GIOVANNI CALVINO – DISPUTE CON ROMA

 

GIOVANNI CALVINO – DISPUTE CON ROMA

CLAUDIANA – Collana: CALVINO OPERE SCELTE n.1 – 2004

A CURA DI: Gino Conte e Pawel Gajewski

TRADUZIONE: Franco Giampiccoli e Mario Vittorio Revelli

Testo latino a fronte

In questo primo volume della collana che la casa editrice dedica a Giovanni Calvino, al lettore vengono proposti scritti redatti dal riformatore francese tra il 1544 e il 1549, scritti caratterizzati da una forte vena polemica contro il cattolicesimo e le sue manipolazioni delle Sacre Scritture…

NOTA ALL’EDIZIONE ITALIANA p.7

INTRODUZIONE: Pawel Gajewski p.9

BIBLIOGRAFIA SCELTA p.43

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ARTICOLI FORMULATI DALLA FACOLTÀ DELLA SACRA TEOLOGIA DI PARIGI RIGUARDANTI ARGOMENTI DELLA NOSTRA FEDE OGGI CONTROVERSI. CON ANTIDOTO (1544) p.47

NOTA CRITICA p.49

Fondamentalmente, nella chiesa, il ruolo più rilevante deve essere attribuito a ciò che proviene dall’autorità. Benché, infatti, i nostri maestri siano carenti in testimonianze della Scrittura, tuttavia compensano questa mancanza con l’altra autorità che hanno: la chiesa, s’intende, che ha lo stesso valore delle Scritture e che addirittura, secondo i Dottori, prevale in affidabilità. (p.55)

ANTIDOTO

Né, invero, può essere diversamente, dato che Paolo medesimo, altrove (I Cor. 2,4), dice che la nostra fede non consiste nella sapienza degli uomini, ma nella potenza di Dio, in quanto dipendiamo solo da lui. […]

Inoltre è giusto che, se emerge qualche controversia, si venga ad un accomodamento o si decida non attraverso l’arbitrio degli uomini, ma che la divergenza sia composta solamente attraverso l’autorità di Dio. Paolo ci indica anche questo quando ci arma contro Satana solamente con la spada della parola di Dio (Ef. 6,17).

Cristo, con il suo esempio, ci mostra questa stessa cosa quando, sfidato da Satana, per resistere non oppose altro che le testimonianze della Scrittura (Mt. 4,4 ss.). Altrimenti non sarebbe giusto l’elogio con il quale Paolo ne mette in evidenza il valore, quando afferma, con autorevolezza, che non solo è utile a insegnare e ad ammonire, ma anche a rimproverare (II Tim. 3,16). Quindi, siccome in questo momento il mondo è inquieto per la presenza di una varietà di opinioni, noi dobbiamo servirci di questo unico rimedio. Dico che bisogna ricorrere alla Scrittura o, come dice Isaia, alla legge e alla testimonianza (Is. 8,20) come a una sacra ancora, affinché, secondo l’insegnamento dell’apostolo, abbiamo tutti un comune sentire, ma in Cristo (Rom. 15,5). (p.57)

Articolo I

Il battesimo

Con sicura e salda fede dobbiamo credere che il battesimo è necessario alla salvezza di tutti, anche dei bambini, e che attraverso questo, viene data la grazia dello Spirito santo. (p.59)

Tutte le persone pie confessano che nel battesimo ci sono offerte, anzi accordate, sia la remissione dei peccati, sia la grazia dello Spi­rito santo. Perciò riconoscono che bisogna che lo abbiano anche i bambini, non soltanto come aiuto necessario alla salvezza, ma come sigillo, istituito per volere di Dio, per imprimere in loro il segno del­la grazia dell’adozione. Paolo dice che i figli dei fedeli nascono san­ti (I Cor. 7,14).

[…]ai figli dei fedeli, per la salvezza, è sufficiente la sola promessa, attraverso la quale, dall’utero materno, sono adot­tati nella comunità della chiesa.[…]

Noi leggiamo che Giovanni, che tuttavia era colui che amministrava il battesimo agli altri, non era sta­to battezzato. Così, quindi, bisogna ritenere che come per il padre dei fedeli, Abramo, la giustificazione per fede precedette la circoncisio­ne, oggi per i figli dei fedeli la grazia dell’adozione viene prima ri­spetto al battesimo, come suonano le parole della promessa: «Sarò il Dio della tua progenie». Quindi il battesimo è una conferma di que­sta grazia, come aiuto alla nostra fede. (p.61)

Articolo II
Il libero arbitrio

Con la medesima fermezza nella fede bisogna ritenere che nel­l’uomo esiste il libero arbitrio, per mezzo del quale egli può agire be­ne o male e attraverso il quale, con l’aiuto di Dio, se anche si è tro­vato in peccato mortale, ha la possibilità di rinascere alla grazia.

Prova: i nostri maestri decisero così, dopo Aristotele e tutti i filo­sofi, che ritengono che nell’uomo la ragione domini rispetto allo Spi­rito santo. E anche questo è fondato su un motivo inoppugnabile, per­ché altrimenti non ci sarebbe il merito, che è opera che scaturisce dal­la potenza del libero arbitrio, con il concorso della grazia di Dio. (p.63)

Antidoto all’articolo II

Lo Spirito di Dio dice che ogni atteggiamento del cuore umano è malvagio fin dall’infanzia (Gen. 6,5 e 8,21; Sai. 14,3; Rom. 3,10) e aggiunge che non c’è nessun giusto, nessuno capace di comprende­re, nessuno che cerchi Dio, tutti veramente sono inutili, corrotti, sen­za timore di Dio, pieni di frode, di aggressività e di ogni genere di malvagità, abbandonati e quindi privi della gloria di Dio; proclama, inoltre, che ogni sentimento della carne è di inimicizia nei confronti di Dio: pensa che da parte nostra non rimanga nessuna cosa, neppu­re un buon pensiero (Rom. 8,6; II Cor. 3,5).

Noi, con Agostino, affermiamo che l’uomo si è servito in modo negativo del libero arbitrio e che ha mandato in rovina se stesso e quello14. Così pure che, a causa del fatto che la volontà è stata vinta dal vizio nel quale è caduta, la natura è priva di libertà15, e che la vo­lontà, che è stata sottomessa dai desideri che vincono e vincolano, non è libera16. (p.65)

Concordiamo nuovamente con Agostino che i figli di Dio sono spinti dal suo Spirito a fare ciò che è necessario19; analogamente, che essi sono attratti da lui affinché da persone che si rifiutano diventino persone disponibili20; e ancora, che, dopo la caduta, l’uomo possa ac­costarsi a Dio non dipende che dalla sua grazia e che non si allonta­ni da lui non dipende da altro che dalla medesima grazia21.

E ancora, noi non sappiamo che cosa si possa trovare di buono nella nostra volontà che sia proprio nostro22. E infine, poiché abbia­mo perso il libero arbitrio per la gravità del peccato originale, crede­re in Dio e vivere piamente non dipende da chi vuole né da chi cor­re, e non perché non dobbiamo volere e correre ma perché è Dio che compie entrambe le azioni23. Ugualmente siamo d’accordo con Ci­priano24 sul fatto che non dobbiamo gloriarci di nulla, dato che nul­la è nostro25. (p.67)

Articolo III

La penitenza

E altrettanto certo che, dopo che il peccato mortale era stato com­messo, la penitenza è necessaria alle persone adulte e in grado di ra­gionare. Essa consiste nella contrizione, nella confessione sacra­mentale da farsi a voce al sacerdote e, nel medesimo modo, anche nella soddisfazione21. (p.69)

Antidoto all’articolo III

Lo Spirito di Dio ci chiede dappertutto il pentimento: nella legge, nei profeti, nell’evangelo e insieme definisce pure che cosa intenda con questo termine, quando ordina di rinnovare i cuori, di essere cir­concisi per il Signore, di circonciderci, di essere purificati, di abban­donare le passioni malvagie, di sciogliere i nodi dell’iniquità che por­tiamo legati dentro, di aprire i cuori e non di stracciarci le vesti, di spogliarci dell’uomo vecchio, di rinunciare ai nostri desideri perso­nali e di essere rinnovati a immagine di Dio. Inoltre ricorda anche i frutti del ravvedimento, le opere della carità, le occupazioni di una vita pia e santa (Ez. 18,31; Ger. 4,4; Is. 1,16 e 58,6; Gioele 2,13; Rom. 6,6; Col. 3,10. 14; Ef. 4,22 ecc.). Non c’è mai alcun accenno alla con­fessione da farsi all’orecchio del sacerdote. Alla riparazione ancora meno. (p.71)

Per quanto riguarda le soddisfazioni dei peccati, la Scrittura rivendi­ca totalmente e concretamente questa lode a Cristo. È lui la propi­ziazione per i peccati; il castigo per cui abbiamo pace è su di lui; so­

lo per mezzo del suo nome si può ottenere la remissione dei peccati (I Giov. 2,2; Is. 53,5; At. 10,43; Rom. 4,6). Per quanto ci riguarda, Paolo attesta che siamo colmati da questa beatitudine gratuitamente e senza opere, perché i peccati non ci sono imputati. D’altra parte di­sapproviamo le soddisfazioni che la chiesa esige dai peccatori a te­stimonianza del pentimento.

Articolo IV

La giustificazione che deriva dalle opere

Il peccatore non è giustificato per la sola fede, ma per le buone opere che sono talmente necessarie che, senza di esse, nessuna per­sona adulta può conseguire la vita eterna. (p.75)

Conveniamo, quindi, con Agostino che la promessa della salvezza è salda, non in base ai nostri meriti, ma secondo la misericordia di Dio48. Siamo d’accordo anche con Bernardo49, che ogni nostro merito è la misericordia del Signore50; o, per parlare più chiaramente, concludiamo, con Basilio Magno51, che questo è il perfetto e integro gloriarsi in Dio, quando noi ci riconosciamo poveri della nostra giustizia e siamo consapevoli che siamo giustificati dalla sola fede in Cristo52; come pure Paolo si gloria del disprezzo della propria giustizia, affinché ogni superbia e alterigia cada, fino a che non rimanga nulla all’uomo di cui vantarsi53.

Articolo

La transustanziazione del pane in corpo

Qualunque cristiano è tenuto a credere che, nella consacrazioni dell’eucaristia, il pane e il vino si trasformano in vero corpo e sangue di Cristo, e rimane solo l’apparenza del pane e del vino, sotto li quale c’è realmente il vero corpo di Cristo che è nato da una vergine e ha sofferto sulla croce.(p.81)

Se del pane compare lì solamente una vana ap­parenza e non una sostanza, la forza e l’efficacia del sacramento scom­paiono.

Anche i Padri della chiesa si sono espressi tutti in questo modo. Ire­neo64: «Quello che è pane deriva dalla terra, ma ricevendo la chiama­ta del Signore non è più pane comune, bensì Eucaristia e consta di due realtà, una terrena e una celeste»65. (p.85)

Articolo VI Il sacrificio eucaristico

Il sacrificio eucaristico deriva da un’istituzione di Cristo e vale per i vivi e per i morti. (p.87)

Antidoto all’articolo VI

L’istituzione della Cena da parte di Cristo è accompagnata da que­ste parole: «Prendete e mangiate», non, invece, «offrite» (Mt. 26,26; Me. 14,22; I Cor. 11,24). Quindi il sacrificio non deriva da un gesto istitutivo da parte di Cristo, ma è apertamente in disaccordo con quel­lo. Inoltre risulta dalle Scritture che l’offerta di se stesso fu il pecu­liare e specifico ministero di Cristo. (p.89)

Articolo VII La comunione sotto una sola specie

La comunione sotto entrambe le specie non è necessaria ai laici per la loro salvezza: da tempo, giustamente e con motivazioni sicu­re e corrette, la chiesa ha stabilito che ad essi venisse impartita la comunione soltanto sotto la specie del pane11.(p.91)

Antidoto all’articolo VII79

Perciò, come con il pane ci offre il suo corpo, così anche con il calice ci offre il suo sangue. Quindi non ci resta altro che obbedire al suo comando, prendendo dalle sue mani i segni che egli ci porge, af­finché fruiamo della verità delle cose. Infatti, poiché la nostra realtà è corporea, come ci avverte Crisostomo, egli ci dispensa realtà spiri­tuali sotto forma di cose visibili, tenendo conto dei limiti della nostra capacità intellettuale80. (p.93)

Su que­sta prassi non c’è controversia, dato che tutti concordano che sia sta­ta tale. Infatti, ciò che ritennero opportuno avvenisse in questo mo­do, risulta dal decreto di Gelasio87, che ordina che coloro i quali si astengono dall’accostarsi al calice siano allontanati dall’intero sa­cramento, perché la divisione di questo mistero, egli dice, avrebbe un aspetto fortemente sacrilego. Cipriano, inoltre, afferma con forza che questo sacrilegio non deve essere assolutamente tollerato88.

Articolo VIII

Il potere di consacrare

la chiesa è stato dato da Cristo il potere di consacrare il vero corpo di Cristo e di assolvere dai peccati attraverso il sacramento della pe­nitenza.(p.95)

Antidoto all’articolo VIII

Affermiamo che i sacerdoti sono amministratori dei misteri di Dio (I Cor. 4,1) e quindi i legittimi ministri della Cena, ma ordinati se­condo il rito di Cristo e degli apostoli e anche della chiesa delle ori­gini, all’interno della quale era in uso con continuità la sola imposi­zione delle mani senza l’unzione e altre futilità. Nell’ordinazione van­no considerati con particolare attenzione il fine e il compito a cui so­no destinati i sacerdoti (At. 13,3; I Tim. 4,14; II Tim. 1,6), i quali de­vono, inoltre, essere scelti secondo il mandato di Dio e la regola del­la Scrittura, non per sacrificare, ma per guidare la chiesa, per pascere il gregge con la parola del Signore e per amministrare i sacramenti.

Sul potere di assolvere bisogna pensare che ai veri pastori è dato il ministero della riconciliazione, affinché con la loro dottrina, cioè con la predicazione dell’evangelo, assolvano dai peccati riconcilian­do gli uomini con Dio, attraverso la grazia (II Cor. 5,20). Questo po­tere tuttavia non è legato alle persone, ma alla parola e quindi è dato alla parola piuttosto che agli uomini in modo tale da assicurare la cer­tezza dell’assoluzione nel tribunale della coscienza, indipendente­mente da chi annunci la remissione dei peccati per grazia. (p.97)

Articolo IX

L’intenzione di consacrare

È certo che i sacerdoti, anche se sono stati malvagi e in peccato mortale, consacrano il vero corpo di Cristo, se davvero intendono consacrarlo.

Antidoto all’articolo IX

Cristo non disse a uno solo: «Se vorrai, avrai il mio corpo e lo da­rai ad altri». Egli parla a tutti i suoi radunati insieme, quando pro­mette che darà il suo corpo. Perché la promessa è destinata a quelli ai quali era stato detto «Prendete, mangiate». Quindi non è nel pote­re di un uomo, per quanto empio, né nel potere del diavolo rendere vana questa promessa. (p.99)

Affermiamo quindi che è su­perficiale e nulla la consacrazione nella quale il sacerdote osa consa­crare per sé solo, separatamente dagli altri95. Né le parole: «questo è

il mio corpo», sono espressione di una magia incantatrice, ma con­tengono una promessa che serve a un’azione stabilita da Cristo. Quin­di è sbagliato mormorare le parole con un lieve sussurro: esse, inve­ce, devono essere pronunciate alla presenza di tutti con voce chiara. (p.101)

ARTICOLO X
La cresima e l’unzione

Quanto al resto, la cresima e l’estrema unzione sono due sacra­menti istituiti da Cristo, per mezzo dei quali viene data la grazia del­lo Spirito santo. (p.103)

ANTIDOTO

Ma ora dov’è la guarigione, quando vengono unte persone agonizzanti, mentre stanno spirando? Quindi coloro che usurpano i simboli senza la sostanza della cosa non imi­tano, ma scimmiottano gli apostoli.

ARTICOLO XI

I miracoli dei santi

Non bisogna dubitare che i santi, agendo sia in questa vita mor­tale, sia in paradiso, operino miracoli.

Antidoto all’articolo XI

Sappiamo dalle Scritture a che cosa siano utili e a quale fine deb­bano essere riferiti i miracoli: appunto per confennare la dottrina del- l’evangelo, come si trova in Marco: «Il Signore operava con loro con­fermando la parola con i segni che l’accompagnavano» (Me. 16,20). Ugualmente in Luca, negli Atti degli apostoli, si legge che il Signo­re rendeva testimonianza alla parola della sua grazia attraverso segni manifestati per mano degli apostoli (At. 14,3). Perciò questo è un uso legittimo dei miracoli, cioè affinché siano accolti come sigilli della dottrina dell’evangelo (Rom. 15,19) e perciò servano solamente alla gloria di Dio, non a quella degli uomini o degli angeli, proprio se­condo l’espressione di Pietro (At. 3,12): «Uomini israeliti perché ci guardate con attenzione quasi che noi abbiamo fatto ciò per la nostra abilità o pietà? Il nome di Cristo e la fede che è opera sua gli ha re­stituito la salute». (p.107).

Infatti Satana illude gli uomini con molti segni ingannatori e Dio tollera che molte cose avvengano per punire l’ingratitudine degli uomini, come attesta Paolo (II Tess. 2,9) e, dopo Paolo, Agostino. (pp.107-109)

Articolo XII

Il dovere di pregare i santi

E cosa santa e massimamente gradita a Dio pregare la beata ma­dre di Dio e i santi che sono in cielo, affinché siano per noi avvoca­ti e intercessori presso Dio.(p.109)

Perciò, se vogliamo veramente obbedire alla parola di Dio è be­ne che invochiamo solo Dio, nel nome di Cristo. […]

Poiché, dunque, non esiste alcuna indicazione sul fatto di chiede­re l’intercessione dei santi morti, e dato che non si trova mai alcuna promessa, abbiamo stabilito che questo genere di preghiera si oppo­ne alla regola della Scrittura. Infatti né i profeti né gli apostoli ci pro­posero alcun esempio di tale condotta.

Articolo XIII La venerazione dei santi

Quindi i santi, che trascorrono con Cristo una vita beata, non so­ lo devono essere imitati, ma anche venerati e pregati. (p.111)

Antidoto all’articolo XIII

Sulla preghiera ai santi si è già detto. Nondimeno nelle sacre Scrit­ture non ci è indicata altra venerazione114 nei loro confronti che quel­la che in generale è dovuta ai fedeli, come si evince dai Salmi 15 e 139*15, così che a ciascuno sia reso l’onore, secondo la misura della grazia. Così dei santi bisogna pensare e parlare con rispetto, a seconda del fatto che ciascuno di loro eccella per i doni di Dio, oppure sia col­locato dal Signore su un gradino più alto. Veramente, invece, il fatto di tributare loro un culto, così come è solito il mondo, è una super­stizione profana, che puzza della follia dei pagani più di quanto si ad­dica alla chiesa di Dio. Essa è, anzi, apertamente contraria al co- mandamento: «Adorerai il Signore e renderai il culto a lui solo» (Deut. 6,13; Mt. 4,10).

Articolo XIV I pellegrinaggi

Perciò coloro che, spinti dalla devozione, visitano i luoghi dedi­cati116, compiono un atto religioso.(p.113)

ANTIDOTO

Questi, invece, costruiscono templi e santuari per il proprio capriccio, sull’esempio degli idolatri. Inoltre a Gerusalemme veniva adorato un solo Dio, mentre essi consacrano templi in onore di uomini.

Articolo XV

  1. santi possono essere invocati, nel debito modo, prima di Dio

Se qualcuno, nel tempio o fuori dal tempio, ricorre con la sua pre­ghiera prima alla beata Vergine o a qualcuno dei santi, non commette peccato.(p.115)

Antidoto all’articolo XV

Se non è per nulla lecito rivolgersi ai santi nelle preghiere, si di­scute inutilmente se prima o dopo Dio. Dato che Cristo ci è presen­tato come l’unico mediatore attraverso il quale dobbiamo accostarci a Dio, coloro che si indirizzano ai santi, avendolo sorpassato o mes­so da parte, in un ruolo secondario, non hanno nessuna scusa per giu­stificare la propria malvagità.

Articolo XVI

L’adorazione della croce e delle immagini

In nessun modo si può dubitare che genuflettersi di fronte all’ im­magine del crocifisso, della beata Maria e dei santi per pregare Cri­sto e i santi sia un’opera pia e buona.(p.117)

ANTIDOTO

Sulle immagini e le statue il precetto di Dio è il seguente: <<Non le adorerai, né venererai>>. (p.119)

Poiché coloro che oggi si prosternano davanti alle statue non dif­feriscono in nulla dagli antichi idolatri, abbiamo stabilito, in base al­la parola di Dio e all’opinione degli antichi Padri della chiesa, che questo uso deve essere apertamente condannato.

Articolo XVII

Il purgatorio

Inoltre bisogna credere fermamente e non dubitare per nulla che il purgatorio esiste: le anime che vi sono trattenute devono essere aiutate con la preghiera, il digiuno, l’elemosina e altre buone opere, per essere liberate più velocemente dalle pene.(p.121)

ANTIDOTO

Senza dubbio l’architettura del purgatorio ha tanta solidità quan­ta può averne ciò che è stato fabbricato su cose sconosciute, nel cer­vello dell’uomo, al di fuori della parola di Dio. Certamente le pre­ghiere, con le quali desiderano comunemente giovare alle anime, poi­ché non sono sostenute da alcun precetto di Dio e neppure da alcuna promessa, non hanno quel fondamento della fede che Paolo richiede per le preghiere dei fedeli (Rom. 10,4). Nulla ci è richiesto in modo più pressante nelle Scritture, se non che esercitiamo tutte le forme della carità nei confronti dei vivi. Sul fatto di aiutare i morti, nessun accenno. A questo si aggiunge che di ciò non rimane neppure un esem­pio, benché la Scrittura ricordi le sepolture di molti, dei quali riferi­sce anche diffusamente i riti funebri. Ora non è credibile che lo Spi­rito di Dio abbia tralasciato una cosa di tale importanza, dato che, in­vece, ha ricordato quei particolari così trascurabili.

Articolo XVIII La chiesa e la sua autorità

Qualsiasi cristiano è tenuto a credere fermamente che v’è in ter­ra una sola chiesa universale visibile, che non può sbagliare in ma­teria di fede e di regole riguardanti i comportamenti. Ad essa tutti i fedeli sono tenuti a obbedire per ciò che riguarda la fede e i co­stumi.(p.127)

Antidoto all’articolo XVIII

Tutti confessiamo che la chiesa universale esiste, è esistita dall’i­nizio del mondo ed esisterà fino alla fine148. Si discute su quale sia il segno distintivo attraverso il quale può essere riconosciuta. Noi lo identifichiamo nella parola di Dio o, se qualcuno preferisce, nel fat­to che Cristo è il suo capo.

Affermiamo che, come si riconosce un uomo dall’aspetto del suo viso, così la chiesa può essere riconosciuta in Cristo. Così è scritto: «Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno le aquile» (Mt. 24,28). E an­cora: «Vi sarà un solo ovile e un solo Pastore» (Giov. 10,16). Sicco­me la pura predicazione della parola non è sempre evidente, né l’a­spetto di Cristo è sempre visibile, desumiamo da questo che la chie­sa non è sempre stata resa evidente allo sguardo degli uomini, come testimoniano gli esempi di molti secoli. Infatti, al tempo dei profeti, la moltitudine degli empi era così potente che la vera chiesa era op­pressa. Così anche al tempo di Cristo vediamo che il piccolo gregge di Dio è stato nascosto agli occhi degli uomini, quando gli empi usur­parono a proprio vantaggio il nome di chiesa. (p.131)

Stabiliamo quindi che la chiesa è riconosciuta dove appare il Cri­sto, dove si ascolta la sua parola, come è scritto: «Le mie pecore ascol­tano la mia voce» (Giov. 10,27). Quando, invece, viene cancellata la dottrina della verità, nello stesso momento la chiesa svanisce davan­ti agli occhi degli uomini.

Articolo XIX Le definizioni in materia di dottrina spettano alla chiesa visibile

Perché, se nelle sacre Scritture qualche cosa risulta controverso o dubbio, spetta alla predetta chiesa esprimere definizioni e decisioni. (p.133)

Antidoto all’articolo XIX

La regola per le decisioni, in riferimento alla vita delle singole chiese, ci è prescritta da Paolo quando dice: «I profeti parlino in due o tre, gli altri giudichino. Se, mentre uno parla, qualcosa di meglio viene rivelato a un altro, costui si alzi» (I Cor. 14,29).

Nel caso sia sorto un qualche dissidio tra le chiese, affermiamo che questa è la norma corretta, che peraltro fu sempre seguita, per ri­stabilire la concordia, cioè che i pastori si radunino e, facendo riferi­mento alla parola di Dio, stabiliscano quale strada vada seguita. (p.135)

Coloro, dunque, che pretendono che le decisioni della chiesa debbano essere ascoltate senza possibilità di scelta e diritto di replica, nello stesso tempo impongono ai fedeli anche questa costri­zione: che, negato Cristo e lasciata da parte la verità di Dio, spesso si adeguino all’empietà.

Articolo XX

Gli articoli di fede tramandati per mezzo della chiesa

E anche certo che devono essere credute molte cose che non so­no espressamente e specificamente tramandate nelle sacre Scritture, che però devono essere necessariamente accolte per mezzo della tra­dizione della chiesa.(p.137)

Quindi bisogna stare saldi in questa dottrina nella quale sappiamo è racchiuso il perfetto compendio della sapienza celeste. Si esprime dunque correttamente Agostino il quale giudica che ciò che non compare nelle Scritture non è necessario alla salvezza153, perché, se fosse stato necessario conoscerlo, Dio non lo avrebbe tralasciato.[…]

In conclusione, come la certa verità della fede non de­ve essere chiesta se non all’unico Dio, abbiamo stabilito che la retta fede è fondata solamente sulle Scritture che procedettero da lui stes­so: egli infatti ha voluto insegnarci lì in modo non dimezzato, ma pie­no, completo, qualunque cosa che voleva che noi sapessimo e sape­va che ci era utile.

Articolo XXI Il diritto di scomunicare

Con la medesima garanzia di verità deve essere accettato il fatto che il potere di scomunicare è stato direttamente concesso da Cristo alla chiesa come diritto divino e che, per questo, le censure eccle­siastiche devono essere temute grandemente. (p.139)

ANTIDOTO

Ma parliamo della forma esteriore della chiesa. In­fatti la vera chiesa è governata dallo Spirito di Cristo in modo tale che, giudicando, non si allontana mai dalla regola della sua parola. Ma poiché accade che coloro che ordinariamente esercitano il pote­re nella chiesa lo esercitino in modo tirannico, anziché secondo un giudizio conforme alla legge, quella distinzione deve essere mante­nuta con attenzione. Altrimenti invano Cristo avrebbe detto agli apo­stoli: «Vi cacceranno dalle loro sinagoghe»157. Non bisogna quindi temere di essere scomunicati da quella fazione dalla quale Dio e la sua verità stessa sono banditi.

Articolo XXII L’autorità dei concili

È certo che il concilio generale convocato legittimamente, rap­presentando la chiesa universale, non può sbagliare nelle decisioni in materia di fede e di costumi.(p.141)

Antidoto all’articolo XXII

Cristo promise che sarebbe stato in mezzo a coloro che si fossero raccolti, ma nel suo nome (Mt. 18,20), quindi non si può avere indif­ferentemente fiducia in qualsiasi concilio, ma in quelli che risulte­ranno riuniti nel nome di Cristo.
Così, quindi, abbiamo stabilito che il concilio che è stato convo­cato nel nome di Cristo è governato dallo Spirito santo e con la sua guida è condotto alla verità164. Quelli, invece, che Cristo non presie­de, sono guidati con una loro propria logica e così non possono che sbagliare e indurre in errore. Abbiamo stabilito inoltre che ce ne so­no alcuni che dall’inizio sono guidati dallo Spirito di Dio, poi si in­sinua, strisciando, la passione della carne, per cui si discostano dalla verità. C’è solo Cristo in cui risiede la pienezza dello Spirito: a cia­scuno degli uomini è data la grazia secondo la misura del dono di Cri­sto (Giov. 1,16; I Cor. 12,5.27; Ef. 4,7). (p.145)

Articolo XXIII

Il primato della sede di Roma’

Né è meno certo che nella chiesa militante di Cristo il pontefice è, per diritto divino, uno solo: tutti i cristiani sono tenuti a obbedir­gli ed egli quindi ha anche il potere di accordare le indulgenze.

ANTIDOTO

La scrittura menziona spesso Cristo come capo universale, il papa mai. E quando Paolo ci delinea l’immagine della chiesa, non la configura come l’episcopato universale di uno solo, ma dice che Cristo governa la chiesa attra­verso i suoi ministri (Ef. 4,11). E tuttavia in questo passo avrebbe do­vuto essere affermato con forza il primato di uno sugli altri, se que­sto fosse stato il caso. Paolo vi esprime il tipo di unità attraverso la quale i fedeli sono uniti con il loro capo, cioè Cristo. Ora, nel racco­mandare l’unità, egli nomina un solo Dio, una sola fede, un solo bat­tesimo (Ef. 4,4): perché non aggiungere anche un solo papa, come capo di ogni ministero? […]

Da questo desumiamo due cose: che Pietro non fu il suo capo, e che l’apostolato di Pietro non ci riguarda specificamente. In quel pas­so egli riferisce pure che con Pietro c’era un rapporto di collabora­zione, non lo riteneva quindi suo superiore. E Pietro stesso, quando scrive ai Pastori, non si rivolge con un tono di comando, ma li ritie­ne suoi colleghi e li esorta in modo amichevole, come si è soliti fare tra eguali (I Pie. 5,1). […]Per questo, quindi, concordiamo con ciò che dice Paolo (Ef. 4,15), cioè che Cristo è il capo dal quale l’intero corpo, unito e connesso con l’aiuto di ogni giuntura, secondo la misura dell’energia propria di ogni membro, realizza la propria crescita nel Signore. Infatti egli colloca nel corpo tutti i mortali fino all’ultimo: l’onore e il nome di capo li lascia solamente a Cristo. (p.151)

Dovunque c’è stato un vescovo, sia a Roma, sia a Gub­bio, sia a Costantinopoli, sia a Reggio, costui ha la stessa dignità e appartiene allo stesso sacerdozio. La potenza delle ricchezze e l’u­miltà della povertà non rende superiore o inferiore un vescovo. Infine, anche se si concedesse tutto a coloro che sostengono l’autorevo­lezza e l’importanza di Roma, tuttavia non può essere a capo dei ve­scovi colui che vescovo non è.

Articolo XXIV

Le regole che riguardano il comportamento delle persone

Le regole stabilite dalla chiesa, quali quelle che riguardano il di­giuno, il piacere del cibo, l’ astinenza dalle carni e molte altre cose, ob­bligano veramente la coscienza, e inoltre impediscono ogni scandalo.(p.155)

Inoltre è abominazione di fronte a Dio inventare un culto che egli non richiede: oppure onorarlo con un culto ideato dagli uomini e sen­za la sua parola, come testimonia Isaia, che per questo motivo an­nuncia al popolo di Israele una tremenda vendetta di Dio, perché il popolo venerava Dio secondo regole umane (Is. 29,13). (p.159)

ARTICOLO XXV
I voti e il loro valore

I voti, anche quelli monastici, di perpetua astinenza sessuale, di povertà e di obbedienza sono vincolanti per la coscienza. (p.161)

Antidoto all’articolo XXV

Nei voti ci sono da osservare queste tre cose: se quello che pro­mettiamo rientri nelle nostre possibilità, quindi se il fine del voto sia corretto, terzo se ciò per cui ci impegniamo sia gradito a Dio. Ab­biamo stabilito che se queste tre cose mancano, oppure anche solo una di esse, i voti sono inutili e di nessun valore. Inoltre la Scrittura insegna che l’astinenza perpetua non è posta nelle mani di chiunque. Cristo infatti afferma che non tutti sono capaci di mettere in pratica questa parola (Mt. 19,11). E Paolo, parlando di questo stesso dono, avverte che i doni di Dio sono distribuiti variamente e ci fa capire che è una cosa particolare, non concessa a tutti (I Cor. 7,7 s.). Perciò in­vita tutti coloro che ardono per una passione a ricorrere al rimedio del matrimonio: Chi non può dominarsi, dice, si sposi. Così pure, per evitare la prostituzione, ogni uomo abbia la propria moglie190. (p.163)

Così i monaci fanno voto di obbedienza ai loro padri superiori, per onorare Dio attraverso riti inventati dagli uomini. Noi affermiamo che questa povertà di cui fanno voto può non essere affatto accetta a Dio, anzi può persino dispiacergli. Dio ordina infatti che ciascuno viva del­la propria fatica, e Paolo dice: «Chi non lavora, non mangi», e defi­nisce «vita disordinata» quella di chi vive ozioso del sudore degli al­tri, anzi comanda che tali persone siano allontanate dalla comunione fraterna (II Tess. 3,IO)192. Infine la povertà volontaria che Dio ci rac­comanda è questa: che chi è ricco, distribuendo i propri averi per al­leviare la povertà dei fratelli, si faccia povero sull’esempio di Cristo, come dice Paolo (II Cor. 8,9). Invece i monaci vivono nella povertà, in modo tale che, nell’ozio, non soffrono mai la fame, divorano i be­ni dei poveri e si privano della possibilità di fare il bene.

Infine abbiamo chiarito che i voti nati dalla superstizione non so­no nulla, né valgono, in alcun modo, a vincolare le coscienze. Quin­di bisogna rinunciare tempestivamente ai voti concepiti dalla stolta fiducia nella carne, prima che Dio punisca l’ostinata arroganza.(p.165)

ATTI DEL CONCILIO DI TRENTO. CON ANTIDOTO (1547) p.173

Cosa significa che il peccatore è giustificato per la fede e gratuitamente

Quando l’apostolo dice che l’uomo viene giustificato «per la fe­de» e «gratuitamente» [Rom. 3,22.24], queste parole si devono in­tendere secondo il significato accettato e manifesto dal concorde e permanente giudizio della chiesa cattolica, e cioè che siamo giustifi­cati mediante la fede, perché «la fede è il principio dell’umana sal­vezza», il fondamento e la radice di ogni giustificazione, «senza la quale è impossibile essere graditi a Dio» [Ebr. 11,6] e giungere alla comunione che con lui hanno i suoi figli; si dice poi che noi siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di ciò che precede la giustifi­cazione, sia la fede che le opere, merita la grazia della giustificazio­ne: «infatti se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti (come dice lo stesso apostolo) la grazia non sarebbe più grazia» [Rom. 11,6]. (p.189)

Bisogna evitare la presunzione temeraria della predestinazione

Nessuno, inoltre, fino a che vivrà in questa condizione mortale, de­ve presumere dell’arcano mistero della divina predestinazione fino al punto da ritenersi sicuramente nel numero dei predestinati, quasi fosse vero che chi è stato giustificato non può più peccare, e se anche pecca deve essere certo di un sicuro ravvedimento. Infatti non si possono co­noscere quelli che Dio si è scelti se non per una speciale rivelazione.

Il dono della perseveranza (p.195)

«Noi siamo debi­tori, ma non verso la carne, per vivere secondo la carne; poiché, se vi­vete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spiri­to voi fate morire le opere del corpo, vivrete» [Rom. 8,12 s.].

Il ricupero dei peccatori

Quelli poi che a causa del peccato sono venuti meno alla grazia della giustificazione ricevuta anteriormente, potranno nuovamente es­sere giustificati, se procureranno, sotto l’ispirazione di Dio, di ricu­perare la grazia perduta attraverso il sacramento della penitenza, per merito del Cristo. (p.197)

Con qualunque peccato mortale si perde la grazia-, ma non la fede

Contro le maligne invenzioni di taluni, i quali «con un parlare so­lenne e lusinghiero ingannano i cuori dei semplici» [Rom. 16,18], bi­sogna affermare che non solo con l’infedeltà, per cui si perde la stes­sa fede, ma anche con qualsiasi altro peccato mortale, si perde la gra­zia già ripevuta della giustificazione, anche se non si perde la fede. Con ciò difendiamo l’insegnamento della legge divina, che esclude dal regno di Dio non soltanto gli infedeli, ma anche i fedeli immora­li, adulteri, effeminati, sodomiti, concubini, ladri, avari, ubriaconi, malèdici, rapaci [cfr. I Cor. 6,9 s.], e tutti gli altri che commettono peccati mortali, da cui con l’aiuto della grazia potrebbero astenersi e a causa dei quali vengono separati dalla grazia del Cristo. (p.199)

CONTRO LA SESTA SESSIONE p.203

Anzi, la loro definizione non contiene nient’altro che quel trito dog­ma della scolastica: gli uomini sono giustificati in parte per grazia di Dio, in parte per le proprie opere e ciò per mostrarsi5, una volta tan­to, più moderati di quanto fu Pelagio. Questo sarà facile da giudica­re entrando nel merito della questione. (p.205)

La Scrittura inse­gna questo in ogni suo passo. Per tralasciare altre innumerevoli te­stimonianze, Paolo, quando disquisisce sulla natura del genere uma­no, non condanna il libero arbitrio per infermità, ma proclama che tutti sono incapaci, avversari di Dio e sottomessi alla tirannide del peccato (Rom. 3,9 ss.), negando che siano capaci di pensare qualco­sa di buono (II Cor. 3,5). Intanto, tuttavia, non neghiamo che la vo­lontà dell’uomo rimanga, ma quella malvagia. Infatti la caduta di Ada­mo non tolse la volontà, ma da libera la fece schiava, in modo tale che non solo fosse proclive, ma soggetta al peccato. Su questo ci sof­fermeremo nuovamente tra non molto.

Non tocco il terzo e quarto capitolo.

Circa alla fine del quinto capitolo, essi negano che il passaggio allo stato di grazia avvenga senza il battesimo o il desiderio di questo. (p.207)

Nella promessa, con la quale Dio attesta ai fedeli che egli sarà Dio per loro e per i loro discendenti (Gen. 17,7), è inclusa la salvezza dei piccoli. Per que­sta ragione proclamava che coloro i quali riconducevano la loro ori­gine ad Abramo erano nati per lui. Con il beneficio di quella promessa essi sono ammessi al battesimo perché sono ritenuti membri della chiesa. La loro salvezza non ha quindi inizio dal loro battesimo, ma essa, essendo fondata sulla parola, viene suggellata con il battesimo. (p.209)

Ma la Scrittura, che fa Dio au­tore della volontà buona, si oppone. Una cosa è che la volontà sia mossa da Dio in modo tale che sia obbediente, se vuole; altra cosa è, invece, che essa sia formata per essere buona. Inoltre Dio non pro­mette che farà in modo che possiamo voler il bene, ma che vogliamo il bene, anzi va anche oltre quando dice: «Farò in modo che cammi­niate». Questo è stato annotato diligentemente da Agostino. E Paolo afferma la stessa cosa quando insegna che Dio è colui che crea in noi

il volere e l’agire perfetto, secondo il suo disegno benevolo. (p.211)

Questa è la sostanza dell’argomentazione: coloro che creano una divisione tra Dio e noi agiscono in modo sbagliato, vo­lendo attribuire a noi l’atteggiamento di obbedienza di una volontà pia che acconsente alla grazia di Dio, mentre tale volontà è opera esclusiva di Dio. […]

Certamente questi venerandi padri devo­no essere dei novizi, se dai comandamenti stimano le capacità del­l’uomo; Dio invece ci richiede ciò che è sopra le nostre forze affin­ché, consapevoli della nostra debolezza, ci spogliamo di ogni super­bia. Vogliamo, quindi, ricordare che la volontà dell’uomo è una co­sa, ma che la libera scelta del bene e del male è tutt’altro. Tolta, in­fatti, dopo la caduta del primo uomo la libertà di scegliere, è stata la­sciata solamente la volontà, che è tenuta fino a ora prigioniera sotto la tirannide del peccato, in modo tale che è portata esclusivamente al male.(p.215)

La giustizia che viene dalla fede, invece, dice così: «Chi avrà creduto» ecc. Ve­diamo, quindi, che alla giustizia della legge viene opposta la giusti­zia della fede, che non è fatta per nulla di opere, come l’altra. Essi, intanto, vogliono per sé le parole delle quali Luca racconta di esser­si seivito di fronte agli abitanti di Antiochia (At. 13,38). Per questo vi è annunciata la remissione dei peccati, e ognuno che creda è giustifi­cato da tutti i peccati dai quali non poteste essere giustificati secondo la legge di Mosè. Infatti, come argomento di spiegazione di tale espres­sione, anche la giustificazione è sottoposta alla remissione dei pecca­ti e vuole indicare, senza dubbio, assoluzione, inoltre è sottratta alle opere della legge, in modo che sia gratuita, e si afferma che viene ac­colta per fede. (p.219)

Egli riconosce, infatti, che non si troverà nessuno tra gli uomini in cui si compia la promessa della salvezza, se essa è subor­dinata alla condizione dell’innocenza e la fede crollerà subito, se sarà sostenuta dalle opere. Ciò dunque è vero, perché per tutto il tempo in cui ci rendiamo conto di quello che siamo, è inevitabile che noi pro­viamo timore al cospetto di Dio, tanto siamo lontani dall’aver con­solidato in noi una fiducia salda e certa della vita eterna. Parlo di co­loro che sono rigenerati. Quanto infatti è lontana dalla giustizia la «novità di vita» che si avvia in questa esistenza?

Intanto non si deve neppure negare che queste due cose, la santi­ficazione e la giustificazione, siano coese e congiunte. Ma erronea­mente da ciò si deduce che siano una sola, medesima cosa. A titolo di esempio: la luce del sole, benché non si separi mai dal calore, tut­tavia non deve essere considerata calore. E non si trova nessuno tan­to rozzo che non distingua l’una cosa dall’altra. Affermiamo quindi che, appena qualcuno è giustificato, ne segue, necessariamente, an­che un rinnovamento. In verità non ci sono dubbi sul fatto che Cristo santifichi oppure no coloro che giustifica. Se qualcuno volesse sepa­rare la giustizia che conseguiamo per mezzo della fede dalla peni­tenza questo significherebbe lacerare l’evangelo, e strappare a brani Cristo stesso. Ma tutta la nostra discussione verte intorno alla causa della giustificazione. I padri Tridentini fingono che questa sia dupli­ce: che noi siamo giustificati in parte per la remissione dei peccati e in parte per la rigenerazione spirituale. Oppure, per esprimere con al­tre parole ciò che pensano, la nostra giustizia sarebbe da ricondurre in parte all’attribuzione e in parte alla condizione naturale*. Io inve­ce asserisco che essa è unica e semplice, che è da ricondurre tutta in­tera alla gratuita accettazione da parte di Dio. Inoltre la colloco fuo­ri di noi perché solamente in Cristo siamo resi giusti21. (p.221)

Vera­mente chiunque, posponendo l’evangelo, enumera il battesimo tra le cause di salvezza, mostra a quel punto di non sapere che cosa sia il battesimo, o quanto valga, quale sia il suo ruolo o quale l’uso. (p.223)

Per quanto sia piccola la parte attribuibile alle nostre opere, nella me­desima misura la fede vacillerà e tutta la nostra salvezza, in questo modo, sarà in pericolo. Quindi, con l’apostolo, impariamo a respin­gere la nostra giustizia, che proviene dalla legge, come un impedi­mento dannoso, affinché otteniamo dalla fede quella che è di Gesù Cristo (Fil. 3,8-9). Quale essa sia lo abbiamo dimostrato esauriente­mente già in precedenza: con una parola Paolo lo indica, nel terzo ca­pitolo della lettera ai Galati (Gal. 3,11 s.), quando nega che la giusti­zia della legge corrisponda alla giustizia della fede, perché è collo­cata nelle opere.

Ma che cosa farai a codeste bestie24? Infatti, dopo che raccolsero molte «cause» della giustificazione, dimenticando che dovevano trat­tare della «causa» della giustificazione, desumono da qui che una par­te della giustizia risulta nelle opere, perché nessuno è riconciliato con Dio senza lo Spirito della rigenerazione per mezzo di Cristo. Ma quan­to è profonda questa follia? Inoltre, infatti, ciò vale come se dicesse­ro: la remissione dei peccati non può essere staccata dalla penitenza, quindi questa è una parte di quella*. Questo è l’unico punto fonda- mentale della controversia: in che modo siamo considerati giusti di fronte a Dio? Dove la nostra fede, per mezzo della quale solamente abbiamo ricevuto la giustizia, deve cercarla? (p.225)

Dio è benigno con noi, perché è stato riconciliato con noi per mezzo della morte di Cristo, quindi noi siamo reputati giusti di fronte a lui perché, per quel sacri­ficio, le nostre iniquità sono state espiate. Dice Paolo: «Abbiamo pro­piziazione attraverso la fede nel sangue di Cristo» (Rom. 3,25; 5,10). Infine, quando si chiede della causa: a quale scopo bisogna che una causa accidentale inseparabile si interponga*? Smettano quindi di gio­care con queste inezie o di dar segni di pazzia con cavilli: l’uomo ri­ceve la fede, e insieme la speranza e la carità, quindi la fede da sola non giustifica25.[…]

Ma, dato che balbettano che l’uomo non si unisce a Cristo per sola fede, se non si aggiungono anche la speranza e la carità, certamente immaginano una fede priva di carità che dai sofisti è chiamata vol­garmente informe, e con ciò mostrano la loro profonda ignoranza. In­fatti, se è vero ciò che Paolo insegna (Ef. 3,17), cioè che Cristo abi­ta nei nostri cuori attraverso la fede, essi non separeranno maggior­mente la fede dalla carità che Cristo dal suo Spirito. Se i cuori ven­gono purificati per mezzo della fede, come Pietro asserisce (At. 15,9), se chiunque crede ha la vita eterna, cosa che Cristo afferma tante vol­te (Giov. 3,16; 5,24; 6,40; 20,31), se per fede si ottiene l’eredità del­la vita eterna (Rom. 4,14)27, di gran lunga la fede è altra cosa che non so quale convinzione che svanisce. (p.227)

Noi in­vece ricordiamo che la natura della fede deve essere stabilita parten­do da Cristo, perché accogliamo ciò che Dio ci offre in Cristo sola­mente per fede. Inoltre, qualunque cosa sia Cristo per noi ciò è attri­buito alla fede che ci rende del tutto partecipi di Cristo e di tutti i suoi beni. (p.229)

La giustizia della fede, infatti, non troverà posto in noi, finché non avremo riconosciuto con certezza che la salvezza della legge ci viene promessa invano. Ciò era infatti impossibile alla legge, in quanto era nella nostra debole carne: Dio, attraverso suo fi­glio, ci soccorse, espiando i nostri peccati mediante il sacrificio della sua morte, affinché la sua giustizia si realizzasse in noi (Rom. 8,3-4). Perciò agiscono talmente a rovescio i padri Tridentini che, mentre il compito di Mosè è di condurci per mano a Cristo (Gal. 3,24), essi stes­si ci distolgono dalla grazia di Cristo per condurci a Mosè. (p.231)

«L’evangelo», dice, «è potenza di Dio per la salvezza di ogni credente: perché in esso è ri­velata la giustizia di Dio dalla fede verso la fede» (Rom. 1,16). Chi non vede che il principio e il fine sono qui indicati in modo uguale? Altrimenti sarebbe stato necessario dire: dalla fede verso le opere, se veramente esse perfezionassero ciò che la fede inizia. […]

Il secondo punto è, perciò, che la giustificazione è definita gra­tuita da Paolo, perché nessun merito la precede. (p.235)

Siamo giu­stificati gratuitamente, essi dicono, perché nessuna opera che preceda la giustificazione la merita. Ma quando Paolo toglie ad Abramo il mo­tivo di gloriarsi perché la fede è stata tenuta per lui in conto di giusti­zia, subito suggerisce il motivo della prova: dove sono le opere, là è dato in egual misura il salario dovuto: il premio della fede che viene elargito, infatti, è gratuito (Rom. 4,4). (p.237)

Infatti, se gli uomini esaminano le loro opere, tro­veranno soltanto cose malvagie. A stento i posteri si persuaderanno del fatto che nel papato ci sia stata una stupidità così notevole da spingere ad anteporre una qualche opera alla giustificazione, anche se si nega­va che fosse meritevole di un bene così grande. Che cosa, infatti, verrà dall’uomo, finché non sarà stato rigenerato dallo Spirito di Dio? Il ra­gionamento di Paolo è di gran lunga diverso. Egli ammonisce gli Efe­sini, al capitolo 2 (v. 8), affinché si ricordino che sono stati salvati per grazia, non da se stessi, né dalle proprie opere. Egli offre la prova, non quella di cui si servono questi padri forsennati, che nessuna opera che precede basta, ma quella che io addussi, che noi non siamo provvisti di altre opere, se non di quelle che Dio ha preparato: perché siamo sue creature, creati per una vita santa e pia. Più oltre, la fede precede la giu­stificazione in modo tale che, tuttavia, per quanto riguarda la conside­razione da parte di Dio, la segua. Benché ciò che dicono intorno alla fede, allora forse avrebbe spazio se la fede stessa, che ci conduce al possesso della giustizia, provenisse da noi. Veramente, siccome an- ch’essa stessa è dono gratuito di Dio, codesta eccezione che propon­gono è superficiale, sebbene la Scrittura tolga questo dubbio con un al­tro ragionamento, quando oppone la fede alle opere, affinché essa non sia annoverata tra i meriti. Infatti la fede non porta qualcosa di nostro a Dio, ma accoglie ciò che Dio ci offre spontaneamente. Da questo de­riva che la fede, benché imperfetta, nondimeno possieda una giustizia perfetta, perché non ha altro rifugio che la gratuita bontà di Dio. (p.239)

Nel capitolo Undicesimo) dove descrivono la crescita della giusti­zia, non solo confondono l’attribuzione gratuita con i meriti delle ope­re, ma pressapoco la distruggono. Le parole sono: i fedeli crescono nella giustizia con le opere buone, attraverso l’osservanza dei comandamenti di Dio e della chiesa e di conseguenza sono giustificati maggiormente. (p.245)

Infine, affermo che tanto la persona quanto le opere sono giustificate non per proprio merito, e quella delle opere dipende dalla giustificazione della persona, come l’effetto dalla causa. (p.247)

Perciò è un raggiro par­ticolarmente iniquo sostituire alla giustizia gratuita non so quale giu­stizia che derivi dal merito, come se una volta per tutte, gratuitamente, Dio, in un solo momento, ci giustificasse, e noi, invece, per tutta la vita, con l’osservanza della legge, ci confrontassimo con la giustizia.(p.249)

Nel dodicesimo capitolo rinnovano quel vecchio anatema, affin­ché qualcuno non dica che i comandamenti di Dio sono impossibili da osservare da parte di un uomo giustificato. Sul termine impossi­bile non conviene per nulla litigare. A me questo è abbondantemen­te sufficiente e deve bastare anche alle persone pie e poco litigiose: non è mai esistito nessuno che abbia osservato pienamente la legge di Dio, e nessuno può essere trovato tale. […]

Si dice che Dio, se vuole, può veramente porta­re gli uomini a una perfezione tanto grande, ma non l’ha mai fatto, né lo farà mai, perché le Scritture insegnerebbero altrimenti. Io, per contro, proseguo ulteriormente e asserisco che è impossibile perché le Scritture non indicano mai il futuro. (p.253)

I suoi discepoli, dunque, amano Cristo con serio e sincero sentimento del cuore, e, come misura dell’amore, osservano la sua parola. Ma che piccola cosa è questa di fronte a quella compiuta perfezione a cui non manca assolutamente nulla! […]

Peccato lieve, per loro, è ogni ge­nere di desiderio che ci sollecita a compiere qualunque tipo di male, ugualmente tentazioni di ogni genere, che ci spingono fino a bestemmiare Dio. Comunque sia, qui sono colti in manifesta contrad­dizione. (p.257)

Per cui l’uomo lusinghi pure se stesso quanto gli piace: se, tuttavia, egli fosse chiamato in giu­dizio di fronte a Dio, l’opera più straordinaria che mai ci sia stata, sarà trovata deformata da un qualche neo. Le opere, però, sono gra­dite a Dio. Chi lo nega? Affermiamo soltanto che non è possibile che piacciano senza perdono. Che cosa perdona Dio se non il peccato? (p.261)

Nel tredicesimo capitolo, se facessero soltanto quello che il tito­lo presenta avrebbero anche me come sottoscrittore, ma poiché, af­fermando che vogliono opporsi a una temeraria presunzione, a que­sto fine si adoperano con ogni cura per eliminare dagli animi delle persone pie tutta intera la fiducia nella propria elezione, sono costretto a combattere contro di loro poiché la Scrittura vi si oppone palese­mente. (p.263)

Nel quattordicesimo capitolo proibiscono che qualcuno prometta a sé la costanza di perseverare, con l’assoluta certezza che viene da Dio: tuttavia non disapprovano che su di essa sia collocata una sal­dissima speranza in Dio. (p.265)

Nel Quindicesimo capitolo[…] I padri Tridentini non trattano della penitenza, ma del sacramento della penitenza che immaginano istituito da Cristo. In che luogo? (p.269)

risto tocca quasi solamente un aspetto e non piuttosto la medesima cosa che Luca 24 (v. 47), indica, cioè, che la penitenza e la remissione dei peccati devono essere predicate nel suo nome.

Si slanciano ancora oltre: che questa penitenza, di cui parlano su­perficialmente, non consta solo della contrizione del cuore, ma della confessione della bocca e della riparazione delle opere. (p.271)

È mille volte lecito che predichino: non sarà trovata nessuna sillaba dove Cri­sto ordini di confessare i peccati all’orecchio di un uomo. Qualunque promessa sulla remissione dei peccati emerga non fa neppure una pic­colissima menzione di quella cosa. Quella legge fu certo del tutto sco­nosciuta agli apostoli. In tutta la chiesa orientale, ugualmente, non ce ne fu mai nessun uso. (p.273)

cco un discorso sulla penitenza. Lo Spirito santo descrive tutta la sua forza e la sua natura tanto frequentemente, tanto copiosamen­te, tanto apertamente nella legge, nei profeti, nell’evangelo, che non c’è nessun punto fondamentale della dottrina che sia spiegato più ric­camente. Sulla confessione, quale costoro la immaginano, un profon­do silenzio dovunque. (p.275)

Fino a questo punto ho fatto in modo che i miei giudizi non con­tenessero qualcosa di accusatorio. Di codesta cosa si accorgeranno, però, i lettori imparziali, cioè che non ho criticato nulla, se non co­stretto. Ma non c ’è nessuna opinione che possa strapparmi più di quan­to io voglia, se non quella che si individua nel capitolo sedicesimo: la grazia della giustificazione viene persa non solo per mancanza di fede, ma per qualsiasi peccato mortale. Se comprendessero che noi siamo allontanati dal possesso di un bene così grande per cattiva co­scienza, io non mi opporrei per nulla, naturalmente fino al punto in cui questo ci riguarda. Infatti Dio non ci respinge, tuttavia una catti­va coscienza è causa di un dissidio di tal genere tra lui e noi che fi­niamo per godere pochissimo della conoscenza vivificatrice e giusti­ficatrice del suo amore paterno verso di noi. Ma in quello soprattut­to sono confusi, che non riconoscono come mortale nessun peccato che non sia vistoso e palpabile, mentre numerosi peccati interiori fe­riscono più gravemente gli animi fino alla morte: essi non capiscono che una coscienza serena è compagna inseparabile della fede. Del re­sto in che modo si potrebbe sostenere ciò? I cuori sono purificati dal­la fede (At. 15,9). […]

Ma sostengo che, come il timore di Dio viene sopraffatto dai desideri malvagi, così essa vie­ne soffocata in modo tale che, temporaneamente, non possa mostra­re per nulla la propria forza, come se, in un certo modo, si stesse estinguendo lentamente. Invero, con astuzia, i santi Padri si danno da fa­re per scavare un cunicolo nel quale nascondere quel loro empio dog­ma, cioè che noi non siamo giustificati per la sola fede65. Ma, poiché da questa parte ciò non ha buon esito, si accingono a servirsi di un’al­tra via.(pp.281-283)

Rimane ancora l’ultimo capitolo, sul merito delle opere buone. Tra noi non c’è controversia sul fatto che i fedeli debbano essere esortati alle opere buone e anche stimolati con la proposta di una ri­compensa. Perché dunque? Per prima cosa, dissento da loro in que­sto: essi trasformano la vita eterna in una ricompensa. (p.283)

Siccome qualsiasi opera che provenga da noi si deforma davan­ti a Dio, poiché il vizio è insito in noi, resta una sola cosa, cioè che, con una accettazione gratuita, tale opera recuperi la grazia che non può derivare da se stessa. Ciò avviene in quanto le cose stesse non raggiungono stima e riconoscimento, ma prendono e, quasi mendi­cano, il loro valore da Cristo.

Non riconoscere che, qualunque sia la forma con cui si presenta­no le opere che provengono da noi stessi, esse sono accette a Dio per

il nome di Cristo ed egli le perdona con patema indulgenza, benché siano corrotte, è una follia eccessivamente pesante ed empia. La se­conda cosa è anche quasi simile: essi non reputano che, se anche al- l’interno di un’opera siamo degni di merito per qualcosa, essa tutta intera, per quanto possa essere grande, perisce per la trasgressione che le si oppone: Chi abbia peccato in una sola cosa è ritenuto reo di tutto (Giac. 2,10). (p.285)

Veramente il terzo errore, cioè che puntellino la fiducia della salvezza con la considera­zione delle opere, è di gran lunga il peggiore*. (p.287)

IL VERO MODO DELLA PACIFICAZIONE CRISTIANA E DELLA RIFORMA DELLA CHIESA (1549) p.289

NOTA CRITICA p.291

INTRODUZIONE p.295

«Pace è veramente un termine che colpisce l’attenzione – dice Ila- rio1 – ed è una bella ipotesi quella dell’unità. Ma chi dubiterebbe che non vi sia altra pace nella chiesa se non quella che è di Cristo?». Ec­co un pensiero che certo è bene ci venga in mente ogni volta che si tratta di stabilire tra i cristiani la pace e la concordia, e soprattutto quando si cerca di accordarsi in materia di dottrina. Infatti, poiché gli uomini pii e timorati aborriscono le discordie e hanno in onore le di­spute e le contese, non appena si parla di conciliarle è più che pro­babile che ciò suoni loro gradito. E qual è l’uomo (a meno che non sia privo di umanità) che non presti volentieri l’orecchio e non apra

il cuore di fronte a un discorso vero e sincero sulla necessità di paci­ficare la chiesa? Poiché, per poco che abbia timore di Dio, chiunque deve provare un vero tormento nel vedere questa ignobile e onenda lacerazione del corpo di Cristo. Ma poiché ci sono persone astute che si insinuano sotto una tale copertura per imbastardire la pura dottri­na cristiana, è necessario discemere bene e con prudenza qual è la pa­ce che ci viene proposta. E se Cristo da una parte ci raccomanda pri­ma di tutto la pace, dall’altra ci insegna che la verità del suo evange- lo è la sola condizione vincolante in grado di mantenerla. Per cui non si deve permettere che quelli che cercano di distoglierci dalla pura confessione dell’evangelo ci ingannino sotto la copertura di questo termine di concordia. E dunque, cosa bisogna fare? Dobbiamo desi­derare la pace e ricercarla con grandissimo impegno; ma piuttosto che sia acquistata al prezzo di qualsiasi rinuncia della fede, il cielo e la terra siano messi sottosopra!

Questa controversia non si rivolge affatto ai Turchi e ai Giudei, che vorrebbero che il nome di Cristo fosse del tutto cancellato; né ai più rozzi papisti che ci domandano una esplicita abiura della vera dottri­na; bensì agli architetti di non so quale concordia truccata che ci la­sciano un Cristo dimezzato tanto che non c’è parte della sua dottrina che essi non oscurino o inquinino con qualche menzogna2. (pp.295-297)

Ne consegue che è facile concludere quale sia il vero modo per conciliare le discordie. Poiché, se non ci spaventassero le offese de- 1 gli uomini, tanto da offuscarci la vista, anzi se certuni, che vogliono essere troppo cauti, non fossero accecati in piena luce, senza esita­zione avremmo convenuto tra noi gli articoli di fede che sono neces­sari per conservare la condizione di chiesa. Tuttavia, poiché non si può giudicare nel modo dovuto se non avendo sotto gli occhi ciò di cui si tratta, penso che farò una cosa di una certa utilità annotando i punti su cui non è lecito transigere. (p.301)

1. La giustificazione 1

1. La giustificazione

  1. Il libero arbitrio

Così, se costoro vogliono dimostrare di voler conservare intatta questa parte della dottrina, e cioè la giustificazione gratuita, dovrà es­sere precisato in primo luogo di quale potere sia dotato l’uomo per se stesso. Questo è infatti l’ordine fondamentale che bisogna seguire per distinguere tra la natura dell’uomo e la grazia di Dio: vedere in primo luogo ciò che è proprio della nostra natura in sé. Qui i moyen­neurs, spuntando non so come, per calmare gli avversari10 uccidono con equivoche tortuosità le povere anime: riconoscono cioè all’uomo un certo libero arbitrio, per quanto debole e ferito. Sono dunque ge­nerosi con i beni altrui, dal momento che attribuiscono agli uomini ciò che è proprio della grazia di Dio. Ammettiamo certo che l’uomo, benché sia prigioniero sotto la tirannia del peccato e di Satana, ha pur sempre la sua volontà. […]

E chiaro che il punto di partenza dovrà essere tutt’altro: cioè che la nostra mente è cieca finché non sia illuminata dallo Spirito di Dio; che la nostra volontà è dedita al male e vi è portata e costretta con la forza, finché non sia corretta dallo stesso Spirito; e ancora, che l’ac­coglimento volontario della grazia non procede se non dal fatto che Dio, formando in noi un cuore di carne invece di quello di pietra11, ci riconduce a sé, noi che prima eravamo sviati.(p.303)

Giustificazione e santificazione

Venendo ora alla definizione della parola stessa, giustificazione, dobbiamo fare bene attenzione che il riguardo nei confronti delle ope­re non si mescoli con la riconciliazione gratuita che è tutta contenu­ta nella remissione dei peccati. Poiché, per quanto non avvenga mai che siamo riconciliati con Dio senza che egli ci provveda nello stes­so tempo della giustizia inerente, che le è connessa, tuttavia queste due cose12, che non si possono separare, vanno comunque distinte. Fa parte del secondo punto di tale questione sapere in che modo Dio ci giustifica. Orbene noi diciamo che siamo giustificati per fede in quanto la giustizia di Cristo ci è imputata. (p.305)

Bisogna dun­que che la fiducia riposi interamente sulla remissione dei peccati. La cosa è chiara: non possiamo presentarci a Dio con sicurezza, se non essendo pienamente convinti che egli è nostro padre, e ciò non è pos­sibile se non siamo considerati giusti davanti a lui. In breve, ci è sbar­rato ogni accesso a lui, a meno che, confidando nella sua patema be­nevolenza, noi lo invochiamo senza esitazione come padre. Perché, se non vi è salvezza né invocazione di Dio senza che la coscienza sia fiduciosa e in pace; e ancora: se la coscienza non può riposare al si­curo senza la certezza della sua giustizia, allora non vi è alcun dub­bio: tutta la giustizia, nella quale dobbiamo aver fiducia, è racchiusa nella remissione gratuita dei peccati*. (p.307)

Così, non è senza motivo che Paolo rac­chiude tutta la giustizia della fede unicamente nella remissione dei pec­cati, insegnando che Davide lo proclama quando dice: «beato l’uomo a cui i peccati non sono imputati» (Rom. 4,6; Sai. 32,1). […]

Giacomo non intende dire (Giac. 2,22) che l’uo­mo acquisisce davanti a Dio, sia pure in minima parte, una giustizia per merito delle sue opere: egli tratta soltanto della verifica della no­stra giustizia. Ora, nessuno nega che, per mezzo delle proprie opere, ciascuno manifesti chi egli sia. Ma una cosa è mostrare agli uomini per mezzo delle opere cosa abbiamo in cuore, ben altro è meritare la salvezza davanti a Dio. (p.311)

Ciò nondimeno si sbagliano grandemente quelli che pensano che Dio corrisponde alle opere una ricompensa come se fosse una cosa do­vuta. Bisogna quindi tornare sempre a questo punto: che poiché Dio non riconosce alcuna giustizia se non nella perfetta obbedienza del­la legge, gli uomini non meritano alcuna ricompensa se non adem­piendo totalmente tutti i comandamenti della legge. Poiché, chiun­que avrà fallito in un solo punto, se viene esercitato verso di lui il ri­gore della legge, sarà passibile di maledizione eterna. Per cui Paolo dichiara senza difficoltà che tutte le promesse che contengano la con­dizione di fare ciò che la legge esige sono cancellate e abolite così che quel rigore sia addolcito mediante la concessione di una promessa gratuita15. (p.313)

Infatti, la promessa che è legata al­l’esigenza che noi ubbidiamo ai comandamenti della legge, per quan­to proceda dalla benevolenza di Dio, tuttavia di per sé non ci serve a nulla, dal momento che non si troverà mai qualcuno che compia il proprio dovere. Bisogna dunque che una nuova promessa venga in nostro aiuto: affinché le nostre opere ricevano una ricompensa in quan­to sono riconciliate con il perdono dei peccati*. Così i fedeli non so­no defraudati della speranza della ricompensa che deve stimolarli al­

lo zelo per le buone opere; senza tuttavia che essi si gonfino di nuo­vo di una fiducia perversa, né siano esposti al pericolo di un vano or­goglio. Ecco dunque la vera logica della ricompensa: non che essa corrisponda al merito e alla dignità delle opere come se fosse sullo stesso piano, ma che si fondi invece sulla loro gratuita accettazione. (p.315)

La fede che ottiene la giustizia

Penso sia sufficientemente chiaro quanto sia necessario che la pa­rola fede sia rettamente intesa affinché rimanga intatta la dottrina del­la giustificazione. E in effetti la vera definizione della fede può esse­re compresa, almeno parzialmente, a partire dall’effetto che la giu­stificazione ci procura. La fede ci giustifica in quanto permette che noi siamo rivestiti di Cristo, che egli abiti in noi e che noi siamo sue membra17. Dal momento che essa ci unisce al Figlio di Dio, può mai esistere senza il suo Spirito? Ciò sarebbe tanto poco ragionevole quan­to l’affermazione che l’anima – la quale dà vigore, movimento e sen­sibilità al corpo ed è in fin dei conti la sua vita – non sarebbe essa stessa vivente. Una volta chiarito questo solo punto, che cioè si pos­siede Cristo per mezzo della fede, non ci sarà più motivo di attardar­ci sulla distinzione tra fede informe e formata. Io dico che la fede è la ferma certezza della coscienza che abbraccia Cristo quale ci è of­ferto nell’evangelo. (p.317)

Dichiaro quindi che, per ciò che riguarda l’ottenere la giusti­zia davanti a Dio, è assolutamente necessario che si abbiano ben chia­ri questi cinque punti concernenti la fede. In primo luogo, la fede è la convinzione indubitabile per mezzo della quale noi accogliamo l’insegnamento recato dai profeti e dagli apostoli come una verità in­fallibile che procede da Dio. In secondo luogo, la fede fissa lo sguar­do nelle promesse gratuite che sono contenute nella parola di Dio e specialmente in Cristo che ne è pegno e fondamento, di modo che, essendo al sicuro nella patema benevolenza di Dio, osiamo accogliere in noi la fiducia della salvezza eterna. In terzo luogo, la fede non è una mera idea che svolazza nella mente; essa comporta anche un vi­vo legame affettivo che ha sede nel cuore. In quarto luogo, la fede non proviene dalla perspicacia della mente umana, o da un moto spon­taneo del cuore, ma è un’opera speciale dello Spirito santo il cui com­pito è di illuminare i nostri intelletti e di imprimere il suo sigillo nei nostri cuori. E l’ultimo punto è che non tutti indifferentemente sono in grado di avvertire questa potenza dello Spirito santo, ma lo sono coloro che sono ordinati alla vita. (p.319)

D’altra parte, quando avremo ben sondato il cuore dell’uomo, troveremo che non soltanto esso è incli­ne allo sviamento, ma che tutto l’istinto della sua natura ve lo co­stringe. Bisogna dunque che lo Spirito di Dio venga in nostro aiuto anche a questo riguardo e che ci serva come caparra e come sigillo.(p.325)

La remissione dei peccati

Se queste cose non sono poste fuori discussione, avremo un bel dire, gorgheggiando come uccelli, che siamo giustificati per fede: non sapremo mai cosa significa giustificazione. Non è certo preferibile essere sottratti di nascosto all’unico fondamento della salvezza, piut­tosto che esserne scacciati apertamente. E in effetti ci sono anche al­tri casi in cui gli ambigui moyenneurs stravolgono astutamente quel­la parte della dottrina che a parole protestano di voler difendere. Fan­no credere cioè che la confessione è necessaria affinché i nostri pec­cati siano perdonati. E a chi vogliono che vengano confessati? (p.327)

La Scrittura dice che siamo giustifi­cati non per il fatto di aver compiuto la legge, ma in quanto abbiamo fiducia che i nostri peccati sono aboliti grazie al sacrificio di Cristo. Non è perciò l’osservanza della legge che ci giustifica, ma il perdo­no delle nostre trasgressioni. Ora, se questo perdono che scioglie da ogni vincolo è legato a qualche condizione, non è forse tolta alle co­scienze ogni certezza della salvezza? Costoro ci promettono bensì la remissione dei nostri peccati, ma a condizione che noi li abbiamo con­fessati all’orecchio di un prete. E cos’è questo, ve ne prego, se non assoggettare alla legge degli uomini l’assoluzione che ci viene dalla legge di Dio? E come se essi – per così dire – volessero imporre una servitù al mezzo mediante il quale la liberazione è data24. Ecco dun­que a che punto arrivano questi legislatori: stabiliscono che la remis­sione dei peccati, che ci libera, non è affatto libera. (p.329)

Noi tutti, che siamo poveri e miserabili peccatori, troviamo nel per­dono che Dio ci dà l’unico rifugio possibile per la nostra salvezza. […]

Ora, poiché le coscienze di coloro che temono Dio hanno sperimentato per l’innanzi quale dura tortura fosse l’essere costretti a una tale confessione, i falsi moyenneurs, al fine di ucciderle con minor dolore, escogitano una via di mezzo. Sostengono infatti che non si debba né allentare troppo, né rendere troppo rigorosa la confessione. Sembrerebbe che qui si faccia qualche progresso, dal momento che si rinuncia a qualcosa di quella minuziosa* enumerazione dei pecca­ti. Sciocchezze, evidentemente: poiché, se riteniamo che nessuno sia assolto davanti a Dio se non abbia confessato a un prete i suoi pec­cati, a chi mai sarà permesso di diminuire la confessione anche di un nonnulla? Non correremo sempre il pericolo che Dio rimetta in con­to ciò che avremo omesso? La pace della nostra coscienza, senza la quale non c’è salvezza, consiste in questo: nell’essere sicuri della no­stra assoluzione. (p.331)

I moyenneurs so­stengono dunque che il potere di legare e sciogliere27 è stato confe­rito agli apostoli. Aggiungono inoltre che tale potere può essere eser­citato solo se chi lo usa capisce se debba assolvere o condannare. Da ciò concludono che è necessario che i peccati vengano elencati. Do­vrei forse ricominciare a esaminare un’obiezione così puerile che tan­te volte abbiamo già confutato? Quando agli apostoli viene conferi­to il potere di legare e sciogliere, è certo che ciò avviene al fine di esaltare la forza e i frutti dell’evangelo. È infatti della massima im­portanza che noi sappiamo che l’assoluzione dichiarata dalla bocca di un uomo è ratificata davanti a Dio. Ricordiamoci che sono uomi­ni mortali quelli che ci testimoniano che siamo sottratti alla condan­na della morte eterna. Gli angeli stessi non sarebbero adeguati* per testimoniare di una cosa così grande. A che punto saremmo dunque se l’autorità del Figlio di Dio non intervenisse per confermare l’effi­cacia del suo mandato*? D’altra parte l’esecuzione che gli apostoli hanno dato di questo mandato toglie ogni dubbio: essi infatti hanno svolto l’incarico di legare e sciogliere non ascoltando delle confes­sioni, bensì predicando l’evangelo. (p.333)

So bene che persone di questo genere28 si permettono di esigere tutto ciò che a loro pare bene quando si profila qualche vantaggio. Ed è questa la ragione che li spinge a insistere tanto sulla confessione: mirano a mantenere in soggezione la gente in modo da ottenerne l’ub­bidienza*. Ed è per questo che ci dicono che la confessione è utile per diversi aspetti: non c’è dubbio, se guardiamo al loro vantaggio particolare! E tuttavia, dopo che hanno detto tutto, la loro trovata più brillante è che costringono i peccatori ad arrossire di vergogna una volta all’anno29. (p.335)

Ma poiché Dio, punendoci, tende al solo fine di con­durci al ravvedimento, non fa meraviglia che si dica che il peccato­re, correggendosi di sua propria iniziativa, previene la punizione di Dio. Infatti il Padre celeste ci incita con le parole, prima di colpirci con la mano. Se vede in noi una conversione volontaria, ha ottenuto ciò che voleva: cessa così lo scopo della nostra punizione. In breve, come le punizioni con cui Dio castiga i fedeli riguardano il tempo a venire, così colui che desidera evitarle non deve badare a cancellare la propria mancanza passata per mezzo di qualche compensazione, ma esercitandosi al massimo nell’umiltà e nel vero ravvedimento, de­ve punire se stesso per non sperimentare la punizione di Dio. Dico perciò che chiunque vuole che Dio lo perdoni, non deve perdonarsi da sé, né essere indulgente con se stesso: chiunque vuole essere in­nalzato da Dio, umili se stesso32. Ma tutto ciò non è in vista di una reciproca compensazione*. (p.339)

2. Il culto

Ma anche qualora questo punto ci fosse lasciato per intero, e cioè che l’uomo è giustificato per sola fede, costoro non ci lasciano co­munque nient’altro: quale posto pensano debba avere il culto da ren­dere a Dio? […]

Se qualcuno replica che la parte principale del culto consiste nella fede e negli esercizi ad essa pertinenti, sono d’accordo. Resta il fatto, ciò nondimeno, che di­scutere su come gli uomini possano essere salvati senza porsi il pro­blema di come Dio debba essere debitamente onorato, è un modo di ragionare del tutto a rovescio.

A questo va aggiunto che il culto è una materia che richiede una trattazione a parte*, della quale due punti vanno soprattutto notati. Bisogna considerare indiscusso in primo luogo il fatto che il culto da rendere a Dio è spirituale, affinché non lo si faccia consistere in ce­rimonie o in altre opere esteriori; e in secondo luogo, che la sua re­gola è questa: il culto non è composto legittimamente se non da ciò che è in accordo con la volontà di colui al quale è reso. Questi due punti sono più che necessari, dal momento che, in quanto terreni e carnali, noi concepiamo sempre Dio a partire dalla nostra immagi­nazione. Da questo deriva il fatto che i riti appariscenti, che non so­no nulla davanti a Dio, ci piacciono più della verità interiore del cuo­re, la sola che Dio approvi e domandi. Ancor più, noi vediamo quale sia l’arroganza della nostra immaginazione che dimostra la sua sfre­natezza proprio qui, dove non era lecito osare alcunché. Gli uomini infatti si permettono di inventare forme di culto a Dio l’una dopo l’al­tra, purchessia. Né si tratta di un vizio di questo secolo soltanto. (p.343)

Lo stesso dicasi a proposito della verginità. Ognuno, io dico, de­ve considerare ciò che gli è dato, di modo che nessuno, volendo aste­nersi dal matrimonio pur essendo in difficoltà per la propria intem­peranza, si trovi a lottare con Dio. D’altra parte, colui che ha il do­no della castità non deve vantarsi del suo celibato, come se questo modo di vivere fosse più perfetto di altri. E va notato che la vergi­nità è lodata, non come se fosse in sé una virtù, ma soltanto quando è riferita a questo fine: che sciolti da ogni distrazione*, ci dedichia­mo a servire Dio con maggiore libertà e mettendo in ciò ogni nostro sforzo. (p.347)

  1. LA CHIESA

a) La successione apostolica

Ben altra è oggi la questione con cui ci confrontiamo. Neghiamo infatti che siano stati successori degli apostoli coloro che si sono allontanati dalla loro fede e dal loro insegnamento.(p.353)

b)L’autorità della chiesa

Venendo all’autorità della chiesa, per quanto fumo i moyenneurs gettino negli occhi degli inesperti, essi vanno sempre a finire là dove l’arbitrio degli uomini prende il posto della parola di Dio. È noto il triplice ritornello: che è in potere della chiesa distinguere le vere Scrit­ture dalle false; che la stessa possiede l’autorità dell’interpretazione; che la sua tradizione ha la forza delle profezie. Gettate queste fonda- menta, è chiaro che la sovranità, strappata a Dio, viene trasferita ai bastoni degli àuguri e alle sacre bende40. La chiesa, secondo loro, è costituita soltanto dalla schiera, qualunque essa sia, di coloro che so­no insigniti del titolo episcopale. (pp.355-357)

La terza parte della potestà ecclesiastica consiste per i moyenneurs nella facoltà di stabilire tanto dogmi quanto leggi*. E chiamano la prima di queste categorie tradizioni, affermando che chiunque le con­testi nega che la chiesa sia il fondamento della verità. Con questo in­ganno vengono irretite le povere anime affinché assolutamente nes­suno osi respingere una superstizione il cui uso si sia affermato da lungo tempo. (p.361)

Non minore è la necessità di correggere il secondo male. I tiran­ni* chiamano spirituali le leggi che fanno valere nel nome della chie­sa, che sono cioè destinate a governare le coscienze. Da qui deriva, come un’appendice del male, quella superstizione che ho ricordato: la pretesa che l’osservanza di quelle leggi serva al culto di Dio.

c) Il papato

L’affermazione che il pontefice romano è posto alla testa di tutta la chiesa è già intollerabile in sé ed è da rifiutare in modo tanto più risoluto in quanto pretendono che si tratti di una prerogativa conces­sa a Pietro: Cristo comanda a Pietro di pascere le sue pecore (Giov. 21,16). (p.365)

Secondo costoro Pietro dovette governare tutta la chiesa, poiché a lui era stato detto: «pasci le mie pecore». Ora, se egli scrive a buon diritto agli altri di fare lo stesso: o trasferisce loro il diritto che gli era stato affidato, o parteci­pa ad esso alla pari con quelli. […]

Ha la­sciato ai suoi successori, affermano, lo stesso diritto che aveva rice­vuto. Di conseguenza bisogna che chiunque è successore di Pietro sia Satana: poiché di tale titolo è stato insignito53. Ma dove mai viene fatto un accenno qualsiasi alla successione? Paolo, che parla diffusa- mente del governo della chiesa non costituisce né un solo uomo co­me capo, né un primato ereditario. Eppure in quel punto è tutto in­tento a raccomandare l’unità. Dopo aver infatti ricordato che c’è un solo Padre, un solo Cristo, un solo Spirito, un solo corpo della chie­sa, una sola fede, un solo battesimo, descrive il modo per conserva­re l’unità: poiché a ciascuno dei pastori è data la grazia nella misura in cui hanno ricevuto doni da Cristo (Ef. 4,4 ss.). (p.367)

Al di là di questo, ammettiamo che fosse stabilita nella persona di Pietro la perpetuità del primato nella chiesa. Perché tuttavia la sede del primato sarebbe stata collocata a Roma piuttosto che altrove? Per­ché quella, sostengono, è stata la sede di Pietro.[…]

Quando scrive alla chiesa di Roma, Paolo no­mina molti individui particolari*. Tre anni dopo è portato a Roma in catene e Luca racconta che fu accolto dai fratelli54. Di nuovo, nessu­na menzione di Pietro. Dal carcere Paolo scrisse diverse lettere. Men­ziona i nomi di persone anche poco importanti: ma Pietro non trova alcun posto tra di loro.[…]

Ma pure, per non allontanarci dalla questione che stiamo trattan­do: se Roma ottiene il primato, essendo stata l’ultima sede di Pietro, perché Antiochia non ebbe almeno il secondo posto tra i patriarcati?(p.369)

Ma se uno solo primeggia, replicano quelli, e tutti sono costretti a ubbidirgli, questo è un utile rimedio per evitare i dissidi. Lascino dunque questo alla libera discussione della chiesa, e non fingano che quanto va considerato come utile sia prescritto dalla parola di Dio. (p.371)

Ma come oseranno i moyenneurs chiamare vicario di Cristo colui che, avendo distrutto la sua verità, spento la luce dell’evangelo, annienta­ta la salvezza degli uomini, corrotto e profanato il culto di Dio, get­tato sotto i piedi e fatto a pezzi i suoi santi ordinamenti, disperso l’or­dine della chiesa, si comporta come un despota di stile barbarico62? Cosa ha di simile a Cristo il papa, vi chiedo, perché possa fame le ve­ci e rappresentarne la persona? Cosa ha in comune la sua tirannia con il ministero di Pietro, perché ne sia considerato il successore? (p.373)

4. I SACRAMENTI

Quanto ai sacramenti, questi bravi e buoni pacificatori mettono avanti questa regola: che il numero di sette, che fu introdotto sconsi­deratamente dall’audacia degli uomini ignoranti e si insinuò nella chiesa per la stolta credulità del mondo, sia considerato quasi come sacro. Devo avvertire subito i miei lettori di notare la grandezza e il peso della questione che trattiamo. È Cristo che ha istituito i sacra­menti affinché siano per noi non solo simboli della vera religione che distinguono i figli di Dio dai pagani, ma anche segni, e perfino pegni, della grazia di Dio nei nostii confronti64. Nel battesimo ci è offerta sia la remissione dei peccati, sia lo spirito della rigenerazione. Nella santa cena siamo invitati ad avere comunione con la vita e con tutti i beni di Cristo. Quale equilibrio vi sarà mai se a queste cose si me­scolano le invenzioni umane? Costoro pretendono che di ogni cosa65 sia Dio l’autore. Ma di questo tratterò in seguito. (p.375)

a) Il battesimo

I figli dei fedeli nascono santi per il fatto che, quando ancora sono nel seno materno e non hanno anco­ra attinto lo spirito vitale, sono tuttavia associati al patto della vita eterna. E se sono associati alla chiesa attraverso il battesimo, è solo per il fatto che appartenevano già al corpo di Cristo prima che fosse­ro dati alla luce. Infatti profana il battesimo chi vi ammette degli estra­nei. Perciò dunque, coloro che affermano che il battesimo è necessa­rio al punto che siano esclusi dalla speranza della salvezza coloro che non siano stati cosparsi della sua acqua, da un lato offendono Dio, dall’altro si contraddicono in modo assurdo. A chi infatti sarebbe le­cito di imprimere il marchio di Cristo su coloro che allo stesso Cristo sono estranei68? È quindi necessario che il battesimo sia prece­duto dalla grazia dell’adozione, la quale non è causa di una mezza salvezza, bensì ci reca l’intera salvezza che è successivamente ratifi­cata69 dal battesimo. (pp.377-379)

Cristo ci ha affidato il semplice sim­bolo dell’acqua. Di quello si accontentarono, come si conviene, gli apostoli. Non altrettanta sobrietà è invalsa successivamente. Ci si è compiaciuti infatti dell’olio, del cero e di simili bazzecole. Di più, co­me sempre succede, si è insinuata una rovinosa superstizione, come se l’unzione aggiunta dagli uomini valesse di più dell’acqua consa­crata dalla bocca di Cristo. Si pensò di dover consacrare l’acqua stes­sa con la novità di un rito fastoso*, quasi che altrimenti fosse impu­ra. (p.381)

b)La santa cena

Trattando della cena, rinnovano l’invenzione della transustanziazione. (p.383)

Cristo dice che offrendo il pane e il vino ci dà il suo corpo e il suo sangue: noi que­sto lo riceviamo totalmente. E in verità non dubitiamo che la fede si basa sulla sua promessa, la quale certo non può sussistere senza che la cosa promessa ci sia donata.(p.387)

La proprietà della cena di Cristo è infatti di attirarci in cielo, men­tre non appena nel nostro animo si insedia questa convinzione, che il pane viene convertito nel corpo di Cristo, la nostra mente, che avreb­be dovuto elevarsi fino al cielo, viene piegata in basso verso la terra. (p.389)

c) La confermazione

Per spacciare la confermazione come sacramento, i moyenneurs fingono che non differisca in nulla dall’imposizione delle mani che, come riferisce Luca, era in uso presso gli apostoli. Se ciò è vero, co­me dimostreranno di aver ricevuto il permesso di estendere a tutti, in modo indiscriminato, ciò che era destinato soltanto a certe persone? Da quanto leggiamo, infatti, gli apostoli non imponevano le mani a tutti, ma usavano questo simbolo soltanto per distribuire i doni dello Spirito santo. E neppure costoro affermano che questi fossero comu­ni a tutti. Ecco dunque una prima differenza: i nuovi moyenneurs pro­pongono in modo perfettamente uguale per tutti un sacramento del quale gli apostoli hanno giudicato degni soltanto alcuni. Di più, quando ammettono che l’unzione è stata aggiunta, mentre gli apostoli usa­vano la sola imposizione delle mani, chi pensano di convincere che agli uomini sia permesso di offrire la grazia dello Spirito configurandola a proprio piacimento? Dopo aver fissato in sette il numero dei sacramenti, affermano che ciascuno di essi produce in noi ciò che raffigura. Perciò, se agli uomini fu permesso di far nascere un sacramento senza parola di Dio, vuol dire che ebbero in loro potere ciò che Dio riserba a sé sol­tanto*. Oltre a ciò, la definizione stessa di sacramento ripugna. Non mi si negherà infatti che il fine del sacramento è di essere per noi come un sigillo per confermare nelle nostre anime le promesse di Dio. Qual fi­ne ha dunque l’uso del sacramento, se non conferma alcuna promes­sa? E di promesse, non una ne troveranno che possano adattare alla lo­ro confermazione. (pp.399-401)

d) La penitenza

Abbiamo già trattato in parte del sacramento della penitenza di­scutendo della confessione. A questo punto aggiungerò solo che co­stituisce una grave offesa a Dio il fatto che sia dato il nome di sacra­mento all’assoluzione, la cui necessità è inventata dai moyenneurs. Tralascio il fatto che in tal modo, quando si afferma la necessità di confessare i peccati per ottenerne la remissione, si getta addosso al­le coscienze un laccio funesto. Questo è già stato detto altrove. Ma affermo che quando pretendono che la riconciliazione dell’uomo con Dio sia suggellata dalla cerimonia dell’assoluzione, la loro arrogan­za diventa eccessiva. (p.409)

L’estrema unzione

Quanto all’unzione che gli apostoli usarono per guarire gli am­malati, nel medesimo tempo confessiamo che è stata un sacramento e neghiamo che ci riguardi. Essa infatti, in ragione della grazia a cui serviva, ha avuto una validità temporanea. Tutti sanno che quello del­la guarigione non è stato un dono perpetuo. È stato infatti uno di quei doni con i quali Dio ha voluto mettere in luce la predicazione dell’e- vangelo finché esso avesse acquistato autorità nel mondo. Le storie antiche attestano infatti che non molto tempo dopo questo dono è sta­to tolto. Sarebbe superfluo dare spazio a testimonianze per provare una cosa del tutto nota e perfino ammessa dai moyenneurs. Cosa vo­gliono dunque costoro? Se pretendono che il dono che gli apostoli contrassegnavano con il simbolo dell’olio sia durato al di là dell’e­poca apostolica dovranno rispondere di un’impudenza oltremodo ver­gognosa. […]

Ora invece non vengono unti se non coloro che stanno per morire, tanto che manca poco che considerino l’unzione sconsacrata se qualcuno guarisce dalla malattia. (p.411)

f) L’ordine

Non contesto che sia chiamata sacramento l’imposizione delle ma­ni mediante la quale i ministri sono consacrati alla loro funzione96. Ma non ritengo sia ragionevole riferire questa qualifica di sacramen­to, che fin qui è stata ricevuta nel papato e che piace ai moyenneurs, a ciò che chiamano i sette ordini97. Del resto, ritengo anche inconsi­stente ciò che affermano riguardo al sacerdozio: che cioè il suo ono­re e potere sono conferiti a tutti quelli che sono ordinati dai vescovi.(p.413)

Per quanto sia meglio rin­viare la trattazione di questo argomento alla sua sede propria98, è fa­cile tuttavia abbattere con una sola parola il sacerdozio che si inven­tano. Infatti, con che diritto i vescovi, senza avere alcun mandato da parte di Dio, invocano lo Spirito santo su coloro che incaricano di of­frire sacrifici? Affermo che l’intero sacerdozio nell’ambito papale non si fonda su una vocazione divina*. Perché mai dovrei dunque confe­rire la dignità del nome di sacramento alla cerimonia per mezzo del­la quale sono ordinati? Oltre a ciò, poiché gli ingannevoli moyenneurs cercano di insinuare di nuovo tra di noi la tesi della successione per­petua, è necessario tornare a opporsi alla loro astuzia: infatti voglio­no che siano considerati legittimi presbiteri tutti coloro che sono crea­ti tali dai vescovi cornuti ed escludono dal ministero tutti coloro che non siano stati ordinati per mano di quelli.[…]

Ora, se il diritto sacerdotale, di cui si gloriano, è fondato sulla suc­cessione perpetua a partire dagli apostoli, se ne esamini per prima co­sa l’origine. Tra le loro cerimonie, la principale è quella che ho det­to. Ora io nego che gli apostoli ne siano gli autori. Il loro sacerdozio cessa quindi dall’origine, o per meglio dire, è ben distante dall’ori­gine che vantano. (p.415)

Chiedo solo se debba essere considerato vescovo legittimo, successore degli apostoli, chi sia stato imposto con la forza, o intro­dotto per simonia, o sia pervenuto all’episcopato in qualche modo il­lecito*. (p.421)

È come se qualcuno, avendo sgozzato un uomo e occupato la sua casa, si vantasse di esserne il vicario. Il papato è molto più distante dal mo­do di governare che gli apostoli ci hanno consegnato di quanto una tirannia, sommamente spietata e crudele, è lontana da uno Stato li­bero e ben ordinato*. Chi mai sopporterebbe un tiranno che si glori del nome di un console o di un altro magistrato a cui lo abbia strap­pato*? Non è minore l’impudenza di costoro, i quali dopo aver rovi­nato il santo governo della chiesa ordinato da Cristo e messo in pra­tica dagli apostoli, mettono avanti la successione apostolica come pre­testo per la loro tirannia. […]

Per concludere con una parola questo argomento, affermo che non c’è successione di qualcosa di cui non esiste l’origine. Affermo al­tresì che non è mai proceduta dagli apostoli quella funzione sacrifi­cale che essi considerano l’elemento centrale del loro sacerdozio. Di conseguenza, cerchino altri autori per l’origine del loro ordine. (p.425)

Se costoro non capiscono ancora che è inesistente l’oggetto della loro vanteria, domando loro dove hanno letto che fino alla fine del mondo i vescovi debbano suc­cedere gli uni agli altri in una serie continua. (p.429)

g)Il matrimonio

L’ultimo sacramento è per loro il matrimonio: e ciò, essi dicono, a motivo della grazia di Cristo che non gli manca mai. (p.433)

uttavia viene aggiunta un’altra ragione più verosimile: il matrimonio viene comparato alla comunione santa e spirituale che Cristo117 ha con la chiesa. Come se Cristo stesso non fosse parago­nato a un pastore, a un agnello, a un leone, al sole, a una roccia; e Dio a un principe guerriero118, a una tempesta, a un fuoco ardente. Avre­mo, dunque, tanti sacramenti quante sono le similitudini nelle Scrit­ture? (p.435)

LA MESSA

a) L’offerta sacrificale

Riconoscono che quello di Cristo è l’unico sacrificio grazie al qua­le i peccati sono espiati e gli uomini sono riconciliati con Dio. Vo­lesse il cielo che persistessero in tale riconoscimento! Ma poco dopo mostrano che la loro intenzione nel fare questa premessa non è altro che dare un certo colore alla loro messa perché appaia come l’appli­cazione di quell’unico sacrificio. Per quanto però la adomino di in­ganni, non riusciranno mai a impedire che tutti i figli di Dio detesti­no la sua sconcezza spudorata. Ma procediamo con un certo ordine e cominciamo dall’affermazione generale secondo la quale le umilia­zioni del cuore, le afflizioni della carne assunte a motivo della pietà e altre cose di questo genere124, sono sacrifici che applicano l’unico sacrificio di Cristo. Quale sconsideratezza, o dimenticanza, o stupi­dità è mai questa, che trascurino il sacrificio della fede non tenendo conto che in tale applicazione125 ciò che conta particolarmente è que­sto sacrificio e che di esso quelle cose sono parte? Dico troppo poco, poiché infatti è unicamente per fede che percepiamo la potenza del­la morte di Cristo. Le altre cose sono talmente congiunte alla fede che ne sono come delle appendici, ricevendo da essa tutto ciò che pos­siedono. (p.441)

Infatti è specificamente la fe­de soltanto che santifica tutti gli esercizi della pietà. E inoltre, da chi hanno imparato che la grazia che Cristo ci ha acquistato con la sua morte ci è applicata per mezzo di quelle afflizioni della carne che Pao­lo considera utili a poca cosa (I Tim. 4,8)? Sono sostegni, io affermo, che ci conducono per mano a ricercare in Cristo la remissione dei pec­cati; ma sarebbe stolto dedurne che, per mezzo di essi, ci viene ap­plicato il sacrificio di Cristo, quasi che noi conseguissimo la salvez­za con i digiuni o con qualche altra afflizione esteriore della carne. (p.443)

Era certo usuale per i profeti que­sto linguaggio: come sogni e visioni costituivano per loro una cono­scenza di Dio, così consideravano come culto reso a Dio il tempio, l’altare, il fumo dei profumi, e anche i sacrifici. Di qui è nato questo modo di dire, poiché i profeti adattavano la dottrina al loro tempo. Ed è noto che allora il culto reso a Dio era avvolto in tutte quelle ceri­monie. In fin dei conti, poiché modi di dire di quel genere sanno di pedagogia della legge134, noi dobbiamo estrame la verità spirituale che è la sola che ci compete*. Così appare più che evidente quanto sia falso citare Malachia come se profetizzasse la messa, alla quale egli non pensa neppure lontanamente. (p.449)

Infatti la cena deve essere cele­brata allo scopo di farci avere comunione con il sacrificio di Cristo. Ma non accontentandosi di questo, aggiunsero anche l’offerta. Io af­fermo che questa aggiunta è stata dannosa, in parte perché oscura il beneficio che ci è stato donato con la morte di Cristo, in parte perché è estranea alla natura della santa cena. La funzione di Cristo è stata quella di offrirsi a Dio. A noi non resta altro compito se non quello di mangiare.(p.453)

L’insegnamento della Scrittura è sem­plice e per nulla ambiguo: che Cristo, morendo una sola volta, ha of­ferto il sacrificio che era necessario per riconciliare gli uomini a Dio, e che è eterna la potenza del suo sacrificio il cui frutto percepiamo giorno dopo giorno. E affinché ne possiamo godere, è stata istituita dallo stesso Figlio di Dio la santa cena, nella quale egli ci offre come cibo del quale ci nutriamo il suo corpo immolato una sola volta. (p.455)

Ma veniamo a cose più serie. Il sacerdote che celebra la messa af­ferma di offrire in sacrificio il corpo e il sangue del Figlio di Dio. Si tratta di un atto del tutto divino nel quale nessuno si deve intromet­tere, se non ne riceve vocazione da Dio. Infatti, quando l’apostolo di­scute del sacerdozio legittimo (Ebr. 5,4), non riconosce un onore co­sì grande a nessuno se non a colui al quale Dio lo avrà conferito; tan­to che, egli dice, Cristo stesso ha dovuto essere consacrato sacerdo­te in base alla vocazione del Padre. Se dunque colui che esercita il sa­cerdozio senza essere a ciò chiamato da Dio si appropria ingiusta­mente di questo onore al di là del giusto e del lecito, mostrino ora i sacrificatori della messa in base a quale comandamento di Dio osa­no offrire Cristo. Tutta la discussione dell’apostolo nell’epistola agli Ebrei, dall’inizio del capitolo settimo alla fine del decimo, verte su due punti centrali: che Cristo fu il solo idoneo a offrire se stesso; e che ha compiuto un’offerta unica che ha valore perpetuo. Pare loro di aver trovato una graziosissima sottigliezza come scappatoia, quan­do pretendono di offrire oggi lo stesso sacrificio che Cristo offrì una volta, senza introdurne uno nuovo o diverso. Ma poiché la Scrittura attribuisce solo a Cristo la funzione di offrire e testimonia che l’ha esercitata una volta per tutte, quel cavillo interpretativo, per così di­re, non serve loro a nulla. (p.463)

b)Le cerimonie della messa

Insomma, quanto è vergognoso che un commediante abbia cento volte più dignità sulla scena di quanta ne abbia un sacer­dote nel ratificare il patto tra Dio e gli uomini! Senza dubbio si pren­dono una libertà troppo grande nelle cose esteriori pensando che non abbia alcuna importanza, se deformano il mistero celeste della cena con gesticolazioni così indecorose. (p.469)

c)L’invocazione dei santi

c) L’invocazione dei santi

Vengono poi due generi di ricordo dei morti che i moyenneurs vogliono conservare oggi così come furono praticati nel tempo an­tico. [….]

In tal modo fu introdotta la doppia memoria, tanto dei martiri quanto degli altri. Ora non nego che le due superstizioni si siano man­tenute a partire da molti secoli or sono. Ma in campo religioso non ha da valere molto il numero degli anni a fronte dell’unico fonda­mento che è l’eterna verità di Cristo. Vediamo ora la prima. I moyen­neurs vogliono che i nomi dei martiri vengano recitati non solo per onorarli e per ringraziare Dio per la loro fede, ma anche affinché ci gioviamo delle loro preghiere. (p.471)

Dal che si deduce che il solo mo­do legittimo di pregare è quello che ha il suo fondamento nella pa­rola di Dio. Mostrino ora i moyenneurs dove lo Spirito ci insegna a porre davanti a Dio l’intercessione di un profeta, di un apostolo o di un martire. Noi dobbiamo tener sempre fermo questo principio, che non preghiamo rettamente se non seguendo la parola di Dio. Se noi dunque gli presentiamo l’intercessione dei santi, che egli non ha pre­scritto, la nostra preghiera è profana. (p.473)

  1. I meriti dei santi p.477

Vengo ai meriti dei santi ai quali costoro vogliono che si appoggino le nostre preghiere. C’è qui qualcosa che mitiga la loro insolente presunzione*163. E tuttavia non è assolutamente sopportabile ciò che affermano subito dopo, che cioè per la generosità di Dio e la gra­zia di Cristo quei meriti vanno a nostro vantaggio tanto per la nostra protezione, quanto per l’intercessione della grazia. La parola di Dio in nessun luogo attribuisce qualcosa del genere a tali meriti. E vero che Dio fa durare la sua grazia verso gli uomini fino alla millesima generazione, così come ha promesso (Es. 20,6); ma stoltamente i moyenneurs ne deducono che i meriti dei padri si riversano sui figli.(pp.477-479)

Del resto va tenuto sempre fermo il fondamento che ho posto in precedenza e cioè che l’unico modo retto e pio di pregare è quello che è regolato in base a ciò che prescrive la volontà di Dio. Infatti tutta la Scrittura ordina di non pro­porre altro mediatore con Dio se non Cristo soltanto; e insegna a con­tare sull’intercessione o sui meriti di nessun altro, affinché ci pre­sentiamo davanti al tribunale di Dio con una fiducia certa. Del resto riscontriamo che chi si cerca altri patroni o intercessori non si ac­contenta del patrocinio di Cristo. Stiamo quindi ben attenti che, cer­cando molti ingressi, non ci chiudiamo quell’unica porta che apre l’accesso a Dio. (p.479)

Neppure si deve concedere che, co­me pretendono, i morti siano onorati nei giorni di festa affinché ci as­socino ai loro meriti e le loro intercessioni presso Dio ci siano di gio­vamento. […]

Dispongono che in ogni parrocchia si celebri la festa del patrono; e, non contenti di ciò, li chiamano pa­troni speciali ai quali va tributato l’onore in quel dato luogo.[…]

Se anche innalzassero a questo onore solo i profeti e gli apostoli, do­vremmo comunque intervenire con forza affinché non erigano a ido­li i santi ministri di Dio. Ma ora la loro assurdità troppo insulsa arri­va a questa empietà: a qualsiasi patrono assegnano la sua festa. Ci so­no poi molti templi dedicati a Caterina, o a Cristoforo165, o ad altri nomi fittizi*. Così il popolo di quel luogo chiederà a Dio di fargli gra­zia per le preghiere di Caterina o Cristoforo. (p.481)

e) Le preghiere per i morti

La mortificazione

  1. Il divieto di mangiare carne

Quanto all’astinenza nei confronti del mangiar carne, sono con­vinti di correggere molto bene qualcuna delle superstizioni durate fi­no ad ora: ordinano così che l’astinenza sia praticata per motivo di temperanza178, non per abominio della carne. Se tutte le delizie ri­siedessero nel mangiar carne si potrebbe forse concedere ciò che pre­tendono. Ma chi non sa che nelle cucine dei ricchi sono preparati ci­bi molto più succulenti proprio quando ci si astiene dal mangiar car­ne? Per educare alla temperanza i poveri non è certo necessario proi­bire loro la carne, visto che ben raramente si nutrono di lardo o di car­ne di bue. Questa regola è necessaria solo per i ricchi per richiamar­li alla frugalità. Ma, come ho detto, la proibizione della carne non è affatto un freno alla lussuria e alla prodigalità: è allora infatti che più fumano le cucine ed eccedono preparativi privi di ritegno. In breve, i ricchi non sono mai meno moderati che quando si astengono dal mangiar carne. Sono perciò doppiamente ridicoli i moyenneurs che fanno consistere la frugalità nell’astinenza dalla carne, come se al di fuori della carne non ci fossero altri alimenti deliziosi; e fingono che l’astinenza dalla carne sia un sano rimedio per domare la carne179, come se le mense non fossero apparecchiate con piatti più succulen­ti il venerdì che il lunedì. (p.493)

Quattro vizi

Ma poiché non fa parte del progetto attuale la trattazione in det­taglio di questo argomento, sarà sufficiente annotare brevemente quat­tro vizi che sono contenuti in questa proibizione. Il primo oltraggio è inferto a Dio con il semplice vietare, sia pure in certi giorni, di man­giar carne. Dio ha destinato al nostro uso le verdure, i pesci, la frut­ta; ha creato tutte queste cose affinché ce ne cibiamo rendendogli gra­zie. Intendo dire che ce ne ha permesso l’uso libero e indifferenziato purché sobrio e frugale. Ed ecco vengono in seguito degli uomini che ci privano di questa libertà pretendendo che ciò che Dio volle fosse lecito non lo sia. Ricordiamo che tutto il genere ci viene vietato, nel quale sono comprese specie lontane dall’essere appetibili per la go­losità e la lussuria, tanto che non avrebbero altra ragione per dispia­cere se non per il fatto di portare il nome della carne.

In secondo luogo questa distinzione dei giorni non manca di su­perstizione. Coloro che non mangiano per due giorni pensano di ono­rare così la morte e la sepoltura di Cristo. Lo stesso onore tributano ai giorni di festa, dedicati non solo a Dio, ma anche agli apostoli e ai martiri. (p.495)

E a che titolo suole soprattutto essere raccoman­data, se non a imitazione di Cristo? Ma se si tratta di imitarlo, perché ogni anno si ripete il digiuno che Cristo ha compiuto una volta sol­tanto in vita sua? (p.497)

Vengo al terzo vizio che supera gli altri due precedenti. Infatti in questo modo si getta un laccio per legare le coscienze e si strappa loro la libertà che non solo Dio ha concessa, ma che è stata acquistata con il sangue di Cristo. Paolo ci ammonisce gravemente (I Cor. 7,23) a non sottometterci al giogo della servitù rinunciando alla libertà al­la quale siamo chiamati. Essa non è soltanto messa alla prova, ma è del tutto atterrata, quando viene imposta una legge spirituale che le­ga le coscienze. I moyenneurs sostengono una regola per il vivere ci­vile, e cioè che di tanto in tanto è bene che gli uomini siano tenuti lontano dalle carni, affinché mangiandone continuamente non av­venga che consumino tutto il bestiame. (pp.497-499)

Il quarto vizio consiste nella falsa opinione riguardo al culto do­vuto a Dio. […]

E que­sta è la ragione per cui Paolo dice che coloro che introducono una nuova forma di religione ordinando di astenersi da determinati cibi mentono e sbagliano ipocritamente (I Tim. 4,3). (p.499)

7. Il celibato dei preti

E danno questa motivazione: che il matrimonio dei preti è meno gradito perché, come testimonia Pao­lo, chi è celibe ha cura delle cose del Signore in modo migliore e più liberamente (I Cor. 7,32). Capisco bene ciò che dice Paolo. Ma co­stringe forse per questo pastori e ministri della chiesa al celibato? Al contrario afferma che nessuno deve essere incoraggiato se non nella direzione che ciascuno riconosce essergli utile186.1 moyenneurs de­sidererebbero trovare molti chierici che coltivino una vera castità nel celibato. Convengo che questo sia auspicabile. Ma se l’esperienza in­dica altro, a che giova lottare invano contro l’ineluttabile? Riscon­triamo che nel tempo in cui maggiormente fiorì la santità tra i cri­stiani, il matrimonio non era vietato ai ministri della chiesa.[…]

Quando lo stesso Paolo descrive la figura del vero vescovo, per­fetta in tutti i sensi (I Tim. 3,2; Tito 1,6), ed enumera le doti in cui più deve eccellere, non fa alcuna menzione del celibato. E questo è an­cora poco: egli ammonisce espressamente che debbano essere eletti coloro che, limitandosi a una sola moglie, abbiano in onore la fedeltà coniugale in modo irreprensibile, governino onestamente la loro casa, educhino i loro figli nel timore del Signore. (pp.503-504)

Saranno obbligati a riconoscere che la castità è un do- g no singolare e raro e che è dato a pochissime persone. Coloro che non ne sono dotati, se rifiutano il rimedio del matrimonio, si troveranno a lottare con Dio e non ne trarranno alcun vantaggio. Poiché, per quan­to l’intemperanza esterna possa essere frenata, tuttavia la febbre in­terna delle libidini non cesserà di ardere nel cuore. Di qui una mise­revole inquietudine della coscienza che non permetterà all’uomo di intraprendere alcunché con animo tranquillo e, come dice Paolo, nel­la fede. (p.509)

8. Le cerimonie

Per ciò che riguarda le cerimonie, poiché il loro numero è circa infinito, in buona parte pieno di stolte superstizioni, i moyenneurs le vogliono conservare e nello stesso tempo accennano di passata, con una parola, alla loro correzione*. […]

Insegnano che non si deve tributare un culto di adorazione alle croci e ai vessilli. Ma che cosa significa? Che si farà quello che si è fatto finora. Questa è infatti la scappatoia dei papisti, usata come un farmaco per scusare tutti i loro culti perversi: escludere soltanto la pa­rola adorazione. Ma è un cavillo del tutto inconsistente la pretesa di fingere che il culto sia senza culto.(p.511)

  1. CONTRO IL VESCOVO DI AVRANCHES

Di più, per non sembrare di impazzire senza ragione, il Cenalis avverte che ben presto la terra sarà coperta da una moltitudine di abi­tanti, se a mezzo del celibato non viene frenato il moltiplicarsi delle discendenze. Così parla questo dottor sottile, come se non ci fosse al­cuna differenza tra il celibato e la castità. Ora tutti ammettono che per moltiplicare il genere umano nessun seme è più fertile di quello dei preti, poiché la libidine di quasi tutti i monaci e i preti si scatena a tal punto che a buon diritto viene reputato castissimo quello di lo­ro che si accontenta di una sola sgualdrina domestica. Di conseguenza, per evitare che riempiano la terra, non solo dovrà esser loro impedi­to il matrimonio, ma dovranno essere del tutto evirati. (pp.527-529)

CONCLUSIONE p.533

INDICE DEI NOMI p.539

INDICE DEI LUOGHI p.545

INDICE DEI PASSI BIBLICI p.547

INDICE DEGLI ARGOMENTI p.557

INDICE p.563