JEAN-PIERRE RICHARD – NAUSEA DI CÉLINE. LA CONDIZIONE UMANA NELL’IMMAGINARIO E NELLE OPERE DI LOUIS-FERDINAND CÉLINE

JEAN-PIERRE RICHARD – NAUSEA DI CÉLINE. LA CONDIZIONE UMANA NELL’IMMAGINARIO E NELLE OPERE DI LOUIS-FERDINAND CÉLINE
JEAN-PIERRE RICHARD – NAUSEA DI CÉLINE. LA CONDIZIONE UMANA NELL’IMMAGINARIO E NELLE OPERE DI LOUIS-FERDINAND CÉLINE

JEAN-PIERRE RICHARD – NAUSEA DI CÉLINE. LA CONDIZIONE UMANA NELL’IMMAGINARIO E NELLE OPERE DI LOUIS-FERDINAND CÉLINE
PASSAGGIO AL BOSCO – Collana SEMPREVERDI – 2019

TRADUZIONE: Daniele Gorret
A CURA DI: Andrea Lombardi

Passaggio al Bosco ripubblica nella collana Sempreverdi, poche settimane prima della morte di Lucette Almanzor (20/7/1912-8 novembre 2019) e a pochi mesi dalla morte di Jean-Pierre Richard(15/7/1922-15/3/2019), il di lui saggio del 1973 di “Nausea di Céline”, già apparso in appendice a Les Beaux Draps (La Bella Rogna, Guanda, 1982) con la traduzione di Daniele Gorret…
“Autore” della rilancio del testo, che studia la condizione umana come rappresentata nell’immaginario e nelle opere di Céline (in particolare nel Viaggio e in La Bella Rogna e Bagatelle per un Massacro), scomparso in Italia a seguito del ritiro dal mercato della succitata edizione Guanda, è, ancora una volta, il principale “celinista” italiano, Andrea Lombardi, che fa aprire il saggio da uno scritto ad esso dedicato da Maxime Rovere e intitolato “Da una nausea all’altra”… Si colma così una piccola lacuna, con la speranza di future ristampe in edizione tascabile delle opere principali di Céline (Viaggio, Morte a Credito, Guignol’s Band, Normance) e dei saggi “maledetti” che, comunque, tra copie anastatiche ed edizioni pirata, continuano ad essere acquistati…

JEAN-PIERRE RICHARD p. 11

DA UNA NAUSEA ALL’ALTRA
Di Maxime Rovere p. 13

NAUSEA DI CÉLINE p. 17

È a pagina 21 del Viaggio al termine della notte che Céline, e il suo lettore, subiscono per la prima volta l’assalto della nausea. (p. 19)
Nausea esemplare: ciò che l’ha provocata, è la brusca rivelazione che il corpo è in realtà solo carne, “carne destinata al sacrificio”, e che la stessa carne è prima di tutto budellame, flaccidezza, fondamentale mollezza.[…]
La grande malattia del corpo céliniano, e qui il corpo sta a raffigurare il mondo stesso, è, lo si vede, l’incertezza interna, la mancanza di tenuta. (p. 20)
Lo sbracato è così una delle grandi categorie céliniane: categoria malefica certo, e violentemente fatta risaltare negli altri, ma alla quale l’Io soccombe suo malgrado, non fosse che per denunciare fuori da sé lo sbracato degli altri… (p. 23)
Tutto allora si spande, la parola diventa fiume, il cuore si sbottona[…]e questo ci spiega forse l’ansia maniacale di muoversi di tanti eroi céliniani; fuggire per andare altrove, in qualsiasi posto, per andare se è necessario, fino al termine del mondo, della notte, è impedito o ritardare il crollo della propria integrità personale, è salvarsi dalla propria morte. (pp. 24-25)
Questa diarrea è per Céline l’immagine fisiologica più sorprendente e più nauseante dello sfacelo in cui l’intero universo è trascinato. L’ossessione fecale radica perciò, nell’ordine essenziale ed arcaico della carne, una nausea ben presto più generale, e che informa per esso la totalità dell’esperienza. È a questa nausea che bisognerebbe ricollegare altre reazione celiniane: così la diffidenza per l’atto sessuale che, in parecchie scene di Mote a Credito per esempio, sembra associare paralisi e frenesia, oppure la pratica così particolare degli odori. (p. 28)
L’oggetto si liquefà perché si decompone, la sua espansione deriva dalla sua corruzione, forse della sua colpevolezza oppure dalla nostra. L’io sembra qui soccombere ad un’epidemia di putrefazione che l’attacca insieme dal dentro e dal di fuori. La mollezza di allea infatti in Céline all’aggressività, così che, per colmo di disgrazia, il più nauseante si identifica anche col più ostile. (p. 29)
Perché l’uomo céliniano è certamente straccio, ma “straccio sbruffone”[…]: insieme flaccido e spaccone, fifone e teatrale, fondamentalmente molle ma ricoperto di una farsa di durezza, realizza un misto pericoloso di inconsistenza e di provocazione, e non nutre in realtà che un solo progetto, quello di trascinarci con lui nella sua melassa. Un animale mostruoso incarna questo orrore di una aggressività molle: è il verme. (p. 30)
L’uomo, questo “sacco di larve”[…], lo ospita in sé dai primi minuti della sua vita, ed è ancora ad esso che affiderà alla fine il suo cadavere da divorare.
Tuttavia, prima di farla finita, e di diventare verme, o pasta di vermi, l’oggetto avrà conosciuto un’ultima stazione: è lo stato di rifiuto, che rappresenta per Céline un’unione molto soddisfacente di essere e di non essere. La spazzatura è infatti il frutto di un equilibrio: si situa al termine estremo dello sfacelo, nello sfinimento di una marea che rallenta poco a poco il suo movimento e si perde tra le sabbie.[…]
Il detrito, così pateticamente coltivato da Céline, – tutti i suoi eroi sono in un certo senso fecce o falliti -, fiorirà così sul bordo del nulla, nelle zone marginali dell’essere[…]. (p. 31)
La povertà, è davvero per Céline la regione, insieme preliminare ed essenziale, in cui l’essere s’infrollisce lentamente nel non-essere attraverso le transizioni nauseabonde dell’abbozzo, della fatica, del grasso, in una grande incertezza di gesti abbandonati. (p. 33)
Vivere, non può essere da questo momento che “difendersi”, irrigidirsi, e in modo assolutamente vano, contro l’ineluttabile sfacelo di noi stessi, contro questa potenza di diffusione che vuole, in ogni momento della nostra vita, strapparci a ciò che siamo, al nostro qui, al nostro adesso, al nostro corpo e alla nostra coscienza, per spezzarci e disperderci in tutte le direzioni della notte. (p. 37)
Ed ecco che noi pretendiamo di esistere in essa, in noi, come piccoli isolotti fissi e permanenti: individui, o persone… […]
Il fatto di perseverare, di voler “essere”, ci situa perciò paradossalmente al di fuori della verità dell’essere. […]
Tutto quel che si può fare è ritardare la nostra scadenza. (p. 38)
Di fronte alla nausea, come reagire? Accettarla? Questa scelta difficile, ma feconda, costituirà in realtà per noi l’aspetto più puro dell’originalità e della grandezza céliniana. (p. 39)
Dal momento che l’uomo è l’anarchia, e se si decide che questa anarchia non può più essere sopportata, bisognerà che la società sia un ordine capace di arginare esteriormente il suo disordine. Dal momento che non ha nessuna tenuta per istinto, la si obbligherà a tenersi con la forza.
Così si abbozza, e fin dal Viaggio, la tentazione di un autoritarismo. (p. 40)
Per salvarsi dalla nausea e dal suo insostenibile esotropismo, ecco perciò Céline obbligato a richiamarsi alle mitologie più banali: quelle che legano antiintellettualismo, conservatorismo, sciovinismo in un fascio fondamentalmente costrittivo e “reazionario”. (p. 41)
Di un tale ordine Céline ci fornisce egli stesso un esempio eccellente, è il suo stile. (p. 46)
[…]e nello stesso Céline, si riconciliano perciò utopicamente forma e vitalità, scorrimento ed armonia: il vigore di questo stile mira, nel mezzo dei più terribili cedimenti, a rimetterci in piedi, a renderci fisicamente a noi stessi. (p. 47)
Mi libererò scegliendo di non essere più qualcuno, ma chiunque, nessuno. Questo ricorso ad una spiritualità dell’abbandono evoca la scelta di tanti mistici[…]. L’umiltà si raggiunge in Céline solo attraverso la pratica di questa sofferenza che spoglia: l’umiliazione subita. (p. 52)
[…]a lasciar tutto andare, a disfarsi, a non conservare nulla per sé.[…]
Questa calma non può ingannare: lasciandosi andare totalmente allo sfacelo, Céline ha trovato il mezzo di staccarsene, di dominarlo. Accettare di avere paura, è non aver più paura; l’ignavia conduce così alla distensione intima, il masochismo dona la pace del cuore. (pp. 53-54)
Ma non è così facile essere vigliacco, intendo rie pienamente, coraggiosamente vigliacco: quanto è più comodo continuare a pavoneggiarsi biasimando sempre dall’alto la vigliaccheria degli altri. Ora è anche questo un atteggiamento célininiano: consiste nel liberarsi dai propri terrori proiettandoli fuori da sé, investendoli sugli altri, uomini od oggetti. (p. 54)
Ecco fatto: per sbarazzarsi della nausea, basta, in tutti i sensi del termine, vomitarla. (p. 55)

*Nelle ultime pagine del testo, Richard si dedica alla disamina dei pamphlets, dove la nausea trova sfogo nel razzismo, nell’antisemitismo e nella critica dei connazionali…

Il solo colpevole, perché si tratta adesso apertamente di colpevolezza, sarà dunque la Francia, questa Francia del 1936 e del 1940 nella quale Céline proietta spudoratamente la propria mitologia della mollezza[…].
Ecco dunque i ruoli rovesciati: da sofferente, da insultato, Céline si fa accusatore[…]. (p. 55)
Ma ecco che la logica di questa proiezione lo fa passare al delirio razzista. Questa causa prima, insieme microbo della nostra malattia e ragione della nostra nausea, non dobbiamo cercarla molto lontano: esiste tra di noi, sotto le nostre mani, familiare e molteplice, è l’ebreo. (p. 57)
Ma la vocazione cancrenosa dell’ebreo dipende ancor più dalla sua stessa origine: fa marcire perché è marcio per nascita. (p. 59)
Nel cuore della sua e della nostra adulterazione, l’ebreo resta intatto grazie alla sola virtù che lo spinge ad adulterare sempre e meglio. Esiste, per Céline, solo attraverso il movimento sfrenato della sua aggressione. Insieme proliferante e molle, vischioso ed offensivo, è insomma per la nostra società ciò che il verme céliniano era per la nostra carne: un misto ripugnante di ostilità e flaccidezza.[…] insomma, soltanto la sua cattiveria lo salva dalla dissoluzione. (p. 61)
Perché è troppo evidente che ingiuriando gli ebrei Céline scopre in sé la forza più idonea a sospendere la fatalità della sua nausea anche lui e resta in piedi solo per la frenesia dei suoi insulti. Il suo dio lo protegge: lo preserva dal divenire simile a ciò che odia (a ciò che è). Cerchio perfetto del perseguitato-persecutore. (p. 62)