ».71
Il Lavagetto ci dà una sua personale lettura di Céline, che, nelle conclusioni principali, raggiunge e supera la severità del ridimensionamento intrapreso da Carlo Bo. Anch’egli riconosce ai due primi romanzi una superiore riuscita artistica:[…]. (p.157)
Nel definire poi la concezione del mondo di Céline e nelPindividuarne i presupposti ideologici e morali, anche il Lavagetto avanza, come il Barilli, il nome di Zola, ma solo per accentuarne le divergenze da Céline: […]. (p.159)
I giudizi di Barilli, Bo e Lavagetto sono i più cospicui tentativi italiani di stendere un bilancio complessivo sulla figura e sull’opera di Céline con una notevole autonomia dalle risultanze della critica d’oltralpe.
In linea di massima, questi nostri studiosi sono più propensi a individuare i limiti dell’impresa artistica celiniana che a esaltarne le novità, la forza di rottura; essi si soffermano sullo spirito corrosivo, sul pessimismo, sull’ideologia, a loro giudizio « reazionaria » e naturalistica dello scrittore […]. (p.162)
C’è infine da aggiungere, senza che ciò influisca sul giudizio letterario, che il ritratto psicologico così poco seducente proposto da gran parte della critica italiana ci sembra in contrasto con le testimonianze dirette di conoscenti e amici dello scrittore i quali hanno voluto fissare i loro ricordi nelle pagine dei « Cahiers de l’Herne ».
Paulhan, Morand, Nimier rimasero fino alla fine amici dichiarati del compromettente medico-scrit- tore; Marcel Aymé, uomo così schivo di contatti letterari, attraversava Parigi da Montmartre a Meu- don per ascoltare gli interminabili « radotages » del vecchio amico malandato, e farlo sentire meno solo, meno isolato dal mondo. Tanti personaggi a noi meno noti o sconosciuti hanno parlato dell’umani-tà delicata di Céline, della sua burbera bontà. Quante disillusioni, quante « amours rentrées » nascondevano dunque le sue inoffensive imprecazioni?
Tutto ciò dovrebbe far riflettere chi è disposto a vedere in Céline solo un misantropo che aveva abdicato ad ogni sentimento e si nutriva unicamente delle proprie sconnesse imprecazioni. (pp.163-164)
3 – L’AUTORE DI NORD E LA CRITICA «STILISTICA» ITALIANA p.165
[…]Verri » di raccogliere recentemente una ricca messe di contributi celiniani in un numero a lui dedicato. 82
La rivista feltrinelliana presenta ai lettori alcuni brevi testi di Celine tradotti in italiano, così come un famoso studio di Spitzer Una abitudine stilistica (il richiamo) in Céline,83 che fu più di trent’anni or sono, il primo tentativo, limitato al Voyage, di e- splorare stilisticamente la prosa del romanziere.[…]
Mette conto invece indugiare sugli articoli di Caproni, Licari e Celati (su quello del Barilli si è già riferito), che offrono originali spunti per una lettura sempre più in profondità delle opere celiniane.
Il poeta Caproni è il ben noto traduttore di Mort à crédit.(p.166)
Il Caproni ammette infatti con ragione: « oggi più che mai sono convinto, per esperienza fatta, che una lingua italiana atta a tradurre Celine sia ancora da inventare ».85 A quale lessico italiano fare ricorso, per l’appunto, quando la lingua e lo stile celiniani hanno deliberatamente violentato, non solo il francese « letterario », ma anche la lingua familiare e persino l’argot? Nessuna parlata italiana possiede la ricchezza verbale dell’impasto linguistico celiniano e c’è da chiedersi poi quale traduttore sarebbe in grado di imporle quel ritmo sincopato e sconvolgente, quel « petit effet » che, secondo lo autore stesso, era la sua tessera per l’immortalità. Il poeta livornese riconosce con modestia: « non sono certo io il ‘genio’ capace di giungere a tale invenzione », e non fa mistero dell’insoddisfazione che il lavoro compiuto gli lascia. (p.167)
A. Licari e G. Celati abbandonano perciò la strada delle interpretazioni estetico-ideologiche proposte dal Bo e dal Barilli e, soffermandosi sui procedimenti stilistici, affrontano il romanziere dal lato che egli stesso sovente proponeva all’esame della critica come il più originale della propria opera.87
Nell’articolo L’effetto Céline la studiosa bolognese, dopo aver sottoposto ad un’attenta schedatura le opere del dopoguerra, da Guignol’s Band a Le Pont de Londres,[…]enuclea dai testi una serie di formule ricorrenti che possono essere considerate appunto le strutture essenziali del famoso stile « rendu émotif ». La più frequente di tali categorie è l’uso dell’ « Io lirico » che provoca nel lettore il suggestivo fenomeno dell’illusione « di udire un discorso dal vivo, cioè l’illusione della presenza di una voce » che acquista una funzione ipnotica; (pp.168-169)
Un altro aspetto peculiare dello stile celiniano, messo in evidenza da A. Licari, è un tono ritmico, inconfondibile e marcato che ha la funzione di intensificare la partecipazione del lettore alle vicende narrate, per mezzo di quella che l’autore stesso definiva una « propulsion émotive »[…] (p.169)
Un ulteriore parametro che concorre a provocare l’« effetto Celine » è quello che si sforza di riprodurre « l’émotion du langage parlé », secondo una precisa indicazione dell’autore stesso. (p.170)
La scelta di una forma « bassa » o popolare, quale veicolo espressivo nei romanzi celiniani, non è casuale; la studiosa sottolinea infatti come « una forma ‘bassa’, non letteraria, convogli maggiormente quel sovrappiù di espressività aggiunto dal gesto, dal tono della voce, dell’espressione del volto del parlante ».93 L’emozione della lingua viva trova perciò un suo naturale doppiaggio grafico in un impasto gergale che non è l’esatta trasposizione di una lingua familiare o argotica, ma un’elaborazione artificiale e raffinata che, come scrisse il romanziere stesso, rubi ad esse il segreto della loro vivacità ed espressività. (p.171)
A. Licari afferma infatti, a chiusura delle sue pagine: « dobbiamo perciò considerare la poetica di Céline negli anni di maturità come una poetica radicalmente antinaturalistica […] la quale non si propone una mimesi della realtà, ma il gioco, la combinazione degli elementi verbali con lo scopo di trasformare la letteratura, il romanzo, in uno spettacolo, uno spettacolo fantasmagorico che attragga quanto e più del cinema »,95 allontanandosi quindi, almeno per quanto riguarda l’ultima produzione celi niana, dalle tesi del Barilli che abbiamo già avuto modo di esporre e discutere. (pp.172-173)
A. Licari invece ha seguito la strada opposta; è partita dall’esame delle strutture verbali e stilistiche per ricavarne delle deduzioni che, sul piano generale, l’hanno portata alla convinzione di un Céline antinaturalista. (p.173)
L’ultimo contributo critico, oggetto della nostra rassegna, è il breve articolo del Celati, che riprende e amplia con originalità alcuni spunti del saggio precedente, per avvicinare certi connotati peculiari dello stile di Céline ad un filone della tradizione letteraria anglosassone. (p.174)
[…]considera quindi l’opera dello scrittore in relazione diretta con il filone del parlato anglosassone.
Fissati i riferimenti storico-letterari nei quali si colloca l’esperimento celiniano, lo studioso passa ad analizzare le tecniche di trascrizione del parlato impiegate dall’autore di Nord, quelle che egli definisce la sua retorica tipografica. (p.176)
iamo passati dalle prime reazioni della nostra stampa, notevolmente condizionate da fattori extraletterari, via via verso giudizi più autonomi e culturalmente più agguerriti; abbiamo seguito le reazioni italiane agli « avatars » in cui è incorso, a cavallo della seconda guerra mondiale, lo scrittore. Sono state altresì prese in esame le interpretazioni generali che alcuni dei più qualificati esponenti della cultura universitaria hanno recentemente proposto sul piano estetico-letterario del « caso » Céline.
Ci siamo soffermati infine sulle analisi stilistiche presentate da due giovani studiosi bolognesi, analisi che ripropongono, su un piano in gran parte autonomo rispetto alla critica francese, una nuova invitante strada interpretativa dell’autore del Voyage.(p.177)
4 – CÉLINE E LA NARRATIVA ITALIANA p.178
Un panorama della fortuna di Celine nel nostro paese, per aspirare ad una certa completezza, deve anche tener conto di una sua eventuale influenza sulla narrativa italiana, deve accertare cioè se Celine abbia fatto scuola da noi, se vi siano scrittori che a lui si richiamano esplicitamente nella composizione delle loro opere.
Un esame, sia pur sommario, della nostra narrativa contemporanea ci porta ad escludere quest’ipotesi; non crediamo si possa parlare di un’imitazione diretta, verificabile, dell’opera celiniana da parte di qualche romanziere italiano, anche se non mancano certe analogie, soprattutto a livello stilistico, con alcune opere del nostro secondo dopoguerra e degli anni a noi più vicini.
Non è il caso infatti di confondere certe realizzazioni del Neorealismo di Pasolini e di Testori o dello Sperimentalismo di Sanguineti, Lucentini e altri, nelle quali pur si ritrova una parlata gergale, una lingua « bassa » o quanto meno colloquiale,con lo stile del romanziere di Guignol’s Band.(pp.178-179)
Esiste quindi una divergenza di fondo fra la « Weltanschauung » celinia- na e quella dei narratori italiani precedentemente ricordati che non autorizza a stabilire delle filiazioni dirette a partire da alcune analogie formali.(p.179)
Le analogie fra i due scrittori, a quanto si è visto, risulterebbero notevoli; tuttavia, anche in questo caso, sebbene le date di composizione delle rispettive opere potrebbero legittimare una imitazione di Celine da parte di Gadda, essa non ci pare in realtà probabile.
Il termine « affinità » usato dal Barilli, per definire la posizione reciproca dei due narratori, ci sembra il più giusto, esso indica una singolare parentela di atteggiamenti ideologici e di mezzi stilistici, senza per questo denunciare una voluta dipendenza dell’artista italiano dal confratello d’oltralpe.(p.182)
NOTA BIBLIOGRAFICA p.184
III
LE TRADUZIONI ITALIANE DI CÉLINE p.193
1 – LA TRADUZIONE COME FENOMENO CULTURALE p.199
2 – IL PRIMO TENTATIVO: LA TRADUZIONE DEL «VOYAGE» p.203
La prima traduzione italiana di Céline è quella del Voyage, effettuata nel 1933 da Luigi Alessio, un letterato italiano emigrato a Parigi fin dal 1927 e che si firmava Alex Alexis.14 II suo lavoro di pioniere è certo meritorio e coraggioso anche se tuttavia non lo possiamo considerare del tutto soddisfacente. (pp.203-204)
Per dare una sia pur sommaria valutazione della sua fatica è opportuno situarla nel momento in cui fu realizzata. (p.204)
Inserire quindi, in un simile contesto linguistico- letterario, un’opera come il Voyage rappresentava una gageure il cui esito non poteva non sollevare delle riserve, se si considera che questo libro annovera fra le sue caratteristiche più originali una « visione del mondo » espressa in una lingua e con uno stile che destarono profondo scalpore fra gli stessi francesi,15 ben più abituati di noi ai tentativi di demistificazione del linguaggio letterario.
L’Alexis affrontava dunque un testo particolarmente difficile, ricco di audacie lessicali coagulate in uno stile che alterava in modo profondo il « cursus » tradizionale della prosa letteraria; pur avendo presenti l’epoca e i mezzi linguistici a sua disposizione, manifestiamo tuttavia delle riserve sul suo « doppiaggio » perché egli dà l’impressione di aver lavorato senza una chiara coscienza di tutti i problemi che il « passaggio » di Céline comportava. Il primo e, a nostro avviso, fondamentale problema era quello di determinare quale livello dell’italiano potesse essere scelto come lingua di base sulla quale apportare poi tutte le deformazioni (sia del lessico che della sintassi) alle quali l’autore sottoponeva il proprio idioma. (pp.204-205)
La traduzione dell’Alexis non sembra aver soddisfatto queste esigenze. Il livello della lingua italiana in essa impiegato è un livello medio-borghese sul quale il traduttore, forse con l’intento di darle un tono più popolare, ha inserito delle espressioni toscaneggianti […]Il toscano e il piemontese non aiutano certo a ricreare il sordido milieu popolare piccolo-borghese di periferia urbana dal quale provengono Bardamu-Ferdinand e le altre figure del Voyage. (p.206)
Quanto invece al ritmo, alla scansione delle frasi, la traduzione dell’Alexis non pare abbia tradito in modo altrettanto grave l’originale.(p.207)
Tale esame mette in evidenza diversi tipi di errori e di imperfezioni del « doppiaggio » dell’Alexis a livello puramente linguistico, che, per comodità di esposizione possiamo suddividere in: sviste, lacune, francesismi, errori di lingua e d’interpretazione.[…]
In alcuni punti il traduttore, per motivi non chiari ha omesso di tradurre certe parole o a volte frasi intere[…] (p.210)
Il traduttore si è quindi spesso limitato ad un lavoro di trasposizione letterale mot à mot senza tener conto dell’effetto complessivo che ne poteva ricavare in italiano a livello semantico, al di là di ogni considerazione stilistica.
Resta infine il difetto maggiore, i non rari errori di lingua e d’interpretazione, più o meno gravi secondo i casi, ma che, a volte, giungono ad alterare in modo irrimediabile il senso delle frasi.(p.212)
Gli esempi riprodotti ci paiono sufficienti per dimostrare il metodo, quanto mai approssimativo, impiegato dall’Alexis nella sua traduzione; metodo, se così si può chiamare, che lo porta, oltre a tradire a volte il senso letterale, a non rispettare la serie di « registri » e di connotazioni tipici della prosa del Voyage.19
Questi difetti risultano tanto evidenti che l’editore italiano del Voyage, in occasione di una riedizione presentata nel 1962, fece rimaneggiare il testo dell’Alexis, senza tuttavia indicare l’autore di questo intervento. Tale revisione di « ignoto » è stata effettuata quasi esclusivamente a livello lessicale e grammaticale, ed ha corretto quelli che si possono definire veri e propri errori di lingua (ma non tutti), senza tuttavia modificare la struttura generale della prima traduzione. (pp.213-214)
3 – UNA PROVA INFELICE ED INOPPORTUNA: « BAGATELLES POUR UN MAS SACRE » IN ITALIANO. p.215
Cinque anni dopo il Voyage, l’Alexis traduceva, sempre per lo stesso editore, Bagatelles pour un massacre.(p.215)
Oltre ai numerosissimi errori di ogni tipo il nostro confronto metteva altresì in luce come, in parecchi punti, fossero state saltate, senza indicazione alcuna, pagine intere, come fossero state modificate frasi, sostituite parole, come si fosse quindi intervenuti sul testo alterando, oltre naturalmente il ritmo e lo stile, anche il significato di molti passi.
I particolari forniti dalla lettera (e il Fusero ci informa di non aver trovato nella corrispondenza in suo possesso altri accenni a Céline, salvo una frase che riporteremo più avanti) non ci permettono tuttavia di stabilire se i tagli e le modifiche che rendono l’edizione italiana assai simile ad una riduzione o a un adattamento, furono opera del traduttore stesso o vennero effettuati dall’editore. Non ci resta quindi che registrare tali « manipolazioni » precisando che esse si possono ricondurre a tre criteri essenziali: a) lo snellimento del testo con la soppressione di parti giudicate secondarie[…]l’attenuazione dei passi più osceni o la loro eliminazione ([…]c) la soppressione di brani o pagine intere ove la virulenta anarchia celiniana colpiva scopertamente il militarismo, la Chiesa cattolica, il fascismo, il nazismo, il franchismo e i loro leaders […]. D’altro canto invece i numerosissimi attacchi anticomunisti, antisemiti e anche semplicemente contro le democrazie occidentali (in particolar modo contro il governo Blum e il Fronte Popolare) sono stati fedelmente riprodotti.
Tutto ciò fa pensare, chiunque ne fosse il responsabile, ad un’operazione che non ci pare azzardato definire di bassa cucina editoriale a semplici fini di cassetta. Sfruttando il momento politico italiano e le campagne per « ravvivare » il nostro fiacco antisemitismo, dietro più isterici esempi, questa traduzione « arrangiata » contribuiva nel contempo, grazie appunto agli opportuni tagli, ad un’indiretta apologia dei regimi dittatoriali dell’Europa capitalista, contrapposti alla Russia « giudeo-comunista » così crudelmente descritta dalla penna celiniana. (pp.216-217)
Concludendo il discorso sulla traduzione del primo « pamphlet », a cui avrebbe dovuto far seguito quella del secondo,24 come ci rivela la corrispondenza inedita dell’Alexis al Fusero (« dovrò tradurre un nuovo libro di Celine, L’école des cadavres, che uscirà tra un mesetto », 20 ottobre 1938), non si può se non ribadire che essa è stata condotta senza alcun rispetto per l’originale francese, manipolato arbitrariamente.(p.218)
4 – Una traduzione rischiosa: « Mort à crédit ». p.219
Bisognerà attendere più di trent’anni perché il secondo capolavoro del medico-scrittore veda la luce in italiano. L’impresa di questa nuova versione sarà opera di Giorgio Caproni. (p.219)
Il Caproni comunque si è trovato, dopo gli anni sessanta, in una situazione linguistico-culturale ben più favorevole di quella del suo predecessore. (p.220)
Tradurre Céline trent’anni dopo l’Alexis risultava quindi obiettivamente meno difficoltoso(pp.220-221)
Nell’accingerci ad esaminare la traduzione di Mort à crédit non si possono passare sotto silenzio alcune pagine, Problemi di traduzione,28 che il Caproni stesso pubblicò pochi anni dopo la sua fatica; in esse, riflettendo sul proprio lavoro, egli cercava di mettere in evidenza le difficoltà incontrate e di giustificare le proprie scelte lessicali e stilistiche.(p.221)
Nelle sue pagine il Caproni parte dalla convinzione che « una lingua italiana atta a tradurre Céline sia ancora da inventare ».30 II primo problema che deve affrontare perciò il traduttore è appunto quel
lo di fabbricare qualcosa di assomigliante, nel modo più approssimativo possibile, alla lingua della zone (costituente il canovaccio di Mort à crédit), lingua senza riscontro preciso nel nostro paese ancora troppo condizionato dal regionalismo.
A questo scoglio iniziale se ne collegano altri, non meno insidiosi per il traduttore. Il Caproni infatti si è posto successivamente la domanda di come rendere i numerosi doppi sensi, le allusioni erotico-oscene che non hanno rispondenza in italiano, la tinta di estrema miseria di certe pagine, l’epica violenza verbale di altre; si è domandato come doppiare l’argot (usato in Mort à crédit con notevolissima frequenza), anch’esso privo di una esatta corrispondenza nel nostro panorama linguistico. Si è chiesto inoltre come avrebbe potuto trasformare, in un italiano sia pure approssimativo, quella numerosa serie di neoformazioni e deformazioni anche ortografiche nelle quali i valori fonetici e connotativi hanno prevalso su quelli semantici. Ultima grossa difficoltà, la riproduzione dello stile « frantumato » di Mort à crédit, della sua « musica » aspra e travolgente, stile modulato su un sapiente gioco lessicale, che, volto in italiano, può perdere facilmente gran parte della sua efficacia e quindi del suo fascino. (pp.222-223)
[…]mostra come sul piano teorico il Caproni, contrariamente all’Alexis, non abbia affrontato alla leggera il suo « doppiaggio ».[…]
Procedendo con un certo ordine, ad uno stadio di prima evidenza si riscontrano dei veri e propri errori di interpretazione. Essi sono senza dubbio infinitamente più rari che nel « doppiaggio » del- l’Alexis, ma tuttavia qua e là non mancano[….] (p.224)
Ma questi non ci paiono i rilievi più notevoli, può trattarsi di calchi o di sviste, ciò invece che, su un altro piano, ci sembra nuoccia in modo maggiore alla resa stilistica, sono gli abusi delle espressioni toscaneggianti (questo difetto era presente anche nella traduzione alessiana del Voyage), l’uso eccessivo dei diminutivi (ce ne sono un vero diluvio), e la sua predilezione per certe espressioni rare; tutte caratteristiche che concorrono a determinare notevoli discordanze di registri fra l’originale e la traduzione e provocano in essa evidenti difetti di disparità. (p.225)
Riprendendo il discorso su un piano più generale abbiamo altresì l’impressione che il Caproni abbia preso Mort à crédit come un testo dialettale « naturalistico », e che quindi l’abbia affrontato con un particolare spirito « filologico » non calcolando gli intenti decisamente sperimentali e innovatori dell’autore francese. (p.227)
5 – UN ADATTAMENTO SCADENTE: «L’EGLISE» p.231
Non si può passare sotto silenzio la traduzione con « riduzione ed adattamento » della commedia L’Eglise, effettuata da Giovanni Maria Russo e Rino Di Silvestro,36 anche se, appunto per le sue caratteristiche, essa necessita alcune precisazioni preliminari.
È il caso infatti di distinguere, nel testo pubblicato da Trevi, quanto riguarda la traduzione vera e propria da quanto concerne invece le interpolazioni, gli interventi sull’originale. (pp.231-232)
basti qui l’indicazione delle modifiche di struttura: gli atti sono stati ridotti da cinque a tre, si notano cambiamenti di personaggi, di luoghi e di situazioni, oltre al taglio di numerose battute e alla fusione di altre.[…]è assai scadente, scorretta e ben lungi dall’originale quanto agli effetti stilistici.[…]
Limitiamoci ai rilievi più evidenti: 38 i personaggi si danno del « voi » con uno sgradevole calco dal francese (salvo però passare a volte al « lei » per la distrazione dei traduttori, vedi p. 32); altro francesismo che si nota frequentemente è la ripetizione, ingiustificata soprattutto nel linguaggio colloquiale, dei pronomi soggetti « io », « tu », « egli », ecc., e del pronome dimostrativo neutro « ciò » davanti al verbo « essere ». Queste, comunque, sono imperfezioni che appesantiscono il testo e lo deturpano ma che in fondo non lo sfigurano in modo irrimediabile. L’imperizia dei traduttori ha provocato ben altri danni, incorrendo quasi sistematicamente in errori d’interpretazione ogniqualvolta la traduzione letterale era impossibile[…]
o dando traduzioni fantasiose quando un termine d’“argot”, un vocabolo di uso meno corrente o un’espressione idiomatica richiedevano una più approfondita conoscenza del francese per una corretta resa nella nostra lingua (pp.232-233)
Facciamo grazia al lettore di quello che ancora si potrebbe criticare nella traduzione di Russo e Di Silvestro, visto che in alcuni punti perfino la frase italiana è talmente scorretta da non offrire un significato (cfr. pp. 34, 37, 51). Ci pare quindi che i nostri rilievi siano sufficienti per giustificare la severità con cui ci siamo espressi; la commedia celiniana « manipolata » con eccessiva disinvoltura, è servita da canovaccio per un’impresa teatrale nella quale l’interesse per alcune formulazioni ideologiche, riportate in un contesto più attuale, ha prevalso su qualsiasi considerazione stilistica.(p.234)
6 – LA TRADUZIONE DI ALCUNI SCRITTI MINORI p.235
Dopo Morte a credito non sono state stampate da noi altre traduzioni integrali di opere dello scrittore francese.[…]
In un prossimo numero del « Caffè » saranno invece pubblicati due « pamphlets »: A’ Vagité du bocal e Vive Vamnistie, Monsieur!-, sono testi che pur nella loro brevità presentano difficoltà notevoli.
Il migliore Céline vi si ritrova con il suo torrente verbale, il suo stile icastico, il suo linguaggio « or- durier » e provocatore. Ci è stato possibile leggerne la traduzione dattiloscritta di Lino Gabellone. Questi li ha resi in italiano con grande efficacia[…] (p.235)
NOTA BIBLIOGRAFICA p.238
INDICE DEI NOMI p.241