LEONARDO SCIASCIA – UNA STORIA SEMPLICE

 

LEONARDO SCIASCIA – UNA STORIA SEMPLICE

CORRIERE DELLA SERA – Collana I GRANDI ROMANZI ITALIANI n.15 – 2003

Su licenza ADELPHI

PREFAZIONE

IL TESTAMENTO MORALE DI UN SICILIANO

Di Andrea Purgatori p.6

UNA STORIA SEMPLICE p.15

18 marzo. 9.37 del sabato sera che precede la festa in onore di San Giuseppe Falegname… In questura telefona tale Giorgio Roccella chiedendo del questore… Risponde alla chiamata, smistata dal piantone al commissario, il brigadiere Antonio Lagandara che annota su un pezzo di carta il messaggio del chiamante: ho qualcosa da farvi vedere, qualcosa di appena ritrovato in casa… Il commissario si rammenta allora di un Roccella, ex diplomatico o ambasciatore, occupante negli anni passati una villa fuori paese, proprio quella indicata nella chiamata e annotata sul biglietto, che però da anni gli risulta disabitata… Prima di uscire, dice poi al brigadiere di passarci al limite l’indomani, con calma, ritenendolo un probabile scherzo. Lui sarà invece irreperibile fino al lunedì..

La telefonata arrivò alle 9 e 37 della sera del 18 marzo, sabato, vigilia della ru­tilante e rombante festa che la città dedicava a san Giuseppe falegname[…] (p.17)

Il telefonista annotò l’ora e il nome della persona che telefonava: Giorgio Roccella. (p.17)

Prese il telefono il briga­diere che aveva tavolo ad angolo con quello del commissario.[…]

«Un tale che, dice, ha da farci vedere urgentemente una cosa che si è trovata in casa».[…] (p.18)

«Questo Roccella,» disse il commissario «è un diplomatico, console o amba­sciatore non so dove. Non viene qui da anni, chiusa la casa di città, abbandonata e quasi in rovina quella di campagna, in contrada Cotugno appunto… Quella che si vede dalla strada: in alto, che sembra un fortino…». (pp.18-19)

«Se vuole,» disse il brigadiere «vado a controllare».

«Ma no, sono sicuro che si tratta di uno scherzo… Domani, magari, se hai tem­po e voglia, vai a dare un’occhiata… Per quanto mi riguarda, qualunque cosa ac­cada, domani non mi cercate: vado a festeggiare il San Giuseppe da un mio amico, in campagna». (p.19)

E così, l’indomani, convinto di non trovare nulla in base alle parole del commissario, Lagandara e due agenti si recano nel luogo indicato dalla segnalazione della sera prima…

L’indomani, in pattuglia, il brigadiere andò in contrada Cotugno: nello stato d’animo, lui e i due agenti che lo accompagnavano, di fare una gita: per quel che aveva detto il commissario, erano sicuri che quel luogo fosse disabitato e che la chiamata della sera prima era stata uno scherzo.

La casa ha tutte le finestre chiuse, tranne una, dalla quale possono osservare all’interno il corpo di un uomo accasciato sulla scrivania… Il brigadiere rompe il vetro per soccorrere eventualmente l’uomo, che risulta però morto per un colpo di pistola alla testa…

Tutte le imposte erano chiuse, tranne di una finestra dai cui vetri si poteva guardar dentro. Stando nella luce abbagliante di quella mattinata di marzo, videro dapprima confusamente l’interno: poi cominciarono a distinguere e a tutti e tre, ripetendo la prova facendosi schermo del sole con le mani, parve certo si vedesse un uomo che, di spalle alla finestra, seduto a una scrivania, vi si fosse accasciato.

Il brigadiere prese la decisione di rompere il vetro della finestra, di aprirla, di entrare nella stanza: l’uomo poteva esser crollato per un malore, si era forse in tempo a dargli soccorso. Ma l’uomo era morto, e non per sincope o infarto; nella testa, che poggiava sulla scrivania, tra la mandibola e la tempia, era un grumo nerastro. (pp. 21-22)

Ordinato di non toccare nulla e inviato uno dei due agenti a chiedere l’intervento di medico e reparto scientifica, Lagandara perlustra la scena del crimine…

Dati quegli ordini, e continuando a dire all’agente che era rimasto con lui di non toccar nulla, il brigadiere cominciò a fare il suo lavoro di osservazione, in funzione del rapporto scritto che gli toccava poi fare[…] (p.22)

A prima vista un suicidio, ma la posizione della mano destra risulta innaturale e incompatibile con quella della pistola, reggendo per di più, appoggiata sulla scrivania, un foglio con su scritto “ho trovato”… Nella mente elabora la scena di un possibile omicidio: la chiamata alla polizia, l’inizio di redazione di quello scritto non confidando nell’arrivo degli agenti, qualcuno che suona e lui che apre credendo sia la polizia, il delitto, il punto messo su quella frase incompiuta per dar adito alla tesi del suicidio…

Immediata, l’impressione era che l’uomo si fosse suicidato. La pistola era a terra, a destra della poltrona su cui era rimasto seduto: vecchia arma da guerra ’15-’18, tedesca, uno di quei souvenir che i reduci si portavano a casa. Ma c’era, a cancellare nel brigadiere l’immediata impressione del suicidio, un particolare: la mano destra del morto, che avrebbe dovuto penzolare a filo della pistola caduta, stava invece sul piano della scrivania, a fermare un foglio su cui si leg­geva: «Ho trovato.». Quel punto dopo la parola «trovato» nella mente del briga­diere si accese come un flash, svolse, rapida e sfuggente, la scena di un omici­dio dietro quella, non molto accuratamente costruita, del suicidio. L’uomo ave­va cominciato a scrivere «Ho trovato», così come in questura aveva detto di aver trovato in casa qualcosa che non si aspettava di trovare: e stava per scrive­re di quel che aveva trovato, ormai dubitando che la polizia arrivasse e forse cominciando, nella solitudine, nel silenzio, ad aver paura. Ma avevano bussato alla porta.

‘La polizia’ pensò; ed era invece l’assassino. (p.23)

La casa, seppur spogliata di mobili ed oggetti, mostra di non essere disabitata… All’esterno, segni di autocarri nello spiazzo e catenacci nuovi alle porte di magazzini e stalle…

La casa era stata abbandonata e anche dispogliata di arredi, libri, quadri e por­cellane (si scorgeva qualche segno delle cose involate), ma non dava il senso di essere disabitata. (pp.25-26)

L’agente sempre a due passi dietro di lui, girarono intorno alla casa. Tra sterpi e seccumi, c’era uno spiazzo che, evidentemente, era servito per manovre di automobili, forse di autocarri. «C’è stato traffico, qui» disse il brigadiere. Poi, indicandoli all’agen­te, domandò: «Che te ne pare di questi catenacci?»: quelli che chiudevano le porte dei magazzini o stalle che circondavano la casa come un fortilizio da western americano.

«Sono nuovi» disse l’agente.

«Bravo» disse il brigadiere. (p.27)

Due ore dopo nella casa giungono le massime autorità di polizia e i membri della scientifica… Il questore sentenzia subito trattarsi di suicidio, lasciando perplesso il colonnello dei carabinieri presente in loco (peraltro adirato per non esserne stato immediatamente informato) e ancor di più il brigadiere, che tante cose avrebbe da dire al riguardo, incaricato però solamente di far pervenire il rapporto sul caso entro il pomeriggio…

Poco meno di due ore dopo, arrivarono tutti quelli che dovevano arrivare: que­store, procuratore della Repubblica, medico, fotografo, un giornalista prediletto dal questore e un nugolo di agenti tra i quali per sussiego spiccavano quelli della scien­tifica. (p.29)

«Suicidio» disse solennemente il questore, decidendo così che il colonnello comin­ciasse a coltivare opinione contraria.

«Signor questore…» intervenne il brigadiere.

«Quello che hai da dire, lo dirai poi nel tuo rapporto… Intanto…»: ma non sapeva intanto cosa ci fosse da dire o da fare se non ripetere: «Suicidio, caso evidente di suici­dio».

Il brigadiere tentò ancora: «Signor questore…». Voleva dirgli della telefonata della sera prima, di quel punto dopo l’«ho trovato». Ma il questore tagliò: «Vogliamo il rap­porto», indicò sé e il procuratore della Repubblica, guardò l’orologio, «nel primo pome­riggio». E rivolto al procuratore e al colonnello: «Questo è un caso semplice, bisogna non farlo montare e sbrigarcene al più presto… Vai a scrivere il rapporto, subito».

Automaticamente, il colonnello vide, invece, il caso molto complicato, e comunque da non sbrigarsene al più presto. (p.30)

Prima di tornare in questura, il brigadiere racconta tutto quel che sa, e che mette poi nel rapporto, al pari grado dei carabinieri, suo conoscente, che ha accompagnato fin lì il colonnello… Informazioni indubbiamente in grado di complicare il caso, a dispetto di quanto voluto dal questore…

Nell’automobile con cui il colonnello era venuto, seduto al volante stava il brigadie­re (dei carabinieri) che la guidava. Il nostro brigadiere andò a sederglisi a lato, che

lo conosceva bene anche se senza confidenza: e gli raccontò tutto quel che sapeva del caso, tutti i suoi sospetti. Gli indicò anche, alle porte dei magazzini, quei catenacci nuovi, lucidi; e se ne tornò in ufficio come alleggerito, a scrivere in due ore e passa quel che al suo pari grado aveva raccontato in cinque minuti. Così, tornando in città, il colonnello dei carabinieri seppe dal suo brigadiere quel che ci voleva per rendere il caso più complicato di quanto il questore desiderasse.

In breve, nonostante il giorno festivo, l’identità della vittima è appurata: Giorgio Roccella, ex diplomatico. Arrivato in città proprio il 18 dalla Scozia, dopo diciotto anni di assenza, giusto per morirvi…
Il questore, irritato con il brigadiere per il suo rapporto, insiste imperterrito con la tesi del suicidio, validata a suo dire dalla separazione dalla moglie (di dodici anni prima!) e con la telefonata alla polizia effettuata dall’uomo al solo scopo di amplificare la portata del gesto…

L’identità della vittima: Giorgio Roccella di Monterosso, nato appunto a Monterosso il 14 gennaio 1923, diplomatico in pensione. (p.33)

Il questore, sufficientemente irritato dal rapporto, che adombrava l’omicidio, del brigadiere, dall’informazione che la vittima si era separata dalla moglie (o, preferiva, la moglie da lui), trasse motivo a rafforzare la sua ipotesi del suicidio. La domanda del perché avesse chiamato prima la polizia, se la pose ma non lo inquietò: voleva, si ri­spose, ammazzarsi sotto gli occhi della polizia, per dare più originalità e clamore al suo gesto. Preda della follia, insomma. Ma il brigadiere, facendo più attenzione al fono­gramma informativo, fece notare al questore che la separazione dalla moglie era av­venuta dodici anni prima. (p.34)

Carmelo Franzò, professore amico della vittima, racconta di esser stato da quello contattato il 18, giorno del suo ritorno in Italia, affinché lo accompagnasse a visionare due epistolari del bisnonno e del nonno scambiati rispettivamente con Garibaldi e Pirandello. Ma, a causa della dialisi, non aveva potuto accompagnarlo… È il commissario, di rientro dalla domenica di irreperibilità, ad interrogare l’uomo… Franzò rivela poi che in una telefonata della sera stessa, l’amico lo aveva informato del fatto di essersi ritrovato la linea telefonica attivata a sua insaputa e di aver trovato un quadro…

Il commissario, per come il sabato aveva annunciato, si rese introvabile fino al lu­nedì mattina. Alle otto entrava in ufficio, dove già stava il brigadiere, incappottato, in­cappellato, avvolto in una sciarpa che gli copriva anche la bocca, guantato. Si svolse dal tutto rabbrividendo: «C’è un freddo, qui dentro, quasi quanto fuori: gli uccelli, qui, ne cadrebbero fulminati».

Aveva appreso il fatto da radio e giornali, disse. Lesse senza far commento lo schele­trico rapporto del brigadiere, uscì a conferire col questore.

Tornò che pareva ce l’avesse col brigadiere. «Non facciamo romanzi» lo avvertì. Ma il romanzo era già nell’aria. Due ore dopo, nell’ufficio sedeva ad alimentarlo il pro­fessor Carmelo Franzò, vecchio amico della vittima. Raccontò che sabato 18, ina­spettatamente, si era visto arrivare in casa Giorgio Roccella. Spiegazione di quell’im­provviso viaggio: si era ricordato che in una cassapanca che doveva ancora esserci nel solaio del villino c’erano dei pacchetti di vecchie lettere: uno di Garibaldi al suo bisnonno, un altro di Pirandello a suo nonno (avevano fatto assieme il liceo); e gli era venuta la fantasia di recuperarli, dì lavorarci un po’ su. Gli chiese di ac­compagnarlo, nel pomeriggio, al villino; ma il professore aveva, proprio quel pomeriggio, da fare la periodica e inalienabile dialisi, pena per giorni l’intossicata immobilità. Gli sarebbe tanto piaciuto, tornare dopo tanti anni a quel villino e partecipare alla ricerca. Si lasciarono dandosi appuntamento per l’indomani, do­menica; ma la sera della domenica, ecco dalla radio la notizia della morte dell’a­mico.

Ma aveva da aggiungere, il professore, altre informazioni; e fondamentali. La sera di sabato, una telefonata dell’amico. Telefonava dal villino: e per prima cosa disse: «Non sapevo che qui avessero messo il telefono»; poi disse che, cercando in solaio le lettere, aveva trovato, ecco, aveva trovato il famoso quadro. (pp. 35-36)

Mentre il commissario prosegue un astioso dialogo con il professore, che rifiuta di rivelargli di quale celebre quadro scomparso possa trattarsi, Lagandara è inviato alla compagnia telefonica per accertare chi abbia attivato la linea al Roccella…
La deposizione del Franzò va avanti fino all’arrivo del questore. Poi, di ritorno, il brigadiere informa il superiore che l’attivazione è avvenuta tre anni prima con firma falsa, come già appurato dai carabinieri…

Ma il ritorno del brigadiere portò agitazione. «La richiesta c’è, di tre anni fa; ma con firma falsificata… L’hanno già accertato i carabinieri».

«Maledizione!» urlò il questore: indirizzandosi ai carabinieri. (p.38)

L’ipotesi del suicidio inevitabilmente decade, obbligando polizia e carabinieri a una sofferta collaborazione investigativa…

Ma dissoltasi, per la testimonianza del professore, la tesi del suicidio, che il questore aveva in prima accettata e il colonnello dei carabinieri subito rifiutata, dai superiori loro furono entrambi esortati a incontrarsi e a scambiarsi informa­zioni, ipotesi e sospetti. S’incontrarono, per così dire, a denti stretti; ma non riu­scirono ad essere del tutto vaghi e insensati. (p.39)

Questo l’esito della loro ricostruzione…

Ricostruirono: il signor Roccella, preso dal capriccio di ritrovare le lettere di Garibaldi e di Pirandello, era improvvisamente tornato, dopo tanti anni; era an­dato a trovare il suo amico; aveva pranzato al ristorante; prese dalla casa di città, o le aveva già con sé, le chiavi del villino; vi si era fatto portare da un taxi. Lì, constatato che le chiavi ancora servivano, si era fatto lasciare per fare la sua ricer­ca. Ma cosa era accaduto da quel momento in poi? Aveva trovato impiantato un telefono: ma non pareva se ne fosse tanto sorpreso, da come riferiva il pro­fessore. Il che voleva dire che aveva idea di chi l’avesse fatto impiantare. L’aveva invece molto sorpreso, forse impaurito, lo scoprire, nel solaio dove era andato a cercare le lettere, quel quadro. La telefonata all’amico, dunque, la telefonata alla polizia. E poiché la polizia tardava ad arrivare, aveva cominciato a scrivere: «Ho trovato…». Ma senz’altro impaurito, era andato a ripescare la vecchia Mauser. E proprio in quel momento, probabilmente, sentì bussare. Finalmente la polizia. Andò ad aprire: ma era il suo assassino. (pp.39-40)

Gli investigatori decidono dunque un nuovo sopralluogo, ma ecco un altro evento di sangue, l’omicidio del capostazione e del tecnico di Monterosso. Allarmato e indispettito dal segnale fisso sul rosso, un capotreno chiede all’autista di una Volvo di passaggio di recarsi alla stazione di Monterosso per svegliare il capostazione, convinto si sia esso addormentato. L’uomo della Volvo raggiunge la stazione, ma vi trova due uomini intenti ad arrotolare un tappeto oltre al capostazione che gli ha aperto. Se ne va, senza neanche tornare indietro… Sono il capotreno e alcuni passeggeri a rinvenire, poco dopo, i corpi assassinati…

Bisognava fare una nuova e più minuziosa perquisizione nel villino. Ma mentre la decidevano un fatto accadde che portò grande daffare e sconvolgimento. (p.40)

Restando il semaforo al rosso, dopo un po’ il capotreno, seguito da qualche passegge­ro, salì a piedi – cinquecento metri – alla stazione: ma scoprirono con raccapriccio che capostazione e manovale dormivano sì, ma di eterno sonno. Erano stati ammazzati.

Imparzialmente furono chiamati carabinieri e polizia: che subito, entrambi, si die­dero alla ricerca dell’uomo della Volvo. (p.41)

L’uomo della Volvo, auto rara e costosa, è così costretto a presentarsi “spontaneamente”, fornendo la propria versione e malevolmente sospettato dal commissario di essere uno spacciatore… Rappresentante di commercio dall’auto costosa, la motivazione… L’uomo rivela di aver visto altri due uomini, oltre al capostazione che gli ha aperto, intenti ad arrotolare un tappeto…

«No. Gli ho detto quel che il capotreno mi aveva detto di dirgli. Ho appena guardato dentro l’ufficio: c’erano altri due uomini, e stavano arrotolando un tap­peto… Me ne sono andato». (p.42)

L’uomo della Volvo, trattenuto in questura, è poco dopo accompagnato al cospetto del questore e del colonnello dei CC dal brigadiere Lagandara…

«Lasciamo perdere… Io vado ora dal questore: tra un quarto d’ora accompagna da lui l’uomo della Volvo». (p.46)

Gli investigatori gli chiedono del tappeto, possibile fosse un quadro?, per poi mostrargli due foto di uomini a lui ignoti: quelle di capostazione e manovale! Sarà quindi trattenuto ulteriormente…

«Lasciamo perdere… Io vado ora dal questore: tra un quarto d’ora accompagna da lui l’uomo della Volvo».

Nell’ufficio del questore c’era il colonnello dei carabinieri, furono entrambi dal commissario informati.[…]

«Stavano arrotolandolo, mi parve, a rovescio: tela grezza, ruvida…».

«Ma il rovescio di un tappeto non è così. È possibile stessero invece arrotolan­do un dipinto?».

«È possibile» disse l’uomo. (p.46)

Il questore gli mostrò due fotografie: «Eccone due, li riconosce?».

Stavano cercando di armargli una trappola; l’uomo dentro di sé li maledisse. «Ma che riconoscere? Questi due credo di non averli mai visti in vita mia».

«Sa chi sono? Il capostazione e il manovale: proprio quelli che sono stati assas­sinati».

«Ma io non li ho visti!».

«Ma se ha detto di aver visto e parlato col capostazione!».

«Con uno che ho creduto fosse il capostazione». (p.47)

Il Procuratore, ascoltati questore e colonnello, esterna una sua strampalata teoria sull’omicidio (l’uomo della Volvo ha ucciso i due per impossessarsi del quadro che gli era piaciuto!), poi riceve Franzò, suo vecchio professore…

Questore e colonnello fecero col magistrato inquirente il punto delle loro indagini.

Li congedò, aveva da sentire il vecchio professore Franzò. (p.49)

In questura si ritrovano i parenti della vittima: la moglie, da Stoccarda, che ambisce unicamente ad avere una parte di eredità, e il figlio, da Edinburgo, che vorrebbe invece conoscere il movente dell’omicidio del padre che scopre essere peraltro adottivo…

Il figlio della vittima da Edimburgo, la moglie da Stoccarda, arrivarono lo stesso giorno. Fu, tra madre e figlio, e anche per gli investigatori che erano pre­senti, un incontro molto spiacevole. La moglie, evidentemente, era venuta per arraffare del patrimonio quel che poteva; il figlio per impedirglielo, ma soprat­tutto per sapere come e perché suo padre era stato ucciso, e da chi. (p.51)

Il ragazzo fornisce un’informazione utile, citando tale padre Cricco come facente funzione di sorvegliante alle proprietà del defunto padre, tornato in Sicilia unicamente per immergersi nello studio delle lettere avite…

«Mi dica qualcosa sulle vostre proprietà qui. Erano proprio abbandonate?».

«Sì e no. Ogni tanto mio padre scriveva a un tale, credo un prete, per sapere dello stato di mantenimento». […]

«Ne ricorda il nome?».

«Cricco, mi pare… Padre Cricco. Ma non sono certo». (p.53)

Cricco, interrogato al riguardo, nega di aver mai avuto le chiavi dei possedimenti del defunto, affermando di essersi sempre limitato ad osservarne il mero stato di conservazione esteriore… Sostiene altresì la tesi del suicidio, nonostante le analisi della scientifica abbiano dimostrato l’uso di un guanto nel far sparare la pistola…

Un nuovo sopralluogo alla villa viene disposto alla presenza dei due familiari della vittima e del professor Franzò…

Le autorità poliziesche e giudiziarie decisero, accompagnandovi moglie e fi­glio, ed anche il professor Franzò, di fare altra perquisizione nel villino. (p.57)

Lagandara, giunto assieme a Franzò, nota subito la rimozione di catene e lucchetti dai magazzini, elementi non rimossi peraltro dai carabinieri. Odore di sostanze chimiche impregna i locali degli stessi, ma il commissario nega di sentirvi alcunché dichiarandosi raffreddato…

Nervosamente, il brigadiere ispezionò uno per uno i magazzini. Vi stingeva un odore di zucchero bruciato, di foglie di eucalipto macerate, di alcool: qualcosa di indefinibile, insomma. Disse al commissario: «Lo sente, quest’odore?».

«Non sento nulla, sono raffreddatissimo». (p.58)

Ma, poco dopo, un particolare ben più strano fa ghiacciare il sangue al brigadiere: in soffitta, il commissario dimostra di conoscere alla perfezione l’ubicazione dell’interruttore che né lui né gli altri agenti avevano individuato durante la prima perquisizione. Commissario che aveva peraltro sempre affermato di non esser mai stato in loco precedentemente…

Sopra la cassapanca contenente le missive degli antenati del defunto, l’evidente segno di qualcosa rimosso di recente, con il legno non coperto di polvere come all’intorno…

Sulla cassapanca c’era, non coperto dello spesso strato di polvere che copriva tutto, netto il segno che qualcosa vi era stata posata per lungo tempo. Il dipinto arrotolato, pensò il brigadiere: e lo disse. Il povero Roccella lo aveva perciò visto prima ancora di aprire la cassapanca e cercare le lettere: che stavano lì, impac­chettate: quelle di Garibaldi, quelle di Pirandello. (p.61)

Nel riaccompagnare il professore a casa, professore che vorrebbe tanto poter studiare le lettere di Pirandello, Lagandara finisce per cadere in lacrime con il suo vecchio docente per la menzogna del commissario. Il professore lo invita quindi a parlare un po’ a casa sua. È evidente che in quei magazzini si svolgessero loschi traffici e che l’uomo non sia stato assassinato per il solo dipinto…

Parlarono per ore, arrivando alla conclusione che, da parte di quei delinquen­ti, il dipinto era stato un diletto incauto, un’attività marginale, quasi un capriccio. Ben altro si faceva in quel luogo: e perciò il povero Roccella, arrivando di sor­presa, era stato assassinato. (p.62)

L’indomani, in questura, subito aria tesa tra il commissario e Lagandara che unisce all’indizio dell’interruttore quello dei guanti… Riferire tutto al questore?… Dopo un po’, il commissario cessa di scorrere le carte che fingeva di star leggendo, principiando a pulire la pistola, lanciando così un chiaro messaggio al sottoposto… Ultimate le operazioni e caricata l’arma, il commissario tenta quindi di uccidere Lagandara che, però, intuitene da tempo le intenzioni, evita il colpo dimostrandosi ben più abile tiratore…

Il commissario finì di pulire la pistola, la ricaricò, l’impugnò fingendo mira al­la lampada, a un calendario, al pomo di una porta; ma al momento in cui con improvvisa rapidità la puntò sul brigadiere e sparò, questi si era già gettato a terra con tutta la sedia, aveva scoperto dal giornale che teneva con la sinistra la pistola che aveva tirato dal cassetto, sparato un colpo dritto al cuore del commissario, che crollò sulle carte che aveva davanti copiosamente insanguinandole. (p.65)

Al termine di un colloquio tra procuratore, questore e colonnello dei CC, ricostruiti i fatti accaduti tra il 18 e il 19 marzo, fatti che dimostrano il coinvolgimento del defunto questurino nei fatti criminosi, si finisce per attribuire la morte del commissario a mero incidente…

«Riassumiamo» disse il questore. «Riassumiamo e decidiamo… Decida, cioè, signor procuratore: tra poco avremo i giornalisti alla porta». (p.67)

La sera del 18 arriva in questura la telefonata del signor Roccella: chiede che qualcuno vada da lui a vedere una certa cosa. Risponde il brigadiere che qualcuno, al più presto possibile, andrà. Comunica il contenuto della telefonata al commissario, si offre di andare: ma il commissario dice di non credere al ritorno, dopo tanti anni, del signor Roccella; ritiene si tratti di uno scherzo. Dice al brigadiere di fare una puntati- na a quel luogo l’indomani, se ne va dicendo che per tutta la giornata dell’indomani, festa di San Giuseppe, sarebbe stato introvabile: e lo fu davvero… È facile sospettare che abbia avvisato dei complici dell’imprevedibile ritorno del signor Roccella; e ancora più facile che ci sia andato di persona, si sia fatto aprire in quanto commissario di poli­zia, si sia seduto accanto a lui allo scrittoio dove il Roccella aveva cominciato a scrivere del quadro che aveva trovato; e al momento giusto, presa quella pistola che inspera­tamente si trovava sul tavolo, l’abbia impugnata con mano guantata sparandogli alla te­sta. Aveva poi messo un punto alla frase “ho trovato”; e se ne era andato chiudendosi dietro la porta, che aveva una serratura a scatto… Debbo dire, in autocritica, che quel punto dopo “ho trovato”, che il brigadiere mi fece notare come incongruente, non mi fece allora impressione. Pensai che il Roccella fosse impazzito, che era arrivato a trova­re nel suicidio una soluzione e che avesse vagheggiato di suicidarsi sotto gli occhi della polizia… Ma l’indomani il morto sarebbe stato certamente scoperto: e da ciò la necessi­tà dello sgombero. Nella notte, tutta la banda fu chiamata a raccolta: quadro e altri strumenti di lavoro clandestino furono trasferiti».

«Dove?» domandò il magistrato.

«Secondo il brigadiere, e anche secondo me, alla stazione di Monterosso, dove ca­postazione e manovale erano già della congrega, anche se marginalmente, a livello di diffusori, di spacciatori… Indubbiamente, a vedersi arrivare tutta quella roba volumi­nosa e compromettente, capostazione e manovale si spaventarono. Protestarono, forse minacciarono: e furono uccisi. Erano già stati uccisi quando alla stazione arrivò l’uomo della Volvo; e perciò la loro fuga precipitosa… L’uomo della Volvo non vide il capo­stazione e il manovale: vide i loro assassini… Questo lo abbiamo accertato facendogli vedere le fotografie del capostazione e del manovale: mai visti… Poi c’è stato l’episo­dio dell’interruttore: che non impressionò soltanto il brigadiere». (pp.67-68-69)

Lo richiamarono più di un’ora dopo.

«Incidente» disse il magistrato.

«Incidente» disse il questore.

«Incidente» disse il colonnello.

E perciò sui giornali: Brigadiere uccide incidentalmente, mentre pulisce la pi­stola, il commissario capo della polizia giudiziaria. (p.69)

Mentre in Questura si rendono gli ultimi omaggi al commissario, l’uomo della Volvo viene rilasciato. All’ingresso si imbatte nel Cricco che gli chiede se sia della sua parrocchia. L’uomo prosegue, felice di potersi allontanare dai guai giudiziari ma, strada facendo, riconosce nel prete l’uomo che gli aveva aperto alla stazione spacciandosi per il capostazione. Che fare? Tornare indietro a denunciarlo? Non ci pensa nemmeno, riprendendo canticchiando la marcia…

Mentre in questura ferveva l’allestimento della camera ardente per il commis­sario (solenni sarebbero stati i funerali), l’uomo della Volvo, tirato fuori dal car­cere, vi fu portato per gli adempimenti burocratici per cui sarebbe stato, final­mente, completamente libero.

Assolti quegli adempimenti, ne stava uscendo scarmigliato e angosciosamen­te ilare, quando sulla soglia incontrò padre Cricco in nicchio, cotta e stola, che veniva a benedire la salma.

Padre Cricco lo fermò di un gesto. Disse: «Mi pare di conoscerla: lei è della mia parrocchia?».

«Ma che parrocchia? Io non ho parrocchia» disse l’uomo; e uscì con gioiosa furia. (p.71)

«Quel prete,» si disse «quel prete… L’avrei ri­conosciuto subito, se non fosse stato vestito da prete: era il capostazione, quello che avevo creduto fosse il capostazione».

Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: «E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?».

Riprese cantando la strada verso casa. (p.72)

APPENDICE

Di Matteo Collura p.73

Interviste tratte da Il Mattino (7 gennaio 1979), dal Corriere della Sera (7 agosto 1985; 8 maggio 1988 – colloquio con Gesualdo Bufalino)