Louis-Ferdinand Céline – LE ASSICURAZIONI SOCIALI E UNA POLITICA DELLA SANITÀ PUBBLICA

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LE
ASSICURAZIONI SOCIALI E UNA POLITICA DELLA SANITÀ PUBBLICA
Estratto da Presse medicale, n°94 del 24 novembre
1928.
 
TRADUZIONE
Stefano
Fiorucci e Jeannine Renaux
La legge
delle assicurazioni sociali, che fece parte a lungo del programma
delle realizzazioni socialiste dette minime[,] si troverà presto
applicata in Francia, bene o male, volente o nolente, piuttosto con
la forza, nel momento in cui il nostro regime sembra proprio in stato
di difesa ufficiale contro tutto quello che, da vicino o da lontano,
assomiglia al collettivismo.
Notiamo, a
questo proposito, che c’è effettivamente una differenza tra il
socialismo dei fatti e quello delle azioni e delle propagande. Solo
il primo conta in fondo, è quello sotto il quale scompare un po’ di
più ogni giorno la nostra società individualista detta “borghese”.
Questo collettivismo di attuazione è insidioso e pratico, mentre
l’altro, il declamatorio, l’illuminato, è tuttavia la sola virtù di
tener vivo l’elettore e di provocare le reazioni dei politici e le
misure che fanno scalpore della polizia.
All’interno,
nel frattempo, e in profondità, il collettivismo svolge la sua
opera, abbatte le resistenze e conquista ufficio per ufficio,
fabbriche dopo scuole, il comando reale della Repubblica. La
questione del cambiamento di bandiera, passione del popolo, verrà
più tardi, è un problema secondario, conveniamone. Del resto,
quando non ci sarà più nulla di capitalista nell’edificio sociale,
ci si domanda che cosa potrà opporsi a quelli che cambiano di
bandiera ? Insomma, nel modo in cui vanno le cose, vediamo che
nella nostra democrazia, si diventa collettivisti sconfitti, da
progressi insidiosi e reali, senza rendersene conto e anche
protestando assolutamente in senso contrario; si deve ancora a questo
riguardo rilevare che l’incoscienza delle realtà sociali è
pressappoco totale nella maggior parte dei cittadini e soprattutto,
forse, tra quelli che sono i più allenati ai dibattiti detti
politici. Mai, senza alcun dubbio, da quando l’opera socialista si
effettua nella Repubblica (minacciando successivamente da vicino o da
lontano le ferrovie, le miniere, le scuole e le assicurazioni) al
riparo di diversi pretesti, un’istituzione così importante come le
assicurazioni sociali non era caduta tra le mani di questi pazienti
insorti. È anche permesso di domandarsi se questa resa massiccia non
trascinerà con la forza, progressivamente, tutto ciò che ancora
resiste loro. Perché, insomma, ben si tratta, sotto la denominazione
di assicurazioni sociali, della creazione d’un monopolio della sanità
pubblica. Chiamiamo la cosa con il suo nome. Dobbiamo per questo
raccomandare che una battaglia disperata si ingaggi
ultima
ratio
contro le assicurazioni sociali?
Non ne è certo più tempo. I suoi avversari più
esperti e risoluti si sono in questo momento ridotti, tanto la causa
sembra sentita, a delle controverse corporative e particolariste, ai
dettagli della sconfitta. Altri, come Desfosses, tentano, nel corso
d’analisi, del resto molto penetranti [Jour. De Méd. Et de Chir.,
agosto 1928 N.d.A.] di trarre gli insegnamenti filosofici e morali di
questa rivoluzione silenziosa. Ma per quel che ci concerne, ci
domandiamo a nostra volta se non esista un mezzo per assorbire anche
le assicurazioni sociali e il loro contenuto collettivista, senza che
ne conseguano delle calamità economiche e sociali d’una estrema
gravità. A tal fine, ci è sembrato che è al metodo di
conservatorismo disraeliano che bisognerebbe ricorrere, quello che
consiste nel non opporsi ai programmi audaci della sinistra
socializzante, ma, al contrario, che si adopera a superarli, a
portarsi decisamene ben al di là delle rivendicazioni collettiviste
per estrarre da queste stesse riforme tutto quello che si deve per
consolidare l’ordine stabilito. Il nostro conservatorismo del 1928,
ed è forse lì la sua profonda e fatale debolezza, pecca
miserabilmente d’immaginazione e (benché se ne parli molto) della
timidezza incredibile delle sue riforme sociali. Non sembra disposto
ad altro che a un « immobilismo » brontolone, a dei piani
di repressione ingenui e bizzarri, alla meditazione di progetti da
paralitico minacciato. Bisogna, con tutta evidenza, scoprire, e
rapidamente, alcuni mezzi più nobili e soprattutto più sostanziosi
per assicurare l’avvenire. Precisamente[,] per quel che concerne le
assicurazioni sociali, il nostro tema, sembra che soprattutto lì, la
salvezza che noi cerchiamo stia ben al di là delle disposizioni
pratiche di questa legge e che non si tratti quindi per niente, per
assimilarla senza danni, di limitarne l’applicazione, ma al contrario
di rinforzarne il carattere e la disciplina socialista. Non è per
gusto del paradosso che pensiamo a queste audacie, è in buona
logica. Per difendersi contro gli abusi di questa legge, nettamente
socializzante, bisogna urgentemente adattarsi a una nuova mentalità
e decretare al tempo stesso le disposizioni e una disciplina
amministrativa anch’essa sociale, e di conseguenza difensiva contro
gli abusi delle agevolazioni socialiste. Una comunità capitalista,
la nostra, è destinata al fallimento dal giorno in cui[,]
accontentandosi delle sue leggi e delle sue concezioni ordinarie per
la sua difesa, permette al tempo stesso ai cittadini deroghe così
grandi alla sua economia tradizionale come quelle che saranno
permesse dalle assicurazioni sociali, ammettendo beninteso che questa
legge sia integralmente applicata.
Un fatto, a tal proposito, domina tutti gli altri, è la
nostra concezione, la nostra definizione attuale dello stato di
malattia, che ci disarma quasi contro tutti gli abusi che gli
assicurati vorranno fare delle risorse socialiste della nuova legge,
o, cosa peggiore, per difendersi anche quando, senza uscire dalle
proprie tradizioni morali e politiche, lo Stato capitalista sarà
costretto a fare ricorso a un apparato complicato di restrizioni
vessatorie e meschine che non faranno altro che accrescere lo spreco
e il malcontento generale. A nostro avviso, poiché si tratta di un
monopolio della sanità pubblica, è al suo rendimento « massimo »
e alle economie possibili che bisogna pensare senza tardare. Ma ci
sono molte stupide economie, sono quelle lì fonte cui si attengono
generalmente le amministrazioni e i poteri pubblici.
Quando una fabbrica d’automobili si trova costretta a
restringere i suoi costi di produzione, i suoi dirigenti non si
mettono a sottilizzare sullo spessore dei pneumatici; la sola
economia ragionevole che possa essere realizzata consiste nel
produrre più automobili in minor tempo. Per fare economie nella
assicurazioni sociali, non si tratta nemmeno di perdere il tempo dei
funzionari in inezie restrittive, ma di adottare alcuni saggi
principi importanti:
1° Ammettere che l’assicurato debba lavorare il più
possibile con il minimo di interruzione possibile per causa di
malattia;
2° Che la maggior parte dei malati possono lavorare;
3° Che devono curarsi ed essere curati mentre lavorano
e utilizzare tutte le possibilità che l’industria moderna offre
all’occupazione dei malati.
Si cavilla abbondantemente in questo momento attorno ai
casi stranieri. Ci si domanda, tra le altre cose, perché, in nessuno
dei paesi, dove questa legge è applicata, nessuno, né assicurati,
né medici, né padroni, né lo Stato, è soddisfatto della legge
sulle assicurazioni sociali e malattie. La causa, secondo noi, è
semplice : è perché in nessun paese si è osato affrontare
francamente questo argomento, dichiarando, preliminarmente, che la
legge delle assicurazioni sociali era tra le altre cose umanitaria,
ma che era prima di tutto economica e « soprattutto destinata a
un migliore utilizzo del materiale umano » malato o no. Ecco,
ci sembra, un collettivismo pratico e scollegato dalla sua ideologia
sciropposa. Dato che, nel caso delle assicurazioni sociali, lo Stato
si assume la responsabilità della salute pubblica, conviene dunque
studiare l’argomento sperimentalmente prima di impegnarsi in questa
immensa impresa. È stato fatto da qualche parte ? Per niente.
Ci si è accontentati di giocare a « Colin-Maillard » con
l’argomento, dietro l’insegna della medicina preventiva, curativa e
sociale, statistica, etc., tante parole che si disperdono appena le
si indaga con un po’ di serietà. C’è lì, confessiamolo, tutto un
mondo, di cui non si sa nulla, da scoprire. E per cominciare :
la ricerca d’una definizione, d’una comprensione pratica, sociale,
economica e medica insieme, dello stato di salute e dello stato di
malattia, reciprocamente, e l’abolizione di questa entità clinica,
così vaga, così inconsistente, questa nozione pittoresca, questo
chiaroscuro sentimentale che rappresenta ancora la malattia e la
salute, per opposizione, nei nostri spiriti e nei nostri testi. Gli
assicurati sono tutti lavoratori, atteniamoci a questa condizione per
il funzionamento della legge, è solo in quanto tali che conviene
trattarli ; la medicina borghese è morta e ben morta, sono i
suoi resti e il suo fantasma burlesco che rendono ovunque le
assicurazioni sociali paradossali e inoperanti.
C’è, mi dicono, per questa attività, l’infermiera a
domicilio. Lontano dall’essere sufficiente, non fa, a nostro avviso,
che aumentare ancora le pratiche paramediche e antiscientifiche
ignoranti e disastrose. Per parlare di medicina con autorità e senza
pericolo, bisogna essere scientificamente e filosoficamente
indiscutibilmente superiori all’ascoltatore. È il caso delle
infermiere a domicilio ? Ma no. Questi medici del lavoro, di cui
abbozziamo qui il ruolo, dovranno essere non solamente medici, ma
sociologi e filosofi pratici. Con un colpo d’occhio, dovranno capire
il caso medico dell’uomo nel suo luogo d’azione. È quello che
facciamo, quando noi, praticanti (avendo il tempo di farlo),
effettuaiamo una consultazione a domicilio (al contempo luogo del suo
lavoro) d’un piccolo commerciante, artigiano, panettiere, fabbro, per
esempio.
Il nostro umanitarismo è anch’esso desueto e nocivo,
non ha il suo posto nella società in cui funzionano le assicurazioni
sociali.
Nel corso di un recente incontro, uno dei nostri grandi
dirigenti dell’Igiene ci confidava che ciò che aveva sempre fatto
difetto a questa scienza [,] perché possa realizzare i progressi che
ci si aspettava da essa nella pratica, era l’interesse popolare.
L’interesse popolare ? È una sostanza molto infedele, impulsiva
e vaga. Ci rinunciamo volentieri. Ciò che ci sembra molto più
serio, è l’interesse padronale e il suo interesse economico, non
quello sentimentale. Riniunciamo anche ai sentimenti. Dimostrare al
padrone che ha un interesse pecuniario a impiegare i malati da tutti
i punti di vista e a porli sotto controllo medico, questo è il
sistema giusto, secondo noi, di assicurazioni-malattia razionali. Per
rispondere a questo bisogno particolare, bisogna creare dei quadri di
medici di assicurazioni-malattia « d’imprese » che
avranno la cura medica speciale degli assicurati, sui luoghi stessi e
durante lo svolgimento del lavoro.
Funzione capitale. Questi medici del lavoro, questi
consultori ambulanti, sono essi i medici dell’avvenire; essi verranno
infine, dopo che sono da tanto tempo istintivamente attesi, a
mettersi in contatto permanente del popolo e intraprendere
quest’opera tanto urgente d’educazione medica, senza la quale non c’è
igiene sociale possibile. È un’impresa paziente di correzione, di
rettifica intellettuale da condurre in questo immenso chiacchiericcio
che dura da secoli, in questo straordinario ammasso di sciocchezze,
di pregiudizi sordidi, antiscientifici, contro i quali tutti gli
sforzi sanitari sono venuti, fino ad ora, a infrangersi.
C’è lì, nelle profondità ignoranti e sentimentali del
popolo, una immensa ansietà permanente della malattia, un desiderio
istintivo e continuo d’essere informato sui minimi malori provati.
Attualmente, tutti s’incaricano di questa volgarizzazione medica,
eccetto il medico, troppo affannato, che non può vedere le cose che
da lontano, e dall’alto, tutti, dalla portinaia, alla frutivendola
fino al farmacista, e soprattutto la portinaia. Bisogna che anche
questo cambi o niente cambierà. Bisogna che il medico si decida, e
lui stesso, ad andare a iniziare la lotta, e sul posto, con la
stupidità, i pregiudizi, l’inerzia e le assurde abitudini del
popolo, e al momento della malattia, in questo momento critico. Solo
lui dispone della forza e dell’autorità necessarie per condurre
questa lotta con minuziosità e intelligenza là dove tutti gli
sforzi ufficiali e ufficiosi, forzatamente pomposi, teorici e
maldestri, hanno completamente fallito in tutti i paesi del mondo.
L’errore capitale, a tal riguardo, è stato senza dubbio
dappertutto di ritenere che fosse sufficiente volgarizzare largamente
alcune verità mediche perché il pubblico ne traesse un beneficio
certo. Non siamo ancora giunti a questo stadio dell’intelligenza
popolare. Tre mesi di clientela medica popolare bastano ad
insegnarcelo. Il pubblico non chiede di comprendere, chiede di
credere. Non è ancora il momento di procedere per spiegazioni, che
non sono mai ascoltate, né soprattutto comprese, ma per affermazioni
categoriche, armi psicologiche pericolose del resto, ma le sole che
ancora attualmente possediamo per l’educazione delle masse, a
piccole dosi molto giudiziose, maneggiate molto bene e molto
delicatamente.
I miei colleghi sanno che la somma degli insegnamenti e
delle conoscenze che ottengono su un malato nel corso di una visita
di questo genere è in pratica molto superiore a quella che ricavano
da una consultazione nel loro studio o al dispensario, dove il malato
« cade loro dalla luna », con le sue spiegazioni
imbrogliate, insufficienti, disorientate, le sue indicazioni quasi
sempre così false sulle condizioni igieniche della sua vita e del
suo lavoro. Un’infermiera a domicilio può essere incaricata di
questa osservazione ? Ma no. La sua autorità, il suo senso
critico, le sue conoscenze al contempo superficiali e meccaniche sono
sempre del tutto insufficienti per assolvere questo compito
essenziale, capitale, critico. Vedrei piuttosto volentieri invertire
i ruoli e l’infermiera incaricarsi delle consultazioni mediche[,] il
più spesso platoniche[,] del medico al dispensario e il medico[,] da
parte sua, al contrario, scovare i malati, indirizzarli parlandoci
due minuti sui loro stessi luoghi di lavoro, dove si trovano
raggruppati, condensati, attenti. Questa non è né la medicina
« standard » né la medicina d’ospedale, né la medicina
dei gabinetti di consultazione, è la medicina dell’aspettativa e di
pratica speciale adatta a una popolazione numerosa e sempre al
lavoro.
C’è certo bisogno delle infermiere a domicilio, ma con
obiettivi molto limitati, sotto la direzione immediata del medico e
senza iniziativa.
Da nessuna parte come negli Stati Uniti l’infermiera a
domicilio è stata vezzeggiata, incoraggiata, incensata, immessa
dappertutto, nel modo più indiscreto al mondo, da trent’anni,
nell’intimità di una popolazione che pure non soffre di nessuna
tendenza alle superstizioni ataviche, alle pratiche di stregoneria,
una delle popolazioni, al contrario, tra le più evolute
positivamente della terra e tra le più prospere materialmente,
destinate per così dire all’idroterapia e all’elettricità.
Ora, che cosa osserviamo in questi Stati in
contemporanea con la moltiplicazione in superficie e in profondità
delle infermiere d’igiene, scolastiche, a domicilio, etc. ?
Che l’autorità dei medici è in ogni istante messa in
dubbio, sfidata, intaccata, molto spesso annullata nello stesso tempo
in cui si è sviluppata, come in nessun posto altrove, pure in Africa
centrale, uno straordinario feticismo medico, un ciarlatanismo
virulento, militante, paragonabile a nessun altro, florido e
crescente del resto, dall’osteopata, al chiromante, fino alle
cattedrali sovrabbondanti della Christian Science. La confusione tra
il positivo e l’immaginario raggiunge il suo culmine nella medicina
d’America, in nessun posto altrove è così di moda pretendere di
fare miracoli. Se l’infermiera a domicilio non è per nulla
responsabile di questo stato di credulità, è permesso almeno di
dubitare davanti a questi fatti dell’efficacia del suo intervento
educativo.
In sintesi, in vista d’una assicurazione sociale
efficace, non esitiamo affatto a concepire che il malato deve
lavorare e ad ammettere dunque[,] una volta per tutte[,] le
condizioni di fatto del mondo del lavoro, cioè che non ci sono molti
più malati a letto o deambulanti in un grande ospedale parigino che
in una frabbrica moderna oppure in strada e che sono ancora meglio,
questi malati ambulanti, in fabbrica che all’ospedale e per la
strada. Spetta dunque alla nuova organizzazione che siano curati
ancora meglio senza uscire dalla fabbrica o dall’ufficio, senza
restare a casa e ricevendo al contempo un salario integrale.
A tal riguardo la meccanizzazione progressiva
dell’industria e la concentrazione commerciale e industriale si
prestano benissimo all’utilizzo della mano d’opera «malata»; è
anche provato, dall’esempio americano, che il malato costituisce per
molti aspetti un’eccellente recluta industriale, molto ricercata dal
patronato degli Stati Uniti. Succede qui quello che è accaduto
durante la guerra quando ci vollero cinque anni per accorgersi che
non eravamo più all’epoca dei tornei e che un tubercoloso medio
faceva, dopotutto, un soldato buono come un altro e preferibile anche
a certi atleti, organismi esigenti, soldati assai ingombranti.
Anche nell’industria e soprattutto nel commercio e in
ufficio l’atleta è un soggetto decorativo e scomodo. L’utilizzo di
chiunque in tutti i lavori ha per conseguenza la soppressione delle
visite mediche eliminatorie all’assunzione, usanza assurda
anti-economica, sterilmente tradizionale, perché bisognerà pure che
qualcuno paghi ormai la disoccupazione e le cure dei malati sotto
assicurazione mentre non lavorano e sarà sempre il datore di lavoro
che regolerà i conti per popolare, il più delle volte inutilmente,
gli ospedali, con una duplice perdita.
L’impiego dei malati dev’essere la parola d’ordina
sociale di domani, non in qualsiasi modo, ma sotto permanente
consulenza e sorveglianza medica. Qui ricordiamo che tocchiamo il
punto critico della nostra esposizione. La scienza sanitaria è così
empirica, ancora così primitiva, che si accontenta, o quasi, di
assicurazione ottimiste. Igiene sociale, medicina preventiva sono
parole, denominazioni per delle teorie frettolosamente e
chiassosamente messe in pratica e che non hanno mai dato inizio ad
una prova della loro efficacia. In un altro campo osserviamo che la
polizia, ausiliaria della giustizia, sa quello che fa per lunga
esperienza, posiziona i suoi agenti e i suoi funzionari là dove si è
notato da tempo che sono commessi frequenti delitti, nelle stazioni,
nei teatri, alle corse, etc. Per la sanità pubblica e l’igiene
sociale in particolare, si aspetta che il delitto venga a presentarsi
al giudice, cioè al dispensario. È infantile. Bisogna andare a
« pattugliare » negli stessi luoghi in cui si utilizza la
salute degli assicurati, negli stessi luoghi di lavoro, evitare così
che l’assicurato non« renda malato », questo delitto,
istituire insomma una vasta polizia medica e sanitaria, che si
estende non solamente al domicilio dell’assicurato, ma soprattutto ai
posti in cui lavora, che questi medici d’assicurazione non tentino di
giocare inutilmente ai clinici della scienza pura, staccati dalle
realtà economiche e si trasformino, al contrario, in medici del
lavoro. Da cui due ruoli, abbiamo detto : 1° i medici
dell’assicurazione, quelli a domicilio che hanno cura delle famiglie
e degli invalidi allettati, degli ambulatori ; 2° i medici
ambulanti delle attività commerciali, industriali e agricole (questi
ripartiti per gruppi). Tra queste due specie di praticanti, un legame
costante, come tra i commissari di polizia e i tribunali. I medici
del lavoro non saranno affatto degli intrusi tolleranti, verrranno
al contrario a dare un aiuto per il lavoro, con qualche parere
medico, le due o tre parole, tanto importanti, giudiziose e
pratiche, faranno insomma consultazione veloce. Avvio reale,
sperimentale, quello lì, d’una vera medicina preventiva. L’atto
principale della vita degli assicurati in effetti, è il loro lavoro.
È in quel momento che bisogna vederli ed è solamente in possesso
dell’abbondante documentazione raccolta, dell’esperienza acquisita da
questi nuovi medici dei lavoratori e del lavoro che si potrà
studiare saggiamente e validamente l’istituzione d’una medicina
preventiva e di un’igiene sociale e anche della medicina generale
appropriata, adattata realmente alle assicurazioni sociali e al
lavoro in generale.
Questi medici a contatto permanente, fiduciosi,
familiari con gli assicurati non avessero per influenza prima, grazie
ai loro consigli ripetuti e giudiziosi, che quella d’introdurre un
po’ di moderazione, di limitazione, di decenza nella straordinaria
anarchia, in questa licenza stravagante che regna attualmente nelle
prescrizioni, l’acquisto e la vendita abusiva dei farmaci e di droghe
diverse, vero avvelenamento di massa, ipocritamente e vigliaccamente
autorizzato, delle nostre classi sociali più vulnerabili,
fisicamente e intellettualmente, avrebbero già, per via di questa
sola azione, reso uno dei più grandi servizi che si possa rendere al
popolo all’epoca in cui siamo. Questa tossicomania popolare, per
tolleranza quasi illimitata delle licenze farmaceutiche, fa molte più
vittime attualmente della cocaina attuale. La medicina preventiva e
l’igiene in generale si disperdono appassionatamente tra vaghe,
immense e problematiche imprese come la lotta contro la tubercolosi o
il cancro e altre endemie dai picchi drammatici, i compiti essenziali
e primari della protezione pubblica come quelle che segnaliamo sono
assolutamente trascurati.
Eppure, le assicurazioni sociali non impediranno per
niente l’avvelenamento di massa e liberale del pubblico e dei piccoli
malati attraverso la farmacia senza ostacoli. Al contrario, il denaro
che non si verserà più al medico andrà là, siamone ben consci, in
sciroppi e pillole varie, se delle misure preventive non sono prese a
tal riguardo. Questa politica sanitaria che abbozziamo interessa
infine e direttamente e finanziariamente[,] lo ripetiamo (unico
metodo efficace)[,] il datore di lavoro con le economie
dell’assicurazione sociale, realizzate attraverso la diminuzione
delle giornate sterili e costose della malattia, e l’interruzione del
lavoro nel suo proprio ufficio e laboratorio. Il tutto, senza
umanitarismo ottimista, questo grande elemento e giustificatore dei
falliti e delle confusioni in tutte le imprese dell’igiene sociale
immaginario. L’abbozzo di questo progetto rassomiglia – lo si nota,
– a quello d’un medico militare. Perché no ? L’esercito del
lavoro, il più grande esercito del mondo, non ha ancora
organizzazione sanitaria, le assicurazioni sociali vi tendono, ma non
possono del resto per ragioni economiche, le sole che contano, fare
altrimenti. Non si potrebbe organizzare, notiamolo d’altronde, la
medicina di sedici milioni di salariati (in senso stretto) e le loro
famiglie quasi indigenti come la medicina d’una stazione climatica
ben esposta destinata a una clientela ristretta e leziosa.