LUIS SEPULVEDA – RACCONTARE, RESISTERE. CONVERSAZIONI CON BRUNO ARPAIA

raccontare resistere-2LUIS SEPULVEDA – RACCONTARE, RESISTERE. CONVERSAZIONI CON BRUNO ARPAIA
TEA – Collana SAGGISTICA TEA – I ed Novembre 2003

***Primo libro letto a Collevecchio (RI)***raccontare resistere-1

LA SPERANZA E LA POESIA p.11

Sì, perché per me uno scrittore è un uomo o una donna che è a suo agio dentro la vita, nelle cose più apparentemente insignificanti, e proprio per questo è scrittore. (p.11)

Contesto l’esistenza di quel limbo dello scrittore o dell’intellettuale che gli permette di essere lontano dagli altri e tuttavia di esprimere opinioni. (p.12)

Già malato, mi parlava delle regole inviolabili della natura, mi diceva che l’ideologia comunista racchiudeva qualcosa di atroce che era il rafforzamento dello stato, il quale invariabilmente sarebbe diventato uno stato repressivo, cercava di parlarmi degli avvenimenti spagnoli, dei fatti di Barcellona, ma io ero tutto preso dal partito. Fu la volta che dissi a nonno Gerardo: «Ognuno per la sua strada ». (p.16)
I miei racconti e le mie poesie comparivano già qua e là sui giornalini di partito, ma quello fu il mio primo best seller, perché le cinque copie passavano rapidamente di mano in mano. (p.17)

Fu così che mi ritrovai a scrivere radioromanzi per le domestiche in fascia mattutina. (p.18)
B.A. Avevi già deciso che da grande volevi fare lo scrittore?

L.S. No, non ancora. Le mie prime incursioni nella scrittura le facevo rubando tempo ad altre attività, alla politica, alla scuola e più tardi al giornalismo, o a semplici occupazioni da perdigiorno. Non provo il minimo imbarazzo nel riconoscere che, anche se quando lavoro sono piuttosto disciplinato, ho una spiccata vocazione al vagabondaggio. Mi piace perdermi per le strade senza una meta e, se è possibile, senza fare altro che camminare e respirare aria pura. Però la letteratura, e soprattutto la poesia, mi avevano affascinato fin da ragazzino. In Cile, il poeta per eccellenza era Neruda, e io leggevo e recitavo le sue poesie, però preferivo i poeti spagnoli. Antonio Machado, Leon Felipe, Miguel Hernàndez, Garda Lbrca, Gabriel Celaya, Marcos Ana, che scriveva dalle prigioni del franchismo, mi davano ciò che io volevo dalla poesia: un motivo di orgoglio per il semplice fatto di essere uomo, di essere vivo e di voler cambiare il mondo. Fu così che, preso dalla grande ammirazione per i poeti repubblicani, mi spinsi a scrivere i primi versi e perfino a pubblicarli. (p.19)

Era il grande poeta Pablo de Rokha, che io allo- | ra leggevo con sempre maggiore ammirazione perché scriveva con una forza tale che la lettura di una sua poesia ti lasciava esausto. Don Pablo prese un libro, lo sfogliò e mi chiese quanto costava. Gli risposi balbettando che avrei voluto regalarglielo. Allora De Rokha si tolse gli occhiali, mi esaminò con l’interesse di un entomologo di fronte a un insetto sconosciuto e disse: «Guardi, se lei non è convinto del valore del suo lavoro, è meglio che cambi strada. Quanto costa il suo volume? » Così, il secondo libro della mia vita lo vendetti a don Pablo de Rokha. Passarono tre o quattro giorni e, grazie all’abilità declamatoria di Carlos Catasse e dell’attore Jorge Guerra, che si unì alla lista dei miei amici per sempre, riuscii a vendere una trentina di copie e mi sentivo già felice. Ma ricomparve don Pablo. Mi esaminò di nuovo come un insetto prima di parlare: «Ho letto le sue poesie. Sono pessime, ma lei ha talento e dobbiamo parlarne. La aspetto lunedì a casa mia ». Così cominciai a frequentare la casa del poeta, in calle Valladolid. De Rokha era un gigante e tutto ciò che lo circondava aveva la sua stessa dismisura. Gli piaceva leggere e scrivere sdraiato sul letto, vestito di tutto punto. Appena arrivavo, mi chiedeva se avevo mangiato e, senza aspettare la risposta, ordinava alla cameriera: «Sandra, prepari all’amico sei uova fritte con molta pancetta, e ci metta anche un po’ di arrosto». De Rokha è stato il mio maestro. Seduti nel pa- ft tio di casa sua – amava ogni pianta, parlava alla vegetazione con feroce tenerezza, accarezzava i frutti dei suoi alberi con affetto paterno – mi spalancò le porte della , grande letteratura. (p.21)

Pablo de Rokha, che ho amato come un padre, mi trasmise con incomparabile generosità gran parte del suo sapere letterario, mi ! offrì la sua amicizia e, soprattutto, mi fece capire l’im- j portanza del rigore e il valore dell’autocritica. De Rokha era un gigante, ma un gigante ferito. Non riuscì mai a rimettersi dal dolore provocatogli dalla morte della sua compagna, la poetessa Winnet de Rokha, e dal suicidio j di suo figlio Carlos, anche lui poeta, che lo gettò in una immensa solitudine. Forse, con il suo Canto del macho anciano, un lungo poema premonitorio, già annunciava di dare per persa la sua battaglia con la vita. Un giorno ! arrivai presto a casa sua. La domestica non c’era. Bussai 1 e nessuno rispose, così spinsi la porta con un presenti- 1 mento di disgrazia, respirando l’aria della tragedia. Lo 1 trovai riverso sulla scrivania. Si era sparato un colpo di pistola. Provai un’enorme tristezza vedendolo lì, sconfitto, lui, il grande poeta dell’epica sociale americana, l’autore di Jesucristo, Epopeya de las comidas y bebidas de Chile, Escritura de Raimundo Contreras, l’amico più anziano che un giorno mi aveva detto: « Lei è giovane e deve capire che la battaglia per la vita la perdiamo nel momento stesso della nascita, eppure il vero eroismo è affrontarla, vivere disposti a vincerla ». Fu dura superare la sua morte, però dopo qualche tempo mi capitarono tra le mani due libri che costituirono per me l’invito a non abbandonare più la letteratura: Cent’anni di solitudine, di Gabriel Garda Màrquez, e il gioco del mondo, di Julio Cortàzar. (pp.22-23)

L.S. Sì, e contemporaneamente anche la militanza giovanile si faceva più intensa. Noi comunisti dovevamo impegnarci a fondo non solo nel partito, ma anche in tutte le altre attività: dovevamo primeggiare a scuola, dare l’esempio in ogni campo. C’era una specie di mistica dell’essere comunista, bisognava vivere come santoni. Finché, nel 1967, la morte del Che fu un vero shock che provocò una specie di terremoto generazionale. In
realtà, il partito ci aveva centellinato e nascosto le notizie sulla realtà della rivoluzione cubana. Fino al 1966 la linea ufficiale del Partito comunista l’aveva bollata come un’esperienza guidata da piccolo borghesi, mentre il Che veniva quasi indicato come un agente provocatore. Con la morte del Che in Bolivia cominciammo ad aprire gli occhi e la Gioventù comunista entrò in rotta di collisione con il partito, dandosi una direzione autonoma. Ci furono grandi tensioni, minacce di espulsione. Anche la mia situazione personale si stava deteriorando, così, per tirarmene fuori e prendere un po’ di tempo, partecipai al concorso per una borsa di studio all’università di Mosca. Lo vinsi, ma appena arrivato in Russia mi accorsi che davanti a me c’erano cinque anni di esilio atroce, in una realtà che era molto diversa da come ce l’avevano dipinta. Io seguivo i corsi di drammaturgia, e l’ambiente era insopportabile, ma almeno conobbi il migliore teatro moscovita, più o meno clandestino, che non aveva nulla a che fare con il noiosissimo realismo socialista. Per fortuna dopo un po’ mi tolsero la borsa di studio e mi espulsero dalTUnione Sovietica. (pp.25-26)
Con la morte del Che in Bolivia cominciammo ad aprire gli occhi e la Gioventù comunista entrò in rotta di collisione con il partito, dandosi una direzione autonoma. Ci furono grandi tensioni, minacce di espulsione. Anche la mia situazione personale si stava deteriorando, così, per tirarmene fuori e prendere un po’ di tempo, partecipai al concorso per una borsa di studio all’università di Mosca. Lo vinsi, ma appena arrivato in Russia mi accorsi che davanti a me c’erano cinque anni di esilio atroce, in una realtà che era molto diversa da come ce l’avevano dipinta. Io seguivo i corsi di drammaturgia, e l’ambiente era insopportabile, ma almeno conobbi il migliore teatro moscovita, più o meno clandestino, che non aveva nulla a che fare con il noiosissimo realismo socialista. Per fortuna dopo un po’ mi tolsero la borsa di studio e mi espulsero dalTUnione Sovietica. (p.26)

Quando tornai in Cile, le tensioni fra il partito e i dissidenti erano diventate ancora più forti, finché, in una riunione in un cinema, organizzata come un grande autodafé, venni espulso, insieme a molti altri, dalla Gioventù comunista. Le accuse? Tradimento degli interessi del proletariato, infantilismo, deviazionismo, spontaneismo, eccetera eccetera. Molti di noi finirono nel MIR, il Movimiento de izquierda re- volucionaria, altri, fra i quali io, aderirono alTELN, l’Ejército de liberación nacional, una frazione più o meno guevarista legata al Partito socialista. Dopo poco, l’ELN cominciò a mandare volontari in Bolivia, dove resisteva ancora un piccolo gruppo di guerriglieri. Decisi di andare anch’io. (p.27)

Eravamo giovani, avevamo la certezza che avremmo vinto, che ciò che facevamo era importante. […] Pensavamo che tutta la storia era dalla nostra parte. (p.28)

[…] decidemmo di impegnarci a fondo con Allende. (p.29)

Tutti i rivoluzionari latinoamericani degli anni Settanta erano generosi e ingenui, e noi cileni molto più degli altri. (p.30)

STORIE AL REGISTRATORE p.35

B.A. Eccoci ai tuoi libri.
L.S. Dopo il primo volumetto di poesie, quello che mi aveva dato l’opportunità di conoscere Pablo de Rokha, e le Crónicas de Pedro Nadie, vengono altri due libri di racconti che uscirono quando ero già in esilio: Los miedos, las vidas, las muertes y otras alucinaciones e Cuaderno de viaje. 11 problema per me era quello di sentirmi libero dall’influenza di Cortàzar. Ero quasi felice di essere tanto influenzato da lui e dal suo modo di narrare, ma dovevo fare in modo di assorbire la sua lezione evitando che si frapponesse tra me e la mia scrittura. Credo che i miei libri debbano molto soprattutto a tre autori: Cortàzar, Soriano e Hemingway. Sono quelli che sento più vicini, che più ho amato. (p.35)

Non si può fare nulla in letteratura se non si parte dalla premessa fondamentale che si scrive per sedurre il lettore. Naturalmente, sedurre non vuol dire ammaliare e alienare: si seduce qualcuno per poi procedere insieme mano nella mano. (p.36)

Ma imparai soprattutto che il genere che più mi piaceva, quello in cui mi sentivo più a mio agio, era il genere più difficile: il racconto breve. C’è poco da fare, il racconto riesce o non riesce… (pp.36-37)

B.A. Aspetta, aspetta… Vuoi dire che registri tutti 1 tuoi testi e poi li riascolti?
L.S. Certo. Li leggo per intero davanti al microfono e poi li riascolto: lì sì che ti rendi conto del vero valore delle parole… (p.40)

Per me l’esperienza del carcere, della tortura, è stata dura quanto quella degli altri. Anche quando ne ho parlato nei miei libri, l’ho fatto solo tangenzialmente, prestando qualche mia esperienza ai personaggi dei miei racconti. Non ho mai permesso che quell’esperienza mi annichilisse quando la vivevo, e non ho consentito che lo facesse dopo, trasformandosi in un tema obbligato dei miei libri. Non credo alla letteratura come psicanalisi, come psicoterapia, anche se, devo confessarlo, quando uscii dal carcere avevo un sacco di problemi: ero attorniato da fantasmi, non riuscivo a dormire, mi mancava qualcuno che mi accendeva e spegneva la luce ogni mezz’ora…
B.A. Eppure, in qualche modo, alla fine sei riuscito a parlarne.
L.S. La scrittura aiuta ad accettare e a spiegare a noi stessi le situazioni dolorose che abbiamo vissuto, quelle che ci costa fatica rivivere. (pp.41-42)
In compenso ho avuto sempre presente l’idea che fu di Hemingway, di Cortàzar e di Soriano: quali che siano la tua cultura, la tua erudizione, la tua abilità tecnica, devono essere usate solo come una serie di elementi funzionali alla storia da raccontare. Si crede di avere il dominio sulla storia, ma in realtà si è al suo servizio. Te ne accorgi quando la storia che porti dentro si trasforma in un’insopportabile ossessione, finché ti obbliga a essere scritta. È così che funziona. Per questo non credo all’immagine dello scrittore in crisi di fronte alla pagina bianca. E una caricatura. Ci si deve mettere alla scrivania solo quando la storia ti chiama e tu ti senti pronto a scriverla. Se qualcuno si siede davanti al computer e passa ore a sudare e a soffrire è solo un imbecille. In quei momenti, potrebbe fare tantissime altre cose, leggere, dormire, cucinare per gli amici, scopare, tutte molto migliori che stare lì davanti alla pagina bianca come un idiota. Sedersi a scrivere quando non si sa bene cosa si vuol fare è inutile. Anzi, serve solo a ingannarsi, magari a fingere di essere uno scrittore, uno scrittore in crisi di fronte alla pagina bianca. (p.47)

Scrivi a mano, sul serio?
L.S. Sì, sono assolutamente incapace di formulare qualsiasi idea al computer. Non posso perché ho bisogno di un rapporto fisico, passionale, con la scrittura, e in fondo è il mio modo di essere. (p.48)
Invece, quando non sto lavorando, ho un criterio f molto personale e arbitrario di lettura. Prima di tutto esigo dai romanzi altrui le stesse cose che chiedo a me stesso: i valori narrativi, la qualità della storia. A volte f compro un libro, lo comincio a leggere, ma se a pagina venti non mi ha catturato, va direttamente nel bidone della carta da riciclare, nemmeno mi interessa conservarlo in libreria. Tutti i libri che ho in casa sono libri che amo. (p.49)
La verità è che mi piace scrivere dappertutto, a patto di avere una scrivania ordinata. Quando sono a casa mi piace scrivere nel mio studio, adesso che finalmente, dopo tanti anni, ne possiedo uno. Però non riesco a scrivere di fronte a una finestra, perché mi distrae quello che c’è fuori. Devo mettermi di fronte a un muro. (p.51)

IL VINO E L’UVA p.53

B.A. Tu ripeti spesso, con le parole di Guimaraes Rosa, che «raccontare è resistere». L’epoca della letteratura impegnata, engagée, è sicuramente passata. Eppure la scrittura continua a richiedere una forte responsabilità. Sei d’accordo?
L.S. Certo, la letteratura engagée degli anni Sessanta e Settanta non ha più ragione di esistere: i legami dello scrittore con le avanguardie politiche non sono più possibili semplicemente perché quelle avanguardie politiche non esistono più e non sono più immaginabili. Del resto, lo scrittore non è più vincolato a una proposta alternativa di società perché purtroppo l’unica proposta sociale chiara e definita è quella dominante. Eppure, fortunatamente, in molti scrittori persiste la preoccupazione per i fenomeni sociali. (p.53)

LA Più DOLCE DELLE MENZOGNE p.63

Il tentativo di essere sempre stupidamente « sulla notizia», l’ossessione del «tempo reale», non lascia più
lo spazio per una seria riflessione, che sarebbe il compito precipuo degli scrittori e degli intellettuali. (p.65)

La letteratura si basa sulla finzione, sulla menzogna: è un mondo che non esiste, fatto di personaggi inventati perfino quando si riferiscono a persone reali. Eppure è una menzogna che arricchisce, che apre grandi varchi di verità. In questo senso, si potrebbe arrivare a definire la menzogna come un grande spazio di libertà e di immaginazione, in cui si è sciolti da ogni vincolo pseudomorale e da ogni convenzione, liberi di galoppare in praterie che non esistono, a patto di rispettare le regole ferree che la letteratura stessa impone. Si mente per toccare più da vicino la realtà, per restituirla pienamente. (p.71)

La letteratura è sempre sovversiva perché mette i in discussione la realtà così com’è, la realtà dei rapporti umani, la i realtà sociale, politica, del potere. Quando Remarque scrive Niente di nuovo sul fronte occidentale, rappresenta un evento terribile, la Prima guerra mondiale, che tuttavia è oggetto di una corale accettazione, quasi di una glorificazione. Un enorme dispositivo propagandistico sta avvilendo gli uomini con un discorso patriottico che è come un grande elogio della morte. Il pensiero è completamente al servizio della distruzione reciproca, eppure Remarque, raccontandoci di un soldato in trincea sedotto dal volo di una farfalla, ci spalanca la possibilità di un altro mondo: quello della vita e della pace. Quel solo brano costituisce una ribellione, un gesto anarchico, una contestazione radicale. E siccome la letteratura è sovversiva, lo scrittore stesso è stato sempre considerato un elemento sospetto, inaffidabile. Il potere ha sempre cercato di addomesticare gli scrittori, prima con la repressione diretta, poi affidando loro incarichi pubblici, poi direttamente comprandoli… (pp.72-73)

COS’è LA POLITICA, OGGI p.75

L.S. Siamo evidentemente in presenza di un impoverimento della politica, che perde sempre più il suo primato a vantaggio della sfera economico-finanziaria e si è ormai quasi completamente trasformata in semplice amministrazione. Prima, quando il politico rispondeva a una vocazione di servizio, la rappresentanza politica si basava, almeno nei casi migliori, sulle idee. Vale a dire che un politico difendeva una proposta di società e cercava di articolarla e realizzarla attraverso un metodo. Oggi si accede alla politica per amministrare e gestire una proposta di società già esistente e che, per di più, viene ritenuta immutabile e immodificabile. (p.75)

L.S. Sono assolutamente d’accordo. Ci troviamo di fronte a una crisi sostanziale della democrazia occidentale. Ne sono un sintomo evidente anche gli alti tassi di astensionismo, che rappresentano sia in Europa sia in
America la prova evidente di una crisi di sfiducia da parte dei cittadini e inficiano alle radici la rappresentatività delle nostre democrazie. (pp.76-77)

A parte alcune piccole formazioni politiche, non esiste più una differenza radicale fra destra e sinistra, non c’è una sostanziale differenza di idee. (p.82)

IL MONDO NUOVO p.93

IL MOVIMENTO DEI MOVIMENTI p.103

LA LETTERATRA LATINOAMERICANA NON ESISTE p.117

Insomma, voglio dire che non esiste una marcata letteratura «continentale». Esistono varie letterature che fanno parte a pieno titolo della letteratura mondiale. Va bene, dunque, sventolare la letteratura latinoamericana come j una bandiera, ma in realtà, in quanto tale, non esiste. (p.118)

Le mie sono categorie emotive, del cuore. Direi, ecco, che al Sud è ancora viva una necessità di prossimità; mentre al Nord, per scaldarsi, si poteva usare il carbone che si portava via dal Sud, al Sud si preferiva abbracciarsi per avere il calore che mancava. Così nel Sud è rimasto vivo qualcosa che al Nord è sparito: in quell’abbraccio gli uomini continuano a parlarsi. Il Sud è sinonimo di vitalità, di calore, di creatività. Come dice Juan Gelman in una sua stupenda poesia, il Sud genera risposte senza preoccuparsi se le domande siano quelle giuste. (pp.128-129)

Il fatto è che
il Sud, a differenza del Nord, ha sempre conosciuto una generosità della natura che ci ha portato a una specie di pigrizia intellettuale, abbiamo cominciato a reagire quando gli errori erano quasi irreparabili. So che questa considerazione può portare a teorizzazioni pericolose e assolutamente non condivisibili, eppure bisogna prendere atto del fatto che, oltre a tutte le cause politiche che ben conosciamo, una qualche responsabilità è dovuta alla nostra pigrizia intellettuale, al credere che le risorse dei Sud sarebbero state eterne. Invece la mentalità depredatrice del Nord fa prima tutti i calcoli necessari. Con tutto ciò, insisto sul fatto che il Sud produce forme di vita migliori, umanamente più ricche. (p.131)

I LUOGHI, GLI AMICI p.133