LOUIS-FERDINAND CÉLINE – VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE (2022. 90° anniversario)

LOUIS-FERDINAND CÉLINE – VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE (2022. 90° anniversario)
LOUIS-FERDINAND CÉLINE – VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE (2022. 90° anniversario)

LOUIS-FERDINAND CÉLINE – VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE (2022. 90° anniversario)

CORBACCIO – Collana I GRANDI SCRITTORI – XIV ed.

TRADUZIONE E NOTE: Ernesto Ferrero

Viaggio al termine della notte è il primo romanzo di Louis Ferdinand Destouches, sconosciuto medico trentacinquenne, pubblicato per la prima volta nel 1932 dall’editore Denoel dopo essere stato rifiutato dalla casa editrice Gallimard.

Il libro risulta essere un’avvincente trasposizione del vissuto dell’autore che ne approfitta per mettere a nudo le miserie dell’individuo e quelle della società contemporanea. Ecco allora Bardamu (alter ego dell’autore) muoversi sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, denunciandone gli orrori; eccolo nelle colonie a svelarne l’inutilità e lo sfruttamento; eccolo criticare il capitalismo americano e il sistema di fabbrica (Bardamu va in America e finisce per lavorare alla Ford); eccolo muoversi come dottore tra i poveri delle borgate francesi…

Rivoluzionaria la scrittura, pur ancora legata agli schemi del passato, plasmata sul parlato, scandita da un ritmo incalzante ed accompagnata dal turpiloquio. È l’introduzione della musicalità nella prosa. Con il successivo Morte a Credito, la dissoluzione della forma tradizionale del romanzo sarà completa.

“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza.

Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non si sbaglia mai.

E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi.

È dall’altra parte della vita

(Dal Frontespizio)

Bardamu e il suo amico Arthur, due giovani ventenni nullafacenti, si incontrano in un torrido pomeriggio per parlare in un locale presso Place Clichy.

È cominciata così. Io, avevo mai detto niente. Niente. È Arthur Ganate che mi ha fatto parlare. Arthur, uno studente, un fagiolo anche lui, un compagno. Ci troviamo dunque a Place Clichy. Era dopo pranzo. Vuol parlarmi”. (p. 11)

Le strade son deserte per via del caldo e i due cominciano discutere di politica:

«Di’, che signor giornale il “Temps”», ecco che mi provoca Arthur Ganate a ‘sto proposito. «Ce n’è mica un altro come quello che difende la razza francese! – Ce n’ha proprio bisogno la razza francese, visto che non esiste!» gli ho risposto io per fargli vedere che ero documentato, colpo su colpo.

«Ma si! Che ce n’è una! E anche bella come razza! Insisteva lui, ed è persino la più bella razza del mondo, e cornutaccio chi dice il contrario!». E poi, eccolo che parte a gridarmi addosso. Ho tenuto duro, beninteso.

«Non è vero! La razza, quel che chiami così, è solo questa grande accozzaglia di poveracci del mio stampo, cisposi, pulciosi, cagoni, che son cascati qui inseguiti da fame, peste, tumori e freddo, arrivati già vinti dai quattro angoli della terra. Potevano mica andare più in là perché c’era il mare. È questo la Francia, questo sono i Francesi.

Bardamu, mi fa allora con aria grave e un po’ triste, i nostri padri valevano quanto noi, non parlarne male!…

Ci hai ragione, Arthur, per questo ci hai ragione! Rancorosi e docili, stuprati, sgangherati e coglioni sempre, valevano proprio quanto noi! Puoi dirlo! Cambiamo mica! Né i calzini, né i maestri, né le opinioni, o almeno così tardi, che non ne vale più la pena. Siamo nati fedeli, fedeli crepiamo noialtri! Soldati a gratis, eroi per tutti e scimmie parlanti, parole sofferte, siamo noi i cocchi di Re Miseria. È lui che ci possiede!” (p. 12)

Poi, a poco a poco, l’argomento di discussione diviene la guerra:

«E d’altronde il giorno che la patria mi chiederà di versare il sangue per lei, me mi troverà di sicuro, e mica a far flanella, pronto a darlo». Ecco quel che mi ha risposto.

Per l’appunto la guerra si avvicinava a noi due senza che ci siamo resi conto, e non avevo più la testa molto lucida». (p. 13)

Ecco che di lì a poco passa per le strade un reggimento e d’impulso… Bardamu corre loro dietro, va ad arruolarsi! Quando poi si rende conto dell’assurdità del gesto che ha compiuto, è ormai troppo tardi per tornare indietro:

Ma non capita che proprio davanti al caffè dove c’eravamo piazzati si mette a passare un reggimento, e col colonnello in testa sul suo cavallo, e ci aveva perfino un’aria simpatica e dannatamente in gamba, il colonnello! Io, ho fatto uno zompo solo dall’entusiasmo.

«Vado a vedere se è così! Gli grido all’Arthur, ed ecco che son partito ad arruolarmi, e a passo di corsa per di più».

[…]

«Riassumendo, mi son detto allora, quando ho visto come girava, non è più divertente! È tutto da ricominciare!». Stavo per andarmene. Ma troppo tardi! Avevano rinchiuso zitti zitti la porta dietro noi civili. Eravamo fatti, come topi.” (p. 14)

Eccolo, dunque, l’ingenuo Bardamu, dopo un breve periodo d’addestramento, gettato in prima linea sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, lui che non comprende il perché del conflitto, che ha paura e che non vuol morire. È in queste pagine che Céline, controcorrente rispetto al nazionalismo in voga in tutta Europa negli anni ’30, denuncia con amara comicità gli orrori della guerra, la paura e le debolezze di chi l’ha vissuta e di chi l’ha combattuta.

Una volta che ci sei, ci stai bene. Ci fecero montare a cavallo e poi in capo a due mesi che eravamo là sopra, rimessi a piedi. Forse perché costava troppo caro”.

Lui, il nostro colonnello, sapeva forse perché quei due là sparavano, i tedeschi forse anche loro lo sapevano, ma io, veramente, non lo sapevo. Per quanto lontano cercassi nella memoria, gli avevo fatto niente io ai tedeschi. Ero sempre stato molto gentile ed educato con loro. Li conoscevo un po’ i tedeschi, ero persino stato a scuola da loro, quando ero piccolo, dalle parti di Hannover” (p. 15 )

La guerra insomma era tutto quello che non si capiva. Non poteva continuare.[…]

Avevo come voglia malgrado tutto di cercare di capire la loro brutalità, ma più ancora avevo voglia di andarmene, moltissimo, assolutamente, tanto tutto quello mi sembrava all’improvviso come l’effetto di un errore tremendo.

«In una storia così, c’è niente da fare, non c’è che battersela», mi dicevo io, dopo tutto…[…]

Mai mi ero sentito così inutile in mezzo a tutte quelle pallottole e le luci di quel sole. Una immensa, universale presa in giro.” (p. 16)

Il colonnello, era dunque un mostro! Adesso, ne ero convinto, peggio di un cane, non s’immaginava la sua dipartita! Capii al tempo stesso che dovevano essercene molti come lui nel nostro esercito, di prodi, e poi di sicuro altrettanti nell’esercito di fronte. […] Da quel momento la mia caghetta divenne panico. Con esseri del genere, quest’imbecillità infernale poteva continuare all’infinito…

Sarei dunque io il solo vigliacco sulla terra? Pensavo io. E con che spavento!… perduto in mezzo a due milioni di pazzi eroici e scatenati armati fino ai denti? (p. 17)

Uno è vergine dell’Orrore come lo è della voluttà. Come me lo potevo immaginarmelo io ‘sto orrore lasciando Place Clichy? Chi avrebbe potuto prevedere prima d’entrare davvero in guerra, tutto quel che conteneva la sporca anima eroica e fannullona degli uomini? Adesso, ero preso in questa fuga di massa, verso l’assassinio di gruppo, verso il fuoco… (p. 18)

Niente da dire. Di colpo scoprivo la guerra tutta intera. Ero sverginato. Bisogna essere all’incirca solo davanti a lei come lo ero io in quel momento per vederla bene la carogna, di fronte e di profilo.

Ah! cosa non avrei dato in quel momento per essere in prigione invece di esser lì, come un cretino!

Dalla prigione, ci esci vivo, dalla guerra no. Tutto il resto, sono parole.

Se solo avessi avuto ancora tempo, ma non ne avevo più| C’era niente da rubare! Come sarebbe stato bello in una piccola prigione tranquilla, ecco cosa mi dicevo, dove le palle non passano![…]

È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre.” (p. 19)

La morte del colonnello con cui prestava servizio, al quale avrebbe voluto parlare per cercare di farlo desistere e ragionare, a seguito dello scoppio di una granata, permette a Bardamu di svignarsela dal campo di battaglia…

Ho lasciato quei posti senza insistere, tutto felice di avere un così bel pretesto per svignarmela”. (p. 25)

Dopo ore di cammino nei boschi delle Friande, eccolo raggiungere un avamposto francese: per sua sfortuna la tragica avventura prosegue, essendo rimasto solo lievissimamente ferito al braccio…

“Quando non si ha immaginazione, morire è poca cosa, quando se ne ha, morire è troppo”. (p. 23)

Ero dunque il solo a sapermi immaginare la morte in quel reggimento? La preferivo tardiva, la mia di morte…”. (p. 24)

La guerra dunque prosegue per il povero Bardamu che, anzi, a fine agosto, viene nominato brigadiere e posto a capo di cinque commilitoni al servizio del generale Des Entrayes…

Capita di tutto, e a me capitò di diventare brigadiere verso la fine di quello stesso mese d’agosto. Mi mandavano spesso con cinque uomini, in collegamento, agli ordini del generale des Entrayes”. (p. 27)

Oltre al pericolo costante della morte, i soldati devono sopportare anche le angherie dei superiori, del comandante Pinçon in particolare:

Si chiamava Pinçon ‘sto maiale, il comandante Pinçon. Spero che a quest’ora sia proprio crepato (e non di morte tranquilla). (p. 28)

Da quattro settimane che durava, la guerra, eravamo diventati così stanchi, così infelici, che avevo perduto, a forza di fatica, un po’ della mia paura per strada. La tortura di essere tormentati di giorno e notte da ‘sta gente, i graduati, i piccoli soprattutto, più brutali, più meschini e carichi d’odio ancora più del solito, finiva per far esitare i più ostinati, a vivere ancora.

Ah! la voglia di andarsene! Per dormire! Anzitutto! E se non c’è più davvero modo di andarsene a dormire, allora la voglia di vivere se ne va da sola”. (p. 32)

Gli avevo fatto niente, io a ‘sto Pinçon! A lui, mica più d’altronde che ai tedeschi!… […] Mi chiedevo quale rabbia di mandare gli altri a crepare lo possedeva quello lì. Gli altri che non avevano carte.” (p. 33)

Prosegue ininterrotto il calvario di Bardamu nei boschi delle Fiandre, tra ordini assurdi di ciechi e abbrutiti graduati, agguati, impellente bisogno di dormire e spasmodica ricerca di cibo e legna da ardere… Ortolan, in particolare, uno dei sottufficiali più invasati…

Collaborava con la morte. Si poteva giurare che quella aveva un contratto con il capitano Ortolan”. (p. 37)

Ma a partire da ottobre fu proprio finita con le piccole tregue, la grandine divenne sempre più fitta, più densa, meglio impastata, farcita di granate e pallottole. Presto saremmo stati in piena tempesta e quel che cercavamo di non vedere sarebbe apparso in pieno davanti a noi e non avremmo visto che lei: la nostra morte”. (p. 38)

[…] il disgusto d’essere stati torturati, ingannati a sangue da un’orda di pazzi viziosi diventati improvvisamente incapaci d’altro, fin che c’erano, che non fosse uccidere e farsi sbudellare senza sapere perché. Pancia a terra fra due letamai, a furia di bestemmie, a furia di calci in culo, ci si ritrovava ben presto rimessi in piedi dalle gridaglie e risbattuti ancora una volta verso altri incarichi del convoglio, ancora.” (p. 39)

“‘Sti rifornimenti, un incubo in più, piccolo mostro tormentoso nel grosso della guerra”. (p. 40)

Chi parla dell’avvenire è un cialtrone, è l’adesso che conta. Invocare i posteri, è parlare ai vermi. Nella notte del villaggio in guerra, il maresciallo custodiva gli animali umani per i grandi mattatoi che avevano aperto”. (p. 41)

Come se non bastasse, viene mandato dal capitano Ortolan, per conto del generale, a controllare se i tedeschi avessero già occupato il villaggio di Noirceur-sur-la-Lys:

Ero mica tanto savio da parte mia, ma comunque diventato così pratico nel frattempo da essere definitivamente vigliacco. A seguito di questa decisione davo indubbiamente l’impressione di una grande calma. Fatto è che così com’ero ispiravo una fiducia paradossale al nostro capitano, Ortolan appunto, che per quella notte decise di affidarmi una delicata missione. Si trattava, mi spiegò in confidenza, di andarmene al trotto prima di giorno a Noirceur-sur-la-Lys, paese di tessitori, situato a quattordici chilometri dal villaggio in cui eravamo accampati. […]

Ci sono cose che uno stenta a crederle prima di andare in guerra. Ma quando uno c’è, tutto si spiega, e gli Aztechi e il loro disprezzo per il corpo altrui, è allo stesso che doveva andare per le mie povere trippe il nostro generale Céladon des Entrayes, sopra nominato, diventato grazie alle promozioni una sorta di dio fatto e finito, anche lui, una specie di piccolo sole spaventosamente esigente.

Mi restava solo una piccola speranza, quella d’esser fatto prigioniero. (p. 42)

Raggiunto il villaggio in piena notte, dopo aver acquistato vino da una famiglia razziata e vittima degli occupanti, non vi trova i tedeschi, bensì un riservista, Robinson Leon [suo alter-ego]. Per porre fine alla “sua” guerra, Bardamu accetta il consiglio di Robinson e con lui entra in paese con la volontà di farsi catturare dai tedeschi (“Ne ho basta io, ripeteva, vado a farmi cuccare dai crucchi” p. 47). Ma i tedeschi non ci sono e il sindaco li caccia perché non vuole problemi dai nemici, annunciati in arrivo. Al sorgere dell’alba, Bardamu si “congeda” da Robinson. La guerra prosegue (“Siam tornati ciascuno nella sua guerra. E poi ne sono capitate di cose e cose[…]” p. 53)…

Ferito in combattimento, Bardamu viene mandato in convalescenza a Parigi dove fa sfoggio con i borghesi della medaglia al valore con la quale è stato insignito…

Per parte mia, non avevo più da lamentarmi. Stavo persino per affrancarmi con la medaglia militare che m’ero guadagnata, la ferita e tutto. In convalescenza, me l’avevano portata la medaglia, addirittura in ospedale. E lo stesso giorno, me ne andai a teatro, per esibirla ai borghesi durante gli intervalli. Grande effetto. Erano le prime medaglie che si vedevano a Parigi. Un affare!” (p. 55)

Al foyer dell’Opéra Comique conosce la crocerossina americana Lola, una giovane ragazza di ventitré anni bella e piena di vita e d’entusiasmo…

È in proprio in quell’occasione, che nel foyer dell’Opéra-Comique ho incontrato la piccola Lola d’America, ed è per merito suo che mi sono completamente scaltrito”. […]

Per causa sua, di Lola, son diventato maniaco degli Stati Uniti[…]. (p. 55)

Il cuore di Lola era tenero, debole ed entusiasta. Il corpo era grazioso, molto gradevole, e dovetti prenderla tutta insieme come si ritrovava. Era una ragazza proprio carina Lola dopo tutto[…]. (p. 56)

L’obiettivo di Bardamu è quello di tirare il più a lungo possibile la convalescenza, non avendo nessuna intenzione di tornare sui campi di battaglia…

Per me che tiravo a lungo la convalescenza fin che potevo e che ci tenevo per niente a riprendere il turno nel cimitero ardente delle battaglie, il ridicolo del nostro massacro mi saltava fuori, nel suo falso splendore, ad ogni passo che facevo in città. Una furberia sconfinata si pavoneggiava dappertutto.

Tuttavia avevo poche speranze di farla franca, non avevo nessuna delle conoscenze indispensabili per tirarsi fuori. Conoscevo solo dei poveri, cioè gente la cui morte non interessa a nessuno. Quanto a Lola, non bisognava contare su di lei per imboscarsi. Anche se era infermiera, non si poteva immaginare, tranne Ortolan, forse, un essere più combattivo di quella ragazza incantevole”. (p. 56)

La relazione con Lola prosegue mettendo in luce la diversità tra i loro spiriti, tra le loro visioni del mondo: Bardamu è pessimista, mentre la ragazza è positiva e piena di vita come le persone abituate all’agio e che non hanno mai visto la guerra da vicino…

Lola, dopo tutto, non faceva che divagare su felicità e ottimismo, come tutte le persone che sono dalla parte giusta della vita, quella dei privilegi, della salute, della sicurezza e che hanno ancora da vivere per un bel po’.

Lei mi tormentava con le cose dell’anima, se ne riempiva la bocca. L’anima, è la vanità e il piacere del corpo finché uno è in gamba, ma è anche la voglia di uscire dal corpo qund’è malato o le cose girano male[…] (pp. 58-59)

Ma io, non potevo più scegliere, i giochi erano fatti! Stavo nella mia verità fino in fondo, e poi la mia stessa morte mi seguiva per così di re passo passo. Facevo fatica a pensare ad altro che al mio destino d’assassinato con la condizionale, che tutti d’altronde trovavano assolutamente normale per me.[…]

Non si perde gran che quando brucia la casa del padrone. Ne verrà sempre un altro, se non è sempre lo stesso, tedesco o francese, o inglese o cinese, per presentarti, vero?, il conto al momento giusto… In marchi o franchi? Dal momento che bisogna pagare…

Insomma, era maledettamente a terra, il morale. Se le avessi detto quel che pensavo della guerra, a Lola, mi avrebbe semplicemente preso per un mostro, e cacciato dalle residue dolcezze della sua intimità. Dunque me ne guardavo bene, dal farle queste confessioni. Sperimentavo d’altra parte varie difficoltà e rivalità. C’erano degli ufficiali che cercavano di soffiarmela, Lola.” (p. 59).

Ferdinand ottiene la nomina ad assaggiatore di frittelle destinate agli ospedali, incarico fin lì ricoperto con sommo zelo da Lola, per questo ingrassata e ossessionata dalla linea, deciso a intraprendere in futuro un viaggio nei favolosi Stati Uniti…

Decisi, a forza di pastrugnare Lola, di intraprendere prima o dopo un viaggio negli Stati Uniti, come un vero pellegrinaggio, e quello appena possibile”. (p. 60)

In città intanto i feriti in circolazione aumentano, così come le menzogne della propaganda…

I feriti sempre più numerosi zoppicavano per le strade, spesso sciamannati. Per aiutarli si organizzavano delle collette, «Giornate» per questi, per quelli, e soprattutto per gli organizzatori delle Giornate. Mentire, scopare, morire. Avevano appena proibito di tentare qualcos’altro. Si mentiva con rabbia al di là dell’immaginabile, molto al di là del ridicolo e dell’assurdo, nei giornali, sui manifesti, a piedi, a cavallo, in vettura. Ci si erano messi tutti. Si faceva a chi mentiva molto più degli altri. Presto non ci fu più verità in città.

Il poco che uno ci trovava nel 1914, adesso se ne vergognava. Tutto quel che toccavi era truccato, lo zucchero, gli aeroplani, i sandali, le marmellate, le foto; tutto quel che leggevi, inghiottivi, succhiavi, ammiravi, proclamavi, confutavi, difendevi, tutto quello non erano altro che fantasmi pieni d’odio, falsificazioni mascherate. Perfino i traditori erano falsi.” (p. 61)

Passeggiando in un parco con Lola, i due si imbattono in un tiro a segno (“Stand delle Nazioni”) che evoca nella mente di Bardamu, più di ogni altra cosa, il terrore della morte, l’angoscia di subire un’imboscata, tutti diretti alla morte… La sua labile psiche cede…

“Mi sentivo tutto strano. È proprio a partire da quel momento, credo, che la mia testa è diventata così difficile da tener tranquilla con le sue idee dentro.[…]

Alla fine decidemmo per Duval. Ma appena ci siamo messi a tavola il posto mi sembrò insensato. Tutta ‘sta gente seduta in fila intorno a noi mi dava l’impressione di aspettare anche lei che le pallottole le saltassero addosso da ogni lato mentre s’abboffava. […]

«Andatevene tutti! Ecco che li avvisai io. Squagliatevi! Sparano! Vi ammazzano! Ci ammazzano tutti!»

Mi hanno riportato all’hotel di Lola, in tutta fretta. Vedevo dappertutto la stessa cosa. Tutti quelli che sfilavano per i corridoi del Paritz sembrava che andassero a farsi sparare addosso. (p. 66)

Ero invasato. Un vero scandalo. «Povero soldato!» dicevano. Il portiere m’hanno portato pian piano al bar, per gentilezza. M’ha fatto bene e io ho bevuto, poi alla fine i gendarmi son venuti a prendermi, più brutalmente loro. (pp. 66-67)

Allora mi sono ammalato, febbricitante, diventato matto, hanno spiegato loro all’ospedale, per la paura. Era possibile. La miglior cosa che puoi fare no?, quando sei a ‘sto mondo, è di uscirne. Matto o no, paura o no.” (p. 67)

Bardamu viene così ricoverato presso un ex-liceo adibito a centro d’accoglienza per soldati afflitti da problemi psichici, a Issy-les-Moulineax. Costantemente spiati dai medici, dalla custode (anche prostituta oltre che delatrice) e dagli altri ricoverati, gli ospiti sono tuttavia trattati bene e possono ricevere visite…

Ne sono nate delle storie. C’era chi diceva: «’Sto ragazzo, è un anarchico, allora bisogna fucilarlo, è il momento e subito, senza esitare, bisogna mica gingillarsi, perché c’è la guerra!…» Ma ce n’erano degli altri, più pazienti, che asserivano che ero soltanto sifilitico e folle autentico e di conseguenza andavo rinchiuso fino alla pace, o almeno per qualche mese, perché loro, i non matti, che avevano tutte le ragioni, dicevano, volevano curarmi mentre avrebbero fatto la guerra loro soli.

Tuttavia la mia diagnosi restava molto discutibile. Le autorità decisero dunque di mettermi sotto osservazione per qualche tempo.

Eravamo alloggiati noi, i feriti con turbe, in un liceo di Issy-les-Moulineaux, organizzato apposta per accogliere e spingere con le buone o con le cattive a confessare, secondo i casi, i soldati del mio tipo il cui ideale patriottico era semplicemente compromesso o del tutto malato. (p. 68)

Non ci trattavano per niente male, ma ci sentivamo tutto il tempo, comunque, spiati da un personale infermieristico silenzioso e dotato di enormi orecchie.

Dopo qualche tempo di sottomissione a questa sorveglianza, te ne uscivi con discrezione per andare o al manicomio, o al fronte, o ancora molto spesso al muro.” (pp. 68-69)

La denuncia della guerra e della sua stupidità ed inutilità emerge forte in queste pagine. In un colloquio con Lola, l’ultimo, Bardamu confessa la sua voglia di vivere, la paura della morte. Lola non capisce e lo lascia…

“– Si, assolutamente vigliacco, Lola, rifiuto la guerra e tutto quel che c’è dentro… Non la deploro, io… Non mi rassegno, io… Non mi piagnucolo addosso, io… La rifiuto recisamente, con tutti gli uomini che contiene, voglio averci niente a che fare con loro, con lei. Fossero anche novecentonovantacinque milioni e io solo, sarebbero loro che hanno torto, Lola, e io che ho ragione, perché sono il solo a sapere quel che voglio: non voglio più morire.

Ma è impossibile rifiutare la guerra, Ferdinand! Ci son solo i pazzi e i vigliacchi che rifiutano la guerra quando la loro Patria è in pericolo…

Allora vivano i pazzi e i vigliacchi! O piuttosto sopravvivano i pazzi e i vigliacchi! Ti ricordi un solo nome per esempio, Lola, di uno dei soldati ammazzati nella guerra dei Cent’Anni?… Hai mai cercato? Ti sono altrettanto anonimi, indifferenti e sconosciuti quanto l’ultimo atomo di questo fermacarte davanti a noi, quanto la tua cacca mattutina… Vedi allora che sono morti per niente, Lola! Assolutamente niente di niente, ‘sti cretini! Te lo dico io! Abbiam fatto la prova! Non c’è che la vita che conta. Fra diecimila anni, ci scommetto che questa guerra, per quanto sublime ci sembri adesso, sarà completamente dimenticata…

Decise di lasciarmi seduta stante. Era troppo.” (pp. 72-73)

Parole ancor più dure nei riguardi della guerra e dei governi che la decidono Céline fa pronunciare a Princhard, un professore di storia e geografia, anche lui arruolatosi d’impulso ad inizio guerra e subito pentitosene, divenuto ladro di cibo in scatola dell’esercito pur di sottrarsi al massacro. Ma lo stato ha deciso di “perdonare i ladruncoli e così il suo escamotage fallisce miseramente: dovrà tornare sui campi di battaglia…

-Rubando le scatolette?

-Si, l’avevo creduta una volpata, pensi! Per farmi scampare alla battaglia.

Ho rischiato di farcela… Ma la guerra dura proprio troppo…

È diventata infinitamente indulgente nella scelta dei suoi martiri la Patria! Attualmente non ci sono più soldati indegni di portare le armi, e soprattutto di morire sotto le armi e con le armi… Vogliono fare, ultime notizie, un eroe di me!… Bisogna che la follia dei massacri sia straordinariamente imperiosa perché si mettano a perdonare il furto d’una scatoletta! Che dico? A dimenticarlo! Certo, noi siamo abituati ad ammirare ogni giorno dei grandissimi banditi, di cui il mondo intero venera con noi la ricchezza e la cui esistenza si dimostra, non appena la esamini un po’ più da vicino, come un lungo crimine rinnovato ogni giorno, ma quelli si godono la gloria, gli onori e il potere, i loro misfatti sono consacrati dalle leggi, mentre per quanto indietro ci si spinga nella storia tutto ci dimostra che un furtarello veniale, e soprattutto di alimenti, poveri, attira immancabilmente sull’autore l’obbrobrio formale, la scomunica categorica della comunità, i maggiori castighi, il disonore automatico e la vergogna inespiabile, e questo per due ragioni, anzitutto perché l’autore di tali misfatti è generalmente un povero e questa condizione implica per se stessa un’indegnità fondamentale e poi perché il suo gesto comporta una sorta di tacito rimprovero verso la comunità il furto del povero diventa una maliziosa rivincita personale, mi capisce?… Dove andremo a finire? Così la repressione dei furtarelli da niente viene esercitata, osservi bene, ad ogni latitudine, con rigore estremo, non solo come mezzo di difesa sociale, ma anche e soprattutto come monito severo a tutti gli sventurati di doversene stare al loro posto e nella loro casta, tranquilli, allegramente rassegnati a crepare lungo i secoli e all’infinito di miseria e di fame… Fino adesso, però, ai ladruncoli gli restava un vantaggio nella Repubblica, quello di esser privati dell’onore di portare le armi patriottiche. Ma da domani, questo stato di cose cambierà, da domani riprenderò, io ladro, il mio posto nell’esercito… (pp. 74-75)

I filosofi, son loro, se lo tenga per detto fin che ci siamo, che hanno cominciato a raccontargli delle storie al buon popolo… (p. 76)

Ecco almeno dei tipi che non ti lasciano crepare nell’ignoranza e nel feticismo il buon popolo! Gli mostrano, loro, le vie della Libertà! Lo emancipano! Non è mica andata per le lunghe! Che tutti cominciano a sapersi leggere il giornale! È la salvezza! Sacramento! E in fretta! Più niente analfabeti! Non ce n’è più bisogno! Solo soldati cittadini! Che votano! Che leggono! E che si battono! E che marciano!

Il soldato a gratis, questa era nuova… [riferito alla LEVA introdotta dai francesi negli anni della Rivoluzione]

Pensa te! In seguito, poiché il sistema era ottimo, ci si mise a fabbricare eroi in serie, che costavano sempre meno, perché il sistema si perfezionava. Se ne sono trovati tutti bene. Bismarck, i due Napoleoni, Barrès come pure Elsa la cavallerizza. (p. 77)

Gli uomini che non voglio né sventrare né ammazzare nessuno, i Pacifici puzzolenti, prenderli e squartarli!” (p. 78)

Lui, Princhard, non l’ho più rivisto. Aveva il vizio degli intellettuali, era inconsistente. (p. 78)

Sempre in convalescenza, non appena possibile, Bardamu si reca a Parigi presso il negozio “Olympia” di Madame Herote, all’impasse de Beresinas, dove la padrona organizza per i propri clienti incontri con donne libertine e prostitute, esercitando lei stessa, sterilizzata, la professione…

Bardamu si lega ad una di loro, la musicista Musyne, tanto da esserne considerato il “magnaccia”, per via degli incontri della ragazza con facoltosi argentini…

Ben allenati al desiderio da qualche ora d’Olympia ogni settimana, andavamo in gruppo a far poi visita alla nostra lingerista-guantaia-libraria Madame Herote, all’Impasse des Beresinas, dietro le Folies-Bergères[…].

Ci venivamo, noi, a cercare a tentoni la nostra felicità, che il mondo intero ci insidiava con rabbia.” (p. 80)

Madame Herote seppe mettere a profitto le ultime possibilità che ancora c’erano per scopare in piedi e a buon mercato”. (p. 81)

[…] il suo bel mazzo d’amiche ambiziose, teatranti e musiciste, ben fatte, che Madame Herote attirava a bella posta”.

A una di queste, io che avevo da offrire solo la mia giovinezza, come si dice, mi son messo però ad attaccarmi un po’ troppo. La piccola Musyne, la chiamavano nel giro”. (p. 83)

A tutte, Madame Herote dava consigli e loro se ne trovavano bene Musyne fra le altre, che mi sembrava, a me, la più carina di tutte. Un vero angioletto musicista, un amore di violinista, un amore ben smaliziato tanto per dire, lei e ne diede le prove. (p. 85)

Essere innamorato di Musyne così carina pensavo che mia avrebbe dotato d’ogni potere e in primo luogo e soprattutto del coraggio che mi mancava, tutto questo perché lei era così carina e così graziosamente musicista, la mia amichetta! L’amore è come l’alcool, più sei impotente e sbronzo e più ti credi forte e scaltro, e sicuro dei tuoi diritti. (pp. 86-87)

E poi tutti han finito col prendermi per un magnaccia, ivi compresa la stessa Musyne, insieme credo a tutti gli habitués del negozio di Madame Herote. Ci potevo far niente. D’altronde, bisogna pure che succeda prima o poi, che ti classificano. (p. 87)

Ottenuta un’ulteriore licenza, i due vanno persino a vivere insieme a Billancourt, ma Musyne è così impegnata a curare i propri interessi (intrattenendo graduati dell’esercito e ricchi commercianti di carne argentini) da tornare da Bardamu solo una volta a settimana. Bardamu, dal canto suo, si fa sempre più geloso tanto da andarla ad aspettare presso le case dei ricchi che di volta in volta lei intrattiene…

Ottenni dall’autorità militare un’altra convalescenza della durata di due mesi, e si parlò persino di riformarmi. Con Musyne decidemmo di andare ad abitare insieme a Billancourt. (p. 87)

Musyne finì per tornare alla nostra specie di focolare non più di una volta alla settimana. Accompagnava sempre più frequentemente delle cantanti dagli argentini. […]

Per colmo di sfortuna arrivò il «Teatro dell’Esercito». Lei si creò all’istante, la Musyne, cento relazioni militari al Ministero e sempre più di frequente se ne partiva per distrarre al fronte i nostri soldatini, per intere settimane”. (p. 88)

Quando ci ritrovavamo al mattino davanti alla porta lei faceva una smorfia, rivedendomi. Ero ancora brado come un animale a quel tempo, non volevo mollare la mia bella, e basta, come un osso.[…]

Era chiaro che stava per abbandonarmi la beneamata, presto e per sempre. Non avevo ancora imparato che esistono due umanità molto diverse, quella dei ricchi e quella dei poveri. Mi ci son voluti, come a tanti, vent’anni e la guerra, per imparare a starmene nella mia categoria, a chiedere il prezzo delle cose e degli esseri prima di prenderli, e soprattutto prima di attaccarmici. (p. 90)

La storia tra i due è al capolinea, non può funzionare, i poveri come Bardamu non possono infatti in alcun modo competere con i ricchi:

Loro in alto con Musyne, io in basso, con niente. Musyne pensava seriamente al suo avvenire; allora preferiva farlo con un dio. Anch’io di certo pensavo all’avvenire, ma in una sorta di delirio, perché per tutto il tempo avevo, in sordina, la paura di essere ammazzato in guerra e anche la paura di morir di fame in pace. (p. 90)

Ci sono per il povero a ‘sto mondo due grandi modi di crepare, sia con l’indifferenza generale dei suoi simili in tempo di pace, sia con la passione omicida dei medesimi quando vien la guerra. Se si mettono a pensare a te, è a torturarti che pensano subito gli altri, e nient’altro che quello. Li interessi solo se sei al sangue, ‘ste carogne!.[…]

Poiché lei mi sfuggiva, Musyne, mi credevo un idealista, è così che uno chiama i propri piccoli istinti vestiti di paroloni. (p. 91)

Vigliacco o coraggioso, quello non vuol dire molto. Coniglio qui, eroe là, è sempre lo stesso uomo, non pensa più lì che altrove. […] Anche la sua stessa morte, ci specula male e di traverso. Capisce solo i soldi e il teatro. (p. 92)

Abbandonato da Musyne, Bardamu ha due soli obiettivi: salvarsi e andare in America…

Musyne sparì con gli altri. L’ho attesa, a casa, in alto, una notte, un giorno intero, un anno… Non è mai tornata a trovarmi.

Quanto a me diventai a partire da quel momento sempre più difficile da contentare, avevo solo due idee in testa: salvar la pelle e partire per l’America. Ma sfuggire alla guerra costituiva già un’opera iniziale che mi tenne senza fiato per mesi e mesi.” (p. 93)

Il primo obiettivo lo ottiene subito: ritenuto infatti ancora inidoneo alla guerra è mandato presso un altro ospedale, al bastione di Bicetre, il “43”, dopo una fugace visita al Val-de-Grace…

Bisognava reintegrare in fretta i nostri reggimenti. Ma me, dalla prima visita, mi trovarono ancora troppo sotto la media, e giusto buono per essere dirottato su un altro ospedale, per malati d’ossa e di nervi, quello”. (p. 93)

I ricoverati, per ricevere maggiori attenzioni, si spacciano per fieri patrioti, seguendo l’esempio di uno di loro, lo scaltro Branledore, ottenendo visite da personaggi altolocati, graduati dell’esercito e perfino di teatranti… Bestombes, invece, esaltato studioso di psicologia, li sottopone ad analisi mediante costosi apparecchi elettronici dalla dubbia funzionalità… Quando Ferdinand gli confesserà la propria difficoltà ad essere coraggioso, lo giudicherà in via di miglioramento…

Qui all’ospedale, proprio come nella notte delle Fiandre la morte ci braccava[…]. (p. 96)

Nel nuovo ospedale, facevo camera comune con il sergente Branledore, raffermato era un vecchio frequentatore di ospedali, lui, Branledore. (p. 99)

«Vittoria! Vittoria! Avremo la Vittoria!» gridava Branledore[…].

Poiché tutto era Teatro bisognava recitare e aveva proprio ragione Branledore[…].

La guerra, indiscutibilmente, porta alle ovaie, sono loro ad esigere eroi, e quelli che non lo erano per niente dovevano presentarsi come tali ovvero prepararsi a subire il più ignominioso dei destini. […]

gli uomini impauriti e in cerca d’ombra, ossessionati da ricordi vergognosi di mattatoi che noi eravamo arrivando, si mutarono in una banda assatanata di prodi, del tutto risoluti alla vittoria e vi garantisco armati di gran dinamismo e formidabili intenti. (p. 100)

Mi decisi un bel giorno a informare il professor Bestombes delle difficoltà che provavo corpo e anima per essere coraggioso come avrei voluto e come le circostanze, di certo sublimi, esigevano. […]

«Questa confidenza che lei m’ha fatto, assolutamente spontanea, la considero, Bardamu, come l’indizio molto incoraggiante di un miglioramento notevole del suo stato mentale…” (p. 101)

Ferdinand, non avendo più nessuno cui rivolgersi, riceve le sole visite della madre, talmente ottusa da accettare anche la prospettiva della sua morte in guerra…

Non appena il nostro medico, il cattedratico Bestombes, ebbe notato, da vero scienziato, il brillante miglioramento delle nostre qualità morali, decise, a titolo di incoraggiamento, di autorizzarci a qualche visita, a cominciare da quelle dei parenti. (p. 101)

Avevo finalmente scritto a mia madre. Lei era felice di ritrovarmi mia madre, e piagnucolava come una cagna alla quale abbiano alla fine restituito il piccolo. (p. 104)

Lola se n’era andata, Musyne anche, non avevo più nessuno. Per questo avevo finito per scrivere a mia madre, solo per vedere qualcuno a vent’anni non mi restava che il passato. (p. 105)

Non avevo più nessuna notizia di Lola, di Musyne nemmeno. Se ne stavano, quelle troiette, dalla parte giusta della situazione, dove regnava una consegna sorridente ma implacabile, eliminare noialtri, noi carne destinata ai sacrifici. (p. 107)

E proprio ad una bella attrice Bardamu racconta, inventandosele, memorabili storie di guerra che lo vedono come protagonista: toccata da sì alto patriottismo, l’attrice le fa mettere per iscritto da un suo amico poeta per poi rappresentarle in scena alla Comedie Francaise… Tra i degenti si era venuta a creare una gara a chi le sparava più grosse…

Profondamente commossa, chiese il permesso di far mettere in versi, da un poeta suo ammiratore, i passaggi più intensi dei miei racconti. (p. 108)

[…] si faceva a chi tra noi, travolto dall’emulazione, inventava a più non posso altre «belle pagine guerresche» in cui avere un parte sublime. Vivevamo un grande romanzo epico, nei panni di personaggi fantastici[…]. (p. 109)

Riassumiamo: gli aviatori m’avevano portato via Lola, gli argentini m’avevano preso Musyne e questo invertito armonioso, alla fine, m’aveva appena soffiato la mia splendida attrice. (pp. 111-112)

Rifiutato un menage a trois con l’attrice e il poeta, Bardamu, rimasto senza soldi e costretto a vivere con il poco che gli manda la madre, nonché preda di invalidanti capogiro, decide di chiederne al ricco gioielliere Roger Puta, per il quale aveva lavorato prima della guerra grazie alla quale si è arricchito come autista di un ministro e fornitore di gioielli per l’esercito e i ministeri. In compagnia di Jean Voireuse, anche lui ex-dipendente del Puta, Bardamu si reca dunque alla gioielleria, ma il vecchio proprietario gli sgancia solamente venti miseri franchi a testa… Jean, allora, propone di recarsi presso una ricca famiglia dove una signora gli avrebbe dato ben cento franchi a testa per sentirsi parlare del figlio, suo commilitone morto in guerra per lo scoppio di una granata. Ma il piano dei due va ancora una volta in fumo: all’arrivo in villa, scoprono che la donna si è impiccata! Ecco che per l’occasione ricompare Robinson che a sua volta si era presentato dalla ricca famiglia per incassare soldi. I tre vanno quindi a bere e a mangiare assieme per poi separarsi…

Ma per un nonnulla adesso, mi prendevano delle vertigini, da finire sotto le vetture. Non sapevo dove sbattere nella guerra. Quanto ai soli per le piccole spese, non potevo contare durante il soggiorno all’ospedale che sui pochi franchi passati da mia madre ogni settimana a gran fatica. Così, mi sono messo appena possibile alla ricerca di piccoli straordinari, qua e là, dove potevo farci assegnamento. […] Mi sono ricordato molto opportunamente d’aver sgobbato in tempi oscuri da questo Roger Puta, il gioielliere della Madeleine, come commesso aggiunto, un po prima della dichiarazione di guerra. (p. 113)

Così ci hanno congedato. Madame Puta ci ha passato venti franchi ciascuno, uscendo. (p. 117)

Riconobbi il soldato, era lo stesso riservista che avevo incontrato la notte di Noirceur-sur-laLys, dove ero in ricognizione. Mi ricordai in quello stesso istante il nome che mi aveva detto: Robinson. (p. 119)

A place Vendome, abbiamo finito per lasciarci. Ciascuno per la sua strada. […]

Lui, Jean Voireuse, non l’ho più rivisto. Robinson, dopo l’ho ritrovato spesso. Jean Voireuse, sono i gas che lo sono preso, nella Somme. (p. 121)

I persistenti problemi psichici di Bardamu gli consentono di ottenere il congedo:

Gli alti papaveri hanno finito per mollarmi e ho potuto salvare la ghirba, ma ero segnato in testa e per sempre. Niente da dire. «Vattene!… mi hanno fatto loro. Sei più buono a niente!…»” (p. 122)

Al nostro eroe, sbandato senza soldi, non resta dunque altro da fare che imbarcarsi su una nave diretta in Africa, a cercar fortuna oltreoceano, nelle colonie francesi…

“– In Africa! Mi son detto io. Più sarà lontano, meglio sarà!. Era una nave come tante delle Compagnia dei Corsari Riuniti che mi ha imbarcato. Andava verso i Tropici, col suo carico di pezze di cotone, ufficiali e funzionari.[…]

Mi avevano dunque imbarcato lì sopra, perché cercassi di rifarmi nelle Colonie. Ci tenevano quelli che mi volevano bene, che facessi fortuna. Avevo solo voglia d’andarmene, io, ma poiché bisogna aver sempre l’aria utile quando non sei ricco e d’altra parte non la finivo con i miei studi, ‘sta cosa non poteva durare. Non avevo nemmeno tanti soldi da andare in America. «Vada per l’Africa!» mi sono detto allora e mi sono lasciato trascinare verso i Tropici dove, mi assicuravano, bastava un po’ di moderazione e di buona condotta per sistemarsi subito.

Queste prospettive mi lasciavano sognare. Non avevo molte cose dalla mia, ma certo mi comportavo bene, si poteva pur dirlo, avevo un contegno modesto, la deferenza facile e la paura di non essere mai puntuale, e anche la preoccupazione di non passare mai davanti a un’altra persone nella vita, la finezza insomma…

Quando sei potuto uscire vivo da un mattatoio internazionale in preda alla follia, è comunque una bella referenza dal punto di vista del tatto e della discrezione.” (pp. 122-123)

A bordo dell’Amiral-Bragueton, Bardamu parte dunque alla volta dell’Africa ma ben presto il viaggio si fa infernale per via del caldo e a causa del comportamento ostile degli altri passeggeri che, sempre ubriachi, mostrano il loro lato peggiore…

La nostra nave si chiamava l’Amiral-Bragueton. Doveva stare a galla su quelle acque tiepide solo grazie alla vernice.[…]

Vogavamo verso l’Africa, la vera, la grande; quella delle foreste impenetrabili, dei miasmi velenosi, delle solitudini inviolate, verso i grandi tiranni negri che sguazzavano all’incrocio di fiumi senza fine. […]

Ma passate le coste del Portogallo, le cose si sono messe al peggio. Irresistibilmente, un certo mattino svegliandoci, fummo come dominati da un’atmosfera da sauna infinitamente tiepida, inquietante. L’acqua nei bicchieri, il mare, l’aria, le lenzuola, il nostro sudore, tutto, tiepido, caldo. Ormai impossibile di notte, di giorno, avere qualcosa di fresco sotto le mani, sotto il sedere, in gola, salvo il ghiaccio del bar col whisky. (p. 123)

Non è andata per le lunghe. Nella stabilità disperante del calore tutto il contenuto umano del naviglio s’è coagulato in una ubriachezza di massa. […]

Nel freddo dell’Europa, sotto i grigiori pudichi del Nord, si po’ solo, macelli a parte, sospettare la brulicante crudeltà dei nostri fratelli, ma il loro marciume invade la superficie appena li punzecchia la febbre ignobile dei Tropici. È allora che sbraghi da disperato e la maialaggine trionfa e ci ricopre per intero. È la confessione biologica. Quando il lavoro e il freddo non ti fanno più da astringente, allentano un momento la morsa, si può scorgere dei Bianchi quel che si scopre su una spiaggia ridente, quando il mare si ritira: la verità, stagni dalle grevi puzze, granchi, carogne e stronzi.

Così, passato il Portogallo, si sono messi tutti, sulla nave, a liberarsi rabbiosamente gli istinti, alcool aiutando, e anche quel sentimento d’intimo piacere che procura l’assoluta gratuità del viaggio, specie ai militari e ai funzionari in servizio.” (p. 124)

E così, ancora una volta, Bardamu si ritrova, suo malgrado, nei guai, subendo l’odio irrazionale degli altri passeggeri fino quasi a subire un linciaggio…

A me, il solo pagante del viaggio, mi trovarono di conseguenza, quando questa particolarità fu risaputa, singolarmente sfacciato, decisamente insopportabile. (p. 124)

Ma, da ignorante, la mia pretesa incosciente di respirare al loro fianco stava per costarmi la vita. Non si ha mai abbastanza paura. […]

Ecco qui come andarono le cose. Poco tempo dopo le Canarie, seppi da un cameriere di cabina che erano tutti d’accordo a trovarmi pieno di arie, addirittura insolente… Sospettavano che fossi un magnaccia e al tempo stesso un pederasta… Che fossi anche un po’ cocainomane… Ma quello a titolo accessorio…[…]

Esistono dopo tutto pochissime ragioni serie perché un civile sconosciuto si avventuri da quelle parti… Spia, sospetto, trovarono mille ragioni per guardarmi di storto, gli ufficiali nel bianco degli occhi, le donne sorridendo con aria d’intesa.” (p. 125)

È il capro espiatorio…

Recitavo, senza volerlo, la parte fondamentale dello «sporcaccione infame e ripugnante», vergogna del genere umano che è attestata ovunque nel corso dei secoli, di cui tutti hanno sentito parlare, come del Diavolo e del Buon Dio, ma che resta sempre così diverso, così sfuggente, in terra e in vita, inafferrabile insomma. […]

«L’immondo» non sarebbe sfuggito al suo destino. Ero io.” (p. 126)

Bardamu allora, per paura degli altri passeggeri, resta il più possibile chiuso nella sua cabina, spiando dall’oblò quel che fanno gli altri…

L’Amiral non avanzava quasi, si trascinava piuttosto, facendo le fusa, da una rollata all’altra. Non era più un viaggio, era una specie di malattia. I membri di quel concilio mattutino, a esaminargli dal mio angolo, mi sembravano tutti gravemente malati, malarici, alcoolizzati, sifilitici senza dubbio, di una decadenza visibile a dieci metri che mi consolava un po’ dei miei malanni personali. Dopo tutto, erano dei vinti, proprio come me quei Matamori!… (p. 127)

Non mangiavo quasi più per evitare di andare a tavola con loro e di traversare i loro ponti in pieno giorno. Non dicevo più una parola. Mai mi vedevano a passeggio. Era difficile esserci poco come me sulla nave pur restandoci”. (pp. 127-128)

Il mio cameriere di cabina, un padre di famiglia, aveva voluto confidarmi che i brillanti ufficiali della coloniale avevano giurato, bicchiere alla mano, di schiaffeggiarmi alla prima occasione e scaraventarmi poi fuori bordo. […] Poteva andare per le lunghe. Avevo una faccia da schiaffi, ecco tutto. (p. 128)

La triste vicenda è occasione per riflettere sull’odio che le persone provano abitualmente per gli altri…

D’altronde, nella vita quotidiana, pensiamo che cento individui almeno nel corso di una sola normalissima giornata desiderano la tua povera morte, per esempio tutti quelli che gli dai fastidio, pigiati in coda dietro di te sul metrò, poi tutti quelli che passano davanti al tuo appartamento e non ne hanno uno, tutti quelli che vorrebbero che tu abbia finito di far pipì per farla loro, infine i tuoi figli e altri ancora. È incessante. Ci si abitua. Sulla nave si vede ancora meglio questa fretta, allora dà più fastidio.” (p. 128)

La mia importanza a bordo cresceva prodigiosamente di giorno in giorno. […]

Quando entravo nella sala da pranzo, i centoventi passeggeri sobbalzavano, bisbigliavano. (p. 128)

All’imbarco di Marsiglia, non ero che un insignificante visionario, ma adesso, per effetto di questa concentrazione molesta di alcoolici e vagine impazienti, mi ritrovavo dotato, irriconoscibile com’ero, di un prestigio perturbante. (p. 129)

La signorina attizzava il loro estro, invocava l’uragano sul ponte dell’Amiral-Bragueton, non voleva darsi tregua prima che mi avessero alfine ramazzato ansimante, mondato per sempre della mia immaginaria impertinenza, punito insomma perché osavo esistere, battuto con rabbia, sanguinante, ammaccato, a implorare pietà sotto lo stivale e il pugno d’uno id quei pezzi d’uomini di cui lei voleva ardentemente ammirare l’azione muscolare, lo sdegno splendido. Scene d’alto macello, di cui le sue ovaie vizze presentivano un risveglio. Roba che valeva uno stupro da gorilla. Il tempo passava ed era pericoloso far aspettare troppo la corrida. Io ero la bestia. La gente a bordo lo esigeva, fremeva fin giù ai depositi”. (p. 129)

Gli oblò mi bastavano. Intorno a me era tutta un’oppressione di odio e noia. (p. 130)

Una sera, dopo cena, finalmente va in scena la “resa dei conti”. Bardamu tenta di scappare, ma il capitano Fremizon e altri quattro coloniali lo bloccano. Messo alle strette, con grande comicità per noi lettori, Bardamu si difende dalle accuse di aver diffamato gli ufficiali in maniera codarda ma brillante ed efficace: umiliandosi si assume in pieno le responsabilità, chiedendo perdono in nome della Patria! La mossa “patriottica” in stile Branledore ha successo e diventa perfino compagno di bevute dei coloniali!

Un sacrificio! Ci stavo per passare. Le cose precipitarono una sera dopo cena quando per forza di cose m’ero arreso, braccato dalla fame. Avevo tenuto il naso piatto, non osavo nemmeno tirar fuori il fazzoletto di tasca per pulirmi. Nessuno a un abboffo fu mai più discreto di me.

Feci un solo zompo per andarmi a rifugiare in cabina. L’avevo quasi raggiunta quando uno dei capitani della coloniale, il più bombato, il più muscoloso di tutti, mi sbarrò netto la strada, senza violenza, ma con fermezza. (p. 130)

Non bisogna mai fare i difficili sul modo di evitarsi uno sbudellamento, né perder tempo a cercare le ragioni della persecuzione di ci sei oggetto: Sfuggirvi è quel che basta al saggio. (p. 131)

Che soltanto la mia timidezza sciocca e congenita era all’origine di quell’incredibile equivoco! (p. 132)

Gradualmente, mentre durava questa prova d’umiliazione, sentivo il mio amor proprio già pronto a lasciarmi, sfumare ancor di più, e poi mollarmi, abbandonarmi del tutto, per così dire ufficialmente. Si ha un bel dire, è un momento molto piacevole. Dopo quell’incidente, sono diventato per sempre infinitamente libero e leggero, moralmente s’intende. […]

Continuando a fare larga e onorevole ammenda, sollecitai per concludere che mi ammettessero senza ulteriore indugio e restrizione in seno al loro gruppo patriottico e fraterno dei fanti coloniali. (p.127)

«Tra prodi, signori ufficiali, non si deve sempre finire per intendersi? Viva la Francia allora, porco dio! Viva la Francia». Era il trucco del sergente Branledore. È riuscito anche in questo caso. È stato il solo caso in cui la Francia mi salvò la vita, fino a lì era stato piuttosto il contrario. (p.138)

Impugnai due braccia a caso nel gruppo degli ufficiali e invitai tutti a farsi una bevuta al bar, alla mia salute e alla nostra riconciliazione. Quei valorosi non resistettero un istante e bevemmo poi per due ore. (p. 134)

Non ne fanno formule di miglior di questa. La cerchia alla quale m’ero appena unito così furtivamente, decise a poco a poco che ero diventato interessante. Questi uomini si sono messi a raccontare sulla guerra tante panzane quante mai ne avevo ascoltate un tempo e più tardi raccontate io stesso, quand’ero in concorrenza inventiva con gli amici dell’ospedale. Solo che l’ambiente di questi qui era differente e le loro frottole si agitavano in mezzo alle foreste congolesi invece che nei Vosgi o nelle Fiandre”. […]

Il mio capitano Frémizon, […] si mise a scoprirmi mille nobili qualità. (p. 135)

Arrivati sulla costa africana, presso Bambola-Fort-Gono, Bardamu non perde tempo e, approfittando del sonno degli altri, si fa sbarcare da alcuni indigeni nel frangente accorsi. Inizia la sua avventura in terra d’Africa…

Bardamu si trova dunque presso Fort-Gono, capitale della colonia di Bambola-Bragamance, e Céline lo usa per denunciare l’inutile e ingiusto sistema coloniale…

Al vertice della colonia c’è il governatore, poi militari e funzionari, commercianti e infine i negri…

In questa colonia di Bambola-Bragamance, al di sopra di tutti, trionfava il Governatore. Militari e funzionari osavano appena respirare quando lui si degnava di abbassare lo sguardo sulle loro persone.

Molto al di sotto ancora di quei notabili i commercianti installati sembravano rubare e prosperare più facilmente che in Europa”.

[…] Tutti diventavano, si capisce bene, a forza d’aspettare che il termometro si abbassi, sempre più incarogniti. […]

Così, le rare energie che scampavano alla malaria, alla sete, al sole, si consumavano in odi così mordaci, così insistenti, che molti coloni finivano per crepare sul posto, avvelenati di se stessi, come degli scorpioni. (p. 137)

Il caldo, gli insetti, le malattie, rendono la vita coloniale un inferno e gli “esaltati” peggiorano la situazione con le loro assurde proposte…

La vita diventa quasi tollerabile solo quando cade la notte, ma ecco che l’oscurità, quella, è accaparrata quasi immediatamente dalle zanzare a sciami. Non uno, due o cento, ma bilioni. Cavarsela in quelle condizioni diventa un’autentica opera di preservazione. Carnevale di giorno, colabrodo di notte, una guerra in sordina. (pp. 138-139)

La città di Fort-Gono in cui m’ero incagliato appariva così, precaria capitale della Bragamance, tra mare e foresta[…].

A sentire certi clienti abituali, la nostra colonizzazione diventava sempre più squallida per colpa del ghiaccio. L’introduzione del ghiaccio nelle colonie, è un fatto, era stato il segnale della devirilizzazione del colono. Ormai inchiodato dall’abitudine al suo aperitivo ghiacciato, doveva rinunciare, il colono, a dominare il clima con il suo solo stoicismo”. (p. 139)

Bardamu viene subito assunto dalla Comagnie Porduriére du Petit Congo in qualità di gestore di una fattoria a Bikomimbo, un avamposto commerciale sperduto in piena foresta tropicale, per sostituire il gestore precedente, ritenuto truffaldino e inaffidabile dal direttore…

Il Direttore della Compagnie Pordurière du Petit Congo cercava, mi garantì qualcuno, uno al primo impiego per gestire una delle sue fattorie della savana. Andai senza ulteriore indugio ad offrirgli i miei servigi incompetenti ma premurosi”. (p. 140)

Nonostante la voglia di tornarsene in Europa, per mancanza di soldi con i quali pagare il viaggio di ritorno, Ferdinand è, ovviamente, costretto a restare…

Il mattino arrivò comunque, una caldaia. Una voglia forsennata di tornarmene in Europa m’invase corpo e anima. Mancavano solo i soldi per squagliarmela. Basta così. Non mi restava d’altra parte che una settimana da passare a Fort-Gono, prima d’andare a raggiungere la mia postazione a Bikomimbo, tanto piacevolmente descritta. (p. 145)

Al servizio della Compagnie Pordurière del Piccolo Togo sgobbava dunque insieme a me, come ho detto, negli hangar e sulle piantagioni, un gran numero di negri e di poveri bianchi del mio genere. Gli indigeni, loro, funzionano insomma solo a colpi di bastone, conservano questa dignità, mentre i bianchi, perfezionati dall’educazione pubblica, fanno da soli.

Il bastone finisce per stancare chi lo maneggia, mentre la speranza di diventare potenti e ricchi di cui i bianchi s’ingozzano, quella non costa niente, assolutamente niente. Che non ci vengano più a decantare l’Egitto e i Tiranni tartari! Quei dilettanti antiquati erano solo dei pataccari pretenziosi nell’arte suprema di far spremere alla bestia verticale il massimo sforzo sul lavoro. Non sapevano, quei primitivi, chiamare «Signore» lo schiavo, e farlo votare di quando in quando, né pagargli il giornale, né soprattutto portarselo in guerra, per fargli sbollire le passioni. (p. 153)

Quanto ai negri uno si abitua in fretta a loro, alla loro ilare lentezza, ai loro gesti troppo ampi, ai ventri debordanti delle loro donne. La negreria puzza di miseria, di vanità interminabili, di rassegnazione immonda; insomma proprio come i poveri da noi ma con più bambini ancora e meno biancheria sporca e meno vino rosso intorno”. (p. 156)

La partenza per la foresta è ormai prossima, ma Bardamu non ha la minima voglia di farlo e conta di poter tornare presto per via delle febbri, con l’ospedale unico posto per lui confortevole…

Per lugubre che fosse l‘ospedale, era comunque il posto della colonia, il solo dove uno si poteva sentire un po’ dimenticato, al riparo degli uomini di fuori, dei capi. Vacanze dalla schiavitù l’essenziale insomma, e sola felicità alla mia portata. (p. 159)

La mia partenza per la foresta, non la vedevo che con disperazione e rivolta e già mi ripromettevo di prendermi al più presto tutte le febbri che sarebbero passate a tiro, per tornare a Fort-Gono così malato e scarno, così repellente, che avrebbero proprio dovuto decidersi non soltanto a prendermi, ma a rimpatriarmi. Trucchi ne conoscevo già e di ottimi per ammalarmi, ne ho imparato ancora di nuovi, speciali per le colonie. (p. 160)

A bordo della Papaoutah parte per la sua nuova destinazione, Topo, da dove potrà poi addentrarsi nella foresta per prendere il comando della fattoria…

Avevi appena il tempo di vederli sparire gli uomini, i giorni e le cose in quella verzura, in quel clima, il caldo e le zanzare. Tutto ci finiva, era schifoso, a pezzi, a frasi, a membra, a rimpianti, a globuli, si perdevano al sole, fondevano nel torrente di luce e colori, e il gusto e il tempo insieme, tutto ci finiva. Non c’era che angoscia scintillante nell’aria.

Finalmente, il piccolo cargo sul quale dovevo bordeggiare lungo la costa, fino alla prossimità della mia postazione, ormeggiò in vista di Fort-Gono. Le Papaoutah si chiamava. Un piccolo guscio bello piatto, costruito per gli estuari. (pp. 161-162)

Si stava peggio ancora che sull’Amiral-Bragueton, meno i militari assassini, beninteso”. (p. 163)

Al termine di un viaggio infernale, giunge a Topo, località dove passa circa due settimane in compagnia del tenente Grappa, del sergente Alcide e dei suoi dodici miliziani…

Finalmente, ci avvicinammo al porto della mia destinazione. Mi ricordarono il nome: Topo. (p. 163)

All’arrivo, il tenente Grappa s’impadronì dei miei documenti, ne verificò la veridicità, li ricopiò su un registro vergine e mi offrì l’aperitivo. Ero il primo viaggiatore, mi confidò lui, che fosse arrivato a Topo da più di due anni. Si veniva mica a Topo. Non c’era nessuna ragione di venire a Topo. (p. 164)

Nelle lagune lì intorno e nei recessi forestali vegetava qualche tribù ammuffita, decimata, abbrutita dal tripanosoma e la miseria cronica; fornivano comunque, quelle popolazioni, qualche piccola imposta e a colpi di randello, beninteso. Tra quella gioventù si reclutava anche qualche miliziano per maneggiare per delega quello stesso randello. Gli effettivi della milizia ammontavano a dodici uomini”. (pp. 164-165)

Mai, o quasi, chiedono il perché gli umili, di tutto quel che sopportano. Si odiano gli uni gli altri, e tanto basta. (p. 167)

Dopo due settimane di permanenza a Topo, Bardamu è infine costretto a partire, non prima di aver cambiato opinione su Alcide, fin lì ritenuto un sordido commerciante, uomo che mantiene una nipote malata e lontana, Ginette, affidata alle suore di Bordeaux (“offriva a quella ragazzina lontana tanta tenerezza da rifare il mondo intero e questo non si vedeva. […] Aveva l’aria proprio normale. Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi.” (p. 176)…

Per quanto familiari e persino simpatici mi fossero diventati quei posti, dovetti comunque pensare di lasciare alla fine Topo per il postaccio che m’avevano promesso in capo a qualche giorno di navigazione fluviale e di peregrinazioni nelle foreste”. (p. 173)

Dopo dieci giorni di viaggio nella foresta Bardamu raggiunge finalmente la fattoria assegnatagli, ma la trova vuota, o, meglio, vi ci scopre la presenza di Robinson! Questi gli dà alcuni consigli per sopravvivere in quell’orribile posto: fare attenzione ai ladri; fregarsene di tutto e in primis della Compagnia; procurarsi dei tappi per le orecchie per non ascoltare, di notte, il rumore prodotto dagli animali e dai negri; proteggere la capanna durante le piogge… Partito Robinson, proprio quanto ne ha afferrato con lucidità il ricordo, Bardamu resta solo e, dopo tre settimane, mangiatosi l’unico pollo presente, comincia a star male, indolente, accaldato e febbricitante. Non si cura neanche di rispondere alle lettere della madre e del direttore…

E poi nel momento in cui stavo davvero per cedere al sonno l’individuo si drizzò tutto intero davanti al mio letto, acchiappai il suo ricordo, non lui certo, ma il ricordo preciso di quel Robinson, l’uomo di Noirceur-sur-la-Lys, lui, laggiù nelle Fiandre, che io avevo accompagnato sul limitare di quella notte in cui cercavamo insieme un buco per sfuggire alla guerra e poi ancora lui più tardi a Parigi… Tutto è ritornato… Anni che passavano in un sol colpo. […]

Mi aveva riconosciuto lui? In ogni caso poteva contare sul mio silenzio e la mia complicità.

«Robinson! Robinson! Chiamai, ringalluzzito, come per annunciargli la buona notizia. Ehi vecchio mio! Ehi Robinson!…». Nessuna risposta. […] Era partito. (p. 187)

Non rinunciava a niente mia madre per cercare di farmi credere che il mondo era benevolo e che lei aveva fatto bene a concepirmi. […]

Mi era proprio facile d’altra parte non rispondere a tutte quelle menate del padrone e di mia madre, e non rispondevo mai. Soltanto che questo atteggiamento non migliorava nemmeno la situazione”. (p. 189)

Incapace di gestirla, indolente di natura e debilitato dalle febbri, la fattoria va allo sbando, la capanna crolla e i negri si rubano le ultime cose buone presenti in magazzino…

Dei negri del villaggio s’erano impadroniti senza complimenti del servizio e della capanna; io non li avevo chiesti, ma rimandarli era già troppo sforzo. S’accapigliavano intorno a quel che restava della fattoria, smanacciando i barili di tabacco, provando gli ultimi perizomi, valutandoli, togliendoseli, contribuendo ancora se fosse possibile allo sfacelo generale della mia installazione. Cercavo di calcolare a quale livello d’impotenza ero caduto ma non ci riuscivo. «Rubano tutti!» mi aveva ripetuto per tre volte Robinson prima di sparire. Era anche il parere dell’Agente generale”. (p. 190)

Di fronte alla prospettiva di finire in prigione per aver perso tutto, Bardamu sceglie ancora una volta la via più facile: la fuga… Incendiata la baracca e le ultime cianfrusaglie rimaste, parte addentrandosi nella foresta trasportato dai negri su di una lettiga…

Quando non ero ad ammuffire di febbre sul mio «smontabile», o a batter il mio accendino primitivo, non pensavo che ai conti della Produriere”. È strana la fatica che si fa a liberarsi dal terrore dei conti irregolari. Certo, dovevo aver preso quel terrore da mia madre che mi aveva contaminato con le sue tradizioni: “Si ruba un uovo… E poi un bue, e poi si finisce per assassinare la madre.”

Mi sembrò giunto i momento di finirla.

Mia madre aveva proverbi solo per l’onestà, diceva anche, me ne ricordai a proposito, quando lei in casa bruciava le vecchia fasciature: «Il fuoco purifica tutto!» (p. 192)

Anche se inzuppata, è bruciata interamente e decisamente, mercanzie e tutto. I conti erano fatti. […] Non restava che squagliarsela in fretta e furia. (p. 193)

Decisi, malgrado lo stato in cui mi trovavo, di prendere per la foresta davanti a me nella direzione che aveva preso quel Robinson di tutte le disgrazie”. (p. 194)

Trasportato in barella da due negri, Badamu affronta così l’ennesimo tragicomico viaggio della sua vita addentrandosi nella foresta…

Dopo alcuni giorni di viaggio raggiungono un avamposto spagnolo nella colonia di Rio del Rio. Un simpatico vecchio lo rifocilla e, in cambio di carne in scatola, gli procura un passaporto spagnolo. Gli indica, inoltre, la via da seguire per raggiungere il porto di San Tapeta. Dopo giorni di viaggio, i negri lo lasciano finalmente a San Tapeta, affidandolo alle cure di un prete dal non troppo rassicurante aspetto…

Avanzavamo solo a gran fatica, soprattutto perché mi portavano in una barella, i negri, confezionata con dei sacchi cuciti pezzo a pezzo. Avrebbero benissimo potuto scaricarmi nel brodo i portatori mentre guadavamo una palude. Perché non l’hanno fatto? L’ho saputo più tardi. (p. 195)

Finii per cedergli tutto il mio spezzatino a ‘sto spagnolo tanto mi piaceva. Per sdebitarsi lui mi rilasciò un bellissimo passaporto su carta filigranata con le insegne di Castiglia con una di quelle firme così lavorate che gli ci vollero per la minuziosa esecuzione dieci minuti buoni.[…]

Per San Tapeta, non ci si poteva dunque sbagliare, aveva detto il vero, era proprio sempre diritto. Non so più come ci arrivammo, ma sono sicuro di una cosa, che mi affidarono appena arrivati nelle mani di un prete che mi sembrò così mal messo che sentirmelo a fianco mi ridiede come una specie di coraggio comparato. Non per molto”. (pp. 197-198)

Sempre più delirante e febbricitante, Bardamu non si rende minimamente conto di quel che accade intorno a lui, tant’è che, alcuni giorni dopo, si risveglia a bordo di una galera spagnola!, l’Infanta Combitta, venduto al capitano dal prete!

È con gli odori che finiscono gli esseri, i paesi e le cose. Tutte le avventure se ne vanno per il naso. Ho chiuso gli occhi perché davvero non potevo più aprirli. […] È molto raro che la vita torni al vostro capezzale, ovunque voi siate, in un modo che non abbia la forma di uno sporco scherzo da prete. Quello che m’avevano giocato i tipi di San Tapeta poteva bastare. Non avevano forse profittato del mio stato per vendermi scassato com’ero all’armamento di una galera?” (p. 199)

Il viaggio termina comunque in maniera positiva per Bardamu che, cessati i deliri, scopre di essere approdato nel porto di una grande città dell’Atlantico Occidentale…

L’Infanta Combitta viaggiò ancora per settimane e settimane attraverso i cavalloni atlantici, tra un mal di mare e un accesso, e poi una bella sera tutto s’è calmato intorno a noi. Non avevo più il delirio. Ci crogiolavamo intorno all’ancora. L’indomani al risveglio, capimmo aprendo gli oblò che eravamo arrivati a destinazione. Era la fine del mondo come spettacolo!” (p. 201)

Il porto in questione è quello di… New York! Bardamu realizza così inaspettatamente il sogno di raggiungere gli Stati Uniti, ma l’equipaggio deve osservare un periodo di quarantena in una baia a due miglia da New York per via delle febbri malariche…

Per uno che è messo male, non è mai comodo sbarcare da nessuna parte ma per un galeotto è anche peggio, specialmente perché la gente d’America non ama affatto i galeotti che vengono dall’Europa. “Son tutti anarchici” dicono loro. Vogliono insomma ospitare in casa loro solo dei curiosi che gli portano della grana, perché tutti i soldi d’Europa, sono figli di Dollaro. (pp. 202-203)

Stavo per offrirgli i miei servigi quando all’improvviso diedero l’ordine alla nostra galera d’andarsi a fare una quarantena in un’ansa lì vicino, al riparo, a un tiro di schioppo da un piccolo villaggio appartato, in fondo a una baia tranquilla, due miglia a est di New York”. (p. 203)

Bardamu vuol tentare fortuna in America e così abbandona il resto dell’equipaggio, nonostante il consiglio di non farlo…

“– Ma torna indietro con noi, eh pirla! mi rispondevano quelli. Non val la pena andarci te lo diciamo noi! Diventi più matto di quel che sei! Te lo raccontiamo subito noialtri cos’è che sono gli americani! O tutti milionari o tutti carogne! Non c’è via di mezzo! Tu di sicuro te li vedi nemmeno i milionari nello stato che arrivi! Ma quanto a carogne, puoi contarci che te ne faranno trangugiare! Lì puoi stare tranquillo! E non ci vuole più di un secondo!…”

Ecco com’è che mi hanno trattato i compagni. Mi esasperavano tutti alla fine quei falliti, quei rotti in culo, quei sotto-uomini. “Levatevi dai coglioni! gli ho risposto io; è la gelosia che vi fa straparlare, ecco tutto! Se mi fanno schiattare gli americani, lo vedremo proprio!” (pp. 204-205)

La sua fuga è però di breve durata. Il mattino seguente viene, infatti, catturato dagli agenti della quarantena ma, con un’iniziativa comica e surreale, riesce a farsi assumere come contatore e catalogatore di pulci e parassiti!

Cosa ci stai a raccontare ragazzo? Mi disse lui, che sai contare le pulci? Ah, ah!…” Contava su menate come quelle per confondermi. Ma io colpo su colpo gli recitai la piccola arringa che m’ero preparato. “Ci credo alla numerazione delle pulci! È un fattore di civiltà perché la numerazione sta

alla base di un materiale statistico dei più preziosi!… Un paese progressista deve conoscere il numero delle sue pulci, divise per sesso, gruppi d’età, anno e stagione… […]

Il mio aiutante maggiore Mister Mischief, mio assistente mi dirà se hai mentito. Da due mesi, Mischief mi chiede un agente “conta-pulci”. (p. 207)

Ci intendemmo benone per il lavoro e credo perfino che verso la fine del mio apprendistato, aveva molta simpatia per me Mischief.

C’era mica un altro come me in tutta la stazione, per metterle in scatola, le più caparbie, le più cheratinizzate, le più insofferenti, ero in grado di selezionarle perfino secondo il sesso dell’emigrante. Era un lavoro formidabile, posso ben dirlo… Mischief aveva finito per fidarsi totalmente della mia destrezza. (pp. 207-208)

Tutto quel che viaggia di clandestino e parassitario sull’umanità allo sbando passava sotto le mie unghie. Le nostre addizioni venivano effettuate a New York, in un servizio speciale dotato di macchine elettriche conta-pulci.” (p. 208)

In miglioramento, Ferdinand inizia, tuttavia, a provare nuovamente quella strana sensazione che lo induce a spostarsi continuamente…

Così passarono giorni e giorni, ricuperavo un po’ di salute, ma via via che mi perdevo il delirio e la febbre in quel comfort, il gusto dell’avventura e di nuove imprudenze mi tornò imperioso. A 37° tutto diventa banale. (p. 208)

Incaricato di portare i conti delle pulci a New York, Bardamu ne approfitta per dileguarsi. Comincia a girare a vuoto per le stranianti strade di New York…

Poiché ormai non avevamo più nessuno sottomano per portare i conti a New York, non fecero troppi complimenti in ufficio per designare me.”[…]

Alzando il naso verso tutta quella muraglia, provai una specie di vertigine alla rovescia, per via delle finestre davvero troppo numerose e così uguali dappertutto che era deprimente. (p. 209)

Bardamu gira a vuoto per le strade di New York e percepisce immediatamente il distacco, la frenesia, la mancanza di calore degli americani, consolato solamente dalla bellezza imparagonabile delle donne… Dopo tanto vagare si ferma su una panchina del parco del municipio a veder passare le persone. Dopo un po’, però, riparte perché adocchiato dalla polizia come sospetto…

Nessuno aveva l’aria di trovare strano che restassi là, io, da solo, per ore a stazionare su quella panchina guardando passare la gente. Tuttavia, a un certo momento, il poliziotto in mezzo alla strada piantato come un calamaio si mise a sospettarmi di averci degli strani propositi. Si vedeva. Ovunque uno si trovi, appena attira di si sé l’attenzione delle autorità, è meglio sparire e alla svelta. Niente spiegazioni. Buttarsi di sotto! mi dissi io allora. (p. 214)

Seguendo la folla per le strade, alla fine si decide a prendere una piccola stanza presso l’hotel Laugh Calvin. Dalla sua umile dimora studia ancora gli americani, la distanza che li separa. È l’ennesimo posto in cui si sente estraneo, sbandato, inadatto… Incapace di dormire, alla ricerca di Robinson…

Quel che è peggio è che uno si chiede come l’indomani troverà quel po’ di forza per continuare a fare quel che ha fatto il giorno prima e poi già da tanto tempo, dove troverà la forza per quelle iniziative sceme, quei mille progetti che non arrivano a niente, quei tentativi per uscire dalla necessità opprimente, tentativi che abortiscono sempre, e tutti per arrivare a convincersi una volta per tutte che il destino è invincibile, che bisogna sempre ricadere ai piedi della muraglia, ogni sera, sotto l’angoscia dell’indomani, sempre più precario, più sordido.[…]

La verità, è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere, morire o mentire. Non ho mai potuto uccidermi io. (p. 219)

Con l’unico sollievo nelle fantasticherie derivanti dalle visioni di film, la solitudine si fa opprimente per Bardamu che non riesce a ritrovare slancio vitale, sentendosi vuoto, inutile… Mescolarsi ai poveri non gli dà problemi, ma neanche lo sfama…

Bisogna fare in fretta a ingozzarsi di sogni per attraversare la vita che vi aspetta fuori, usciti dal cinema, resistere qualche giorno in più attraverso quell’atrocità di cose e uomini. Uno sceglie tra i sogni quelli che gli scaldano meglio l’anima. Per me, lo confesso, erano quelli sporchi”. (p. 221)

In Africa, avevo certo conosciuto un genere di solitudine abbastanza feroce, ma l’isolamento in quel formicaio americano prendeva una piega ancora più opprimente.

Sempre avevo temuto d’essere pressoché vuoto, di non avere insomma alcuna seria ragione per esistere. Adesso davanti ai fatti ero proprio certo del mio nulla individuale. In quell’ambiente troppo diverso da quello in cui coltivavo le mie meschine abitudini, mi ero come dissolto all’istante. Mi sentivo vicinissimo alla non esistenza, semplicemente. Così, lo scoprivo, da quando avevano smesso di parlarmi di cose familiari, nulla più m’impediva di sprofondare in una sorta di noia irresistibile, in una sorta di dolciastra spaventevole catastrofe spirituale. Una cosa disgustosa. (pp. 223-224)

La mia spossatezza si aggravava davanti a quelle distese di facciate, quella monotonia gonfia di selciati, di mattoni e arcate all’infinito e di commercio su commercio, questo cancro del mondo, sfolgorante nelle reclames ammiccanti e pustolose. Centomila menzogne farneticanti.” […]

Sarei stato là con loro, ma i poveri non mi avrebbero mica sfamato e per di più lì avrei sempre avuti tutti quanti sotto gli occhi, sempre e la loro troppa miseria mi faceva paura. Così alla fine sono tornato verso al città alta. «Stronzo! Mi dicevo allora. In verità, sei uno senza risorse!» Bisogna rassegnarsi a conoscersi ogni giorno un po’ meglio, dal momento che vi manca il coraggio di finirla con i vostri piagnistei una volta per tutte. (p. 224)

La vita, per chi non ha mezzi, è solo un lungo rifiuto in un lungo delirio e uno mica la conosce bene sul serio, ci si libera solo di quello che si possiede. (p. 226)

I suoi pensieri pessimistici lo riportano, ancora una volta, a Robinson, lui si scaltro e audace, che nella sua immaginazione avrà sicuramente nel mentre fatto fortuna…

E poi, fossi riuscito in quel primo tentativo di batter cassa, mi metterei subito a cercare Robinson, vale a dire, dal momento in cui avessi ripreso forze a sufficienza. Era mica un tipo del mio genere lui, Robinson! Era uno deciso, lui, almeno! Uno con le palle! Ah! Ne doveva già conoscere di trucchi e truschini sull’America! Lui aveva forse un modo per acquisire quella convinzione, quella tranquillità che a me faceva totalmente difetto…” (p. 225)

La vita è dura per chi come Bardamu è povero e non riesce a staccarsi dalla propria coscienza, per chi soffre per l’indifferenza degli altri…

Filosofeggiare non è che un altro modo di aver paura e porta solo a sterili fantasie.[…]

La vita, per chi non ha mezzi, è solo un lungo rifiuto in un lungo delirio e uno mica la conosce bene sul serio, ci si libera solo di quello che si possiede. E già per conto mio, a furia di prendere e lasciar sogni, avevo la coscienza in balia delle correnti d’aria, tutta escoriazioni e screpolature, rovinata da far spavento. (pp. 226-227)

Da dove stavo là in alto, si poteva benissimo gridargli addosso tutto quel che volevi. Ci ho provato. Mi facevano tutti schifo. Non avevo il fegato di dirglielo durante il giorno, quando mi ci trovavo di fronte, ma da dove stavo non rischiavo niente, gli ho gridato “Aiuto! Aiuto!” solo per vedere se quello gli farebbe qualcosa. Proprio niente gli faceva. Spingevano la vita giorno e notte davanti a sé gli uomini. Gli nasconde tutto la vita agli uomini. Nel rumore che fanno loro stessi non sentono niente. Se ne fottono. E più la città è grande e più è alta e più se ne fottono. Ve lo dico io. Ho provato. Val mica la pena”. (p. 229)

Rimasto senza un soldo, Bardamu è costretto a mettersi in cerca di Lola e, trovatala, a scucirle ben cento dollari. Lei è infastidita dalla sua presenza, sono agli antipodi: lei bella e ricca, lui povero e sbandato…

Fu solo per ragioni di soldi, ma quanto urgenti e imperiose, che mi misi alla ricerca di Lola! […]

Quella cafoncella d’un’amica, ho finito per scovarla, con un bel po’ di fatica, al ventitreesimo piano della Settantesettesima strada. (p. 230)

Non nascose affatto che mi giudicava capace d’ogni nefandezza. Questa ipotesi non mi feriva, mi imbarazzava soltanto. Lei intuiva bene che ero andato a trovarla per chiederle dei soldi e quel solo fatto creava tra noi una comprensibile animosità. (p. 238)

Va bene, rispose lei, accompagnami fino a casa e là ti darò un po’ di soldi e poi te ne andrai dove vorrai.”

Voleva seminarmi nella notte, il più in fretta possibile. Era regolare. A forza d’essere spinto a quel modo nella notte, si deve comunque finire per arrivare da qualche parte, mi dicevo. È una consolazione. “Coraggio, Ferdinand, ripetevo a me stesso, per tenermi su, a forza di essere sbattuto fuori dappertutto, finirai di sicuro per trovarlo il trucco che gli fa tanta paura a tutti, a tutti gli stronzi che ci sono in giro, deve stare in fondo alla notte. È per questo che non ci vanno loro in fondo alla notte!” (p. 241)

La successiva tappa del viaggio sarà Detroit…

Appena giorno ho preso il treno per Detroit dove mi garantivano l’assunzione facile in tanti piccoli lavori non troppo impegnativi e pagati bene. (p. 243)

Giunto a Detroit, si reca alla Ford dove assumono personale senza qualifica. Anche qui però Bardamu vi trova solo squallore e miseria nei posti e nelle persone che si trova, volente o nolente, a frequentare…

Era quello Ford? E poi tutt’intorno e sopra fino al cielo un rumore opprimente e multiplo e sordo di torrenti di macchinari, duro, per l’ostinazione dei meccanismi a girare, rotolare, gemere, sempre sul punto di rompersi e senza rompersi mai.

È qui dunque, mi son detto… È mica eccitante.” Era anche peggio di tutto il resto. Non ero il solo ad aspettare. […]

In quella folla quasi nessuno parlava inglese. Si spiavano gli uni gli altri come bestie sfiduciate, battute spesso. Dalla loro massa saliva un odore di mutande pisciate come all’ospedale. Quando ti parlavano evitavi la loro bocca perché il dentro dei poveri puzza già di morte. (p. 244)

Era vero, quel che mi spiegava che prendevano tutti da Ford. Non aveva mentito. Io diffidavo lo stesso perché i poveracci hanno il delirio facile. […]

Tanto meglio gli ho risposto io, ma sa, signore, io sono istruito e ho cominciato anche a studiare medicina una volta…

Di colpo, m’ha guardato di brutto.

Ho capito che avevo fatto un’altra gaffe, e a mio danno.

Non ti serviranno a niente qui i tuoi studi, ragazzo! Mica sei venuto qui per pensare, ma per fare i gesti che ti ordineranno di eseguire… Non abbiamo bisogno di creativi nella nostra fabbrica. È di scimpanzé che abbiamo bisogno.. Ancora un consiglio. Non parlare mai più della tua intelligenza! Penseremo noi per te amico! Tientelo per detto.” (pp. 245-246)

In preda alla disumanizzazione imperante nella patria del capitalismo industriale, colto dal bisogno di contatti umani, va a spendere lo stipendio presso una casa chiusa, il Laugh Calvin. È lì che conosce Molly, con la quale principia una relazione…

Nessuno mi parlava. Esistevi solo grazie a una specie di esitazione tra l’inebetimento e il delirio. (p. 247)

E poi queste qui almeno, le potevi toccare liberamente. Non ho potuto fare a meno di diventare un habitué‚ del locale. Tutta la mia paga finiva lì. Avevo bisogno, venuta la sera, delle promiscuità erotiche di quelle splendide ospiti per rifarmi un’anima. Il cinema non mi bastava più, antidoto benigno, senza effetto reale contro l’atrocità materiale della fabbrica. (p. 248)

Nei confronti di una delle ragazze del posto, Molly, provai presto uno specialissimo sentimento di fiducia, che negli esseri impauriti occupa il posto dell’amore. […] Entrammo in intimità corpo e anima, e andavamo a passeggiare insieme in città qualche ora ogni settimana. Disponeva di ampie risorse, quest’amica, perché si faceva un cento dollari al giorno nella casa, mentre io, da Ford, ne guadagnavo appena sei”. (p. 249)

Molly, innamorata e dall’animo candido, gli chiede di lasciare la Ford, di legarsi a lei che lo può mantenere, ma Bardamu non può accettare, è per natura insoddisfatto, incapace di fermarsi per troppo a lungo in un posto…

«Non andare più da Ford! Mi scoraggiava Molly come se non bastasse. Cercati piuttosto un piccolo impiego in un ufficio… Come traduttore per esempio, è il tuo genere… I libri è una cosa che ti piace…»

Mi dava consigli gentili di quel tipo, voleva che fossi felice. Per la prima volta un essere umano si interessava a me, al dentro se posso dire, al mio egoismo, si metteva al posto mio e non mi giudicava solo dal suo, come gli altri. […]

Avevo preso la strada dell’inquietudine. (p. 250)

Mi vergognavo di tutta la pena che si dava per tenermi. L’amavo sicuramente, ma amavo ancora di più il mio vizio, quella voglia di scappare da ogni posto, alla ricerca di non so cosa, per uno stupido orgoglio senza dubbio, per la convinzione di una specie di superiorità”. […]

Ho finito, tanto era gentile, di confessarle la mania che mi tormentava di svignarmela da ogni dove. […]

Cercava soltanto di aiutarmi a vincere quella vana e sciocca angoscia. […]

Me ne tornavo tutto solo a me stesso, contentissimo d’essere ancora più infelice di prima perché avevo portato nella mia solitudine una nuova ragione d’angoscia e qualcosa che assomigliava a un vero sentimento. (p. 251)

Mantenuto da Molly non va più a lavorare in fabbrica e comincia a pianificare il ritorno in Francia nonostante le premure della ragazza. Come sempre poi, nei momento di stress e di difficoltà, ricompare Robinson che, però, a differenza di quanto pronosticato, non ha affatto fatto fortuna, misero addetto alle pulizie notturne e ricercato dalla polizia per passaporto falso, nonché fabbricante di liquori di contrabbando…

Da allora, mi aspettavo d’incontrarlo ogni momento il Robinson. Sentivo che sarebbe capitato. (p. 253)

Una di quelle notti, poiché avevo preso ancora un altro tram ed era il capolinea e si scendeva con cautela, m’è sembrato che mi chiamassero per nome «Ferdinand! Ehi Ferdinand!» […] Certo che mi chiamavano. Voltandomi, l’ho riconosciuto subito Leon. M’ha trovato sussurrando e allora ci siamo spiegati tutti e due.

Anche lui tornava da pulire un ufficio con gli altri. È tutto quel che aveva trovato come espediente. (p. 254)

Ma quel che piuttosto mi ha sorpreso è che anche lui non ce l’aveva fatta in America. Era per niente quel che avevo previsto”. […] Lui era con un cargo che era arrivato. […]

– Voglio tornare in Francia, gli dissi io, ne ho viste abbastanza, hai raggiunte tu, basta… (p. 255)

Alla fine Bardamu si decide e lascia Molly, Robinson e gli Stati Uniti per far ritorno in Francia…

È il viaggiatore solitario quello che va più lontano… Partirai presto allora?

– Sì, vado a finire gli studi in Francia, e poi tornerò, l’assicuravo io con faccia di bronzo.

– No, Ferdinand, non tornerai più… E poi non sarò nemmeno più qui…»

Non era stupida.

Arrivò il momento della partenza. […]

Non era contento nemmeno lui che lo lasciassi. Non la smettevo di lasciare tutti. (p. 257)

È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire. […]

Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America. (p. 258)

Tornato a Place Clichy, Bardamu è costretto a fare i lavori più umili per mantenersi gli studi. Ottenuta la laurea in medicina pensa finalmente di poter vivere con più agiatezza e tranquillità aprendo uno studio in periferia, alla Garenne-Rancy…

Una volta ripresi gli studi, gli esami li ho passati con la lingua fuori, continuando a guadagnarmi il pane. […]

Quando a ogni modo ho finito i miei cinque o sei anni di tribolazioni accademiche, avevo il mio diploma, bello roboante. Allora, sono andato a piazzarmi in periferia, il mio genere, alla Garenne-Rancy, là, appena si esce da Parigi, subito dopo la porte Brancion.

Avevo nessuna pretesa io, e nemmeno ambizioni, soltanto la voglia di rifiatare un po’ e mangiare un po’ meglio. Piazzata la mia targa alla porta, aspettai. (p. 259)

Ci caverà mica la bistecca! ha predetto subito la mia portinaia. Ce n’è già anche troppi di medici da queste parti!” Aveva visto esattamente”. (p. 260)

Ma di clienti, data la povertà del quartiere, ne ha ben pochi e il malessere lo ricattura. Inoltre è troppo buono, troppo condiscendente e così nessuno lo paga. Unici conoscenti sono la portinaia, il rigattiere Bézin e Bébert, il nipotino della portinaia…

Aspettando, quanto ai malati, non ne venivano a bizzeffe. Ci vuole il tempo di avviarsi, mi dicevo io per tranquillizzarmi. Il malato, per il momento, ero soprattutto io. (pp. 262-263)

Quando stai a Rancy, ti rendi nemmeno più conto che sei diventato triste. Non hai più voglia di fare granché, ecco tutto. A forza di fare economie su tutto, per tutto, tutte le voglie ti son passate. (p. 264)

Fin tanto che bisogna amare qualcosa, si rischia meno con i bambini che con gli uomini, uno ha almeno la scusa di sperare che saranno meno carogne di noialtri più avanti. Non si poteva sapere. (pp. 264-265)

Pochi esseri ce ne hanno ancora un po’ passati i vent’anni di quest’affetto facile, quello delle bestie. (p. 265)

Ero troppo condiscendente con tutti, e lo sapevo bene. Nessuno mi pagava. […] È sbagliato. La gente si vendica dei favori che gli fai. (p. 266)

Un giorno la portinaia fa accompagnare da Bebert Bardamu dagli Herouille, due anziani coniugi parsimoniosi e prudenti, fobici al punto da chiudere a sette mandate le porte di casa e da uscire il meno possibile. Nessuno dei due ha problemi di salute, a parte la pressione alterata del marito, il loro obiettivo è farsi produrre un certificato medico che dichiari l’insanità mentale della “nonna Herouille” per poterla rinchiudere in un ospizio, ottenendone così la pensione e l’affitto della casetta in cui dimora. Hanno mandato a chiamare lui, Bardamu, il più povero dei medici e sicuramente disposto a firmare il certificato per mille franchi. La vecchia, in effetti, pur non uscendo mai dal bugigattolo in cui vive, per timore d’essere assassinata, è tutt’altro che pazza! Bardamu però si lascia convincere dai coniugi e dal bisogno dei soldi, ma la vecchia, uscita dal proprio alloggio, lo attacca e mettendolo in fuga in un siparietto di grande comicità. Anche stavolta al buon Bardamu è andata male…

Era sempre stato infelice, più o meno, ma adesso doveva sbrigarsi a trovare una buona ragione nuova per essere infelice. (p. 272)

Soggiornava in un alloggio basso da cui non usciva quasi mai.[…]

Lei non voleva lasciar entrare nessuno nel suo stambugio, nemmeno il figlio. Aveva paura d’essere assassinata, diceva lei. (p. 274)

Aveva anche paura degli assassini, lei, e paura dei bambini al tempo stesso. Da vent’anni che viveva là, mai lei aveva aperto le finestre, né d’estate, né d’inverno, e mai nemmeno spento la lampada. (p. 275)

Ma quel che desideravano ancora di più, in fondo (soprattutto lei, la nuora), è che io facessi ricoverare la vecchia una volta per tutte. (p. 276)

Bebert raggiunge Bardamu e gli dice di tornare a casa per visitare una ragazza dai facili costumi domiciliata al quinto piano. Incinta per l’ennesima volta data la sua “professione” e sottopostasi ad aborto clandestino finito male, ora la ragazza è in fin di vita con un’emorragia all’utero. Bardamu non sa che fare, la situazione è disperata e lui non ha la forza per imporsi sulla madre della ragazza, comicamente attaccata all’onore della famiglia a tal punto da rifiutarsi di trasportare la moribonda all’ospedale: nessuno deve sapere della vicenda. E così se ne va…

“Ero talmente ossessionato dalla scalogna io stesso da tanto di quel tempo, dormivo così male, che non avevo più alcun interesse in quella deriva che capitasse questo invece di quello. Pensavo soltanto che era meglio ascoltare quella madre tutta sbraitante da seduto che in piedi. Basta poco a farti piacere quando diventi così rassegnato. E poi che forza mi ci sarebbe voluta per interrompere quella bestia feroce proprio nel momento in cui “non sapeva più come salvare l’onore della famiglia”

L’inverno passa e gli affari vanno sempre peggio tanto da dover a poco a poco vendere il poco che possiede. È troppo onesto, troppo succube della materialista società che lo circonda, incapace di riscuotere la sua parcella dai poveri malati…

I malati non mancavano, ma non ce n’erano molti che potevano o volevano pagarmi. La medicina, è ingrata. Quando ci si fa pagare l’onorario dai ricchi, si ha l’aria di un lacchè, dai poveri si ha tutto del ladro.[…]

Magari proprio nel momento in cui ci lasciano le penne. Mica è comodo. Si lascia perdere. Si diventa comprensivi. E si cola a picco. (p. 286)

È la faccia tosta che in fondo mi mancava per esercitare la medicina seriamente. […]

Non sapevo fare la puttana. Avevano l’aria così miserabile, così puzzolente, la maggior parte dei miei clienti, così torva anche, che mi chiedevo sempre dove andavano a trovare i venti franchi che bisognava darmi, e se non m’avrebbero ammazzato in compenso. Ce ne avevo comunque bisogno, io, dei venti franchi. Che vergogna! Avrei mai smesso d’arrossirne”. (p. 287)

Povero, inquieto, alienato, Bardamu ricomincia ad avere problemi di stabilità mentale facendo ricomparire lo spettro di Robinson, il suo scaltro e meschino alter-ego, la paura di poterlo rincontrare… Tutto ciò lo rende sempre più instabile e lo porta a dare in escandescenze durante la visita ad un bambino, sperando di poter poi stare meglio, ma senza successo…

Sarà difficile togliermi dalla testa che se ‘sta cosa mi ha ripreso non è stato proprio a causa di Robinson. In un primo tempo non ci ho fatto gran caso ai malesseri. Continuavo a trascinarmi alla meno peggio, da un malato all’altro, ma ero diventato ancora più inquieto di prima, sempre di più, come a New York, e ho ricominciato a dormire ancor peggio del solito.

Incontrarlo di nuovo, Robinson, m’aveva dunque dato un colpo e come una specie di malattia che mi riprendeva. (p. 292)

Non osavo nemmeno uscire per paura di incontrarlo. […]

Era il casino nella mia testa proprio come nella vita”. (p. 293)

Man mano che resti in un posto, le cose e le persone si sbracano, marciscono e si mettono a puzzare appositamente per te. (p. 297)

Dopo Pasqua Bèbert si ammala e la zia è costretta a chiamare Bardamu per curarlo. Il piccolo soffre di una febbre tifoide che lo sta conducendo lentamente e inesorabilmente alla morte. Nessuno dei tentativi di Bardamu di guarirlo ha, tuttavia, effetto. Il povero dottore si reca perfino all’Istituto Bioduret per avere qualche consiglio dal suo vecchio maestro, Serge Parapine, massimo esperto di febbri tifoidee. Ma, ancora una volta, il fato è contro Bardamu: Parapine, infatti, dall’aspetto trasandato e dall’animo corrotto, comincia un interminabile sproloquio durante il quale straparla contro i colleghi e contro la medicina in generale! Nulla con cui poter curare il piccolo Bèbert.

Malgrado tutto, ho fatto bene a tornare a Rancy il giorno dopo, per via di Bébert che s’era ammalato in quel momento. […]

È durata settimane la malattia di Bébert. Ci andavo due volte al giorno a vederlo. (p. 298)

Bébert se ne andava, trascinato irresistibilmente, sorridendo. (p. 299)

Decisamente, mi scoprivo più gusto a impedire a Bébert di morire che a un adulto. Non si è mai troppo scontenti che un adulto se ne vada, fa sempre una carogna di meno sulla terra, uno si dice, mentre con un bambino, è comunque meno sicuro. C’è l’avvenire. (p. 305)

Deluso dall’inutile viaggio all’Istituto Bioduret, sconsolato e depresso, Bardamu non vuol tornare a Rancy dai suoi problemi prima di sera… Gira così per la città e, al ritorno a Rancy, capisce che il piccolo Bèbert è nel frattempo scomparso…

Niente da dire, ero partito da Rancy la mattina, bisognava tornarci, e non avevo trovato niente. Non avevo assolutamente niente da offrirgli, nemmeno alla zia. (p. 313)

Era la mia strada. Non c’era proprio nessuno da incontrare. Comunque, avrei voluto essere altrove, lontano. […] Eppure ci potevo far nulla, io, se Bébert non migliorava per niente. Avevo fatto quello che potevo. Niente da rimproverarmi. (p. 314)

Gli affari vanno sempre peggio e come se non bastasse il suo incubo vivente, Robinson, si materializza di nuovo! Afflitto dalla tosse per via delle polveri e degli acidi maneggiati sul posto di lavoro, l’alter-ego sbandato di Bardamu aumenta la frequenza delle sue visite, fino a farle divenire quotidiane… Proprio nella sala d’attesa del suo studio, alla vigilia del funerale di Bébert, fa la conoscenza della vecchia Henrouille…

Tanto vale non farsi illusioni, la gente non ha niente da dirsi, ognuno parla soltanto delle proprie pene personali, si capisce. Ciascuno per sé, la terra per tutti. […]

[…] non si riesce nemmeno più a dissimularla la propria pena, il fallimento, si finisce per avere la faccia piena di quella brutta smorfia che impiega venti, trent’anni e più a risalire finalmente da ventre alla faccia. (p. 316)

E poi Robinson è venuto a trovarmi a sua volta. Li ho presentati tutti gli uni agli altri. Degli amici.

È proprio quel giorno, me ne sono ricordato dopo, che lui ha preso l’abitudine d’incontrarla nella mia sala d’aspetto, la vecchia madre Henrouille, Robinson. Si parlavano. Era l’indomani che seppellivano Bébert. (p. 318)

Una domenica Bardamu pensa finalmente di poter guadagnare un po’ di soldi: di servizio come dottore municipale, è chiamato presso una palazzina dove si trovano un malato terminale di cancro ed una ragazza partoriente. In breve il canceroso muore, ma Bardamu si fa soffiare la parcella dal medico di famiglia. Dalla ragazza, che sta morendo dissanguata, non va meglio: il marito, infatti, non si decide a farla ricoverare in ospedale e così anche la seconda possibilità di guadagno va miseramente in fumo. Come sempre, quando le cose vanno male, ecco che incontra lo scaltro e ancor più disperato Robinson! Questi racconta a Bardamu che la famiglia Henrouille lo ha pagato per costruire una casa per conigli. L’idea dei coniugi è quella di mandarci la vecchia e di farle scoppiare addosso un petardo per ucciderla!

Ogni dettaglio era già stato concordato tra lui e i figli: poiché la vecchia aveva ripreso l’abitudine di uscire, l’avrebbero mandata una bella sera a dar da mangiare ai conigli… Il petardo sarebbe piazzato bene… La scoppierebbe in piena faccia come lei apre la portina… (p. 334)

È giorno di festa e Bardamu vi si reca. Di sera, al caffé Martrodin, vi incontra di nuovo Robinson che gli annuncia felice che gli Henrouille gli daranno ben diecimila franchi per la faccenda della vecchia. Evidentemente li aveva già ricattati…

Una notte una ragazzina viene a bussare alla porta di Bardamu: deve correre dagli Henrouille perché un uomo si è fatto male nel loro giardino. Giunto alla villa, non appena entrato in casa, viene assalito dalla ringarzullita vecchia Henrouille, intenta ad imprecare contro la nuora, il figlio (scappato in strada) e l’assassino. Bardamu capisce al volo che il “colpo” di Robinson è andato male! Gli è, infatti, scoppiato in faccia il petardo destinato alla vecchia che, dalla sua casetta, ha visto tutto e ora si diverte a raccontare la vicenda in un comicissimo sproloquio…

E così Robinson, rimasto privo di vista a seguito dell’esplosione, resta in convalescenza presso gli Henrouille, preoccupati che un eventuale ricovero in ospedale possa rovinargli la reputazione…

Per cominciare non si sapeva dove metterlo Robinson. All’ospedale? Poteva provocare mille maldicenze evidentemente, delle chiacchiere… Rispedirlo a casa sua? Nemmeno a pensarci per via della faccia nello stato in cui si trovava. Volenti o nolenti, gli Henrouille furono costretti a tenerselo a casa loro.” (p. 349)

Nominato medico presso il consultorio di un piccolo dispensario per tubercolotici, incarico che gli vale 800 franchi al mese, Bardamu dirada di conseguenza le sue visite a Robinson…

I ricchi non hanno bisogno di uccidere con le loro mani per mangiare. Fanno lavorare gli altri, come si dice. Il male non lo fanno loro stessi, i ricchi. Loro pagano. […]

Ondate incessanti di esseri inutili vengono dal fondo dei tempi a morire in continuazione davanti a noi, e tuttavia restiamo lì, a sperare qualcosa… Nemmeno capaci di pensare la morte che siamo. (p. 358)

Adesso andavo a vederlo un po’ meno spesso perché è verso quella stessa epoca che sono stato assegnato al consultorio d’un piccolo dispensario per i tubercolosi dei dintorni. Bisogna chiamare le cose col loro nome, quello mi fruttava ottocento franchi al mese. (p. 359)

Anche al dispensario la sua delusione non si attenua: i malati infatti si preoccupano solo della pensione assegnata dallo Stato e lo disprezzano…

I miei clienti, loro, erano degli egoisti, dei poveri, materialisti tutti immiseriti nei loro sporchi progetti di pensione, con l’aiuto dello sputo di sangue positivo. (p. 360)

Restavano lì davanti a me, sorridenti come dei domestici quando li interrogavo, ma non mi amavano, anzitutto perché gli facevo del bene, poi perché non ero ricco e essere curati da me, voleva dire essere curati gratis e questo non è mai lusinghiero per un malato, anche se ha fatto domanda di pensione. Alle mie spalle, non c’era dunque sconcezza che non avessero propagato sul mio conto”. (p. 361)

Una sera, però, si presenta al dispensario un prete, per parlargli in privato…

Una sera, che la mia sala d’aspetto era quasi vuota, entrò un prete a parlarmi. Non lo conoscevo mica quel prete, e per poco lo misi alla porta. (p. 361)

Il prete, Don Protiste, è giunto al dispensario su richiesta degli Henrouille. L’obiettivo dei coniugi e quello di convincere Robinson e la vecchia Henrouille a ricoverarsi presso una comunità religiosa. Ma, dal momento che non ci sono posti liberi, l’idea di Protiste è invece quella di indurre Robinson e la vecchia a trasferirsi a Tolosa, nella Francia Meridionale: lì avrebbero gestito insieme una grotta di mummie sotto la chiesa. Sarebbe bastato raccontare a Robinson che l’aria di Tolosa avrebbe fatto bene alla guarigione dei suoi occhi. In cattive acque, Bardamu accetta in cambio di mille franchi. Ma, giunti alla casa degli Henrouille, trova Robinson agitato! Ha subodorato un inganno ai suoi danni. Bardamu allora spilla altri duemila franchi alla nuora e convince l’amico a partire… Avrebbero lì gestito una specie di grotta con delle mummie…

Nel corso del colloquio, il prete si presentò, don Protiste si chiamava lui. Mi fece sapere di reticenza in reticenza che da un certo tempo aveva avviato delle pratiche con la signora Henrouille per sistemare la vecchia e Robinson, tutti e due insieme, in una comunità religiosa, che non costasse cara. Stavano ancora cercando. (p. 365)

La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte. (p. 366)

Il reverendo non aveva che da aiutarci per il momento e spicciarsi a imparare, era il suo lavoro. Poi d’altronde era venuto solo per quello, arrabbattarsi per piazzare la vecchia Henrouille anzitutto, e in fretta e furia, e Robinson anche, al tempo stesso, presso le suore in provincia. […]

La sistemazione doveva concludersi quasi su due piedi e io dovevo giocarci una particina. Che consisteva nel convincere Robinson a partire per il sud, a consigliarlo in un modo e in un tono amichevole beninteso, ma comunque pressante. (p. 367)

Lei ha capito e m’ha chiuso un biglietto da mille franchi in piena mano e poi ancora un altro in più per star sicura. Glielo avevo fatto d’autorità. Mi son messo a persuaderlo allora il Robinson già che c’ero. Bisognava che si decidesse per il Midi.

Tradire, si dice, è presto detto. Bisogna anche cogliere l’occasione. È come aprire una finestra in prigione, tradire. Ne hanno voglia tutti, ma è raro che ci riesci. (p. 370)

Poco dopo la partenza di Robinson, Bardamu si ammala seriamente, debilitato dal poco cibo assunto a causa della persistente condizione di povertà…

Allettato e pieno di debiti, decide allora di lasciare Rancy non appena in grado di farlo. E così fa, dopo aver salutato la sola portinaia, la zia di Bèbert…

[…] giusto verso primavera, mi sono messo a tossire senza freno, ammalato di brutto. (p. 371)

Si ha tempo di pensare quando si sta dieci giorni sdraiati. Appena sarei stato meglio me ne sarei andato da Rancy, era quel che avevo deciso. Due trimestri di ritardo con l’affitto, poi… Addio dunque ai miei quattro mobili! Senza dir niente a nessuno beninteso, me la batterei, tranquillamente e non mi rivedrebbero mai più a La Garenne Rancy. (pp. 371-372)

Non si può sperare di mollare la propria pena in qualche angolo di strada. (p. 372)

Fatto sta che me la sono filata zitto zitto dal mio ammezzato di Rancy”. […]

Per quella gente io scivolavo nell’ignoto come in un grande tunnel senza fine. Sono sempre tre persone in meno che ti conoscono, dunque ti spiano e ti fanno del male, che non sanno nemmeno più cosa sei diventato. È una buona cosa. […]

Allora per riscaldarmi, ho fatto un giretto fino alla guardiola della zia di Bébert. La lampada agganciava l’ombra in fondo al corridoio. «Per farla finita, mi son detto, bisogna pure che la saluti alla zia». (p. 373)

Ci siamo salutati. (p. 375)

Questo prova che non si può vivere senza il piacere nemmeno un secondo, e che è ben difficile provare davvero del dolore. È così l’esistenza. (p. 377)

Dopo aver girato per la città, Ferdinand entra in un bar-cinema-teatro, il Tarapout, imbattendosi in Parapine che, lasciato l’incarico presso l’Istituto a causa di dissidi con il direttore e accuse di molestie a studentesse di liceo, si è ora messo alle dipendenze della clinica psichiatrica del dottor Baryton. Questa volta la fortuna è dalla parte di Bardamu: nel bar, infatti, viene a sapere che il teatro Tarapout ricerca urgentemente una comparsa per uno spettacolo d’intrattenimento da intervallo. Poco lavoro e ben pagato!

Lasciata Rancy, Bardamu si trasferisce in un modesto hotel occupato prevalentemente da giovani studenti universitari con alcuni dei quali fa amicizia. Frequenti le scorrazza in case d’intrattenimento, con la conoscenza del lenone Pomone…

Il periodo felice al Tarapout è, tuttavia, breve: dopo pochi mesi di lavoro, infatti, il numero d’intrattenimento viene soppresso e Bardamu si ritrova ancora una volta senza niente, in preda a visioni di morti, alla fuga dalla relazione con la ballerina Tania e il rimorso per la sorte di Robinson…

Il pensiero di Bardamu torna ora a Robinson, lasciato nelle mani di Don Protiste. Che ne sarà stato di lui? Decide allora di andare ad informarsi delle sue condizioni. Dagli Henrouille, però, trova il signor Henrouille in fin di vita per problemi di cuore…

Quella sarabanda della notte precedente m’aveva lasciato come uno strano gusto di rimorsi. Il ricordo di Robinson tornava a tormentarmi. […]

Inquieto e curioso, mi diressi verso Rancy a caccia di notizie, ma che fossero esatte, precise. (p. 297)

Dopotutto, mi son detto allora, non ho molto da perdere se gli faccio una visitina agli Henrouille. Dovevano sapere com’è che andavano le cose di Tolosa. Ecco lì l’imprudenza che ho commesso. (p. 399)

Siamo ignobili. Non bisogna dar la colpa a nessuno. Godere ed essere felici anzitutto. È quel che penso. E poi quando cominciamo a nasconderci agli altri, è segno che abbiamo paura di divertirci con loro. È una malattia a sé. Bisognerebbe sapere perché ci ostiniamo a non guarire della solitudine. (p. 404)

Notizie di Robinson le riceve pochi giorni dopo la morte del signor Henrouille da Don Protiste che non solo gli consegna 1500 franchi, ma lo invita anche a recarsi a Tolosa. Lì avrebbe trovato Robinson prossimo alle nozze con una ragazza del posto…

Millecinquecento franchi che toccavano a ognuno. Al tempo stesso, portava buone notizie di Robinson. Gli occhi, a quanto sembrava, andavano molto meglio. […] E tutti laggiù mi reclamavano. […]

Da quel che mi raccontò ancora, ho capito che Robinson doveva sposarsi tra poco con la figlia della negoziante di ceri della chiesa a fianco della grotta, quella da cui dipendevano le mummie della vecchia Henrouille. Era quasi fatto ‘sto matrimonio. (p. 405)

Essere soli è allenarsi a morire. (p. 407)

Andare a Tolosa era insomma anche una stupidaggine. […]

Ma a seguire Robinson a ‘sto modo, in mezzo alle avventure, avevo preso gusto agli affari loschi.

Bisogna affrettarsi, non bisogna perdersela la propria morte. La malattia, la miseria che ti disperde le ore, gli anni, l’insonnia che ti imbratta di grigio giornate, settimane intere e il cancro che è già forse lì che ti sale, meticoloso e sanguinante dal retto. (p. 409)

Giunto a Tolosa, Bardamu fa subito la conoscenza (intima) di Madelon, la futura sposa di Robinson!

Sbarcato a Tolosa, mi trovavo davanti alla stazione un po’ incerto. […] È il momento e il posto in cui puoi supporre che le persone che incontri sono tutte gentili. (p. 409)

Comunque, bando alla fantasticherie! In cammino mi dissi io, alla ricerca di Robinson e della sua chiesa di Saninte-Eponime, e di quella grotta di cui gestiva le mummie con la vecchia. Ero venuto per vedere tutto quello, bisognava che mi decidessi. (p. 412)

Doveva essere sui vent’anni, l’amichetta di Robinson[…]. (p. 413)

Sta di fatto che con tutto quello che non avevo ancora chiesto il suo nome. Madelon si chiamava lei. (p. 414)

Guadagnava un bel po’ di soldi la vecchia Henrouille con quegli avanzi dei secoli. (p. 415)

Gli affari vanno a gonfie vele per la vecchia Henrouille, mentre Robinson passa il tempo a lamentarsi della sua condizione e del fatto che non riceve nulla di quanto viene guadagnato.

Bardamu, intanto, continua la sua tresca con Madelon…

Per via di quella scaletta così smilza e traditrice, Robinson non scendeva spesso lui nella grotta delle mummie. (p. 417)

Mentre Madelon durante il giorno se ne andava al suo laboratorio e la vecchia Henrouille faceva vedere i suoi avanzi ai clienti, andavamo, noi, in un caffè sotto gli alberi. (p. 419)

Con Madelon ogni tanto ci trovavamo dei ritagli di tempo prima di cena, in camera sua. Ma non era facile concentrare quegli incontri lì. Dicevamo niente. Eravamo quel che c’era di più discreto.

Non bisogna credere per questo che lei non l’amava il suo Robinson. Questo aveva niente a che farci insieme. Solo che lui, giocava al fidanzato, mentre lei, con la stessa naturalezza, giocava alla fedele. (p. 421)

Inevitabilmente, per Bardamu inizia l’assillo del ritorno a Parigi… Lo convincono a rimanere una settimana ancora…

Ma dovetti comunque pensare al ritorno e al rusco. Il tempo passava e il premio del prete anche, e i risparmi.

Prima di partire, ho voluto dare ancora qualche lezione e qualche piccolo consiglio a Madelon. (p. 423)

Al momento d’andare a prendere il biglietto, m’hanno trattenuto ancora, per una settimana in più ci accordammo. (p. 425)

Una domenica escono per una gita al fiume, invitati da un facoltoso pittore a bordo della sua chiatta per festeggiare il suo compleanno… Tra panzane inenarrabili sul loro stato sociale, i tre mangiano e bevono da ricchi… Poi Bardamu ascolta i discorsi di Madelon, che, gelosa, vuol che Robinson la sposi al più presto e smetta di vedere il donnaiolo Ferdinand…

Uno tenta di uscire dalle umiliazioni della vita quotidiana cercando come Robinson di mettersi al passo con i ricchi, con le menzogne, il denaro dei poveri. […]

Dovevo fare a tutti i costi una buona impressione.

Alle loro domande, mi sono messo a rispondere con delle trovate brillanti, come prima Robinson col vecchio signore a mia volta ero pervaso dalla superbia!… (p. 433)

La sera della partenza da Tolosa accade una disgrazia: Bardamu, intento a preparare la valigia, viene chiamato d’urgenza perché la vecchia Henrouille è caduta dalle scalette d’accesso della grotta. Compreso che la situazione è poco limpida, senza salutare nessuno se ne riparte in treno per la capitale…

Siamo tornati tutti a Tolosa, la stessa sera.

È due giorni dopo che l’incidente è capitato. Io dovevo comunque andarmene e proprio mentre stavo finendo di fare la valigia per andare alla stazione ecco che sento qualcuno che grida qualcosa davanti alla casa. (p. 440)

Son filato dritto verso la stazione. Sapevo il da farsi.

[…] Non ci siamo fatti i saluti. (p. 441)

Tornato a Parigi, Bardamu va a trovare Parapine che lo fa assumere presso la clinica psichiatrica del dottor Baryton…

È lui, Parapine, che alla fine m’ha dato la mano giusta con un posticino che ha scoperto per me all’Asilo psichiatrico, per l’esattezza, dove lui lavorava e già da mesi. (p. 442)

Nella sua clinica eravamo pagati niente, era vero, ma per contro nutriti decentemente e alloggiati assai bene. (p. 443)

Il suo Istituto di Vigny-sur-Seine era quasi mai vuoto. Era presentato come “Casa di salute” sulla carta intestata, per via di un gran giardino che lo circondava, in cui i nostri matti andavano a passeggiare nelle belle giornate”. (p. 443-444)

A contatto con i malati e con il solo parsimonioso e prolisso Baryton con cui parlare, Bardamu, alla lunga, ricomincia ad avere problemi psichici, non dorme più e ripensa a quanto accaduto a Tolosa, alla caduta della vecchia Henrouille in particolare…

Mi facevo comunque molta fatica a superare certe notti, soprattutto quando il ricordo di quello che era capitato a Tolosa veniva a risvegliarmi per ore intere.

Mi immaginavo allora, non riuscivo a farne a meno, ogni specie di sviluppi drammatici al ruzzolone della vecchia Henrouille nella sua fossa delle mummie e la paura mi saliva dagli intestini, mi brancava il cuore e se lo teneva, a battere, fino a farmi schizzare tutt’intero fuori dal letto per misurare la stanza su e già in un senso e nell’altro fino in fondo all’ombra e al mattino. Durante quelle crisi ,disperavo di ritrovare quel tanto di distacco da potermi mai riaddormentare. Non credete mai a priva vista all’infelicità degli uomini. Chiedetegli se riescono ancora a dormire… se sì, va tutto bene. Basta quello. (p. 458)

Mi ci sarebbe voluta almeno una malattia, una febbre, una catastrofe precisa perché potessi ritrovarla un po’ questa indifferenza e neutralizzare l’inquietudine che avevo a ritrovare la stolida e divina tranquillità. (p. 459)

Intanto Baryton pretende che Bardamu insegni alla figlia l’inglese ma, poco a poco è il primario stesso ad innamorarsi dell’inglese e, stanco della monotona vita della clinica, a decidere di andarsene in viaggio nel nord Europa (partendo dall’Inghilterra). La clinica è affidata così a Bardamu e a Prapine…

Così andavano le cose e i mesi, abbastanza tranquillamente insomma, e non ci sarebbe stato troppo da lamentarsi de Baryton non avesse improvvisamente concepito un’altra delle sue famose idee. […]

«Ferdinand, mi fece lui a ‘sto modo, mi son chiesto se acconsentirebbe a dare qualche lezione d’inglese a mia figlia Aimée… (p. 462)

Baryton mi occupava per intero. Mi requisiva perfino, non mi mollava più, mi ciucciava tutto il mio inglese. (p. 463)

In verità Baryton non era più assolutamente se stesso. (p. 466)

Baryton mi sembrava sempre più maleficamente contaminato dalla meditazione. […]

Da quel momento, lo posso ben dire, non fu più dei nostri… Non poteva più… (p. 467)

Voglio a qualsiasi prezzo mi intenda bene e a qualsiasi condizione andarmene via… (p. 470)

Pochi giorno dopo la partenza di Baryton per l’Inghilterra, ecco che si presenta alla clinica Don Protiste. Il sacerdote gli narra la morte della vecchia Henrouille e Bardamu capisce che il colpevole della vicenda è Robinson e che il prete sta tentando di estorcergli una qualche conferma. Ma Bardamu fa il finto tonto… Robinson, peraltro, vuol lasciare Madelon e Tolosa…

Alcuni mesi dopo la visita di Protiste ecco che ricompare a Parigi Robinson! In attesa di migliore sistemazione, viene alloggiato presso la clinica. La sua vista è quasi completamente recuperata. Nonostante ciò, non riesce a trovare lavoro e così chiede a Bardamu un posto nella clinica. Gli racconta inoltre come sono andate le cose a Tolosa: morta la vecchia a seguito della caduta (provocata dalla manomissione delle scalette), Robinson e Madelon hanno ereditano la grotta ma lui non ha voluto sposare la ragazza. Comincia allora i litigi con Madelon, lei prima visione al ritorno della vista, e con la madre, fino alla stipula di un accordo: si sarebbero trasferiti insieme a Parigi in cerca di lavoro. Ma Robinson non vuol vivere con la ragazza e allora gli racconta di essere matto per via una trapanazione subita a seguito di una ferita riportata in guerra. Ma la storia la fa affezionare ancora di più: a Robinson non resta altro da fare che andarsene di sotterfugio…

[…]Perché adesso posso proprio dirlo, ero niente contento di rivederlo. La cosa non mi faceva alcun piacere. (p. 477)

Una mattina, mentre erano andate per commissioni la madre e lei, ho fatto come avevi fatto te, un fagottino e me la sono svignata alla chetichella… (p. 489)

La vita prosegue tranquilla e senza intoppi fino a quando cominciano ad arrivare lettere anonime che accusano Bardamu e Robinson di avere una relazione. L’unica che può conoscerli è Madelon e così cresce in loro la paura di vedersela comparire di fronte da un momento all’altro. E così accade. Una prima volta, una seconda fuori del cancello, poi, dopo una visita a Rancy, l’avvertimento del gendarme Gustave e la vana richiesta a Robinson di partire, una di lei diretta visita in clinica una sabato sera… Bardamu la schiaffeggia, pensando così di liberarsene una volta per tutte ma…

Ma si sbaglia. Madelon e Robinson ricominciano a vedersi una volta a settimana a Parigi.

Bardamu e Parapine assumono una nuova infermiera, Sophie, una bella e giovane slovacca, con la quale Bardamu instaura subito una relazione. Proprio su consiglio di Sophie, Bardamu propone a Robinson una uscita a quattro con Madelon per tentare una riconciliazione e, perché no, sesso di gruppo…

La serata a quattro alla fiera del paese si risolve in un fiasco: Madelon non parla con Bardamu e alla fine inizia anche a piovere. Saliti su un taxi, Madelon comincia ad incalzare Robinson fino a litigare. Lei vuol sapere perché non contraccambi il suo amore e, alla fine, dopo esser stata punzecchiata da Bardamu e di avergli replicato accusandolo di essere un traditore che fa sesso e picchia le donne degli amici, lo minaccia di denunciarlo alla polizia per i fatti di Tolosa…

Va be’, ha concluso lei, poiché lui rispondeva niente. Bene! Ci siamo! Sei tu che l’avrai voluto! Domani! Mi capisci, non più tardi di domani ci andrò io, dal Commissario, e gli spiegherò, io, al Commissario, com’è che è caduta dalla sua scala la vecchia Henrouille! Mi capisci, adesso, di’ Leon?… Sei contento?… Fai più il sordo? O vieni subito con me o andrò a trovarlo domattina!… Allora, vuoi venirci, o no? Spiegati!… Era esplicita come minaccia. (p. 526)

Ma Robinson non vuol essere amato da nessuno…

Eh be’, sei tu, che mi ripugni e mi fai schifo adesso! Non solo te!… Tutto!… L’amore specialmente!… Il tuo e quello degli altri… I trucchi sentimentali che vuoi fare, vuoi che ti dica cosa mi sembrano a me? Mi sembra come far l’amore nei cessi! Mi capisci te adesso?… E tutti i sentimenti che vai a cercare perché resti incollato a te, mi fanno l’effetto di insulti se vuoi saperlo… […]

Eh be’ io lo mando affanculo l’amore di tutti quanti!… Mi capisci? Attacca più con me figlia mia!… la loro schifezza d’amore… Caschi male!… Arrivi troppo tardi! Attacca più, ecco tutto!…” (pp. 527-528)

Madelon allora, accecata dalla rabbia per il rifiuto di Robinson, gli spara! Il taxi si ferma e la ragazza fugge via…

Vieni Leon? Uno?… Ci vieni? Due?… Lei ha aspettato. «Tre?… Non vieni allora?… – No! Le ha risposto lui, senza muovere d’un millimetro. Fa’ come vuoi!» ha persino aggiunto. Era una risposta. Lei ha dovuto ritirarsi un po’ sul sedile, fino in fondo. Doveva tenere la rivoltella a due mani perché quando il colpo è partito era come diritto dal suo ventre e poi quasi insieme altri due colpi, due volte di seguito… Di un fumo acre s’è allora riempito il taxi

Andavamo ancora lo stesso. È su di me che è ricaduto Robinson, sul fianco, a scossoni, balbettando. (p. 529)

Arrivati alla clinica, dopo circa un’ora di agonia Robinson muore…

Ma non c’ero che io, proprio, tutto solo, al suo fianco, un Ferdinand autentico al quale mancava quel che farebbe un uomo più grande della sua povera vita, l’amore per la vita degli altri. […]

Avrei perfino, credo, sentito più facilmente pena per un cane che stava per morire che per Robinson, perché un cane non fa il furbo, mentre lui aveva fatto un po’ il furbo malgrado tutto Léon. (p. 531)

È finito soffocato. È partito di colpo come se avesse preso la rincorsa, stringendosi a noi due, con le due braccia. (p. 532)

Nella camera sembrava come uno straniero adesso Robinson, che veniva da un paese spaventoso e uno non osava più parlargli. (p. 533)

Mentre il corpo di Robinson viene trasportato da Parapine, Gustave e Sophie al vicino posto di guardia. Bardamu si defila e va a riflettere sulla vita poco lontano… Rintracciato e lasciata la sua deposizione, Bardamu, Parapine, Sophie e Gustave si fermano a bere all’osteria del canale. La vita, come sempre, continua…

Avevo un bel cercare di perdermi per non ritrovarmi più davanti la mia vita, la ritrovavo dappertutto semplicemente. (p. 535)

Salendo la piccola scalinata del posto di guardia, battevo i denti. Non potevo raccontargli granché nemmeno io al Commissario, stavo davvero poco bene. (p. 537)

L’osteria del canale apriva giusto prima dell’alba per i battellieri. La chiusa cominciava a ruotare lentamente verso la fine della notte. E poi è tutto il paesaggio che si rianima e si mette a lavorare. (p. 539)

Lontano, il rimorchiatore ha fischiato; il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un’arcata, un’altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano… Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume tutte, e la città intera, e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, tutto, che non se ne parli più. (p. 540)

CÉLINE, OVVERO LO SCANDALO DI UN SECOLO

Di Ernesto Ferrero p. 541