INDRO MONTANELLI XX BATTAGLIONE ERITREO

 

INDRO MONTANELLI XX BATTAGLIONE ERITREO
Il primo romanzo e le lettere inedite dal fronte africano
RIZZOLI – I ed. novembre 2010

Nel 2010 Rizzoli ripubblica, a distanza di oltre settantanni, il primo romanzo “africano” di Montanelli: XX Battaglione Eritreo.
Più diario che romanzo puro, il libro spazia tra i ricordi del giovane sottufficiale Montanelli, partito volontario per il gusto dell’azione e per impregnarsi di episodi ed esperienze di battaglia da poter riutilizzare per future opere letterarie, riproposizione di canti degli ascari, descrizioni paesaggistiche, storie ed intermezzi teatrali…
Acerba la scrittura, piuttosto scollegati i tasselli che vanno a comporre l’opera (inesistente del resto una trama),  XX Battaglione eritreo ha il pregio di non proporre al lettore la solita retorica dei libri bellici di regime.
L’introduzione del “nemico” Angelo del Boca, un apparato fotografico (in bianco e nero) e, soprattutto, la corrispondenza di Montanelli con i genitori arricchiscono il libro.

INTRODUZIONE
Di Angelo Del Boca p.I

XX BATTAGLIONE ERITREO p.5

Sono letterato. E, a parte il brutto e il meschino di questa parola, il mio mestiere ’innamora. Mi sono sforzato tanti anni, per compiacere a qualcuno o a qualcosa, di tradire questo mio istinto. Ma non ce l’ho fatta. E non ce la fo nemmeno ora, soldato in Africa, in piena guerra. Mi costa, questo mestiere, mi costa, di sonno e di fatica. Ma non lo dico per presentare il conto. E a chi, poi? Lo dico per un fenomeno di narcisismo: perché mi garba contemplarmi in questo gesto di fedeltà al mio mestiere, che poi vuol dire fedeltà a me stesso. Rubo al sonno la mezz’ora di sosta per tornire la frase, per polire la parola e renderla densa; mi trascino dietro, fra il bagaglio ridotto al minimo per esigenze di guerra, un manoscritto ingombrante. E tutto son pronto a sacrificare fuorché questo. Dirò di più: sono in Africa anche per ragioni letterarie: non cercar «colore», ma a cercarvi una coscienza di uomo. Necessaria: a tutti, ma specialmente a un artista. Ecco il mio profitto personale di guerra: una coscienza di uomo. La quale mi permetterà molte cose e me ne vieterà moltissime altre: e, per esempio, di fare domani, per professione, il «reduce». (p.7)

VENTESIMO p.9

Il plotone… Il maggiore Mario Gonella, ormai talmente immerso nella vita del Battaglio da soffrire nel doversi ricoverare in ospedale per un’ameba… Ma dirige le operazioni con plurime lettere e raccomandazioni inviate quotidianamente agli ufficiali…
Per i nuovi arrivati soprattutto, è la solitudine a farla da padrone…

Nessuno come noi delle truppe indigene sa cosa sia la solitudine. (p.13)

Con libri e lettere a tentare invano di lenire la triste sensazione…

I confini del mondo, restringendomisi attorno, mi davano un senso vago di soffocazione. Mi ribellavo: scrivevo lettere, chiedevo libri. Ma fu una protesta, come per gli altri, vana. Ho vissuto a contatto di gomito – così stretto, quel contatto, che ne scaturivano scintille d’odio – a uomini di cui per mesi e mesi non ho saputo che il nome: cosa facessero prima,
cosa avrebbero fatto dopo, in che direzione si atteggiassero le loro coscienze e la loro sensibilità, tutto qjuesto mi è restato oscuro. Arrivarono, nei giorni che seguirono, nuove reclute e fui a mia volta per essi null’altro che un nome e un grado. (p.14)

Imperturbabile il maggiore, capace di spezzare l’animo di qualsiasi individuo, contribuendo così alla sua crescita…

Spesso il suo aspro linguaggio mi ha offeso. Alle tenerezze non sono uso: né a farne né a riceverne. L’idillio è l’atmosfera che più ripugna l mio temperamento e mi ci son sempre ribellato anche a co­sto di darne e di sentirne pena. Ma pur così fatto, quest’uomo ha sovente trovato, oltre il callo spes­so di rudezza, la carne viva da far dolere. La cer­cava, con freddezza di chirurgo, in me e negli altri, di ciascuno individuando il punto sensibile. Pochi giorni al battaglione e poi, talvolta senza averci mai rivolto la parola e senza avere abbreviato di un cen­timetro la distanza astronomica che conservava da noi, di ognuno aveva in pugno la varia coscienza e sensibilità – e colpiva diritto con una breve frase o con un gesto semplice. Ho visto, dopo un colloquio con lui, piangere uomini maturi e temprati che di lor lacrime, forse, non avevan più ricordo. (p.17)

In lotta contro un nemico “invisibile” che spara di notte dietro i cespugli, avanzando inseguendo chi non si fronteggia mai, è il battaglione infine l’unica realtà consolatrice che resta al soldato…

E così è, così comincia ad essere del XX.
E possibile che, finita la guerra, questo nome non resti nelle cronache metropolitane con particolari bar­bagli di gloria; è possibile, anche, che a queste cronache non ci arrivi nemmeno. Così è di queste guerriglie africane dove il combattimento, il vero combattimento, è cosa rara; dove ti logori nella caccia a un nemico fantomatico che ti sfugge; dove i cespugli sparano -dice Tesemmà Uorchè – durante la notte, e l’alba, poi, spazza via la speranza del combattimento, lasciando­tene in gola un’ampia voglia insoddisfatta.
Resta, unica realtà consolatrice, il battaglione, finisci con l’amarlo indipendentemente dal fatto guerra. Non un battaglione qualsiasi. ma il tuo. (p.18)
Il XX riassume tutta la nostra vita di mesi e mesi. (p.19)
Vita ristretta, un microcosmo di mille uomini e venti ufficiali. Ma è la nostra visuale, tutto il nostro panorama. […]
Il pensiero di dovermene, un giorno, andare di qui, mi dà una pena indicibile. Ognuno di noi ha oltre la Guerra e l’Esercito, una personalità di borghese metropolitano con famiglia, affari, interessi Anch’io ho i miei. Ma affievoliti, o in via di affievolirsi. Non affiorano, di una vita sommersa, che pensieri di Babbo e Mamma, dei miei libri (di quello che scrivo, non di quelli che compro), di Brita, di qualche amico. Forse verrà un giorno in cui anche questo bagaglio sentimentale, vaneggiante come un’alga sottomarina, svanirà nell’azzurro abissale in cui sprofonda; e affacciandomi, allora, sull’orlo non vedrò che una voragine d’acqua chiara, senza venature di limaccio letterario.
Ma, anche se questo non avviene, qualcosa rimarrà tuttavia incollato al mio temperamento, qualcosa di per sempre acquisito, capace d ’alterare una fisionomia d’uomo e d ’artista. Non dimenticherò, finché io viva, il XX e la lezione umana del maggiore Gonella. (p.21)
Artista o, se più piace, letterato, non sputo nel piatto in cui mangio: non sono romantico fino a questa degenerazione. Al contrario: tengo alla mia personalità di artista quanto alla mia personalità di soldato; o forse la confondo con essa nell’etichetta riassuntiva di «uomo»: sembrandomi che questo – e non altro – sia il senso accettabile di una vera – e vecchissima e italianissima – modernità. (p.21

BATTAGLIONI INDIGENI p.23

Partiti volontari, quasi tutti, per partecipare a un’impresa, alla scrittura di una pagina di storia…

Facemmo domanda di partir volontari, senz’altro programma che quello di essere anche noi – non ritardatari, final­mente – su questa che è oggi la vena pulsante della Patria, il punto nodale della sua geografia e della sua storia. A destinarci qui furono le autorità militari: credo che nessuno di noi lo rimpianga. (p.23)

Gli ascari… come dovercisi relazionare…

Anche la mobilitazione è un’altra cosa: l’ascaro parte dal suo paese senza cartolina precetto, né busta gialla né fascia al braccio; senza addii né abbracci; senza il saluto del podestà; senza fanfare alla stazione senza le lacrime di mammà né altra messinscena. (p.24)
Coll’ascaro quel po’ di crosta democratica, che anche in noi italiani è rimasta qua e là attaccata, deve cadere. Tu, ufficiale, ricordati che sei «Goitana» impara – è l’ascaro stesso che te lo insegna – che questa parola racchiude un concetto non europeo, Goitana è tutto: non soltanto «signore» come in genere si crede, o per lo meno non è «signore» che nel senso più alto, qualcosa che sta al disopra, il motore immobile, l’Assoluto. A te tutto si riferisce e di tutto sei responsabile. Se non sei attore, devi imparare a diventarlo: devi apparire il più forte, il più coraggioso, il più saggio. (p.25)
È difficile far l’idolo, da!culmine dell’altare il vuoto t ’attira. Senti che la parte che reciti è troppo pesante, che non reggerai, che il momento, che l’occasione verranno in cui sarai più piccolo di questa immagine alla quale ti obbligane a corrispondere; senti che verrà un momento in cui un bisogno umano, una debolezza, una stanchezza ti daranno il gusto irresistibile di ridiventare un picco­lo uomo qualunque, mediocre, grossolano, fallace. (p.26)
L’Africa è fatta così: è un esame a cui le raccomandazioni non valgono. (p.27)

Il legame con Gaber Hisciàl, memoria storica e fonte di innumerevoli storie ed aneddoti…

Gaber Hisciàl ha un’età indefinibile: quaranta, ot­tanta, centosessanta anni: ogni ipotesi in proposito è possibile, e in proposito non son possibili che le ipotesi, perché gli indigeni hanno avversione ir­riducibile alle date e ai casellari. E agile e dritto, instancabile, ma il suo volto sembra avere esaurito lo spazio e il materiale disponibili alle rughe: un’al­tra è inconcepibile. Egli è Sciumbasci, il gerarca, l’aristocrate della compagnia. Non cerchiamo cor­rispondenze nella categoria dei sottufficiali bianchi: lo Sciumbasci è colui che ha tre galloni, immensi, sulla manica sinistra, che porta i sandali e i gambali e, in genere, l’orologio. E il deus ex machina della compagnia, colui che non fa nulla, ma senza il quale
nulla si può fare; è colui che sta accanto a Goitana, che ne ricevere gli ordini e li fa eseguire; è colui che ha trent’anni di servizio; è colui del quale si parla nel villaggio come del concittadino illustre e poten­te che, tornando, avrà la pensione dal Governo e verisimilmente diventerà capopaese. Gaber Hisciàl parla del colonnello Graziani e del tenente Teruzzi «che marciava in testa agli ascari con la rivoltella in pugno», parla del IV Battaglione eritreo dal quale proviene ed enumera e descrive tutti i governatori della colonia dal Martini in poi. Io me ne servo, come di un calendario, di un compendio storico e, spesso, di un’enciclopedia. (pp.27-28)

GRANDE PIOGGIA p.29

La grande pioggia… è questa una delle numerose descrizioni di paesaggi e fenomeni climatici presenti nel testo…

È un cielo denso: più che effetto di nuvole, sembra Quasi un ingorgo d’azzurro – e dà fastidio agli occhi e ai nervi. Ma soprattutto dà fastidio la sua spietata metodicità. Il giorno sembra diviso in due tempi ri­gorosi: l’attesa della pioggia, la pioggia. Poi è sera: le ultime luci volan via a Occidente su due ali di fuoco, prese di mira dai due cannoni postati sul Forte Toselli in attesa. Il sole, esasperato dalla barriera che lo com­prime, talvolta scatta in un raggio verde avvelenato, talaltra inonda il cielo di porpora. Porpora, violetto, cinerino, disseminati da arcobaleni, chiazzati qua e là da colori più vividi: una sinfonia disordinata e vio­lenta che le prime sere ti stordisce. Poi ti ci avvezzi, l’aspetti come una liberazione, la liberazione da un letargo aduggiato.
È la grande pioggia, col suo scrosciare feroce e convulso sulle foglie tetragone dei fichidindia, che ha ritmato le mie conversazioni pomeridiane con Gaber Hisciàl nel suo tukul buio e graveolente.  (p.29)
Quest’ora di pioggia, questo tukul di Gabriel Hisciàl mi ricordano pause di smarrimento, di macerazione solitaria e silenziosa. (p.31)
Bisogna spogliarsi di ogni europeismo per compren­dere la grande pioggia e accettarne il significato. Da noi l’acqua, rara o frequente, in una stagione o in un’altra, è sempre un accidente. Qui no, qui è una quotidiana fatalità celeste. (p.32)

FORTE TOSELLI p.35

La leggenda di Toselli…

VILLAGGIO E LA SUA GENTE p.37

ASCARI IN MARCIA p.39

In marcia, con gli ascari, come gli ascari, preoccupandosi solo di avanzare…

Abbiamo lasciato Saganeiti una mattina chiara di settembre, così chiara che sembrava l’annuncio celeste del Mascal, fine delle grandi piogge. L’ordine di partenza venne dall’oggi al domani, ufficiale e non preceduto da nessun rumore di guerra ufficioso: le portò un personaggio solenne e severo, senz’altri particolari. Lavorammo tutta la notte; all’alba partimmo. N on avevo, non avevamo nessun programma, forse nessun pensiero. La psicologia degli ascari è contagiosa, contagiosa la smania della strada per la strada senza desiderio di meta, contagioso quel modo di pensare al futuro mescolandolo all’idea di Dio che si allontana nell’infinito. La guerra? Se Dio lo vorrà. La vittoria? Se Dio ci aiuta. Perché per l’ascaro la potenza del Governo italiano non trova riscontro in nessuna cosa terrena, ma l’idea di Dio trascende anche quella. E allora guerra e vittoria sconfinano oltre il visibile, diventan due ipotesi la cui realizzazione dipende da forze misteriose e incontrollabili. (p.39)
Non sapevamo dove si andava. Siam soldati. L’importante era che si andava. (p.43)

FUOCHI SUL TIGRAI p.45

Altra descrizione bucolica, quella del Tigrai…

Il Tigrai è di una bellezza senza sorriso, incurante di se stessa e insensibile all’elogio. Non si aderge e non si avvalla, nonostante le forre che lo solcano e le gambe che lo increspano: sta. Altri paesaggi di questa terra d ’Africa sono mobili e vari, trasmutano di co­lore, si abbigliano con cangevole fantasia all’alba e al tramonto, mutano secondo la prospettiva, civettano con chi guarda, cercano di sedurre con infingimenti da femmina. Ma il Tigrai taciturno, supino sotto un cielo di cobalto, sembra aver dimenticato per sem­pre, e forse sempre ignorato, la chimica complicata del belletto. Né torvo né accogliente, ci si è parate davanti dopo la valle dell’Hasamò, bella e micidia­le come il canto di una sirena: immenso scenario di pietra, refrattario all’orpello e immemore dell’avven­tura umana che nel suo sfondo si svolgeva. (p.45)

Incomprensibili all’ascaro le mancate razzie…

 Il tigrino leva la testa al cielo e benedice la misericordia di Dio discesa in terra sotto le spoglie del Governo italiano, che lascia, nonostante la guerra, intatti i campi e il bestia­me. […]
Solo l’ascaro non è convinto, guarda con malinconia. Si è arruolato per la guerra, con l’idea della guerra: un’idea che non ha niente a che fare con questa realtà. Guerra implica morte e razzia. (p.46)
E veramente misterioso questo Signore bianco venuto dall’Italia con i suoi stormi d’aeroplani, con le sue mitragliatrici crepitanti, con quelli strani cosi che somigliano ad automobili, ma che salgono su ogni picco, discendono in qualsiasi fosso e spargono attorno morte e terrore. Potrebbe bruciare, saccheggiare, sterminare, e invece costrui­sce, protegge, bonifica.
Bella per l’ascaro sarebbe la razzia secondo la vecchia consuetudine di guerra: precipitare, urlando, a valle e appiccar fuoco ai tukul e rubare femmine, talleri, buoi – e poi, a sera, le folli fantasie attorno ai bracieri inceneriti, i lunghi cori della vittoria, la spartizione complicata del bottino sotto il controllo severo e imparziale di Goitana e il carnevaleggiare
per tutta la notte nei manti rossi o sui drappi tolti a nemico, con gli spari a salve e le daghe arcobalenanti in aria. «Come allora» dice Tesemmà Uorchè ch’è stato ad Adua.
Invece, l’hanno messo a far strade.
L’ascaro odia il lavoro in genere perché lo ritieni incompatibile con la dignità del soldato e il lavoro di strada in specie perché toglie ogni fantasia al suo nomadismo. Seguir una strada significa accettare la logica di un altro.(p.47)
Questo Signore bianco è veramente incomprensibile: in guerra lascia il fu­cile per la vanga e non si dà pace finché non si vede davanti e dietro un rivolo di pietre bianche e di terra battuta.[…]
Il Tigrai soltanto sembra insensibile a questo miracolo. […]
Di miracoli non crede che a quelli celesti e forse nemmeno a questi. La sua immobilità è già di per se stessa un miracolo, con quel che di eter­no essa spira. […]
Qui, in questa petraia angusta di Chissàt Atro, me o vedo tutto disteso con le sue scalinate digradanti a rilento e i suoi picchi improvvisi come isolotti emersi da un mare di nebbia.
Ma più bello è di notte, quando si veglia ai mar­gini del bivacco e tutto s’accende di fuochi che lo punteggiano, come fossero gli occhi fosforescenti di un immenso mostro silenzioso. Han ragione gli ascari che nei loro canti se lo rappresentano come l’ultimo epigono di una razza di giganti partoriti direttamente dalla Terra che li concepì in un amplesso smisurato col Cielo e gli danno voce e sensi e aspirazioni umane. È vivo, infatti, il Tigrai, anche se sono spenti i crateri dei suoi enormi vulcani. E credo anch’io a quel che si dice: che, sotto la pelle dura, fluisca un sangue ricco di ferro che ogni tanto spumeggia anche, e s’incrosta alla superficie. (p.49)

XX BATTAGLIONE ERITREO p,51

Breve intermezzo teatrale in due atti. Il maggiore, malato d’ameba, convoca Ghizzoni, anch’egli malaticcio, e altri ufficiali per informarli sull’eroica azione bellica da compiere l’indomani. Rimasto solo con Ghizzoni, il maggiore parla con questi anche della di lui figlia lontana che si fa promettere di lasciargli in affidamento in caso di morte del subalterno nel corso delle operazioni belliche…
Al crepuscolo del giorno seguente, mentre il maggiore parla al capezzale di Ghizzoni, quest’ultimo muore…

CANTI DI REPARTI INDIGENI p.75

Montanelli propone qui alcune traduzioni di canti indigeni abbozzandone qualcuno di suo…

Camicie nere

Sono venuti dal mare
E han salito a piedi la montagna.
Hanno la camicia nera,
ma gli occhi e la pelle son chiari come una notte di
luna.
Sono venuti dal mare
e cantavano con voce melodiosa.
Essi cantano come gli ascari
e gli ascari li amano per questo.
Sono venuti dal mare
e gli ascari li aspettavano.
sono venuti con navi e navi
ed eran più numerosi delle onde.
Sono venuti dal mare
i vendicatori di Dogali e Amba Alagi.
E gli ascari marceranno con loro
e daranno il nemico alla iena.
Sono venuti dal mare
e ras Seium ha tremato. (p.79)

ASCARI p.81

QUINDICINA p.83

VISITA A SERA p.85

MAI EGADÀ p.87

PRIMO FUOCO p.91

LAMENTAZIONE p.93

IN LINEA p.95

SOSTE p.97

Episodi vari inseriti a mo’ di pagine di diario…

Chissàt Atrò

Sostiamo da tanti giorni, ormai, che mi sembra di non aver mai marciato. Buffa guerra, questa. O forse son buffo io che mi ci son buttato dentro a corpo morto, con l’idea che essa dovesse far tabula rasa d’ogni cosa era dentro di me. E invece tutto risorge: il buono e il cattivo, il fango e il cielo. (p.97)

Quihà

Più ci penso e più mi sembra irrimediabile. Nessun avvenimento esterno riesce a far di me un estroverso. Una guerra, oh! quale imperativo più categorico a uscir fuori di me stesso e a lasciarmi assorbire da quel che mi circonda? E invece, nulla. L’interiorità è gorgònea: una volta affissatotici, non ti liberi più dal maleficio. Da quindici anni circa – e ne ho ap­pena ventisei – mi abbandono a questa pazza «fuga nelle tenebre». A Debry, sotto il fuoco, non riuscii a deviare da questo itinerario che è, oltretutto, anche molto inattuale.
Da questo punto di vista, la guerra mi delude. Credevo che il coraggio mi costasse un po’ di fatica, volevo trovarlo attraverso uno sforzo d’autocontrol­lo, d’autodominio. E invece no, è venuto da sé, sot­to forma d’indifferenza, d ’atonia nervosa. Mi diverti­vo a esagerare il pericolo, a gonfiarlo: più che morto, mi sforzavo a immaginarmi mutilato: con un occhio sfranto come quello di Tesemmà, o col cranio fracas­sato o con le budella penzoloni. Gioco da bimbo che nel buio della notte si crea il fantasma e poi ne urla di paura. Volevo arrivare alla soglia di quell’urlo e poi rattenerlo. Vedere se mi riusciva. Avvezzarmici. Ma questo tirocinio m’è mancato. (p.99)

Il coraggio (ma era proprio coraggio?) mi veniva da una specie di disattenzione slavata, di coscienza sbiadita. C ’era un branco di pi­docchiosi che venivano avanti col randello e coi fucili che avrebbero fatto arrossir di vergogna un caporale di Franceschiello. La mitraglia, lì in mezzo, scavava come un piccone nella zolla fresca. Ma sparavano anche loro, correndoci addosso. Erano inarrestabili. Se eran partiti in trecento, ne arrivavan solo trenta – ma quei trenta arrivavano. […]
Quando finì, andai a vedere i morti. C ’erano arrivati a pochi passi e lì s’ammucchiavano. Anche questa d ’avvezzarmi a veder sangue senza lasciarme­ne sconvolgere è una ginnastica che m’è mancata. Cento morti non sono uno spettacolo più impres­sionante di un morto solo. Prevedevo che di fronte a uno spettacolo simile avrei dovuto lottare contro due palpebre che volevano abbassarsi. Ma no, stava­no aperte da sé, freddamente aperte. (p.100)

Dessà

Quando la stanchezza mi sfilaccia i tendini e i muscoli, a sera, giacendo di guardia in prima linea intorno ai fuochi del bivacco, il mondo mi si decompone così, le stelle precipitano dal cielo, rimbalzano sulle rocce, tutto s’infoca, gli elementi si dissociano, un caos smisurato mi ridda intorno senza causa. Solo mia madre rimane così integra che pen­sarla è un incantamento salvatore, unica rupe in un mare in tempesta.
Mia madre è bella; e non vecchia che quel tanto che le hanno imposto le pene che le ho dato. Le ho viste nascer le rughe a una a una sul volto e sono io che ve le ho solcate, scavate. Ma non posso chiederle perdono perché il suo destino è grande. (p.102)

MORTE DI TESSEMMÀ UORCHÈ p.103

TABITT p.109

L’ALTRO TIGRAI p.117

SPEDIZIONE PUNITIVA p.123

SASSAHÀ p.129

Alto e magro ufficiale, ribattezzato Sassahà dagli indigeni…

Sassahà era uno strano padrone. Esigeva tutto dai suoi ascari, senza aver l’aria di chieder niente. Par­ lava poco e ascoltava molto. E, quando ascoltava, guardava il cielo, fisso, come se per lui, sul cielo, apparisse scritto qualcosa invisibile agli altri. Più volte anche, di sera, lo si vedeva passeggiare so­lo solo intorno a Forte Barbante e «parlare senza voce», misteriosamente, con qualcuno che non si vedeva. (p.134)

PER NON DORMIRE p.145

Italiani, continuate ad avere fame anche dopo aver mangiato.
Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di banco di scuola.
E, detto tra noi, era ora. (p.149)

IMMAGINI D’AFRICA p.151

21 immagini in bianco e nero…

LETTERA DAL FRONTE p.169

[Luglio 1935]

Quanto alla mia vita di qui, non si può raccontare: disagi fisici non ce ne sono, malattie nemmeno; ma  una vita che tempra il morale, perché ti condanna a una solitudine senza scampo – e le inevitabili crisi e i rimpianti e le debolezze devi masticarle e superarle da solo perché questa è la legge d’Africa: essere uomini rispetto ai bianchi ed essere dèi rispetto ai negri. […]
Dei negri non ho ancora opinioni: sono così diversi da noi. Temono il bianco e sono guerrieri per istinto. (p.188)

[Novembre 1935]

Abbiamo davanti un nemico che non fa che fuggire e una popolazione che non fa che applaudire. E una passeggiata, sia pure un po’ scomoda.
E i miei libri? E i miei articoli? (p.223)

INDICE DEI NOMI p.233

INDICE p.239