HERMAN MELVILLE – BARTLEBY LO SCRIVANO E ALTRI RACCONTI

HERMAN MELVILLE – BARTLEBY LO SCRIVANO E ALTRI RACCONTI
HERMAN MELVILLE – BATLEBY LO SCRIVANO E ALTRI RACCONTI

HERMAN MELVILLE – BATLEBY LO SCRIVANO E ALTRI RACCONTI
BOMPIANI – Collana I CLASSICI BOMPIANI – I ed MAGGIO 2018

TRADUZIONE: Alessandro Roffeni

BARTLEBY LO SCRIVANO p. 5
Un gentiluomo, avvocato civilista esperto in materie finanziarie e lasciti testamentari, narra la storia dello scrivano Bartleby, “il più strano che abbia mai visto o conosciuto”…

Il primo incontro tra i due si era verificato dopo la sua nomina a presidente dell’Alta Corte dell’Equità di New York, ufficio poi abolito… Aveva avuto fin lì tre collaboratori: il sessantenne “Tacchino”, asmatico, che fino alle dodici del mattino si mostrava un lavoratore impareggiabile, trasformandosi però nel pomeriggio in un pasticcione collerico; “Pince-nez”, venticinquenne anch’egli britannico, irascibile e irritabile come l’altro, ma al mattino, in affari a volte con loschi individui; Zenzero, infine, l’apprendista dodicenne…

La nomina all’Alta Corte aveva fatto aumentare il lavoro, costringendolo ad assumere un altro copista. Ed ecco presentarsi per il posto Barteby…

“In risposta a un annuncio, una bella mattina, si parò immobile sulla soglia del mio ufficio un giovane […]. Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida! Era Bartleby.

Inizialmente Bartleby esegue il lavoro senza soste, ininterrottamente, ma senza esternare gioia alcuna…

“Continuava invece a macinare lavoro in silenzio, esangue, con moto meccanico”.

Al terzo giorno, l’avvocato gli chiede di aiutarlo con il controllo di una copia, ma Bartleby, a sorpresa, impassibile nella sua opera di copia, risponde con fermezza e decisione “preferirei di no”… E la risposta si ripete anche in altre occasioni… La stranezza del comportamento dell’ultimo arrivato è evidente, ma la sua alacrità nel lavoro lo induce a non licenziarlo. Mai abbandonava il posto di lavoro…

“Per quanto ne sapessi, non mi risultava che fosse mai uscito dall’ufficio: eterna sentinella nel suo angolo”.

Poco a poco, nonostante momenti d’ira, l’avvocato si convince esser quella la sua natura e di lasciarlo pertanto stare nonostante i suoi indubbiamente indisponenti “preferirei di no”…

Una domenica mattina, recatosi d’urgenza in ufficio, trova la porta chiusa. Ad aprirgli è uno sciatto Bartleby che lo invita a tornare di lì a poco… L’avvocato se ne va, eseguendo quell’ennesimo ordine del mite sottoposto, accorgendosi poi che lo stesso dorme in ufficio… Aprendo uno dei cassetti, vi trova celato un fazzoletto contenente del denaro… La pietà dell’avvocato in breve si trasforma quasi in timore… Non è il corpo del giovane da curare, ma il suo spirito… “era la sua anima che soffriva, e non potevo raggiungere la sua anima”. Decide così d’interrogarlo l’indomani sul suo passato e, in caso di ennesimo diniego, di licenziarlo con una lauta buonuscita…
Ma, il giorno seguente, ancora una volta lo scrivano è reticente ma capace di indurre al padrone una sorta di timore che gl’impedisce di licenziarlo…

Quel “preferire”, che ormai sia lui che gli altri dipendenti stanno assumendo come espressione di uso corrente, lo induce infine a licenziarlo dopo che, d’un tratto, Bartleby si rifiuta anche di scrivere limitandosi a osservare dalla finestra le nere pareti degli edifici di fronte, ritenuto inizialmente affetto da problemi alla vista per via del troppo lavoro esercitato nella semibuia stanza…

“Quando gli chiesi perché non scrivesse, rispose di aver deciso di non scrivere più.[…]

Lo guardai fisso e notai che i suoi occhi apparivano spenti e vitrei”.

“Alla fine, su mia sollecitazione, mi rispose di aver smesso di copiare per sempre. […]

Con tutto il tatto possibile dissi a Bartleby che, in capo a sei giorni, doveva assolutamente lasciare l’ufficio”.

Ma egli non rispose neppure una parola; simile all’ultima colonna di un tempio in rovina, rimase in piedi, muto e solitario nel mezzo della stanza altrimenti deserta.

Gli lascia sei giorni di tempo per il trasloco, tornando a casa lieto di come abbia gestito la faccenda senza ira o violenza…

Ma, il mattino seguente, il dubbio lo assale: avrà lasciato l’ufficio?… No, non lo ha fatto… Bartleby è infatti ancora lì, imperterrito nel suo muro di silenzio e deciso a non fare nulla e a rimanere come ospite (indesiderato)…

Passano i giorni e l’imbarazzo cresce nell’avvocato per la presenza di quel “fantasma”… Decide allora di cambiare ufficio, comunicandolo a Bartleby…

Il giorno convenuto giunge e il trasloco si svolge senza problema alcuno, con Bartleby a non profferire verbo, “inquilino immobile di una stanza spoglia”.

Per alcuni giorni, nel nuovo ufficio, un senso d’inquietudine e timore coglie l’avvocato, atterrito dall’idea di vederselo comparire innanzi. Ma di Bartleby non c’è notizia fino all’arrivo di un avvocato, nuovo locatario dell’appartamento abbandonato, a chiedere di liberarlo di quel misterioso ed inquietante individuo. L’avvocato spiega di non avere legame alcuno con Bartleby che viene così scacciato dalla stanza rimanendo tuttavia seduto sulle scale di giorno e a dormire sulla soglia di notte. Si richiede allora nuovamente l’intervento dell’avvocato che accetta di parlargli… Ma Bartleby rifiuta qualsiasi proposta d’impiego, preferendo non cambiare nulla della sua attuale situazione, perfino l’offerta di ospitalità in casa. Indignato, l’avvocato se ne va, trovando poi un biglietto sulla sua scrivania con la quale lo si invita a recarsi in carcere per fornire informazioni su Bartleby che lì è stato condotto… Dopo aver invocato clemenza per l’innocuo Bartleby, l’avvocato ottiene di potergli parlare, trovandolo in cortile intento a fissare un muro cieco. Invano prova a fargli fare amicizia con il vivandiere, trovandolo morto, disteso su una panchina del cortile della prigione, alcuni giorni dopo…

L’avvocato conclude la narrazione rivelando di non esser riuscito a scoprire nulla sul passato di Bartleby se non una diceria che lo voleva ex impiegato licenziato di un ufficio delle lettere smarrite di Washington, lavoro che forse lo ha spinto nel tempo a mutare il proprio carattere fino a una morte d’inedia, come quelle lettere lungamente maneggiate…

“Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte.

O Bartleby! O umanità!”.

IL VIOLINISTA p. 57

Lo scrittore Helmstone è frustrato da un articolo di giornale che critica il suo poema. Esce per svagarsi con l’amico Standard, poi raggiunti dal di lui conoscente Hautboy, il quale li convince a recarsi in un circo dove si esibisce un noto e bravissimo clown… L’allegrezza del basso e grassottello Hautboy affascina Helmstone che, durante lo spettacolo, continuamente l’osserva, pur riaffiorando ciclicamente nel suo animo il malumore per quella recensione negativa…
Osservando anche gli altri spettatori, si chiede che cosa li faccia tanto divertire per le banali e scontate mosse del clown…
Al termine dello spettacolo i tre si spostano al locale Taylor, dove il silente Helmstone ascolta i discorsi degli altri due, apprezzando l’intelligenza e il buonsenso di Hautboy che, poco dopo, ricordandosi di un altro appuntamento, se ne va trafelato… Standard chiede ad Helmstone cosa ne pensi di Hautboy, ricevendone un giudizio estatico: Vorrei essere io Hautboy!
Helmstone dichiara tuttavia di non ritenerlo un genio, ma una persona semplice che ha la fortuna di condurre una vita felice… Ma l’amico insiste nel deprecare il suo punto di vista. Il dialogo è interrotto dal ritorno di Hautboy che, giunto in ritardo all’appuntamento, ha deciso di tornare indietro. Li invita a casa sua dove potrà suonargli qualcosa con il violino. E lì Helmstone ha la sorpresa di trovarsi di fronte a un genio, un virtuoso del violino, finito in disgrazia dopo anni di successi giovanili e che ora vive tuttavia felice, impartendo per le case lezioni di violino…
Con il genio e senza fama, è più felice di un re, chiosa Standard…
Bruciati i manoscritti, Helmstone compra nei giorni seguenti un violino iniziandone lo studio sotto la guida di Hautboy…

JIMMY ROSE p. 67

Ereditato un immobile in città, il narratore, William Ford, vi si trasferisce, già vecchio. La casa si trova in un quartiere un tempo vivo ma ora ridotto a prevalente sede di uffici e negozi… Oltre a lui, pochi altri anziani abitanti, ancora legati al passato…
Per rispetto di un amico ormai defunto, precedente inquilino, tale Jimmy Rose, l’uomo decide di non toccare gli arredi e gli arazzi presenti in casa e, in particolare, quelli del vecchio salotto…
Nato in una famiglia di modeste origini, ma bello e ambizioso, Jimmy era divenuto un eccellente affarista, uso dare ricevimenti e feste nella sua villa…
Tra affari sbagliati ed eccesso di munificenza, si era però trovato in difficoltà economiche, fino all’inevitabile bancarotta… Appresane la notizia, il narratore si era recato nella casa ora di sua proprietà, a cercarlo. In effetti l’amico si era lì rifugiato, spaventato, nel tentativo di sfuggire ai creditori, alcuni dei quali a lungo avevano banchettato alle sue feste… Scacciato in malo modo, lo aveva rivisto, ancora dignitoso, venticinque anni dopo…
Dimorante in una soffitta, Jimmy viveva con una modestissima rendita e l’elemosina del tè pomeridiano o di pranzi ai quali era invitato dalle famiglie benestanti presso le quali trovava ospitalità… Nonostante ciò, sorrideva sempre…
Ad accudirlo prima della morte, una giovane ragazza, figlia di un consigliere comunale… Quando, appresolo in fin di vita, William si era recato a fargli visita, l’altro aveva scagliato via i libri portatigli in dono…
Tempo dopo, lo stesso William si ritroverà nella casa dove l’altro si era rifugiato dopo il fallimento…

IO E IL MIO CAMINO p. 83

Un pingue pigro uomo d’età avanzata, parla di sé e del proprio camino, signore indiscusso della casa di legno sita in campagna, nella quale ha, inevitabilmente, un ruolo prominente… Ne descrive la forma, i materiali di costruzione, la posizione… Ne racconta le modifiche allo stesso apportate nel corso del tempo… Del resto, era solito affermare: “È il re della casa, e io non sono che un suddito appena tollerato” (p. 93).
Quell’amato camino, è da tempo motivo d’attrito con l’energica moglie, desiderosa di rimuoverlo per ricavarne un’anticamera… Tanto conservatore lui, quanto modernista lei… “La massima “tutto ciò che esiste va bene” non fa per lei. La sua massima è “tutto ciò che esiste va male”; e, ciò che più conta, va modificato; e, ciò che conta ancor di più, va modificato subito. (p. 98)
Pressato dalla moglie e dalle figlie, Jane e Anne, alla fine acconsente a permettere un sopralluogo del capomastro Hiram Scribe. Questi valuta lo “spreco” costituito dall’imponente camino, dichiarando tuttavia fattibile senza problemi la sua rimozione. Ma l’uomo non riesce a separarsi dall’ingombrante “amico”, congedandolo e sopportando gli attacchi di moglie e figlie… La donna arriva a minacciarlo di andare via di casa e così lui convoca ancora il capomastro. Si accordano per 500 dollari, ma eccolo rinunciare ancora all’ultimo momento… Tempo dopo, gli giunge una lettera del capomastro che lo informa della presenza di un nascondiglio segreto all’interno del camino… L’immobile, costruito anni addietro da un suo parente, Julian Dacres, capitano morto però quasi in povertà, aveva alimentato tra i paesani possibili voci di tesori nascosti al suo interno… Convinto potesse trattarsi di una macchinazione della moglie, rifiuta anche stavolta… La donna torna alla carica nei giorni seguenti, costringendolo a convocare Scribe per la terza volta affinché gli dimostri dove si trovi il ripostiglio segreto. Il capomastro non trova anomalie, rilasciando un certificato. Ma la moglie non demorde e continua a fare progetti assieme alle figlie…
Un giorno, di ritorno da una gita fuori porta, l’uomo viene quasi colpito da tre mattoni, caduti dall’alto durante il lavoro di smantellamento iniziato da tre operai in sua assenza… Da allora, e sono ormai già sette anni, non ha più lasciato casa per non arrendersi a quei progetti di distruzione…

IL TAVOLO DI MELO. OVVERO INSOLITE MANIFESTAZIONI SPIRITICHE p. 125

Nel fondo di una soffitta di una vecchia casa di un’antica città, il proprietario trova un tavolino di melo dal lugubre e sinistro aspetto che glielo fa apparire come uno da negromante… Del resto, numerosi le voci in merito alla presenza di spiriti in quella casa…
Per ben cinque anni se ne era disinteressato, fino al rinvenimento di una stramba chiave che ne aveva attratto la curiosità e destato l’interesse. Eccolo quindi nella soffitta, a scorgere il suddetto tavolo… Dopo averlo sistemato, ha iniziato a utilizzarlo come tavolo per colazione e lettura fino a un episodio particolare, avvenuto un sabato sera di dicembre… Incapace di alzarsi dalla poltrona per andare a letto, quasi obbligato da una forza misteriosa a continuare a leggere a oltranza un libro di stregoneria scritto da Cotton Mather e trovato sul tavolino in soffitta, inizia a credere a quel che sullo stesso legge… Un ticchettio lo atterrisce, dandogli la forza di tornare a letto. La moglie lo accusa di aver bevuto troppo, mentre lui, l’indomani, si convince essersi lasciato influenzare dalle letture… Quando però la moglie, durante la colazione, sente il ticchettio, chiama le figlie che confermano la presenza del suono. Viene portato fuori il tavolo, ma è proprio da esso che promana il ticchettio… Risistematolo in loco per volere dell’energica donna, al rientro dal lavoro il narratore decide di mostrarsi coraggioso. Si mette così a leggere su di esso, di notte, finendo per udire il tic tac… Provando a seguire l’esempio di Democrito, intima allo spirito di tacere, ottenendo gratificazione. Per verificare lo strano fenomeno, s’approssima al tavolo, scorgendo un insetto tentare d’uscire da un buco. Gli posa sopra un bicchiere, recandosi poi soddisfatto a dormire, informando la moglie di quanto accaduto… Ma, il mattino seguente, moglie e figlie sono ancora ginocchioni per via del tic tac mai cessato, atterrite dal buco. Lui cerca di spiegare quanto accaduto la sera prima, proponendo di rimanere a vegliare l’uscita di un secondo tarlo. La domestica aveva infatti ucciso il primo… Unico rimasto sempre sveglio, al mattino assiste assieme ai familiari all’uscita del tarlo. La figlia Jane, che ha sempre visto nel tavolo un elemento spiritico dopo essere stata sfiorata alla spalla, durante il trasporto in salotto, con una delle zampe, deve ricredersi, osannando quell’insetto tanto bello. Il narratore va in cerca del professor Johnson, il quale, esaminato il tavolo, conclude che le uova d’insetto erano state deposte nel legno cento anni prima… Il tarlo muore l’indomani, imbalsamato dalle due figlie…

NOTA ALLA TRADUZIONE
Di Alessandro Roffeni p. 157

VITA DI HERMAN MELVILLE p. 167

NEL FRATTEMPO p. 172