MANLIO SGALAMBRO – DELL’INDIFFERENZA IN MATERIA DI SOCIETÀ

MANLIO SGALAMBRO – DELL’INDIFFERENZA IN MATERIA DI SOCIETÀ
ADELPHI – Collana PICCOLA BIBLIOTECA n.333 – II ed. Settembre 1998

I p.9

Che io debba essere governato: ecco da dove inizia lo scandalo della politica. Solo per canaglie e miserabili, incapaci di autogovernarsi e decidere, c’è la politica come unica via di scampo. […]
La funzione stessa della filosofia, di valutazione del mondo, non viene solo negletta ma derisa. […]
S’intende che la nuova visione del valore non elimina l’essere per installarsi al suo posto, ma si rivolge a esso per “valutarlo”.
In tutto questo qual è la parte della filosofia? Quale quella della politica? Nell’anima della filosofia, nella sua aurora e nel periodo della “fine”, il mondo è condannato. (p.9)
È la politica che si pone a salvaguardia dell’essere.[…]
Si contrappongono una politica elementare intesa a “salvare” la vita (non a migliorarla: insulsa ingenuità) e una filosofia che nell’eterno ritorno della sua essenza torna ogni volta al pensiero dell’annullamento (non del “nulla”: altra ingenuità). La politica resta dunque quel minimo indispensabile a cui una banda di canaglie e di miserabili, incapace di autogovernarsi e decidere, delega la propria salvezza. (p.10)

II p.11

L’avversione per le cose della politica è parte del mio spirito. […]
Ma confido nelle mie determinazioni, di cui sono molto orgoglioso. Sì, sono un essere causato. […] Da filosofo rigoroso coltivo quello che potrei chiamare un machiavellismo della conoscenza. Non disdegno nemmeno l’ingenuità. (p.11)

Il legame col mondo mi percuote duramente in ogni istante e tuttavia esso non avrà mai il mio <<sì>>. (pp.11-12)
Io ho ferma coscienza che lo stato di avversione è quindi quello che si dice il valore supremo. (p.12)

Ammiro insomma il concetto di eterno ritorno ma non il suo autore. Così la mia veduta della filosofia si riempie di cose – considerando tali queste costruzioni perenni – e si svuota di uomini. L’imperativo categorico, l’idea di Bene, il concetto di causa, il principio di non contraddizione… questa è la filosofia nel suo insieme. […]
[…]ciò che ritorna, ritorna ogni volta meno di prima. Come se ogni volta ne diminuissero la vitalità e il vigore e vi fosse infine un definitivo ritorno che equivalesse all’immobilità.[…]
Come se un essere, un’epoca, un’opera si ripetessero ogni volta perdendo qualcosa, pur negli immutati stampi. (p.13)
C’è il ritorno, sì, ma non è eterno.
Per dire il risultato delle mie riflessioni sulla idea di conoscenza, essa si regolerebbe, a quanto si sostiene, sull’idea di libertà, non di obbedienza.[…]
Per quanto mi riguarda, obbedisco ad alcune evidenze (tra cui pongo come ho detto un certo sentimento di avversione) che non derivano da me ma dalla malaugurata esistenza di qualcosa che non è la mente. (p.14)

III p.15

La mia “religione” dell’obbedienza mi riconduce, con qualche cautela, a ciò verso cui il mio spirito ha un certo obbligo. Proseguendo in queste confessioni, mi inebria l’obbedienza a leggi sancite una volta per tutte. Adoro l’idea di evidenza, su cui non condivido certe perplessità. […]
Ho capito così che l’esistere è odioso in sé, che quel peso è la pesantezza in sé, l’ottuso fatto d’essere in cui sono coinvolto. Non proviene da me. Non è “pessimismo”. (p.15)
La mezza filosofia spinge avanti, l’altra dice: fermati “qui è la verità”, afferrala. È quest’ultima che io seguo. (p.16)

IV p.17

Tornando dunque alla mia avversione per la politica, intendo ora esaminare l’idea in relazione a chi ne fa professione, e poi entrambi in relazione al mio spirito. […]
l’idea che qualcuno si “occupi” di me (costui dovrebbe essere infatti l’“uomo politico”) non finisce mai di sorprendermi. Che io debba essere governato, ecco dov’è lo scandalo. L’avversità del mio spirito a questa idea è totale. È indubbio che gli individui vogliono che ci si occupi di loro in ogni momento. La loro insistenza è simile a quella dell’accattone che ti afferra per una manica. […]
è invece qui che corre il politico, qui c’è pane per i suoi denti: un poveraccio, che festa! Dove dunque c’è un lamento, c’è lui. Dove c’è un uomo perfetto egli se la squaglia. (p.17)
La politica è la tutela dei minorati. L’idea dunque che “io” possa essere governato mi dà un senso di offesa infinita.[…]
Se si valuta dunque l’idea di politica, essa appare relativa a una attività servile.[…]
Esaminandone l’idea risulta insomma che l ‘uomo politico è soltanto un mezzo, mentre se lo guardiamo dall’esterno egli sembra essere – me ne rendo conto con stupore – un fine. […]
Tuttavia, mentre l’uomo politico dovrebbe dunque assicurare tutti i servizi occorrenti a una società, […] egli al contrario batte i pugni ed esige che gli altri lo servano. La qual cosa è del tutto strana e curiosa. Ma è ancora più strano, per non dir pericoloso, quando l’uomo politico si incarica dell’avvenire e della felicità dei suoi simili. (pp.17-18)
Ma la distinzione è un atto d’imperio che io condivido. Comunque, parlare di <> mi è parso sempre sospetto di disattenzione. […]
Ma cos’ha a che fare con te quel cialtrone? Perché ti faresti ingiuria sino al punto da ritenerlo simile a te? (p.19)
L’uomo politico rappresenta l’ultimo tipo di uomo, se lo si considera in rapporto al valore. […]
Insomma, se ci fosse una gerarchia l’uomo politico occuperebbe l’ultimo posto. L’incredibile gergo, più squallido di quello dei becchini, il linguaggio ridotto a melassa: il politico è quell’ultimo uomo di cui andava a caccia Nietsche. Mentre la trivialità dell’aspetto lo fa somigliare a chi rappresenta: bocche, nasi e pance messi assieme. […]
Ma la sua scomparsa è la spia della condizione dell’uomo odierno ridotto all’indistinzione, di cui si rammarica. (p.20)
Ma tornando all’idea di uomo politico in rapporto allo stupore che desta, mi sembra strana un’altra idea corrente, quella che l’uomo politico debba essere <> – con ciò si intendono cose assai confuse -, quando proprio nel furto si mostra la sua natura di “servo”. […] Ciò che si vorrebbe, tutt’al più, è che egli rubasse secondo l’idea. Ma ripeto, egli ruba invece come una cameriera. (p.21)
Che l’uomo politico insomma incarni tutti i delitti di una società e che così avvenga di chiunque voglia rappresentare i suoi simili. Ma questa idea non resiste a una ulteriore analisi, anche se lascia in me un vago turbamento. (p.22)

V p.23

Tante volte mi sono proposto di esaminare perché i facciamo rappresentare da politici imbelli e corrotti, per usare le parole correnti. […]
Nell’uomo politico si incarna lo stato medio di una società – i vizi, le mediocrità, i difetti – […] (p.23)

Così i loro vizi, le turpitudini, il malaffare, sanno di qualcosa di diverso. È come se essi imbrigliassero tutto ciò che di turpe vi è in una convivenza e ne liberassero gli altri. L’uomo politico amministra, regola, assicura ordine, legifera, eccetera. Ma c’è il suo lato oscuro: gli intrighi, le occulte alleanze, gli imbrogli. Insomma tutto ciò per cui egli è disprezzabile. Così c’è un orientamento diverso che guida la scelta dei propri rappresentanti. In base al quale noi scegliamo i mediocri, i loschi, gli incapaci o i capaci di tutto. […]
Ma è mai possibile che la frequente corruttela, la lassitudine morale, la la vile intelligenza si debbano al caso? Io ho la mia ipotesi e la espongo. Da quando la sovranità cambiò struttura e soggetto e dai re passò a tutti noi, fu come se ci si dovesse guardare dagli uomini politici <virtuosi>, <sobri> e <onesti>, quasi fossero un pericolo maggiore. (pp.24-25)

Si concedette il potere di rappresentarci a patto che chi lo deteneva non ne fosse degno (al contrario di quanto comunemente ci si ostina a credere). A patto che costoro fossero uomini infimi e poco rispettabili, come magistralmente si accorge Tocqueville, e si poteva concedere loro il potere di rappresentarci perché ci si riservava quello di disprezzarli. […]
A compensare il potere che gli diamo, sulla testa del politico incombe il nostro disprezzo, come se questo dovesse pareggiare i conti. (p.25)

VI p.26

Io mi devo sentire governato perché si possa destare in me l’orrore per un simile stato. La finzione della rappresentanza politica non attenua la mia indignazione. Che un altro mi rappresenti lo trovo tanto assurdo quanto essere redento dal mio vicino di casa. (p.26)
è dunque l’idea stessa che un altro mi possa rappresentare che io non accetto.[…]
In altre parole io ne subisco la forza – Justiz und Polizei – davanti alla quale non mi resta che soggiacere. Così come non trovo alcuna virtù in un atto di bontà che io possa fare[…], ugualmente non trovo alcuna ragionevolezza negli atti per cui io sono n cittadino ossequente, pago le tasse, “accetto” insomma la società in cui vivo e le sue leggi. Lo faccio solo perché la forza sinistra di questa massa bruta piegherebbe come un fuscello la mia esile individualità e l’annienterebbe qualora io mi opponessi sulla sola base della ragione. In ogni atto di ossequio alla società in cui vivo vi è timore e tremore. Io vivo, sì, in uno stato di società, ma per me tale stato è come lo stato di natura hobbesiano. (p.27)
Intanto non è certo alla politica che io affido la mia sicurezza. Ammesso ce il suo compito sia quello di garantire la possibilità di una esistenza decente non sono affatto sicuro che essa vi riesca. In ogni caso vi riesce meno di una discreta polizia senza la cui opera ne convengo, non potrei condurre tranquillamente neppure un’ora della mia vita. (p.28)

VII p.29

Detesto, debbo dire, l’illuminismo.[…]
L’illuminismo ampliò a dismisura la politica contribuendo a darle una importanza smodata. […]
Dalla politica nasce ciò che vi è di più perituro.[…]
Quel divertente modo di filosofare ce fu l’illuministico a inizio con Voltaire.[…]
Conoscere diventò un divertimento che Voltaire esercitò con qualche virtù. […]
Il male della conoscenza, la cupezza del filosofo tradizionale furono sconfitti. Prevalse l’ilare e il giocondo. Voltaire filosofò facendo ridere. (p.29)

La diffusa infelicità dei nostri giorni è infelicità di riflesso.[…]
Suggerimenti sulla vita felice se ne possono sempre dare. […]
Ogni volta che l’infelice pentito tornò sui suoi passi fu per immaginare una vita felice. Sì, la felicità è possibile solo perché lo è stata: questo ci getta nel più nero sconforto. Gli uomini che ci fecero vedere la felicità a portata di mano, il “meglio” a tre passi hanno contribuito come nessuno alla nostra infelicità. Voltaire è tra essi. (p.30)

L’illuminismo[…] fu una philosophia pauperum, come ogni filosofia politica. <Affrettiamoci a rendere la filosofia popolare> (cioè politica): che orrendo disegno questo di Diderot! Ad esso dobbiamo l’imbarbarimento di una disciplina che, assieme alla matematica, aveva resistito agli assalti del “popolo” a cui in seguito si piegò. (p.31)

E cosa fu l’Encyclopédie? L’idea di sfruttare la scienza a vantaggio della specie (così come fino a qualche tempo prima s’era sfruttata la teologia per gli stessi scopi!), idea, ancora una volta, politica. (p.32)
L’esaltazione dei “governanti”, mentre mi si impone di uscire dallo stato di minorità e liberarmi da ogni tutela, mi turlupina.
La politica amministra maldestramente le illusioni. L’irruzione della politica nelle delicate zone della metafisica è nefasta. Solamente la metafisica può decidere in materia di illusioni. Io amo le illusioni della metafisica, ma detesto quelle della politica. (p.33)

VIII p.34

Mi indigna, torno a dire – ma un filosofo vive le proprie passioni come stati intelligibili -, che ancora non ci si accorga del riprodursi della società come cosa maligna[…].
Ora come ora la società sembra solo una lunga abitudine. Bisogna dunque guardarla come si guarda la natura, dalla quale ci percepiamo ormai svincolati. (p.34)
Gli esseri che ci passano accanto non ci importano più degli insetti, e i rumori del giorno di confondono, per così dire, con il più lontano cielo. Percepisco voci risa, sì, ma queste differenze non mi incantano,. Mi voto all’indifferenza sì, proprio quella in cui <alle Kuhe shwarz>. Alla banalissima unità, in cui tutto è mischiato con tutto. Non colgo le varie funzioni economiche, amministrative che come fatuità. (p.35)
La società ci tiene in mano, ci costringe a rapporti “innaturali”. Già quando mettiamo i piedi fuori casa ci agguanta e ci risucchia: le dobbiamo lavoro, figli… Essa si fa mantenere insomma e ci spreme il sangue e ci butta poi, vuoto involucro, da parte. Come si pronunciò un tempo con orrore <stato di natura>, così mi trovo a dire, con pari orrore, <stato di società>.[…]
La società non è “sociale”. […]
Solo gli scribacchini se ne occupano ancora. Niente fervore sociale, mi ingiungo. Vivo insomma al principio di aridità sino in fondo. (p.36)

IX p.37

Quelli che chiedono a gran voce la società <giusta> al posto della società tale e quale, mi sembrano dunque immaturi o del tutto folli.[…]
Qui trovano rifugio i derelitti, coloro i quali, essendo malauguratamente nati è necessario si trovino un qualche tetto. La società è dunque questo tetto niente di più. (p.37)
Da ciò che di sociale vi è comunque nell’individuo emergono i cattivi istinti e tutte le turpitudini che ogni legame sociale gli ha lasciato.[…]
Da qui proviene il fanatismo sociale, più esiziale del fanatismo religioso.[…]
Nondimeno i legami sociali non hanno più alcuna nobilita agli occhi dell’individuo consapevole, ed egli li sopporta come parte di un destino non favorevole. Il principio della maggioranza, contro cui cozza quotidianamente, gli sembra un torto in più che deve subire, e quel <bene comune>, ad esempio, che una decisione della maggioranza vuole rappresentare non soltanto colpisce e lede il “suo” bene comune, ma intacca quel che egli è… (p.38)

X p.39

Le leggi della società mi sembrano oscure e non liberano da incertezze e timori. […]
Un certo terrore della società è infatti “naturale”. Ciò non si deve al suo assetto, giusto o ingiusto che sia ma al fatto che una società esiste e che tu vi sei invischiato. Proviene dalla oscurità delle sue leggi e dalla sua cieca persistenza. Non c’è dubbio che noi siamo nelle sue mani e solo suoi mezzi. Molte cose che io non accetto (quasi tutto, ma non mi meraviglierei se tale fosse potenzialmente il sentire id ognuno), anche la persistenza del genere umano, assurda ormai e senza senso il ruolo e il valore della procreazione continua (inutile e bislacca parodia della creation continuee), l’esecrando obbligo dell’istruzione l’onorabilità finanziaria, l’obbedienza fiscale, per dirne alcune, molestano solamente. Il timore nasce[…] da quel turbamento sottile che chi vive in una società si porta dietro e dalla improvvisa paura che in essa si svegli un qualche furore represso. La sua esistenza si percepisce infatti quando ti salta addosso (quando ti sbatte in carcere, o ti dà in balia alla pubblica opinione, o la fiscalità ti stritola, o quando in cambio della protezione ti obbliga – proteggo ergo obbligo – a efferatezze). (pp.39-40)
La società cambia stato come una folle signora le sue toilette, e io devo seguirla in tutte le sue pazzie. E mi sballotta come un fuscello tra statalismo e liberalismo tra parlamentarismo e decisionismo. Trarmi fuori dalla società è dunque il mio disegno. (p.40)
Io invece ubbidisco alle mie evidenze, non alle leggi. Mi piego a queste ultime solo come uno schiavo, a colpi di frusta. (p.41)

L’indifferenza in materia di società che io propugno mi sembra il minore dei mali in un’epoca turbata. Ho infatti, non mi stano ci ripeterlo, una certa paura dello stato di società, proprio come l’individuo hobbesiano l’aveva dello stato di natura. A me sembra che lo stato di società sia appunto quello in cui non solo chiunque può uccidere chiunque, ma in cui gli stessi legami che il contratto sociale mi obbliga ad avere con gli altri sono così soffocanti che non mi pare che io ci guadagni, come mi assisteva invece Hobbes. […]
Io posso separarmi da mia moglie dai miei figli da mille altre sciocchezze, ma sono legato mani e piedi all’obbedienza alle leggi (ciò per cui Socrate mi è parso sempre uno stolto). Io devo oltretutto soggiacere come vado riflettendo alle scelte della maggioranza, ance se so perfettamente di che si tratta. (p.42)
In questi momenti io protendo per il tiranno. […]
[…]la rinunzia passerebbe attraverso un individuo ed è a costui che rimetterei la mia volontà e il mio essere. Confesso tuttavia la mia tentazione. […]
Ciò che mi vieta di ritirarmi in me stesso e trascorrervi la mia vita non è la presunta evidenza con la quale io mi scoprirei d’emblee <animale sociale>. Io subisco le costrizioni di una condizione che mi ha gettato a forza in una società. Pago lo scotto di essere vivo nella mia epoca. Nient’altro. (p.43)
Io mi immagino talora di essere legibus solutus, sciolto dunque da ogni legge e vincolato dal mio solo capriccio. […]
Nessun motivo, il mio capriccio è re.[…]
Il che mi ricorda favorevolmente il principio della grazia e mi fa respingere quello dei meriti. (p.44)

XII p.45

Ma la libertà di pensiero risultò mostruosa beffa giuocata al concetto di verità e in ultimo allo stesso pensiero. Perché la faccenda si presenta così: o il concetto di verità, che se ne infischia della libertà oppure la libertà, e la verità scompare. (p.45)
Il presupposto che non ci sia verità è ciò su cui si basa la politica. In altri termini se ci fosse verità non ci sarebbe politica. Il concetto di libertà di pensiero è una astuzia con cui la politica aggira il concetto di verità. (pp.46-47)
Verità e libertà dunque non possono assolutamente coesistere. Il potere politico garantisce quindi la libertà di pensare: ma di pensare cosa? Senza il concetto di verità il pensiero non ha più alcun significato. È questo pensiero senza significato che il potere politico assicura e garantisce. […]
Parecchie delle “filosofie” che io vedo altro non sono se non delle politiche. Non soltanto perché esse risolvono i problemi ricorrendo alla politica (in realtà già ogni ricorso alla pratica sminuisce una filosofia), ma soprattutto perché si pongono come fine […] (p.47)

XIII p.49

Poiché non mi sono rassegnato a essere nato, ne profitto per tramutare in conoscenza l’indignazione. […]
E ciò che vi trovo è anzitutto l’offesa che mi procura l’esistenza dell’altro. Io ne deduco che sarei dovuto esistere solo. Ritengo inalienabili i diritti del solipsismo. Semplicemente, ahimè, l’altro esiste. E da qui che nasce questa estrema confusione che è la vita sociale. […]
Ma il suolo dell’origine è maledetto come l’ora della nostra nascita. […]
Io non sono solo. Io che “devo” essere solo, non sono solo. (p.49)
C’è l’altro. […]
Ma l’altro è ontologicamente una minaccia. L’altro è per me una minaccia per il fatto solo di esistere.[…]
Ma trovo che quest’altra, <io solo devo esistere>, è di una evidenza indubitabile.[…]
Qualsiasi società cozza quindi contro la sua impossibilità metafisica. Ecco dunque la ragione dell’insopportabilità che ne avverto. L’altro è di troppo. Tutti i miei sforzi vanno dunque verso l’annullamento, almeno “in me stesso”, della società. O verso uno stato di indifferenza come ho già detto. (p.50)

XIV p.52

Mentre l’uguaglianza è un concetto che esigo per la vita quotidiana. (Tutti siamo uguali davanti a un posto libero al cinema o al bar, lo ammetto).[…]
Dissolve la famiglia, in cui tutti i membri diventano uguali tra di loro e le vecchie “disuguaglianze” (padre, madre, figlio) cadono a pezzi. Ma davanti allo spirito non permetto scherzi. Se devo dare conto ancora di un’altra mia evidenza, qui io mi sento disuguale. Ho la percezione di questa disuguaglianza come indubitabile. Il fatto che io pensi (e solo all’interno del pensiero immagino, sento, mi emoziono…) mi dà diritti che agli altri non riconoscono. (p.52)

Ingozzare di cialtroni teatri, biblioteche, gallerie, concerti: questo è il programma abietto del politico. Magnifica la risposta di Schonberg: «L’ascoltatore è presente e ciò mi disturba, anche se per motivi acustici non posso rinunciarvi (nella sala vuota infatti non v’è risonanza)». […]
L’atto con cui mi distacco dagli altri, quella originalità ce pretendo per la mia opera non li sento assolutamente come colpa. (p.53)
[…] il concetto di intellettuale è stato per tutta la sua vita un concetto propagandistico. Più ce altro si faceva propaganda per una società. […]
L’intellettuale che si attarda ancora in questo stato di cose è solo, ripeto, un propagandista. Un piazzista di idee “sociali”. […]
Solo intellettuali attardati, vecchie canaglie che non sanno più nulla di se stessi, della loro “vera patria”, o non vogliono saperlo, giuocano ancora al “miglioramento” del mondo. […]
Io credo che nelle cose dello spirito lo status belli sia lo stato normale. E che uno non possa farsi togliere la verità senza lottare. E che la verità vada imposta come in una battaglia la vittoria. Io amo questo rischio, che le mie cose possano perire, insomma la morte culturale in cui un altro trionfa e io sparisco. (p.54)
Per tornare ancora all’idea ce mi stava a cuore, la mia disuguaglianza me la conferma il fatto che io voglio essere trattato così come mi tratta il destino. Su questa disuguaglianza fondo la mia causa. (p.55)

XV p.56

L’ingiustizia sociale mi è sempre parsa una ingiustizia riuscita. Io traggo la mia nozione di giusto da questa considerazione: il mondo non dev’essere. Che esso non avvia alcun’altra radice a me sembra evidente. Il mondo non dev’essere: in questo io vedo il principio dell’etica e di ogni versa giustizia. […]
Il male mi sembra perfetto e l’ingiustizia sociale – o ciò che si chiama così […] – mi sembra che non vada toccata. Oltretutto non sarebbe che trasferirla da alcuni ad altri. Non giudicherei un fatto così rilevante lo spostarsi di un bene da un individuo a un altro: cosa sarebbe accaduto infatti? La società non perderebbe né guadagnerebbe niente. Ciò che prima aveva l’uno ora lo a l’altro. […]
Ciò che fu giusto o ingiusto prima, è giusto, o ingiusto, ora. No, la giustizia non m’interessa per nulla. (p.56)

Secondo la giustizia temporale, se io mi approprio di qualcosa che non è mio commetto un atto ingiusto; ma secondo la giustizia eterna, tutto è di tutti. Ce importa che ora il possesso sia di Tizio invece che di Caio? Ma la proiezione della giustizia eterna sulla giustizia temporale non consentirebbe la distinzione del derubato dal ladro, dell’assassino dall’assassinato. Davanti alla giustizia eterna, conferma la Bibbia del nostro Occidente, «carnefice e vittime sono tutt’uno, ed entrambi si ingannano, credendo, il primo, di essere esente dal martirio, la seconda, immune dalla colpa» […]. (p.57)

XVI p.58

Un’altra cosa mi sorprende. Da quando la salute è diventata una questione sociale, l’individuo ha perso i suoi diritti su di essa. È la società a stabilire la malattia e la guarigione. Ne definisce i limiti e le modalità. Con ciò il concetto di salute diventa l’unica malattia da cui non si guarisce. Chi ne è affetto è sempre malato. È questo concetto che dev’essere estirpato. […]
Bisogna lasciare che le grandi malattie eseguendo la condanna che fu loro affidata senza che la società si intrometta negli affari del destino. (p.58)
Grandiosi programmi di salute pubblica e di assistenza sanitaria proteggono invece la specie, in modo che l’umanità non scompaia. (pp.58-59)
Non mento se affermo che ho trovato una morale per una “specie” superba. Agisci in modo che ciascuna delle tua azioni conduca allo spegnersi finale della vita, essa dice. […]
Il punto di vista generale sulla vita è che essa non dev’essere. […]
Mostruosi ospedali ti risucchiano e ti rimettono a posto, buono per un’altra volta. Mentre attraverso quella fessura aperta dalla malattia nella tua vita s’era introdotto lo stesso principio etico. Questi luoghi trasudano di volontà di vivere, e gli avidi gesti degli addetti ribadiscono le catene a cui sei avvinto. Questa vita, non è che tu la voglia (come si insinua), ne sei invece voluto.[…]
In realtà il concetto di salute è ormai un insano concetto politico. (p.59)
Il primo che derivò il concetto di salute e l’obbligo di guarire dalla società fu Socrate. In questo senso effettivamente Socrate fu il primo medico “politico”. La salute appartiene alla società, non a te, dice Socrate, guarirti è compito della polis; prima di tutto delle leggi e solo in seguito tuo. Naturalmente da quando la salute diventò una questione politica tutti furono malati. […]
L’ambizione della politica fu da allora quella di potere affermare l’origine sociale di ogni malattia e soprattutto al natura sociale della guarigione. La canaglia è afflitta da un senso di malattia perpetua. Riverbero di una politica più che di una medicina, dove l’individuo è degradato a oggetto di cure. Tutto deve dimostrare che l’individuo è “imperfetto” e che quindi ha bisogno della politica. E ne avrà bisogno per sempre.
Corri dunque nel tuo lettuccio, raccomanda la politica. Ma io do retta a un altro consiglio: «Non sai che malattia e morte devono sorprenderci mentre facciamo qualcosa?» (Epitteto, Diatribe, III,5). (p.60)

XVII p.61

Io non amo la “mia” casa: è una dichiarazione di metodo. […]
Ma ancor più quando vedo in questa sorta di amore l’insidia dello spirito politico in azione. […]
Abbi una casa e ti ho nelle mie mani questa mi pare una delle esche più subdole di queste filosofie o politiche. […]
Il consenso e l’adesione anche di quelli che dissentono sono dati dal fatto che continuano a risiedere e ad abitare. Io sono convinto che abbellire la propria casa addobbarla arricciarla di quadri e di lussi conduce a contrarre con la società un legame tra i più duri a morire. (p.61)
Abbi casa invece per fare i tuoi bisogni (considerarla un water solo più grande). A tutto questo insomma io non do che una risposta: risiedi con indifferenza, abita con apatia. Soggiaci alle leggi come alla massima ingiuria che abbiano potuto farti e lascia perdere Socrate. (p.62)

XVIII p.63

Gli uomini vengono uniti prima di tutto dalla guerra. Essa li avvicina talmente che li uccide. Gli altri rapporti sono per lo più miserabili. Accosto alla guerra solo l’inferno familiare, in cui sono come sospesi tutti i diritti e si commettono quasi tutti i reati. Solo esso può inguaiarla. […]
Ebbene, la guerra esiste sempre, ma c’è un momento in cui esiste anche per te. Ecco tutto. Insomma la pace è un concetto vuoto (cioè politico). (p.63)
Invade l’Occidente una strana paura della guerra, con la quale crolla il concetto di verità unica ed eterna. Non per le manipolazioni di filosofi piccoli e miserabili. Il concetto di verità viene considerato la causa per eccellenza della guerra. Se la politica deve tenere a bada la guerra, non può farlo che sacrificando il concetto di verità. […]
Col concetto di pace si è eliminato il concetto di verità. Io non dico altro. (p.64)

XIX p.65

Ciò che Hobbes chiama stato di natura si deve invece chiamare, io ritengo, stato ontologico. […]
Come o già detto, ma ora lo preciso meglio, ontologicamente gli uomini sono uniti prima di tutto dalla guerra. Essa li avvicina talmente che li uccide. Del resto bella società l’odio, il rancore, il livore, l’indifferenza li uniscono più dell’amore, che li unisce solo a letto. Io non sono cattivo, semplicemente esisto. Questa è la mia professione di fede. (p.65)
L’uomo è pericoloso perché è. Dal punto di vista metafisico, ossia ontologicamente, io sono un fuorilegge. La politica come la si intende mette al bando la metafisica perché da essa, dalle sue evidenze, non possono derivare società ma bande di individui vaganti, ciascuno ossessionato e reso furioso dalla vicinanza degli altri, accomunati da uno stesso presente e senza futuro. Se devo essere sincero, io mi ritengo fuori dell’umanità. (p.66)

XX p.67

Davanti alla verità, io ritengo, non c’è più niente da pensare. Ciò che si chiama idea in politica, prende il posto lasciato dalla verità, il cui costo per essa era eccessivo. (In realtà devo dire che tra l’idea di politica e l’idea di verità vi è contraddizione. Essendo la verità qualcosa che non si può migliorare e la politica qualcosa la cui essenza è proprio questa: migliorare tutto ciò che tocca. […]
La libertà di pensiero sostenuta dalla politica contro ogni attendibilità filosofica è il pensiero senza verità. (p.67)

XXI p.69

In realtà la metafisica è la politica di una intelligenza più perfetta. Io non sono un soggetto, ma un oggetto, una cosa. Una cosa che dice <io>. Non un animale sociale ma un ente. (p.69)
L’indebolimento dell’intelligenza non indica dunque che la civiltà è sopraffatta dalla crisi, ma piuttosto che non ne è ancora invasa del tutto o che comunque vi resiste con forza. Chi vuol salvare questa civiltà deve dapprima diventare stupido, e poi se ne parla. In realtà è ciò che avviene. La politica è la più stupida attività a cui si siano mai dati gli uomini. Essa ha sostituito, con piena soddisfazione di entrambe, la filosofia. Quella che oggi abbiamo, torno a dire, sono delle politiche piuttosto che delle filosofie. […]
Inoltre più la società ci stringe, più vediamo veramente una diminuzione dell’intelligenza (con cui essa infine si protegge). Più aumenta la socialità più aumenta la stupidità. Cresce infatti la credulità generale (la fede nel futuro, la società migliore…) e la stessa individualità ne risente profondamente. Se si guarda però in se stessi, l’orrore della società diventa insopportabile ma aumenta il diletto di sé e l’affermazione della propria esclusività. (pp.70-71)

Certi istinti sociali sono non meno nocivi degli istinti naturali domati. Noi proveniamo dalla società, ma è allontanandocene che prendono forma la nostra distinzione e una non ignobile virtù. Io insegno rapporti fuggevoli. (p.71)

XXII p.72

Dire <io> è lo stesso che affermare: <tutto è mio>. […]
Davanti all’affermazione che il mondo è la mia rappresentazione non si fa una grinza, ma davanti a quella che <tutto è mio> (assolutamente conseguente) si resta interdetti.[…]
o detto già come essa mi dia il diritto di essere unico in questo mondo e mi faccia contestare non la mera esistenza ma il diritto a esistere degli altri. Dire <io> è per me dire che nessun altro ha diritto a esistere. Gli “altri” di cui si fa tanto chiasso esistono solo di fatto. Come le pietre o la cacca degli uccelli. (p.72)
Esaminando dunque ciò che così esprimo, io ne derivo la sensazione che proprio perché tutto è mio io non ne ho bisogno. […]
La politica si fonda sul ritenere ogni individuo imperfetto in quanto tale e di fatto privo di qualsiasi cosa che non abbia acquista con il lavoro e consacrata mediante il diritto. […]
È a chi non ha niente che si rivolge la politica, è lui il suo preferito. Essi sono reciprocamente indispensabili. La politica è indispensabile al “povero” quanto il povero alla politica. O come il topo al gatto. […]
Io sono io e tutto è mio: qui si incardina il mio pensiero, e all’interno di questo io sto magnificamente. (p.73)

XXIII p.74

Io sono convinto che qualsiasi “uso” delle verità è letteralmente impossibile. Quelle filosofie che proclamano quest’uso sono in realtà, come io le ho definite, delle politiche. Esse non disperano, sulle prime, di usare la verità in funzione di un bene pubblico. Fin quando non si rendono conto che la verità non ha niente a che vedere col dare da mangiare agli affamati e col curare gli ammalati. Io, per parte mia, sono convinto che la forma in cui la verità si mostra nella sua interezza è la morte. Questa è uno degli infiniti attributi della verità eterna, che tuttavia in essa si rivela per intero.

XXIV p.75

Opponendomi dunque al modello vincente io esigo da me stesso non che la metafisica si regoli sulla politica, come avviene, ma che la politica si regoli sulla metafisica. […]
I punti chiave di questa metafisica – in riferimento alla politica – mi sembrano i seguenti: io sono; io solo sono (anche se “esistono” gli altri); io solo devo essere; tutto è mio (ance se non “ho” nulla).[…]
Mentre l'<io sono> e l’atto ce lo dichiara sgorgano da un eccesso di essere. A me pare che poiché io sono, io straripo d’esser. E che da qui derivi tutto il resto. (p.75)
L’esistenza dell’altro è un abuso una sopraffazione, un’offesa incancellabile qualcosa che non deve essere. Ma ciò è già implicito nel dire <io sono>: dirlo significa minacciare, avvertire: <io solo sono> vuol dire solo io devo essere e rivolgendosi all’altro: tu non devi essere. […]
Ontologicamente gli esseri sono un’accozzaglia di assassini e di miserabili. (p.76)

XXV p.77

Immagino talora che la subordinazione della politica alla metafisica possa verificarsi nuovamente. Io torno, cioè, alla possibilità, o alla fantasia, che la politica si subordini interamente alla metafisica e che tragga da questa le sue verità. […]
Dovrebbe accettare anzitutto ce l’uomo è uno spregevole ente. E che per quanto riguarda la libertà (il “meglio”, cioè), metafisicamente parlando l’uomo ne ha tanta quanta potrebbe averne un asino[…] (p.77)
Accettare la verità (ma è maledettamente improprio esprimersi a questo modo perché la verità, come la morte, qualsiasi cosa di quest’ultima dicano gli stoici, non si “accetta” ma squallidamente si subisce), dobbiamo riconoscere che è umiliante. Significa, torno a dire, non innalzarsi al “meglio”, ma accettare, ad esempio, l’ingiustizia, accettare di nascere schiavo nell’epoca di Pericle o salariato oggi. Accettare di non essere liberi, oppure provare l’umiliazione di essere degli enti “sociali” […]. Questo, dunque, o su per giù. Dice la metafisica che io immagino. (p.78)
Ma se seguisse fedelmente la metafisica, cioè l’ordine ontologico, la politica non dovrebbe perseguire nemmeno la giustizia e il sapere, inculcandone il senso negli esseri che predilige e quindi raddoppiando il male con il male. Dovrebbe estirparli alla radice, e solo alcuni infelici dovrebbero essere condannati a sapere e a giudicare. (p.79)

XXVI p.80

Io non voglio esercitare alcuna influenza sugli uomini. […]
La mia indifferenza per l’altro è il maggiore sforzo che io possa fare per lui.[…]
A me non interessa dare da mangiare agli affamati (oltretutto i morsi della fame non li distraggono forse dai morsi della vita?). Sostengo sulle mie spalle qualcosa che richiede tutta la mia abnegazione. (p.80)

Il vero, dunque, non è il “meglio”, qui è la linea divisoria che distingue, vorrei dire sub specie aeternatis, la filosofia dalle politiche. Con loro stupore queste scoprono che la verità non si può migliorare. La verità, come la necessità, non si lascia convincere: essa è cieca, sorda e muta. (pp.80-81)

Le politiche appaiono quando attraverso la metafisica la sorte dell’uomo è segnata. Allora esser – si costruiscono appositamente per questo – si sbarazzano di quanto può intralciarne una confortevole esistenza e stabiliscono che bisogna eliminare il concetto di verità fuori di noi, il concetto di Dio, il concetto di mondo, eliminare la fame, la malattia, la vecchiaia, e sostituirle, penso all’illuminismo con telai per calze, mulini a vento e ad acqua, poltrone da veglia, letti alla polacca e scaldini per i piedi. (La fame, la malattia, la vecchiaia, Dio, la verità, la necessità, eccetera, costituiscono una fascina di concetti a cui i miglioratori si propongono di dare fuoco). (p.81)
Se una filosofia non può giustificare il pensiero che il prossimo può ben essere impiccato, e che chi pensa così non è un comune delinquente ma un filosofo nelle sue funzioni, allora la filosofia è solo un giuoco, e se ne conoscono di migliori. […]
Per tornare a quanto sopra ho riportato di Spinoza, chiunque avrà capito che l’optima philosophia (la filosofia votata al “meglio”) è quella che oggi chiamiamo politica, e la vera philosophia è propria la filosofia che debbo ritenere ormai scomparsa. (p.83)

XXVII p. 84

Io non riconosco un essere umano sulle base del volto. Vale a dire: ovunque vi è un volto vi è un uomo. […]
Io non ho rispetto, devo dire, per quelli ce non hanno alcuna aspirazione alla verità e non vivono anzitutto per sapere di che si tratta. Essi somigliano a degli uomini, ma non lo sono. Mi sembra inoltre sempre meno seria la presenza del genere umano nel mondo. (p.84)
In realtà ho sempre pensato che bastino pochi per formare il genere umano. Nella foia di moltiplicarsi tipica dei diseredati (come si sostiene) non vedo un’accanita energia vitale che dovrebbe compensarli. Ma la vita al punto più basso. […]
Noi produciamo opere: tecniche, arti, filosofe, scienze, letterature; loro, figli.(p.85)

XXVIII p.86

Io non intendo lasciare libero ognuno di pensare come vuole. In realtà è ciò che avviene. […]
La verità è il tiranno davanti a cui non possono né lacrime né argomenti. La verità comanda sempre e non obbedisce mai. Al richiamo della verità bisogna dunque lasciare tutto. Ma sopra ogni cosa bisogna dare un addio alla libertà, misero cencio con cui si nasconde il nostro reale asservimento. Dirò tra parentesi che per questo la filosofia non si può insegnare, e io trovo ridicolo farlo. Essa può, anzi deve solo dire: io ti comando. […]
Io sono convinto (o in termini più rigorosi, è una mia evidenza) ce la specie umana si conclude nel filosofo. In colui che unicamente è capace di trarre tutte le conseguenze dall'<io sono> e di “costringere” gli altri a trarle. (p.87)

XXIX p.88

L’idea che il mondo non debba essere è l’inizio di un metodo che nell'<io sono> legge: l’altro non dev’essere. Cioè l’idea di società è impossibile. (p.88)

Ho fatto già osservare che il primato della politica pretende di liquidare il primato ontologico e le sue gerarchie. Bisogna contrapporvi le implicazioni politiche dell'<io sono> e ristabilire i gradi di perfezione. La superiorità di un essere sugli altri. L’amore di sé e della propria grandezza. […]
La mia affermazione che la verità è un atto militare la debbo ancora spiegare. Anzitutto essa richiede la rassegnazione a essere solo un mezzo. Io eseguo un ordine. Io sono uno degli ultimi rappresentanti di una idea che non c’è più. (p.89)

La mia indifferenza al sociale è la mia ultima offerta alla verità, che non venero ma alla quale sono legato dai miei voti. […]
Invece ogni volta che dico <io>, elevo la specie.
[…]
Io abbandono il sociale al suo destino. O tratte tutte le conseguenze dell'<io sono>: ho espresso il mio orrore di essere governato. (Ma anche la mia umiliazione. […])[…]
Devo dire infine che io considero “uomo”, nella accezione più confacente all’idea che ne ho, l’uomo emancipato dalla società e dagli altri. (p.90)