JUNICHIRO TANIZAKI – LIBRO D’OMBRA
[IN EI RAISAN]
BOMPIANI – Collana TASCABILI BOMPIANI n.412 – VIII ed. Giugno 2013
***** Libro ricevuto in dono, il 16 aprile 2015, da Giulia D’Amico *****
TRADUZIONE: ATSUKO RICCA SUGA
A CURA DI: GIOVANNI MARIOTTI
NOTIZIA BIO-BIBLIOGRAFICA: ADRIANA BOSCARO
INTRODUZIONE: Giovanni Mariotti p.V
NOTIZIA BIOBIBLIOGRAFICA: Adriana Boscaro p.IX
LIBRO D’OMBRA p.1
1 p.3
Uso della tradizione giapponese quello della ricerca della migliore estetica fin negli ambienti domestici. Ecco che quindi il progresso tecnologico pone evidenti problemi…
Molti e spinosi problemi dovrà affrontare il giapponese che conosca almeno un poco l’architettura del suo paese, e desideri una dimora tradizionale, non priva tuttavia di comfort. In primo luogo, come sistemare gli impianti della luce elettrica, del gas, dell’acqua corrente, senza che decoro e armonia dell’ambiente siano turbati? (p.3)
Così, un uomo che abbia sensibilità estetica si torturerà su ogni particolare. Il telefono, per esempio: dove lo collocherà?[…]
Altra storia il ventilatore elettrico. Mai, vuoi per il ronzare, vuoi per la forma, potrebbe armoniosamente inserirsi in una stanza giapponese. (p.4)
Maggiori difficoltà dovetti affrontare quando si trattò di riscaldamento. Non esiste stufa occidentale che si adatti a un ambiente giapponese. […]
Risolto il problema riscaldamento, mi restavano quelli della stanza da bagno e del gabinetto.(p.6)
Comunque, in una stanza da bagno si può anche sacrificare l’estetica alla praticità. Ben più ardui problemi si pongono a chi intraprenda l’edificazione di un gabinetto. (p.7)
2 p.9
Perfino nella costruzione dei bagni lo spirito per l’estetica giapponese si applica rendendo abissale la distanza con la praticità occidentale…
[…] solo il gabinetto giapponese è interamente concepito per il riposo dello spirito. (p.9)
Tra i sommi piaceri dell’esistenza Natsume Sòseki annoverava le evacuazioni mattutine: piacere fisiologico, che solo nel gabinetto alla giapponese, fra lisce pareti di legno dalle sottili venature, mirando l’azzurro del cielo e il verde della vegetazione, si può assaporare sino in fondo. Insisto: sono necessari una lieve penombra, nessuna fulgidezza, la pulizia più accurata, e un silenzio così profondo che sia possibile udire lontano un volo di zanzare. Senza tali requisiti non si dà gabinetto ideale. (p.10)
Quanti autori di haiku devono aver trovato, alla latrina, il tema dei loro versi! Non sembri azzardato affermare che, nella costruzione dei gabinetti, l’architettura giapponese ha toccato il sommo della raffinatezza. I nostri avi, per cui ogni realtà era degna di elaborazione estetica, riuscirono a trasformare il luogo della casa che, per sua destinazione, avrebbe dovuto essere più sordido, in una cella consacrata all’elezione e alla squisitezza del gusto, immersa nella natura, avvolta da una bruma di immagini e reminiscenze delicate. Al contrario, gli Occidentali hanno deliberato una volta per tutte che il gabinetto è sconveniente, e in società si astengono persino dal nominarlo. Quanto più savio è il nostro atteggiamento,- o almeno più vicino alPintima verità delle cose! Tuttavia, se proprio qualcuno insistesse, finirei per confessare che almeno un inconveniente, nel gabinetto giapponese, io ce lo trovo: la lontananza dalla casa. […]
Fra coloro che amano l’architettura tradizionale, chi non opterebbe per un gabinetto alla giapponese? (p.11)
Ma il progresso non si può arrestare e così ecco l’eleganza e il contatto con la natura venire meno in luogo della praticità…
Così, prima o poi, ecco fare il loro ingresso nelle nostre dimore le piastrelle bianche, e la tazza con lo scarico dell’acqua. Ora c’è più igiene, e si risparmia fatica, però eleganza e contatto con la natura sono svaniti.[…]
Più impeccabile e lindo è quanto si vede, più siamo inclini a immaginare ripugnante e sozzo quanto resta celato. Non vai meglio che la penombra regni, e sia labile il confine tra il pulito e lo sporco?
Dopo lunga ponderazione ho scelto per la mia casa “sanitari” moderni, ma al pavimento di piastrelle mi sono strenuamente opposto. Di legno di canfora l’ho voluto: almeno mi ricorda, un po’, l’ambiente tradizionale. Altri problemi li ho avuti con la tazza. Quelle all’occidentale sono di porcellana bianca, con guarnizioni di metallo cromato. Io le preferisco di legno, sia nella versione per uomini, sia in quella per donne. (pp.12-13)
Niente ho contro gli agi della civiltà moderna (elettricità, impianti igienici o di riscaldamento…), ma una cosa non so capire: perché ci rassegnamo ad abbandonare tutti i nostri usi? perché rinunciamo ai nostri gusti? perché non tentiamo di conciliare il nuovo con la nostra sensibilità? (p.13)
3 p.15
Anche per illuminazione e sistemi di riscaldamento la tradizione ha lasciato il passo alla praticità occidentale…
Stiamo, forse, riscoprendo la carta, la sua delicatezza, il suo calore. A lungo li avevamo dimenticati. Ecco tornare, ora, paralumi cartacei sopra lampade elettriche che hanno la forma dell’andon, la vecchia lanterna a olio portatile. Cominciamo forse a capire che la carta meglio del vetro si sposa a una casa giapponese. (p.15)
Sul mercato non si trovano che orride stufette all’occidentale.[…]
Essenziale è difendersi dagli assalti del freddo e della fame. Davvero conta tanto lo stile? Se è tempo di neve, la massa non disputa di Oriente, Occidente, o eleganza: il calduccio vuole, e se lo procaccia con quello che trova sottomano. (p.16)
Forse, sostiene Tanizaki, se il Giappone fosse stato meno servile nei confronti della civiltà Occidentale, altri sarebbero le condizioni attuali della società…
Se, di fronte all’Occidente, avessimo adottato sin dall’inizio un atteggiamento meno servile, oggi non solo indosseremmo altri abiti, mangeremmo altri cibi, abiteremmo altre case, ma diverse sarebbero anche la nostra politica, la nostra religione, la nostra arte, la nostra Tutto sarebbe altro,
e orientale. (p.17)
4 p.19
Il Giappone si è di fatto piegato al mondo Occidentale adottandone aspetti avulsi dalla propria tradizione…
Per giungere al punto in cui è, bastò al- l’Occidente mantenersi nel suo solco naturale; noi, in Oriente, siamo stati costretti ad adottare una civiltà, di cui sarebbe sciocco negare la grandezza, profondamente dissimile dalla nostra tuttavia; abbiamo lasciato la strada che percorrevamo da millenni; camminiamo, ora, in un’altra direzione; molte difficoltà sono nate da questo deviatele molti inconvenienti. (p.19)
5 p.23
È l’antitetica concezione di luci ed ombra a differenziare le due civiltà…
La carta, dicono, è invenzione cinese. Io posso dire soltanto che la carta occidentale altro non mi trasmette che l’impulso a usarla; se, invece, mi chino a osservare una carta cinese, o giapponese, a poco a poco mi sento invaso dalla quiete e dal tepore. La bianchezza stessa è diversa. Se la carta occidentale sembra respingere la luce, quella cinese, o giapponese, la beve lentamente, e la sua morbida superficie è simile al manto della prima neve. È una carta cedevole al tatto, e che si lascia piegare senza rumore. È placida, delicata, leggermente umida. Somiglia alle foglie degli alberi. (p.23)
Le posate d’argento, o placcate d’argento, o di acciaio inossidabile, che gli Occidentali si studiano di mantenere perennemente lucide, poco si confanno al nostro gusto. (p.24)
Anche in Oriente era conosciuta, sin da tempi remoti, l’arte-vetraria; e tuttavia, da noi fiorì la ceramica, mentre l’arte del vetro fiorì in Occidente; la ragione di ciò andrà cercata, ritengo, nella nostra sensibilità estetica.
Non dico che aborriamo tutto quello che luccica; è tuttavia evidente che preferiamo, alle tonalità chiare, fredde e scintillanti, quelle un po’ offuscate, e caliginose. (pp.25-26)
Ho insinuato altrove che, per essere veramente eleganti, bisogna non temere il freddo; aggiungerò che è necessario non temere la sporcizia. (p.26)
Vivere fra oggetti bruniti, e in una casa antica, ci trasmette un senso di pace profonda, e inesplicabilmente ci calma.[…] (p.27)
6 p. 29
La meraviglia del legno laccato…
Da noi, in Giappone, ormai si usa il legno laccato solo per i vassoi e le ciotole da brodo, o in occasioni rituali, come la cerimonia del tè; per tutti gli altri usi, preferiamo la ceramica: il legno laccato ci sembrerebbe stonato e inelegante. Non potrebbe, questo, dipendere dalla troppa luce che l’elettricità ha portato nelle nostre stanze?
Solo la penombra permette di ammirare la beltà di una lacca.(pp.30-31)
Gli artigiani di una volta, quando applicavano la lacca e la decoravano di maki e, avevano in mente locali fiocamente illuminati. Doravano sino alla profusione e alla stravaganza, perché conoscevano i segreti dell’ombra, e la magia dell’oro, che persino nel buio più fitto sa scoprire e attirare pagliuzze di luce. (p.31)
Se mancassero, nella stanza, gli oggetti di legno laccato, così appesantiti e melanconici, quanto perderebbe in seduzione il mondo fantastico creato dagli arcani vacillamenti di un lume a olio o di una candela! Solo i movimenti della fiamma sembrano imprimere all’ombra un suo pulsare, un suo ritmo impercettibile. Sulla superficie laccata i disegni d’oro imprigionano filamenti di luce; altri filamenti scendono, come rivoli, sino al pavimento coperto di stuoie, e vi formano minuscole pozzanghere luminose.(p.32)
Sebbene non abbiano la densità del legno laccato, e il suo carico d’ombra, i servizi da tavola in porcellana non sono da buttar via. Tuttavia, chi tiene fra le mani una stoviglia di porcellana. a sente fredda e pesante. Temibile conduttrice del calore, è scomoda da maneggiare, se la si riempie di cibi caldi. Urtata, rintocca sinistra- mente. Al contrario, i servizi di legno laccato sono leggeri, gradevoli al tatto, delicati, non rumorosi. (pp.32-33)
7 p.35
Si direbbe che intendano sprofondarci in meditazioni silenziose.[…]
Che cosa più dello yókan, e della sua tonalità, possono indurre alla meditazione? (p.36)
Persino cibi e pietanze hanno una loro valenza estetica nella cultura giapponese…
[…]insomma le vivande dalle tonalità pallide e attenuate, molto perdono del loro fascino quando sono presentate in una stanza troppo luminosa. Lo stesso riso non è forse più bello e appetibile, se il locale in cui viene servito è immerso nella penombra, se il recipiente è di legno e spalmato di una nera lacca lucente, se, nel mucchio fumante dei chicchi,ognuno risalta e balugina come una minuscola perla? Questa visione, che appare nel momento in cui si solleva il coperchio, è grata a ogni giapponese. Bastino questi esempi a mostrare come la nostra cucina usi l’oscurità. (pp.37-38)
8 p.39
L’ombra è dominante nelle case e templi giapponesi, nulla di più lontano dalla luminosità ricercate dall’architettura occidentale…
Sebbene niente io sappia di architettura, mi azzarderò a sostenere che la bellezza delle grandi cattedrali occidentali è legata allo slancio dei tetti, che sembrano trafiggere il cielo con pinnacoli acuminati. All’opposto, nei templi buddhisti del nostro paese, nere tegole riparano l’intero edificio, che sembra abbia scelto di accucciarsi sotto la loro ombra densa e protettiva. Non solo nell’architettura religiosa, ma anche nei palazzi imperiali, o nelle comuni case di abitazione, ci colpiscono, prima di ogni altro particolare, l’immensità del tetto di tegole o paglia e l’ispessirsi dell’ombra sotto le gronde. (p.39)
Anche le case occidentali hanno un tetto, che tuttavia non sembra tanto destinato a schermare la luce solare, quanto a proteggere dalle intemperie. Si cerca di ridurne il carico d’ombra, e si studia, per ogni locale, l’esposizione migliore ai raggi del sole. Questa volontà è evidente, nelle abitazioni occidentali; basta guardarne l’esterno, per rendersene conto. Se il tetto giapponese può essere paragonato a un parasole, quello occidentale è un copricapo privo di falda. (p.40)
Costretti a vivere dentro vani caliginosi, i nostri antenati scoprirono la beltà nel seno stesso dell’ombra e, a poco a poco, impararono a usarla per fini estetici. La spoglia eleganza delle stanze giapponesi è fondata, per intero, sulle infinite gradazioni del buio.[…]
Stanze, già di per sé poco chiare, noi cerchiamo di renderle ancora più fosche, dilatando lo spazio sotto le gronde, o frapponendo talvolta, fra il buio interno e le naturali chiarità atmosferiche, lo schermo di una veranda. Del sole fulgente che brilla sul nostro giardino non ci raggiunge che uno spento riflesso, filtrato attraverso la carta opalescente dello shóji. Questa luce mitigata e indiretta è l’elemento estetico più importante della casa giapponese. (p.41)
In ogni stanza, un’uniforme tinta sabbiata si abbevera di chiarore; da stanza a stanza, essa varia tuttavia, quasi impercettibilmente.[…]
Le loro gradazioni conferiscono, a ogni locale, una differente qualità di buio. (p.42)
9 p.45
Cura dell’ombra nelle case tradizionali giapponesi…
L’inchiostro di china acquarellato (il sumi e) è, tra i generi della pittura, quello a cui vorrei paragonare la stanza giapponese. Dove l’inchiostro sfuma, là è lo shóji; dove si addensa, là è il toko no ma.[…]
Niente di manierato e di artificioso: solo uno spazio spoglio, la semplicità del legno, la nudità delle pareti. I raggi luminosi che vi penetrano provocano, ora in questo, ora in quell’angolo, il raggrumarsi dell’ombra. (p.45)
In verità, non esistono né segreti, né misteri: tutto è magia dell’ombra. Se snidassimo l’ombra da ogni cantuccio del toko no ma, non resterebbe che un vuoto spazio disadorno. (p.46)
La luce viva ha dovuto attraversare ombre di spioventi e verande, prima di raggiungere il suo scialbo filtro di carta; stremata ora, languente, e senza più forza di illuminare, si limita a disegnare su un fondo buio i vaghi contorni dello shóji. Quante volte, immobile davanti a una di queste finestre, ho meditato sull’enigma di una luce senza bagliore!
Più laborioso ancora il percorso della luce diurna sino alle grandi sale dei monasteri. Là, l’opaco biancore dello shóji non muta mai, che sia estate o inverno, bel tempo o nuvolo, mattina, pomeriggio o sera. (p.47)
10 p.49
E ora, giacché vi trovate in una di queste immense costruzioni, camminate verso l’interno, sin nei recessi più intimi; là, ove nessuna luce penetra mai, osservate porte scorrevoli, e paraventi rivestiti di sottilissime lamine d’oro; guardate come quell’oro chimericamente balugini, captando atomi di chiarore giunti, attraverso stanze innumerevoli, da lontani giardini. Com’è debole la luce dorata che si dirama nell’oscurità! Somiglia al pallido lucore che lungamente indugia sulla linea dell’orizzonte, dopo il crepuscolo. (p.49)
L’uso dell’oro come collettore di luce…
Davanti a questi spettacoli, mi par di capire perché i nostri avi rivestissero di foglie d’oro le statue dei Buddha, e le pareti delle case patrizie. Vivendo in locali chiari, noi moderni ignoriamo la vera bellezza dell’oro. Ma i nostri avi, che trascorrevano gran parte del loro tempo dentro buie dimore, non solo ne conoscevano la bellezza: sapevano anche apprezzarne l’utilità. In una casa labilmente illuminata, l’oro serviva da collettore di luce. Gli antichi usavano foglie, o polvere d’oro, non solo come simboli di ricchezza, ma anche come sorgenti luminose. (p.50)
Migliore il teatro no, per la cura dell’ombra, di quello kabuki, danneggiato dall’illuminazione elettrica che smaschera il trucco degli attori in scena…
Per ragioni non dissimili, molto mi garba l’armonia (che pochi apprezzano) tra i costumi del teatro nò e il colorito giapponese. (p.51)
A una prima impressione, i costumi del kabuki appariranno forse più erotici, e certamente più vistosi. È possibile che erotici
lo fossero un tempo, indossati su scene d’ombra; oggi, sotto la luce cruda delle lampadine elettriche, scivolano inevitabilmente nella volgarità, e disgustano presto.
Ma basta ora parlare di costumi: diciamo qualcosa del trucco. V’è certo squisitezza, sui visi intonacati degli attori del kabuki-, ma è una fredda squisitezza cosmetica, a cui manca la vivacità dell’epidermide nuda. In scena l’attore del nò entra, invece, senza trucco alcuno. (pp.52-53)
Una cosa so: il giorno in cui il teatro del nò verrà illuminato all’occidentale, il suo sortilegio di colori si sgretolerà sotto la luce accecante. Deve, l’illuminazione del nò, rimanere fioca, e all’antica. Più vecchio è l’edificio, meglio è. (p.55)
11 p.57
Bizzarro mondo d’ombra è quello del nò: mondo di bellezza e di intrinseca oscurità. Per noi, esso appartiene all’universo delle illusioni teatrali; ma, ai nostri avi, forse non appariva molto distante dalla vita ordinaria. L’oscurità del nò è la stessa che regnava nelle antiche dimore di questo paese. Anche i costumi variopinti, e rabescati, sono quelli dei nobili e dei guerrieri di un tempo. (p.57)
Nell’universo artefatto del kabuki beltà maschile e beltà femminile sono ugualmente irreali.(p.58)
[…] mi convinsi, molti anni fa, che l’illuminazione elettrica stava portando il kabuki alla rovina.
Con emozione un vecchio intenditore di Osaka mi parlava del teatro bunraku agli inizi dell’epoca Meiji. Benché già si conoscesse l’elettricità, gli spettacoli di marionette erano illuminati da lanterne a olio. Quanti echi, e che suggestione, in quella penombra! Ancora oggi, trovo le bambole del bunraku più vive e reali delle dame del kabuki. Solo sotto una luce fievole, i loro tratti innaturali e alquanto rigidi, che l’ombra tuttavia risucchiava, e i visi bianchicci di ceramica cinese, a cui non recava offesa alcun riflesso di luce troppo vivida, dovevano svelare, intera, la loro beltà. Non posso pensare a quei lontani spettacoli senza un brivido. (p.59)
12 p.61
Perfino la donna è sempre stata tenuta nell’ombra, nelle scure case, con pochi lembi di pelle scoperti…
Come ben si sa, le bambole del teatro bunraku non hanno, di donna, che la testa e le mani. Il tronco, le gambe e i piedi sono snodi nascosti dal lungo kimono, sotto il quale lavorano le dita del burattinaio. Trovo, in quest’artificio, un’eco della realtà: ai vecchi tempi, solo le parti che sporgevano dall’imboccatura delle maniche, e dal girocollo, attestavano la presenza femminile; il resto era annegato nell’ombra. Raramente le donne dei ceti alto e medio uscivano di casa; per la maggior parte della vita, restavano chiuse, e come sepolte, nel segreto di grandi dimore ombrose; quando uscivano, si rannicchiavano in fondo ai palanchini. Erano visi – visi e nient’altro. Portavano vestiti sobri, mentre quelli maschili sgargiavano. Colori indescrivibilmente spenti fasciavano mogli e figlie dei borghesi. (pp.61-62)
Ancora le case si costruivano come vasi per l’ombra, e mia madre, le mie zie, le altre donne maritate della famiglia si tingevano i denti di nero. Non rammento il loro abbigliamento casalingo; quando uscivano, indossavano kimoni in tinte grigie, gremiti di disegni minutissimi. […]
Di mia madre ricordo il volto; le mani, i piedi, ma niente del resto del corpo. (pp.62-63)
Di una magrezza tremenda, senza proporzione con il viso e con gli arti, quel torso femminile senza ispessimenti ha più forma di bastone, che di corpo umano. Così doveva essere, nuda e in antico, la donna giapponese.
Simili stecchite beltà esistono ancora, non solo fra le geishe, ma anche nelle famiglie fedeli alla tradizione. Quando ne vedo una, subito penso alle marionette del bunraku. Come i bastoncini delle marionette, imbottiti d’ovatta e imprigionati in una sfoglia di tessuti, anche il corpo di queste donne è soltanto una gruccia a cui appendere abiti. Tolti gli abiti, un supporto corporeo così ridicolmente sparuto può scoraggiare. Esso doveva tuttavia corrispondere alle esigenze dei nostri avi. Donne che abitavano nell’ombra non avevano bisogno di possedere un corpo: bastava loro un viso bianco, che si abbeverasse a una luce scarsa. (p.63)
Nei gradi d’ombra la bellezza nell’estetica tradizionale giapponese…
Queste parole esprimono bene il nostro modo di pensare: non nella cosa in sé, ma nei gradi d’ombra, e nei prodotti del chiaroscuro, risiede la beltà.[…]
Come i legni laccati di nero con disegni in polvere d’oro, o gli oggetti intarsiati di madreperla, la donna era per i nostri avi un ornamento dell’oscurità. Per questo la affogavano nell’ombra, la avvolgevano in lunghi kimoni, lasciavano che solo piccoli lembi di carne viva pendessero o emergessero da svasature o imboccature profonde. (p.64)
[…] ma ciò che non si vede presto si oblia, e quasi non ha esistenza. Chi vuole toccare con mano la beltà, è condannato a dissolverla e a rovinarla. Non diversamente, annichilirebbe il toko no ma di una stanza da tè chi, per vederlo meglio, lo illuminasse con una lampadina elettrica da cento candele. (pp.64-65)
13 p.67
Luce contro ombra, due concezioni differenti…
Ma perché poi piace tanto, a noi Orientali, la bellezza che nasce dall’ombra? Anche gli Occidentali sono vissuti per lunghi secoli senza elettricità, senza gas, senza petrolio. Non credo, però, che abbiano mai amato l’ombra come noi. Persino i loro fantasmi sono diversi dai nostri. Da sempre, i nostri non hanno gambe; sembra invece che i loro siano generalmente provvisti di arti inferiori, che dimostrino una certa inettitudine nel fluttuare e, soprattutto, che siano diafani. La nostra immaginazione indugia su ogni raggrumarsi dell’ombra; gli Occidentali conferiscono, persino ai fantasmi, la trasparenza del vétro. I colori che amiamo, negli oggetti della vita quotidiana, sembrano il risultato di molti strati d’oscurità; gli Occidentali amano ciò che brilla, come per luce diurna. (pp.67-68)
Quale l’origine di gusti tanto dissimili?
V’è, forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriamo loro una beltà. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. […]
Non solo siamo differenti per indole, ma anche per carnagione. Mi sono spesso chiesto quale influenza abbia esercitato, sulla nostra civiltà, il colorito della pelle. Sempre, ai giapponesi, la pelle chiara è piaciuta più della scura. Del resto, esistono, fra noi, individui con pelli più chiare dell’Occidentale medio. (p.68)
La pelle degli Occidentali, anche quando è particolarmente bruna, conserva tuttavia una bianchezza e una purità sottocutanee; in nessuna parte del corpo appaiono le nostre opacità dubbie, le nostre untuosità. Fra gli Occidentali, un giapponese si sente come una macchia di inchiostro diluito, su un foglio candido. È una sensazione vaga, incongrua, e sgradevole.
Forse un simile disagio consente di penetrare, almeno in parte, nella psicologia dei bianchi che provano repulsione per le altre razze. Irritata, la loro sensibilità non tollera la porzione d’ombra che una persona di colore introduce nella bianchezza dell’universo. (pp.69-70)
Facile è giustificare, giunti a questo punto, le antiche nozze fra il Giappone e l’ombra. Per dar valore alla nostra peculiare beltà, avevamo bisogno di vivere in ambienti scuri, e fra oggetti dalle tinte attenuate. Così vollero i nostri antichi, non perché fossero coscienti del velo d’ombra sulla loro pelle (è probabile che ignorassero l’esistenza dei popoli bianchi), ma perché, attraverso una gamma di colori spenti, il corpo giapponese si armonizzasse con la sua civiltà. (pp.70-71)
14 p.73
Per prima cosa i nostri antichi ricavarono, nello spazio illuminato dalla luce solare, una chiusa nicchia d’ombra; posero poi, proprio al centro dell’ombra, l’essere più chiaro che conoscevano: la donna. Perché biasimarli? La chiarezza della pelle era, per loro, il sigillo della beltà femminile. Solo l’ombra poteva proteggerla e darle risalto.
Vari di colore, i capelli degli Occidentali spesso tendono al chiaro; con varia intensità, i nostri capelli sono ineluttabilmente neri.(p.73)
Non è forse attraverso i giochi, e i contrasti dell’ombra, che essi trasformarono i visi giallognoli delle loro donne in miracoli di suprema bianchezza? Un tempo le donne erano obbligate non solo ad annerirsi i denti (come già ho detto), ma anche a radere i sopraccigli; altro artificio che serviva ad accrescere il lucore e l’albedine dei visi.
Niente tuttavia, nel laboratorio della beltà femminile, mi incanta quanto il colore bluastro e iridescente del rossetto all’antica. […]
Cosa può esserci di più bianco del volto di una fanciulla, i cui denti, lucidi di nera lacca, lampeggino, a ogni raro sorriso, fra labbra bluscure come fuochi fatui? Almeno nella mia immaginazione, quel viso vince in bianchezza la più bianca fra le donne occidentali. In costoro, la bianchezza è diafana, ovvia, banale; nella donna giapponese, è misteriosa, e disumana quietamente. (p.74)
Come ho scritto nei miei Saggi del romitorio all’ombra dei pini, l’uomo moderno, reso insensibile dalla luce elettrica, ha dimenticato persino che una simile oscurità esiste. Eppure, le visibili tenebre dei grandi interni erano più conturbanti delle stesse tenebre esteriori; chi vi sostava, credeva di percepire minuscoli esseri fluttuare nell’aria; lemuri e spettri le prediligevano. (p.76)
15 p.79
I cambiamenti dovuti all’eccesso di illuminazione nelle città…
Già avevo avuto esperienza di ijn plenilunio guastato dall’elettricità. (p.80)
Ormai l’uso smodato della luce elettrica ci ha intossicato. Molti non sembrano offesi da un’illuminazione eccessiva. Eppure, non è solo questione di pleniluni: case delle geishe, ristoranti, locande, alberghi, rivaleggiano nell’abuso di elettricità. (p.81)
L’illuminazione delle case giapponesi è più che sufficiente per leggere, scrivere, cucire: accrescerla, sarebbe un inutile spreco; distruggere ogni residuo d’ombra, significherebbe voltare le spalle a valori estetici che sono tradizionali del nostro paese.(p.82)
16 p.85
Il progresso… come sempre croce degli anziani…
Una cosa, tuttavia, mi sembra certa: le novità del nostro tempo lusingano i desideri dei giovani, ma ignorano le esigenze degli anziani. Farò un solo esempio: i semafori. (p.86)
Turpe la distruzione dei boschi…
È puro vandalismo cancellare quel mondo d’ombra, che è il gran dono dei boschi. Di questo passo, per rendere accessibili alle folle i luoghi illustri che circondano Nara, Kyòto, Òsaka, si finirà per spianare e raschiare tutte le campagne intorno a queste città. (p.89)
Auspicabile almeno il rispetto della tradizione nel campo delle arti…
Ma basta, ora, con le lamentele! Riconosco che i benefici del progresso sono innumerevoli.e che i miei discorsi non hanno alcun potere di limitare i danni che li accompagnano. Giacché il Giappone ha deciso di incamminarsi sulla via della cultura occidentale, che proceda arditamente, senza prendersi cura di coloro che sono troppo vecchi per tenere il passo. Tuttavia, finché il colore della nostra pelle non muterà, neanche potrà sparire del tutto il disagio che provocano in noi modi di vita creati da uomini di pelle chiara. Ho scritto queste pagine perché penso che, almeno in certi ambiti, per esempio in quello dell’arte, o in quello della letteratura, qualche correzione sia ancora possibile. Vorrei che non si spegnesse anche il ricordo del mondo d’ombra che abbiamo lasciato alle spalle; mi piacerebbe abbassare le gronde, offuscare i colori delle pareti, ricacciare nel buio gli oggetti troppo visibili, spogliare di ogni ornamento superfluo quel palazzo che chiamano Letteratura.
Per cominciare, spegniamo le luci. Poi, si vedrà. (pp.89-90)
SU ALCUNE PAROLE GIAPPONESI p.91
INDICE p.97