GIAMPIERO MUGHINI – LA MIA GENERAZIONE. LE IDEE, I PERSONAGGI, I SOGNI DI UNA CASA A TRINITÀ DEI PELLEGRINI

GIAMPIERO MUGHINI – LA MIA GENERAZIONE. LE IDEE, I PERSONAGGI, I SOGNI DI UNA CASA A TRINITÀ DEI PELLEGRINI
GIAMPIERO MUGHINI – LA MIA GENERAZIONE. LE IDEE, I PERSONAGGI, I SOGNI DI UNA CASA A TRINITÀ DEI PELLEGRINI

GIAMPIERO MUGHINI – LA MIA GENERAZIONE. LE IDEE, I PERSONAGGI, I SOGNI DI UNA CASA A TRINITÀ DEI PELLEGRINI

MONDADORI – Collana INGRANDIMENTI – 2002

I – TRE PIANI SOTTO ERA MORTO GOFFREDO MAMELI p. 5

Eravamo miriadi, quei primi anni Settanta, ad affluire nelle grandi città da ogni provincia d’Italia. Gioiosi, spiantati, avevamo nello zaino la forza e l’arroganza dei nostri vent’anni. (p. 5)

Cercavamo amicizie elettrizzate da passioni comuni.[…]

A Roma c’ero arrivato nel gennaio del 1970, con seimila lire in tasca. […]

Dopo aver mendicato ospitalità da amici che talvolta la concedevano volentieri ma più spesso malvolentieri, l’appartamento lo trovammo alla fine di febbraio di quel 1970. dalle parti di Ponte Sisto. Il rettangolo di carta verde avvistato per caso annunciava che un appartamento era disponibile il via della Trinità dei Pellegrini[…]. (p. 6)

L’appartamento offertomi in affitto sovrastava di tre piani lì dove avevano apprestato l’ospedale da campo dov’era morto ventiduenne, il 6 luglio 1849, Goffredo Mameli[…]. (p. 7)

Le centomila lire mensili dell’affitto erano nettamente al di sopra delle forze mie e della studentessa diciannovenne. (p. 8)

Le cose non erano facili in quel febbraio del 1970, né lo sarebbero state per altri tre o quattro anni. […]

Dicevano no i redattori delle case editrici cui chiedevo di poter tradurre qualche librino francese o inglese; dicevano no i giornalisti amici che speravo mi avrebbero aperto le porte della redazione di un eventuale giornale dove non sapevo che cosa avrei potuto fare[…].

Solo che noi avevamo la forza dei vent’anni, quella forza immane che mai credevamo si sarebbe esaurita. E perciò li reggevamo quei tanti no.

Dimenticavo: l’appartamento lo avevamo preso in coabitazione, e dunque la quota di affitto che ricadeva sulle nostre spalle era solo di cinquantamila lire. (p. 9)

Ancora un paio d’anni e se ne andò anche la ex diciannovenne, che aveva smesso di sopravvalutarmi. Nella casa a due piani adesso c’ero io da solo, e per fortuna che sono sempre stato il mio tipo. Volente o nolente, cominciai a frequentare i corsi universitari che hanno per materia la solitudine, una materia da cui impari tanto se quei corsi li frequenti a lungo. Quanto a me, li ho frequentati molto a lungo.

Nell’appartamento di via della Trinità dei Pellegrini ci sono rimasto trent’anni[…].

Sono stati i trent’anni più importanti della mia vita, quelli che mi hanno trasformato da ventenne intrepido in un uomo che non è Napoleone ma che quando si guarda allo specchio non si vergogna di quel che vede. […] e da cui andrò via fra pochi mesi. (p. 10)

II – SALTO MORTALE INDIETRO A CORPO TESO p. 11

Lo sport te lo insegna, a prendere atto che ci sono quelli più forti di te o che agiscono in condizioni migliori, che non devi pensare di essere Napoleone perché poi ti succede d’incontrare uno che Napoleone lo è davvero e ti fa a pezzi.

Però lo sport t’insegna anche un’altra cosa. Che se ti alleni puoi migliorare[…].

Ero venuto a Roma, quel gennaio del 1970, per cercare la pedana elastica nell’ordine delle contese che sarebbero state le mie, le contese delle idee. Volevo scrostarmi di dosso l’handicap di essere nato in meridione, trovarmi nelle condizioni di poter dare il meglio di me stesso, dimostrare coraggio e forza se ne avevo. La casa di via della Trinità dei Pellegrini è stata come la pedana elastica degli anni migliori della mia vita, innanzitutto quelli della vittoria sulla povertà da cui era stata segnata la mia adolescenza. (p. 14)

III – UN TELEFONO A GETTONI, NEL BAR IN PIAZZA p. 15

Tre o quattro mesi dopo che ero arrivato a Roma, qualcuno mi diede il numero di telefono di Vittorio Foa[…].

Ai miei occhi Foa era una specie di monumento a tutto quello che avrei voluto la sinistra fosse. […]

Il fatto è che in quel giorno non ricordo più se dell’aprile o del maggio 1970, a me erano rimaste solo cinquanta lire, di che comperare e usare un solo gettone. (p. 15)

Mi rispose non ricordo chi, Vittorio era lì accanto e me lo passarono subito. Lui fu amicale e generoso. […]

La fortuna fu dalla mia. Vittoria abitava in via del Boschetto, nel quartiere di Roma detto «La Suburra». Venti minuti a piedi da casa mia.

Quando ero arrivato a Roma, quattro o cinque mesi prima della fatidica telefonata, subito il mio patrimonio di seimila lire era scemato. […]

«Giovane critica» l’avevo fondata e diretta a partire dagli ultimi mesi del 1963, un anno o poco più da quando erano nati i «Quaderni piacentini».[…]

Eravamo di una sinistra più libertaria e dada che marxista-leninista. (p. 16)

Già ai tempi del mio arrivo a Roma, […] mi inebriavo di «revisionismo». […]

Pensavo che non andasse dichiarata guerra frontale alla sinistra ufficiale dove militavano milioni di comunisti e milioni di socialisti, ma che dal quel mondo e da quella storia andassero estratti alcuni personaggi, alcuni spunti, alcune possibilità culturali. […]

Arrivai a casa sua un pomeriggio. […]

Eccomi innanzi uno dei miei miti intellettuali. Ne ero commosso e imbarazzato. (p. 17)

L’articolo di Foa avrebbe poi aperto il numero 24 di «Giovane critica», uscito nell’autunno del 1970. […]

Con i Foa diventammo amici d’un fiato, forse l’ultima amicizia della mia vita nata sul terreno della solidarietà politica. […] Un’amicizia per me sacra e che durò a lungo. (p. 19)

Le amicizie che nascono dalla politica, nella politica si consumano e si interrompono.[…]

La volta che Lisa Foa mi disse che non avrei dovuto citare «La Stampa», perché spregevole organo della Fiat, ed era un articolo di Leonardo Sciascia quello pubblicato dal quotidiano torinese e che io avevo utilizzato, lo presi come un insulto da non perdonare. Il cristallo s’era rotto, e non c’è modo di restaurare il cristallo. Silenziosamente, sopravvenne tra noi il silenzio. […]

Molti anni dopo, cinque o sei anni fa, il giornale nel quale lavoro, «Panorama», insistette perché chiamassi Foa e lo intervistassi. (p. 20)

Proprio a me non la concedeva, proprio perché ero io, e perché le cose tra noi erano andate a quel modo, vent’anni prima, e c’era stata quella rottura e quel silenzio reciproco. Ne presi atto, probabilmente aggiunsi che me ne dispiaceva. Tutto tra noi era nato con una telefonata, tutto finì con una telefonata. […]

No, c’era che trent’anni di impegno nella politica e nelle idee della politica erano stati cassati come da un clic. Succede. (p. 21)

IV – UNO SGANGHERATO TELEVISORE IN BIANCO E NERO p. 23

Nell’appartamento di via della Trinità dei Pellegrini, ad avere un televisore erano solo i miei coinquilini e lo tenevano nella parte di casa loro riservata, al piano inferiore. Un televisore in bianco e nero[…]. (p. 23)

La trasmissione in differita del primo tempo di Milan-Juventus era cominciata da qualche minuto.

Ero divenuto juventino a poco più di cinque anni, giocando sul tavolo da pranzo della casa catanese dei miei nonni con le figurine dove erano raffigurati i calciatori di tutte le squadre italiane. Non ricordo assolutamente perché scegliessi di amare e tifare Juve, e sarebbe stata la scelta più felice della mia vita. Non lo ricordo esattamente, ma in qualche modo ci doveva essere di mezzo la figurina che raffigurava Ermes Muccinelli, la guizzante ala desta della Juve del tempo, più ancora di quella che raffigurava Giampiero Boniperti. […]

Muccinelli mi piacque e suscitò in me un meccanismo di identificazione perché era piccolo e minuto, tutt’altro che radioso fisicamente. Esattamente com’ero io e com’era la mia via di allora, tutto fuorché radiosa. Ero figlio di genitori separati a un tempo in cui di coniugi separati in Sicilia non ce n’erano; la casa di piccola borghesia immiserita in cui vivevamo stentava di ogni cosa, e quanto a me ero fisicamente piccolino nonché timidissimo. (p. 24)

Il calcio, la ginnastica artistica, la pallavolo, l’atletica leggera, il tennis da tavolo, i tuffi. Li sport amati e praticati. Il sapore delle palestre e dei campi sportivi, dove vince chi vale di più. La stretta di mano all’atleta che ti ha battuto o che hai battuto. L’amore mio smodato per lo sport, per la contesa leale, per la sfida in cui dai il meglio di te stesso. Il rispetto per l’avversario che hai davanti, ciò che lo sport ti insegna come nessun’altra cosa. (p. 25)

Più tardi la tensione intellettuale dei Sessanta divenne tale da spegnere in noi la passione e la curiosità per i fatti e per gli eroi dello sport.[…]

Smisi di seguire il calcio e lo sport in generale, che era divenuto troppo poco rispetto a quello che avevo in mente e che mi bruciava. Di mezzo c’era stato il Sessantotto, quei due o tre anni in cui feci la navetta con Parigi, dov’ero lettore di italiano in un grande liceo. Anni di tregenda psichica ed emotiva, da cui era sparito lo sport. (p. 26)

Il calcio tornava a occupare un posto di rilievo nella mia immaginazione. Beninteso un posto privato, privatissimo. Un piacere personale, da godere in solitudine. (p. 27)

Perché ai miei occhi il calcio è soprattutto un’arte, un fatto letterario, una metafora della vita e della guerra. (p. 28)

Per tutti gli anni Settanta il calcio mi ha dato gioie ineguagliate da qualsiasi altra cosa della mia vita, gioie juventine innanzitutto. (pp. 29-30)

L’apoteosi della juventinità sarebbero stati i campionati del mondo del 1978, dove su undici nazionali gli juventini erano nove. Fu allora che il mio direttore al «Paese Sera», Aniello Coppola, mi diede da scrivere ogni tanto di calcio sulla prima pagina del giornale. […]

Quei miei articoli sul «Paese Sera» del 1978 furono l’antefatto di una telefonata che squillò al mio apparecchio nel gennaio del 1990, una telefonata che nella mia vita ha avuto l’effetto di un terremoto che tutto abbatte e tutto cambia di un paesaggio. Era un mio antico collega del «Paese Sera», Aldo Biscardi, che mi chiedeva di partecipare a una puntata del suo «Processo del lunedì» su Rai Tre. […]

Accettai di andare perché la cosa mi divertiva, a tutto pensando fuorché di essere pagato per parlare di dribbling e di rigori. E invece mi toccò un inaspettato gettone da cinquecentomila lire. (p. 33)

Dopo quella volta del gennaio del 1990, Biscardi mi chiamò altre volte. […]

Con un effetto a catena, nel senso che la televisione feconda altra televisione, mi chiamarono poi da altre trasmissioni televisive che avevano a oggetto il calcio. Innanzitutto Maurizio Mosca e Marino Bartoletti, l’allora capo dei servizi sportivi da Mediaset. (p. 34)

A uno come Ettore [Rognoni] piaceva l’idea che a discutere di calcio nelle sue trasmissioni fosse uno che ama tanto il calcio quanto i romanzi. È stato lui a convitarmi come ospite fisso a «Controcampo», la trasmissione di Italia 1 condotta da un amico e gentiluomo squisito come Sandro Piccinini. (p. 35)

Ho usato la parola terremoto a dire di questo nuovo segmento del mio lavoro e della mia attività pubblica, ed è una parola tutt’altro che esagerata. È successo difatti che la cosa la più privata dalle mia vita – e stavo per dire la più onanistica, la più sognante, la più irrelata a tutto il resto della mia giornata -, ossia quella mia abitudine di starmene da solo a guardare in Tv una o due partite di calcio alla settimana, è divenuto il tratto più connotante della mia identità pubblica. […]

[…] credono che di mestiere io faccia il giornalista sportivo. […]

Il pubblico popolare (cioè il 97 per cento del pubblico) riconosce solo quello che vede, quello che ha il tempo di vedere in televisione prima di smanettare verso un altro programma, e di tempo in una società moderna non ce n’è molto. (p. 36)

In un Paese che è all’ultimo posto in Europa per percentuale di libri e giornali letti, tre minuti spesi in televisione ti connotano e ti rendono visibile infinitamente più che non l’avere stilato la dozzina di libri che ho all’attivo. (p. 37)

V – UNA STANZA COLLEZIONE p. 38

Per il resto la vita sociale della casa s’è svolta essenzialmente nel soggiorno, che faceva anche da camera da pranzo. Oltretutto è l’unica stanza dove non ci siano libri, quelli che fanno da canovaccio di tute le restanti camere. (p. 41)

Volutamente spoglio di libri, il soggiorno bianco rosso blu funge da emblema dell’idea di una casa collezione de Novecento italiano quale l’ho maturata negli anni.[…]

Avevo cominciato a collezionare almeno dal 1974. Per anni rimasi solo ipnotizzato dallo stile liberty. […]

L’italianità della mia collezione era rivendicata e orgogliosa, polemica contro un sentir comune della nostra cultura spettacolarmente ignaro delle cose nostre. (p. 42)

Una casa collezione diventa una prigione, una bellissima prigione che però non auguro a nessuno. Ci vivi malaccio, perché ogni oggetto ti sbircia con l’aria di dirti che non sie alla sua altezza. […]

Una casa collezione rischia di essere fredda, gelida. L’amore per gli oggetti finisce per impacciare l’attenzione alle persone. (p. 44)

Sto dicendo tutto questo a mio danno e sconforto; sto parlando di una solitudine, che in certi anni e in certi momenti della mia vita di trentenne e quarantenne ha toccato picchi allarmanti. Picchi verso il basso. (pp. 44-45)

VI – ELIO MANGIAVA IN CUCINA p. 59

VII – I MIEI VICINI DI CASA VERSUS LA MACCHINA DA SCRIVERE ROSSA ROSSA p. 71

Maledetto mio fratello Beppe, che me l’aveva regalata. Maledetto Ettore Sottsass, che l’aveva disegnata. Maledetto me che mi era apparsa così bella, così gioiosa da usare, così irresistibili da pigiare quei suoi tasti neri su ciascuno dei quali era impresa in bianco la lettera corrispondente. Su quella macchina da scrivere, tra l’ottobre e il novembre del 1986, avevo scritto, in venti giorni, le 140 paginette di Comagni, addio, il libro che avrebbe sancito la mia morte civile nell’ambiente culturale e generazionale che era stato il mio. Lei, la «Valentina», la macchina da scrivere portatile rossa rossa prodotta dalla Olivetti nel 1969. per vent’anni, dal gennaio 1970 al 1990, quando ho comprato il primo computer, da quella macchina da scrivere ho tratto tutto il pane e companatico della mia vita. […

La «Valentina» è il primo dei cinquanta o sessanta, tra mobili e vasi e oggetti di uso quotidiano disegnati da Sottsass a essere entrati nella mia casa. (p. 72)

La sollecitazione a disegnare una macchina da scrivere più gioiosa ed elettrizzante era venuta a Sottsass da Roberto Olivetti, figlio di Adriano e suo grande amico. […]

In realtà il suo successo commerciale fu molto scarso. Era una macchina da scrivere di cui molti parlavano e che in molti fotografavano, ma che in pochi compravano, tanto che dopo tre anni la ritirarono dalla produzione. Oggi la trovi in tutti i musei d’arte contemporanea e di storia del design. […]

Dei tanti oggetti disegnati e prodotti nei Sessanta, la «Valentina» è uno di quelli di cui restavi prigioniero, nel senso che non ti passava più per la mente di poterti avvalere di un’altra macchina da scrivere. (p. 73)

Finché, nel 1990, ho comprato il primo computer della mia vita. […]

Da quando misi i polpastrelli su un computer, che è come una macchina da scrivere venti volte più possente, non ho mai più toccato la «Valentina». È finita anche lei nello sgabuzzino di casa mia, inutilizzata eppure sacra. (p. 76)

E scrivere Compagni, addio, sette pagine al giorno per venti giorni, fu una mera formalità. Ce l’avevo nel gozzo da dieci anni quello che volevo scrivere. […]

Quell’addio ai compagni della mia generazione era cominciato a maturare almeno quindici anni prima, un giorno di maggio del 1971, quando mi ero dimesso dal quotidiano «Il Manifesto», di cui ero stato uno dei dodici fondatori. […]

Revisionare – correggere ,arricchire, andare oltre, saperne di più, spostare l’angolo dell’osservazione, andare a scovare l’altro e oscuro lato della medaglia, indagare ogni volta le ragioni dei «vinti» – era stato il cuore della mia avventura intellettuale dal mio arrivo a Roma in poi. (p. 77)

Poi c’erano stati di «Mondoperaio», la rivista diretta da Federico Coen che aveva dato un contenuto intellettuale al socialismo craxiano, all’ipotesi di un socialismo anticomunista e modernizzatore[…].

Solo che restava la rivista di un partito, e io una tessera di partito non l’ho mai avuta in vita mia. […]

Mi dimisi anche da «Mondoperaio». Era il 1983.

Poi c’era stata «Pagina», il mensile che Aldo Canale aveva fondato da posizioni liberal socialiste. (p. 78)

Sarebbe stato Montanelli, nella primavera del 1987, a scrivere su «Panorama» un elogio di Compagni, addio che mi commosse. […]

E invece ancora due anni prima della caduta del muro di Berlino, per la grandissima parte dei membri delle tribù della sinistra quelle di Compagni, addio ovvietà non lo erano affatto. Sapevano anzi di bestemmia. (p. 79)

Per i giornali abituali della sinistra, dall’«Unità» alla «Repubblica» al «Manifesto», gi che un libro così esistesse era un sacrilegio. Il silenzio era e sarebbe stata la loro reazione più frequente all’uscita dei miei libri. (p. 81)

L’articolo apparso sul quotidiano che mio nonno leggeva tutti i giorni, e che io gli andavo a comprare quando era malato, mi spiacque e mi offese. Così come mi spiacque e mi offese l’entusiasmo dei miei vicini di casa per quell’articolo. Mi spiaceva quella calunnia a definirmi un «anticomunista» viscerale, perché non lo ero affatto. (p. 82)

Dei comunisti italiani conoscevo le passioni, la generosità e il disinteresse del loro impegno, da dittatura personale. Compagni, addio gridava una lacerazione e un distacco, ma era una lacerazione drammatica e luttuosa. Andavo via da loro, ma non potevo essere contro di loro, né potevo immiserirne l’identità, né volevo offenderli perché in quel modo avrei offeso una parte della mia vita.

C’era stata una lacerazione, ma quel mondo e quella gente erano e restavano il mio mondo e la mia gente. (p. 83)

VIII – UN PINTOR IN ROSSO E BLU p. 85

Conoscevo molto bene Luigi Pintor. Era lui il direttore del «Manifesto» quotidiano quando, nel gennaio del 1971, c’eravamo riuniti in dodici alla presenza di un notaio[…].

Dei dodici soci fondatori, ero l’unico a non essere un militante del gruppo[…]. (p. 88)

Decidemmo in una riunione di redazione l’entità dello stipendio, che sarebbe stato eguale per tutti: centocinquantamila lire al mese, tanto al direttore quanto alla segretaria del giornale. […]

Purtroppo mi ero subito reso conto di una mia incompatibilità e disagio nei confronti del loro progetto. Quel giornale lo avevo pensato come un crocevia e un laboratorio di tutte le esperienze della sinistra vecchia e nuova; loro volevano invece farne lo strumento acuminato e preparatorio di tutte le esperienze della sinistra vecchia e nuova; loro volevano invece farne lo strumento acuminato e preparatorio di una futura organizzazione politico-partitica ben più a sinistra del Pci. (p. 89)

La goccia del mio disagio traboccò la mattina in cui Lucio Magri mi rimproverò perché in un articoletto dove chiedo ai vari intellettuali di sinistra un loro parere sui primi numeri del «Manifesto», avevo incluso un paio di pareri negativi. […]

Mi dimisi il 1° maggio, a quattro giorni dall’uscita del primo numero. A motivare dimissioni che mi lasciavano senza un lavoro né una paga, mandai una lettera a Luigi Pintor, quello che sentivo il più affine di tutto il gruppo storico.

Mi fece chiamare e mi accolse nel suo studio, quello stesso in cui erano entrati i sedicenti generali napoleonici. Non feci nulla per dissuadermi, troppo intelligente per questo, solo mi disse che gli dispiaceva. (p. 90)

Da quel mio congedo dal «Manifesto» del maggio 1971 in poi, e sino all’altro ieri, sarebbe stato un fiorire di punzecchiature reciproche tra me e loro. Se su quelle colonne era scritto il mio nome, immancabilmente era accompagnato da un insulto. Sempre. (p. 91)

IX – L’OLIO, LE ACCIUGHE, LA RAGAZZA D’UN ISTANTE p. 97

X – MAI PIÙ DI SEI IN CAMERA DA PRANZO p. 103

XI – UNA CAMERA PICCOLA PICCOLA CON LA CARTA DA PARATI LIBERTY p. 127

Nei trent’anni che è durata la casa di via della Trinità dei Pellegrini, le mensole ripiene di libri le hanno fatto da armatura coibentante che riparava dal troppo freddo o dal troppo caldo della vita, da carta da parati, da filo conduttore tra una stanza e l’altra. I libri occupano intere le pareti del mio studio e della stanza che funge da biblioteca. Stanno in camera da letto di fronte al letto, ed è la prima cosa che vedi quando ti svegli al mattino; e persino in bagno[…].

Da quei libri, in questi trent’anni, è scaturito quasi tutto della mia vita e in quei libri è racchiusa la buona parte della mia vita, specie su quella mensola della libreria che sta in camera da letto e che per metà è colma di libri che portano la mia firma.

Ci sono libri e libri. Alcuni sono più libri degli altri, e mi sto riferendo alla mia collezione di prime edizioni del Novecento italiano e francese. (p. 141)

XIII – LA PALLINA BIANCA CHE NON C’È PIÙ p. 153

La pallina del tennis da tavolo era stata la regina di tante giornate della mia vita, prima da adolescente catanese e poi ancora negli anni del debutto romano. (p. 154)

XIV – LA SCONSACRAZIONE p. 163

A trent’anni di distanza dal mio arrivo a Roma, era ancora un mese di gennaio, il gennaio del 1999, quando mia madre urinò per terra nella stanza degli ospiti che da sempre l’accoglieva. Quel giorno la casa di via della Trinità dei Pellegrini è come fosse stata sconsacrata. Ho detto mia madre, e avrei dovuto dire quel che restava della mia povera madre. […]

Demenza senile o morbo di Alzheimer che fosse ,al malattia la stava svuotando, la stava devastando. […]

Di vederla ridotta così, ne ero distrutto; non cela facevo a stare di fronte alla sua malattia, alla sua lenta agonia di donna che si stava avviando alla morte.

Nel gennaio del 1999 aveva appena compiuto ottant’anni. Il colpo decisivo glielo aveva inferto la seconda delle crisi depressive da lei sofferte negli ultimi dieci anni della sua vita. (p. 163)

Nei primi giorni di luglio del 2000 la portammo in una casa di ricovero per anziani, dopo i primi giorni, di stupore e forse di curiosità, si rifiutò di continuare a vivere. Rifiutava il cibo. La mattina del 17 luglio, era un lunedì, mi telefonarono dalla casa di ricovero a dirmi che mia madre non ce l’aveva fatta. È stata sepolta nella tomba di famiglia del cimitero di Catania, lì dove riposano i suoi genitori. […]

Per ventidue anni, dal 1978 al luglio 2000, mia madre ha vissuto da sola. (p. 164)

Per quasi trent’anni mia madre era venuta a Roma due o tre volte l’anno. (p. 165)

La casa dove mia madre aveva urinato sul pavimento, e dove non sarebbe tornata mai più, ha smesso in quell’istante di essere la casa della mia vita. Quell’urina che sapeva di morte e che annunciava la morte, l’ha sconsacrata. (p. 167)

INDICE DEI NOMI p. 169