GIAMPIERO MUGHINI – IL GRANDE DISORDINE. I NOSTRI INDIMENTICABILI ANNI SETTANTA

GIAMPIERO MUGHINI – IL GRANDE DISORDINE. I NOSTRI INDIMENTICABILI ANNI SETTANTA
GIAMPIERO MUGHINI – IL GRANDE DISORDINE. I NOSTRI INDIMENTICABILI ANNI SETTANTA

GIAMPIERO MUGHINI – IL GRANDE DISORDINE. I NOSTRI INDIMENTICABILI ANNI SETTANTA

MONDADORI – Collana LE SCIE – I ED 1998

I – UN PAESE SPACCATO E IN GUERRA p. 3

Quella mattina del 17 maggio 1972, Roma sapeva intensamente di primavera. (p. 3)

In quel viottolo romano dalle parti di piazza Navona abitava Adriano Sofri, in una casa senza telefono. […] aveva allora trent’anni e dirigeva «Lotta continua», il quotidiano che portava il nome dell’organizzazione dell’estrema sinistra di cui lui era stato uno dei fonatori alla fine del 1969. (p. 4)

Se fosse vero quel che racconta Marino, la mattina del 17 maggio 1972 non era stata davvero per Sofri una mattina come tutte le altre. Il leader di Lc l’avrebbe invece passata, «in spasmodica attesa», innanzi alle telescriventi della redazione e con accanto Pietrostefani. Nell’attesa di una notizia e di una conferma. La conferma che a Milano era stata portata a termine un’azione che lui aveva ordinato, e che mai prima era stata compiuta da qualcuno dell’estrema sinistra italiana degli anni fra i Sessanta e i Settanta. Andare e uccidere. Andare e uccidere un giovane commissario di polizia milanese, Luigi Calabresi, quello che in tanti reputavano responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, un ferroviere anarchico che era entrato innocente nella questura di via Fatebenefratelli il tardo pomeriggio dle 12 dicembre 1969, e ne era uscito morto tre giorni dopo. Alla mezzanotte del 15 dicembre, dopo essere precipitato dalla stanzuccia del quarto piano dove lo avevano interrogato a lungo e accanitamente. (p. 5)

Detto in altre parole, se Pinelli è precipitato è perché i poliziotti comandati da Calabresi lo hanno buttato giù, forse quando era già morto sotto i colpi. C’è stato un tempo, ha scritto Enzo Tortora all’indomani dell’agguato al commissario, in cui tutti i muri di Milano erano tappezzati di «Calabresi assassino». […]

Sul corpo del povero Pinelli, scrive la sentenza D’Ambrosio, non c’era alcun’altra contusione che non fosse quella provocata dalla caduta. E quanto al commissario Calabresi, quando Pinelli cadde lui era addirittura fuori dalla stanza[…]. (p. 6)

Sì, l’Italia degli anni Settanta è un Paese che s’è spaccato ed è entrato in guerra. Sta cominciando un decennio di lutti e d’orrore. La bomba esplosa il 12 dicembre del 1969 nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, a piazza Fontana, ha provocato molto più che sedici morti innocenti, ha instaurato l’era dell’angoscia e del sospetto. […]

[…] quella bomba l’hanno messa gli anarchici milanesi o i fascisti padovani? (p. 7)

Comincia lì la saga delle bombe di cui non si conosce la paternità, ma di cui si sa che vengono da vicino, la più parte da gruppuscoli disperati e fanatici di «neri» che cercano una rivalsa al 25 aprile del 1945. la bomba di piazza Fontana; e poi quella del 28 maggio 1974, a piazza della Loggia a Brescia, che esplode nel bel mezzo di una manifestazione indetta dal Comitato unitario antifascista, e che toglie la vita a otto persone; e ancora, la bomba da cui viene sfracellata meno di tre mesi dopo, il 4 agosto del 194, la quinta carrozza del treno denominato Italicus, quello che da Roma arriva a Monaco, e il bilancio sarà di 12 morti e 48 feriti; e infine l’esplosione, quale sembra provocata da un’atomica, della sala d’aspetto della stazione di Bologna, quel terribile 2 agosto del 1980. […] Di nuovo, come del tempo che va dal settembre 1943 all’aprile 1945, sono degli italiani che vanno contro altri italiani. (p. 8)

Il giornalista che aveva fatto da motore dell’équipe di giornalisti militanti che avevano raccolto le notizie (spesso false o insussistenti), di cui è nutrito il pamphlet edito dalla Samonà e Savelli, si chiamava Marco Liggini. […]

è lui che Sofri incontra la mattina del 17 maggio 1972, poco prima di arrivare alla redazione di via Dandolo. Ed è lui, Liggini, che gli dà la notizia[…]. Al momento del processo-Sofri, Liggini non poteva testimoniare[…]. Era morto di tumore, qualche anno prima.

La notizia dell’agguato corre dappertutto in Italia, quella tarda mattina del 17 maggio. (p. 9)

[…] la reazione degli extraparlamentari alla notizia dell’assassinio di Calabresi fu duplice: o di entusiasmo, o di invidia per il gruppo che aveva organizzato l’agguato. (p. 10)

E comunque ci vorranno 25 anni, e lo shock provocato dalla condanna definitiva di Sofri e dei suo i compagni, perché un gruppo di 11 militanti di LC del 1972, fra cui Roberto Briglia […] e Guido Viale, riconoscesse che la campagna contro Calabresi contribuì «a creare un clima che ha portato al suo assassinio». (p. 14)

L’episodio cruciale della carriera terroristica di Dura è difatti l’esecuzione a freddo, il 24gennaio del 1979, dell’operaio comunista Guido Rossa[…].

Rossa aveva pedinato e scoperto un altro operaio che introduceva volantini e documenti delle Br nella sua fabbrica. (p. 18)

E, del resto di tutta l’area dell’estremismo di sinistra, quelli di Lc mai erano stati i pi settari e i pi dogmatici. […]

Era il gruppo in cui c’era di tutto mescolati, a tutto, i fricchettoni come i militaristi, gli omosessuali come gli operai legati alla lotta di fabbrica, i custodi della tradizione del movimento operaio e quelli che di questa tradizione se ne sbattevano. (p. 19)

Li ammiravo a tal punto che quando, nell’autunno dl 1971, Adriano Sofri venendo una mattina a casa mia a chiedermi, spiccio e sbrigativo, se accettavo di fare da diretto re responsabile di «Mo’ che il tempo s’avvicina», un settimanale di battaglia politica che Lc stava impiantando a Napoli[…], gli dissi di sì. Direttore responsabile voleva dire offrire la propria firma, beninteso senza nulla avere a che fare con il giornale , di cui ovviamente non condividevo la linea. […]

Ne ho avuti 26 di processi con due o tre condanne lievi, e sempre ho pagato da me le spese processuali che i tribunali mi accollavano. […]

Alla fine del 1976 Lotta continua, un gruppo che stava terremotando le militanti donne che chiedevano tutt’altro modo di fare vivere la politica, s’era sciolto. (p. 20)

Lo dirigeva Enrico Deaglio, assecondato da uno stato maggiore giornalistico di facevano parte Lernere, Marcenaro, Carlo Panella e Paolo Brogi, un pisano che era sto nella Lc degli esordi. (p. 21)

Più tardi, e nel momento il più bestiale del terrorismo di sinistra, il quotidiano «Lotta continua» sarà un giornale in prima linea nella campagna contro la cultura della morte, e questo particolarmente ai tempi del ratto Moro. (p. 22)

Di quel gruppo di talenti e di figure in cui s’è specchiato il meglio di una generazione, resta comunque eccezionale il personaggio Sofri. (p. 25)

Sofri aveva studiato alla Normale di Pisa, e una volta che Palmiro Togliatti era venuto a farvi una conferenza ,alla metà degli anni sessanta, lui prese la parola e senza il benché minimo timore reverenziale andò contro il leggendario segretario del Pci, rimproverandolo che il suo partito non avesse fatto la rivoluzione.[…]

Nel 1968, quando Jan Palach si diede fuoco in piazza Venceslao per protestare contro l’entrata dei carri armati sovietici a Praga, Sofri propose che quelli dell’estrema sinistra pisana andassero in corteo con il braccio listato in nero in segno di lutto. […]

Noma della passione rivoluzionaria, nell’autunno del 1969 Sofri se ne partì verso Tortino, a stare a tempo pieno innanzi ai cancelli delle fabbriche Fiat[…]. (p. 27)

Ma torniamo alla mattina del 17 maggio[…]. Erano circa le 8.30 del mattino[…]. (p. 30)

Passarono una ventina di minuti, e la colf arrivò trafelata, scusandosi del ritardo, che attribuì al fatto che avevano sparato a un commissario di polizia. […]

Se fosse vero quel che racconta Marino[…], l’ordina di andare e uccidere lo aveva dato inizialmente Pietrostefani, quello che a Milano passava come il leader dell’ala «dura» di Lc. (p. 31)

Marino chiede però che il via definitivo gli venga dalla bocca di Sofri, il leader che lui venera al punto da aver chiamato «Adriano» il suo primo figlio. E dunque va a Pisa, il sabato 13 maggio, dove sa che incontrerà Sofri. È il giorno in cui Lc ha organizzato un comizio rosso rosso a celebrare un anarchico ventenne, Franco Serantini[…]. (pp. 31-32)

Il commando incaricato dell’azione è fatto di due uomini, Marino e Bompressi[…]. (p. 32)

È il racconto che prenderanno sul serio e al quale attribuiranno credibilità i giudici della Corte d’Assise di Milano, quelli che nel maggio 1990 emettono la prima sentenza di condanna, una condanna la cui motivazione occuperà ben 750 pagine, ma anche quelli della Corte d’Appello, che un anno dopo ribadiscono la condanna. Ma le sezioni penali riunite della Corte di Cassazione ravvisano nella sentenza gravi vizi logici e metodologici. Il 21 dicembre 1993 la Corte d’Appello di Milano, alla quale il processo è stato rimandato, assolve tutti gli imputati. […]

In seguito al ricorso della Procura generale, la Corte di Cassazione rinvia a una nuova Corte d’Appello, e si ricomincia daccapo. Per la terza volta la parola passa alla Corte d’Appello di Milano, la quale, l’11 novembre 1995, conferma la condanna dei tre principali imputati, prosciogliendo Marino per «avvenuta prescrizione del reato»[…]. (p. 33)

1997 la V sezione penale della corte di Cassazione respinge il ricorso degli imputati e la sentenza diventa definitiva. […]

Che quella mattina a via Cherubini Marino non ci fosse, e che si sia inventato tutto dall’alfa all’omega, è un’ipotesi molto difficile da accettare . E a questo proposito lo stesso Marino usa un buon argomento nel suo libro, La verità di piombo, pubblicato dalle edizioni Ares nel 1992. (p. 34)

Che Marino a via Cherubini ci fosse davvero è una cosa tutt’altro che impensabile in punta di logica e difatti. Che l’ordine di uccidere glielo abbiano dato Sofri e Pietrostefani, e nelle circostanze che lui indica, questa è tutt’altra cosa da provare. E di questo non ci sono conferme sostanziali, a parte la sua parola. (p. 35)

Il comizio pisano di sabato 13 maggio era dunque stato organizzato in onore di Serantini[…]. (p. 37)

Ad assistere al comizio di Lc, dov’era relatore Sofri, Marino arrivò da Torino sulla macchina di Paola Buffo, una militante torinese. Quel giorno c’era anch’io a Pisa, a raccontare quel che stava succedendo per il settimanale cui collaboravo. Ero ospite a casa di Livia e Luciano Della Mea[…]. (p. 38)

A tutta prima, questa faccenda della pioggia che cadeva su Pisa, Marino non la ricordava affatto[…]. Eppure, a documentare il fatto della pioggia, c’è la foto di Sofri che sta parlando protetto da un enorme ombrellone. Piovve a dirotto, quel pomeriggio di sabato, su questo non ci sono dubbi. (p. 39)

Se c’era un gruppo in cui nessuno dava ordini a nessuno, questo era proprio Lc. E dunque, nel caso dell’esecuzione di Calabresi, non c’è stato un ordine dato da questo o da quello, meno che mai un ordine votato a maggioranza dall’esecutivo nazionale[…] perché quell’organismo nel 1972 non aveva la benché minima formalizzazione. Non c’è stato un ordine. (p. 40)

La tesi perfettamente opposta, che mai e poi mai la sinistra extraparlamentare del 1972 avrebbe potuto covare un omicidio politico, ha fondamenta logiche e culturali debolissime. I «chiodi» c’erano, e venivano usati. (p. 41)

A solo prospettargli questa ipotesi, l’ipotesi che lui conosca i nomi di chi ha ucciso e che li taccia, Sofri minaccia la rottura dei rapporti personali con chi ne sia convinto. […]

È un episodio che risale all’autunno del 1979, agli anni migliori del quotidiano «Lotta continua», gli anni in cui si fa più insistita la loro critica e autocritica della cultura della morte. Il punto di partenza ne era stato il «caso Campanile», ossia la morte di un militante di Lc di Reggio Emilia, Alceste Campanile, ucciso il 12 giugno 1975 da ignoti e per ragioni rimaste ignote. (p. 42)

Da quell’indagine sul campo scaturisce un paginone pubblicato su «Lotta continua» nel febbraio del 1979, una piccola bomba. Se non è detto apertamente, lo si fa capire: Campanile è morto ammazzato dai suoi stessi »compagni», da gente che lui riteneva fossero dei «compagni». (p. 43)

In quel periodo e in quel contesto un articolo altrettanto singolare lo scrive su «Lotta continua» Sofri, che a quel tempo s’era staccato fisicamente dalla redazione di via dei Magazzini Generali, e s’era esiliato nella casa di Tavarnuzze. Il motivo centrale del suo lungo articolo è che se lui conoscesse i nomi dei «compagni» che hanno assassinato Campanile, lascerebbe loro il tempo di fuggire all’estero e poi li denuncerebbe. (p. 44)

II – BONNIE AND CLYDE AVEVANO LA CAMICIA NERA p. 47

La donna ferita era la ricercatissima «primula nera» del terrorismo di destra, Francesca Mambro[…]. Era lei l’unica donna dei Nar[…]. Lei e il suo gruppo, quella mattina, avevano tentato una rapina a una banca di piazza Irnerio, a tentare id autofinanziare la loro clandestinità micidiale e demente. […]

Erano entrati in quattro nell’agenzia 2 della Banca Nazionale del Lavoro, e avevano arraffato 90 milioni. Solo che all’uscita avevano trovato già appostata la macchina civetta della polizia, e subito le pallottole avevano preso a saettare. (p. 48)

Francesca Mambro portava all’ascella una Smith & Wesson 59, un’arma che le era molto cara perché appartenuta al suo fidanzato e capo dei Nar, Valerio Fioravanti.[…]

Siamo già negli anni Ottanta, ma la Mabro e Valerio Fioravanti detto «Giusva» sono figli spaccati dei Settanta. (p. 49)

Quando estrassero il corpo sanguinante di Francesca dalla Ritmo bianca, Fioravanti era in carcere già da tredici mesi. Lo avevano arrestato a Padova, il 5 febbraio 1981, anche lui gravemente ferito dopo una sparatoria in cui avevano perso al vita due carabinieri. (p. 50)

Francesca Mambro era nata il 25 aprile del 1959, ancora una volta una data fatale: nasce il giorno in cui l’antifascismo celebra la sua festa e la sua vittoria. […]

Lei in politica aveva debuttato giovanissima, a quattordici anni è già iscritta all’organizzazione giovanile del Msi. (p. 52)

L’uccidere un fascista non è un reato, è il sentire comune dei tantissimi di una generazione, la parola d’ordine che eruttano i cortei della sinistra giovanile mentre percorrono i viali delle grandi città. (p. 55)

[…] il gruppo di Valerio spara almeno trecento colpi nei giorni successivi all’eccidio di via Acca Larenzia[…]. (p. 57)

Sono le 11 di sera del 28 febbraio 1978. All’agguato partecipano in otto, tra cui i due fratelli Fioravanti, Alibrandi, Anselmi, Francesco Bianco. […]

Un ragazzo cade sotto i colpi, si chiama Roberto Scialabba e aveva 24 anni. (p. 59)

Ancora più netta è la responsabilità di Alibrandi, e del fratello maggiore di Fiorevanti, nell’uccisione di Walter Rossi, il ventenne militanti di Lotta continua fulminato da una pallottola alla nuca nel corso di una mischia innanzi a una delle sezioni-simbolo del Msi, quella della Balduina, a viale delle Medaglie d’Oro. Più precisamente la pistola che colpisce Rossi la usano a turno[…].

Era il 30 settembre del 1977, una delle date che hanno cambiato la storia di una generazione. (p. 60)

Dopo quel settembre 1977, dopo la morte di Rossi, nulla sarà più come prima. (p. 61)

E comunque la reazione dei gruppi di sinistra all’uccisione di rossi era stata immediata. Dappertutto, in Italia vanno in fiamme le sezioni del Msi e della sua organizzazione universitaria, il Fuan, ma anche i bar frequentati dai fascisti. (p. 62)

L’assassinio dei due giovani di Acca Larenzia, poco più di tre mesi dopo, avviene probabilmente come effetto dell’onda lunga di questa reazione. […]

Uno scontro di cui i Nar di Fioravanti e Alibrandi vogliono essere la punta aguzza. I Nar, una sigla che s’è inventata proprio la Mambro, quando nei primi mesi del 1978 s’è trattato di scegliere un nome che identificasse il loro gruppo. (p. 63)

Evola e von Salomon, dicevamo. E così come von Salomon non aveva mai aderito al nazismo, Evola non era mai stato iscritto al Partito nazionale fascista, ma questo solo perché lo riteneva troppo soffice e «italiota». Il suo ideale di stile e di organizzazione, e di fermezza ideologica, era il nazismo hitleriano. Razzista la sua parte, anche se di un razzismo né biologico né aggressivo, nel 1938 aveva scritto una compiacente prefazione quella porcata immonda che sono I protocolli di Sion, il falso confezionati della polizia politica zarista e che Giovanni Preziosi aveva preso sul serio. (p. 66)

Uno dei libri di Evola che fanno da cardine del suo pensiero del dopoguerra, Cavalcare la tigre, era stato edito da Vanni Scheiwiller (un editore di sinistra) nel 1961, in una tiratura di 1500 copie che ci aveva messo u decennio ad esaurirsi. (p. 67)

L’edizione del 1971 di Cavalcare la tigre si esaurisce subito, tanto che già che nel 1973 Scheiwiller pubblica una terza edizione, questa volta di 2000 copie, cui seguirà un’ulteriore ristampa nel 1980. (p. 68)

L’«uomo differenziato» di Evola non è certo uno che se ne vada a uccidere un ragazzo che non conosce in una piazza qualsiasi di Roma. E del resto Evola, difeso dall’avvocato Francesco Carnelutti, era stato assolto con formula piena dall’accusa di essere lui il mandante degli attentati compiuti dai Far nei primi anni Cinquanta. […]

L’«uomo differenziato» di Evola è tale perché si eleva spiritualmente e eticamente in quel deserto di valori che è divenuto il mondo contemporaneo; perché si dà una legge «interiore» antitetica al nichilismo tanto dell’Occidente materialista quanto dell’universo marxista; è un cavaliere solitario «invisibile e inafferrabile» che se ne sta a far da guardiano di un mondo tutto suo, un mondo riposto e nascosto[…]. Tutto questo, a leggere per esempio Cavalcare la tigre, è scritto tondo e chiaro. Solo che la lettura che facevano i ventenni di destra degli anni Settanta era certamente più forzata, senza per questo essere arbitraria. Dai libri di Evola traevano un elemento di autocelebrazione orgogliosa, la convinzione di appartenere a una parte eletta, e ne veniva rafforzata la loro avversione totale al mondo che li circondava, il mondo dei «vincitori» dell’aprile 1945. (p. 68)

In un suo saggio che è stato tra i più letti nel mondo della desta, quell’Orientamenti cento volte edito e riedito, descrive la Germania hitleriana come una nazione risorta a «riaffermare il principio di autorità e il primato di quei valori, che nel sangue, nella razza, nelle forze più profonde di una stirpe hanno la loro radice». Tale ipnosi per l’universo morale e organizzativo nazista, Evola la trasmette pari pari a quello che negli anni a cavallo tra i Sessanta i Settanta è il suo allievo intellettualmente più brillante, Adriano Romualdi[…]. (p. 69)

Tornando a Evola, non sono certo suoi allievi quelli della destra che passarono all’azione nei secondi anni Settanta. Ma neppure lo tradiscono in pieno, perché da lui qualcosa hanno preso e ne hanno fatto una casacca. (p. 71)

È il 9 gennaio 1979, sono passate da poco le dieci del mattino. Nella sede di Radio Città Furtura irrompono in tre, mascherati e armati. Solo che tutto potevano immaginarsi, ma non che in quel momento ci fosse una trasmissione tutta di donne, cinque donne ai microfoni. Altro che dire ai microfoni le loro ragioni, i tre terroristi non sanno che fare, a parte lanciare un gruzzolo di molotov. I locali della radio vanno in fiamme, le cinque ragazze fuggono dalle scale. (p. 73)

Per loro quella del 1980 è una primavera di fuoco e di morte. […]

Finché, alle 10,25 del 2 agosto, una bomba fa a brandelli la sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, quella dove funzionava l’aria condizionata. (p. 74)

D’essere accusati di averla messa loro la bomba di Bologna, quelli dei Nar alzano le spalle e si indignano. […]

Loro sono gente tipo gli anarchici della «bande à Bonnot», colpiscono solo individui determinati che sono venuti meno alle leggi dell’onore e della lealtà.[…]

Hanno ucciso il professore palermitano Francesco Mangiameli detto «Ciccio» perché sapeva, per metterlo a tacere. Questa è la tesi dell’accusa.[…]

Il cadavere di Mangiameli venne trovato il pomeriggio dell’11 settembre 1980, 39 giorni dopo l’esplosione alla stazione di Bologna. (p. 75)

[…] Alibrandi muore il 5 dicembre. […]

Pochi mesi dopo, sempre il 5 del mese di marzo, viene catturata Francesca. (p. 77)

III – «LE ARMI VO CANTANDO» p. 83

E dire che come killer, i terroristi degli anni Settanta valevano poco. Sbagliavano la mira, le loro armi si inceppavano. Talvolta sparavano a uno che non c’entrava niente e che loro avevano scambiato per un altro. (p. 83)

Quella per le armi era una libidine tra infantile e ipnotica, e ne venne contagiata larga parte di una generazione. […]

Nelle file dell’estrema sinistra, furono i servizi d’ordine a addestrare all’uso della violenza, a interiorizzarne l’abitudine come la necessità. (p. 85)

[…] i servizi d’ordine faranno da incubazione della violenza quotidiana e diffusa dall’estrema sinistra. (p. 86)

[…] l’idea di passare all’azione violenta divenne una pulsione incontrollabile, un’ebbrezza del fare e del fare a quel modo. (p. 88)

E a proposito di Resistenza, e di armi, e di azioni esemplari nel colpirne uno per educarne cento, un autentico libre de chevet di tanti futuri terroristi era stato Senza tregua, il bel libro di Giovanni Pesce, comandante dei gap comunisti di Milano e di Torino, e medaglia d’oro della Resistenza. […]

«Era il nostro Vangelo» ha detto del libro di Pesce Leonardo Marino, quello che s’è autoconfessato membro del commando che avrebbe ucciso Calabresi. (p. 94)

Una ricetta sul come confezionare la molotov l’aveva pubblicata in copertina, già nel 1965, «La Sinistra», un mensile romano d’estrema sinistra[…] (p. 96)

Furono anni in cui ogni appartamento di studente fuori sede divenne un potenziale laboratorio per«bocce» e ordigni esplosivi vari. (p. 98)

Le bionde ebbero un ruolo di rilievo nella vita di Vincenzo Maggione. A giudicare dalla carta d’identità che aveva addosso, era questo il nome dell’uomo il cui corpo, dilaniato da un esplosivo, era stato trovato spunto ai piedi di un traliccio di Segrate, ai bordi di Milano. Il suo vero nome era un altro, celeberrimo non solo in Italia, quello di Giangiacomo Feltrinelli, «l’editore»[…]. (p. 99)

In Italia, e ancor prima che lo teorizzassero gli uomini della stella a cinque punte, era stato il monopolio dei «feltrinelliani» a bramare il momento in cui premere il grilletto contro gli avversari politici. (p. 102)

Altre volte la carica di morte che i terroristi stavano apprestando gli si rivolse contro e diede loro la morte. Era stato un gruppo di studenti napoletani fra cui alcune belle ragazze, questa volta brune e non bionde, a fondare nel 1970 i Nuclei di azione proletaria, un gruppo terrorista minore che tuttavia si conquisterà la sua parte di ferocia e di morti. (pp. 102-103)

Talvolta il dilettantismo dei terroristi lasciò salve delle vite. (p. 110)

IV – E LE STREGHE FECERO IL SALTO MORTALE p. 114

Non le vedevano nella luce giusta. Si stava difatti compiendo la più riuscita delle insurrezioni degli anni Settanta, l’insurrezione femminile, e sarebbe stata innanzitutto un’insurrezione contro il proprio marito, contro il proprio compagno. (p. 118)

Sono state le streghe che s’erano prese la notte, quel lontano novembre del 1976, a dare il via a tutto quello che è oggi sotto i nostri occhi e che fa la nostra vita così diversa da quel che era ancora trent’anni fa. (p. 129)

Nel conto delle donne che sanno tenere la prima linea non ci metto quelle donne di sinistra che in fatto di liste elettorali dei partiti e di seggi in parlamento, hanno chiesto che una «quota parte» venisse riservata alle donne in quanto sono donne. Quelle nel conto non ce le metto proprio: quelle a me sembrano la caricatura del femminismo. […]

Una documentazione di questi primordi del femminismo è già del 1971, I movimenti femministi in Italia, un libriccino che Rosalba Spagnoletti cura per le edizioni Savelli e che verrà più volte riedito. Tra quei raggruppamenti che fecero da avanguardia un posto a sé ce l’ha il Movimento per la liberazione della donna (Mld), che era federato al Partito radicale e il cui cavallo di battaglia era la legalizzazione e liberalizzazione dell’aborto. Aperto agli uomini quanto alle donne, l’Mld tiene il suo primo congresso nel febbraio del 1971, a Roma. (p. 120)

Avviato da una proposta di legge presentata dal socialista Loris Fortuna nel febbraio 1973, l’iter parlamentare della legge che a certe condizioni, e cioè che l’interruzione avvenisse entro i primi tre mesi della gravidanza, depenalizzava l’aborto, si concluse il 22 maggio 1978, pochi giorni dopo il martirio di Aldo Moro. Una legge che lasciava dubbiose e insoddisfatte la gran parte delle donne, che si ritenevano sottoposte alle vessazioni di un’organizzazione ospedaliera dov’era insistente, da parte di medici cattolici, il rifiuto di praticare l’aborto. (pp. 131-132)

Quel terrore, quello spaesamento innanzi all’ignoto che prenderà le insorte dopo aver abbattuto i criteri e i valori tradizionali della femminilità, li racconta Non credere di avere dei diritti, il libro pubblicato nel 1987 dalla Libreria delle donne di Milano, un libro prezioso. (p. 138)

Il femminismo dunque non risolveva la sofferenza delle donne, talvolta la accentuava. Non era una cuccia, era un sfida; innanzitutto a se stesse. (p. 139)

A pochi anni dai suoi esordi, il femminismo si diede i suoi istituti. Aveva adesso le sue librerie, le sue case editrici, riviste che accoglievano tutto e di tutto purché portasse la firma di donne. (p. 142)

Nel 1975 erano nate a Milano le edizioni La Tartaruga, esclusivamente dedicate alla letteratura femminile. Quasi contemporaneamente sorsero a Roma le Edizioni delle donne[…].

[…] Maddalena, la prima libreria delle donne fu quella di Milano, inaugurata nell’ottobre del 1975[…]. (p. 143)

Di giornalisti maschi che scrivessero di donne negli anni Settanta e Ottanta non ne ricordo, tale doveva essere il terrore di direttori e giornalisti a camminare su quelle mine, il terrore di non appagare il pubblico femminile. (p. 145)

Ciascuno si fosse appostato sul piedistallo della sua «differenza sessuale», ne sarebbe venuto solo dolore e mancanza di comunicazione. E gli anni successivi all’insurrezione femminile furono difatti, per uomini e donne, anni di dolore, di paure reciproche, di insicurezze, il tutto testimoniato da un universo di libri e film. Mai c’erano stati tanti single come in quegli anni, mai i destini a due furono più fragili e vulnerabili, mai c’era stato tanto disordine e frastuono fra le mura domestiche. (p. 149)

V – COM’ERA BELLI GLI ITALOCOMUNISTI p. 152

Gli italocomunisti degli anni Settanta erano bellissimi. Parola di anticomunista. (p. 152)

Bellissimo su tutti era il loro «capitano», il segretario del Pci degli anni Settanta, quel sardo triste che ha dato il suo nome e il suo volto a un’era della storia politica contemporanea. Quell’uomo che cadrà da eroe laico, al termine di un comizio, in una delle piazze più suggestive d’Italia. Enrico Berlinguer era nato a Sassari nel 1922[…]. (p. 153)

Sì, Berlinguer era timido, chiuso, uno che parlava più con gli occhi che con le parole, e che di parole non ne sprecava una in più del necessario neppure quando andava in televisione e mezza Italia gli puntava lo sguardo addosso. Cocciuto più che appariscente, uno che si muoveva senza fare rumore, uno che ci dava sotto e non mollava la presa. Sarà lui, nel marzo del 1972, a prendere in mano il timone di comando del Pci, che eredita da un Luigi Longo fisicamente ma messo da un ictus. (p. 155)

Che il Pci degli anni Settanta fosse un grande apparato, è dire poco. Mai in nessun altro Paese moderno il comunismo aveva avuto una tale schiera di seguaci, gente entusiasta e talvolta di gran qualità. Due milioni gli iscritti, decine di migliaia i funzionari di partito in libro paga, centinaia di deputati e senatori, un mini impero editoriale di quotidiani e settimanali da oltre 600.000 copie a botta, quelle feste dell’«Unità»dove pittori e scrittori importanti facevano a gara ad offrirsi gratuitamente per cucinare le salsicce ai militanti. E mentre votava Pci un italiano su tre, ed erano in mano ai comunisti le amministrazioni delle grandi città, a Torino come a Roma. (p. 156)

È comunista l’editore il cui catalogo ha preso per mano e formato intere generazioni di lettori, Giulio Einaudi. (p. 157)

Sono comunisti o vicini ai comunisti intellettualoidi immenso prestigio come Luchino Visconti, Renato Guttuso, Italo Calvino, Cesare Zavattini, Pier Paolo Pasolini. (p.158)

Esiste cioè un comunismo italiano i cui connotati sono stati resi dolci e duttili dalla eccezionale qualità politica del gruppo dei fondatori, Palmiro Togliatti come Umberto Terraccini come Antonio Gramsci. […]

Ho detto che gli italocomunisti erano bellissimi, a cominciare dal loro «capitano» Berlinguer. (p. 161)

L’eurocomunismo non esiste, l’italocomunismo sì. Esiste cioè un comunismo italiano i cui connotati sono stati resi dolci e duttili dalla eccezionale qualità politica del gruppo dei fondatori, Palmiro Togliatti come Umberto Terraccini e come Antonio Gramsci. […]

Ho detto che gli italocomunisti erano bellissimi, a cominciare dal loro «capitano» Berlinguer. (p. 161)

È tale la forza e l’autorevolezza dell’italocomunismo che chi gli va contro rischia il colpo del ko,

ossia la qualifica di «anticomunista» e peggio se di «anticomunista viscerale». […]

E saranno molti gli intellettuali d’Occidente che nel secondo dopoguerra faranno i salti mortali pur di non vedersi schiaffato in voto quell’aggettivo[…].

E scoraggiare «gli operai della Renault-Billancourt» significava dir male dell’Urss, dare un nome e un cognome ai suoi lager, ai poeti e agli scrittori che Stalin aveva fatto ammazzare; da re una cifra in milioni alle stragi di borghesi e di contadini che vi erano state perpetrate. (p. 164)

Nel giudizio corrente del Pci e dei suoi amici, anticomunisti per eccellenza, i più temuti e i più odiati, sono gli ex comunisti, quelli che sanno bene di che cosa parlano. Ignazio Silone è ovviamente in testa a questa lista, lui che fin dal 1929 aveva intuito di che cosa sarebbe stato capace Stalin e per questo è andato via dal Pci; e non parliamo di Angelo Tasca, uno del gruppo dei fondatori del Pcd’I, il compagno di Gramsci all’«Ordine nuovo»[…]. (p. 165)

[…] una nuova generazione di anticomunisti.[…]

Gli Ernesto Galli della Loggia, i Paolo Flores d’Arcais, i Mario Baccianini, i Pio Marconi, i Massimo Fini, l’Aldo Canale che farà da fondatore e editore di «Pagina». Uno di loroè il professor Luciano Pellicani[…]. (p. 166)

[…] un certo Bettino Craxi, un omone milanese che nessuno conosceva e che formalmente è lui il nuovo segretario. Era il luglio del 1976, anno primo e mese primo dell’era craxiana. Alle elezioni politiche del mese precedente, il Psi era sprofondato al suo minimo storico, in miserrimo 9,6 per cento. […]

Nella prima linea del socialismo italiano era apparsa una figura inedita, un riformista e un anticomunista implacabile. È lui, nello spazio di un anno o poco più, a mettere fuori gioco i suoi due rivali. (p. 169)

Era la contrapposizione tra «Craxi il delittuoso» e «Berlinguer il castigante», tra un Craxi che spregiava alcuni tabù della tradizione della sinistra e un Berlinguer che si ergeva a paladino della «questione morale», ed è una contrapposizione che si chiuderà politicamente con una vittoria sonante di Craxi. […]

Mai due uomini politici che pure dovrebbero essere contigui sono stati più opposti e contrapposti. (p. 174)

Berlinguer è un uomo dal carisma interiore, Craxi è fisicamente massiccio e incombente. Berlinguer, si solito così misurato, va dicendo in giro che Craxi rappresenta «un pericolo per la dmeocrazia».[…]

Mai due uomini erano stati più lontani, più diversi in ogni gesto della loro vita. Berlinguer è pudico, tutto casa e partito, predica l’«autorità» in termini che risentono dell’influenza esercitata su di lui dal cattocomunista Franco Rodano, quello che nella sua bella villa all’Appia tene in mostra i ritratti di Robespierre e di Stalin. A Craxi invece piace il denaro e quelli che hanno saputo farlo, da Silvio Berlusconi a Salvatore Ligresti; la sua filosofia della vita e della politica somiglia a quella id Nikolaj Bucharin[…].

A differenza di Berlinguer, Craxi considera il partito uno strumento e non una casa; e difatti i suoi amici personali se li cerca fuori dalla vita di partito, la cantante Caterina Caselli o la giornalista Ludovica Ripa di Meana. (p. 175)

A differenza della Dc, il Psi è la proprietà personale di un uomo. (p. 177)

Da animale politico istintivo e di razza Craxi se ne accorge subito, che la Dc ne ha bisogno del pane cotto nel forno socialista, ché altrimenti deve pagare a dismisura quello cotto nel forno comunista. (p. 178)

La meta di Craxi diventa quella di trarre il massimo di rendimento dal suo 10 per cento o poco più (all’apice del craxismo il Psi toccherà un modesto 14 per cento). Farlo pesare il più possibile, insomma disturbare al massimo il feeling sentimentale tra la Dc di Giulio Andreotti e Ciriaco De Mita e il Pci di Berlinguer. (p. 179)

VI – MOMENTI DI GLORIA p. 183

Ci sono stati film e donne e libri e partite di calcio e lutti che hanno lasciato un segno nei Settanta, nei modi in cui noi abbiamo vissuto quel decennio. […]

Momenti, ragazze, libri, oggetti che da allora in poi avrebbero arredato per sempre la nostra memoria; e nei quali è come impresso a fuoco il massimo di fantasia e di avventura di un decennio. […]

Andarono a morire per questioni di stile

[…]Il mucchio selvaggio, il film che il regista americano Sam Peckinpah aveva girato nel 1969, a metà della sua carriera di regista[…]. (p. 184)

I quattro che stanno andado con il fucile in pugno non credono a nulla. (p. 186)

Quella foto di mio padre fascista

E quella foto di un uomo che aveva indosso le stimmate del fascismo, e che era stato il padre di uno così palesemente di sinistra.

Mio padre era stato fascista e forse anche squadrista in una delle zone più roventi d’Italia, al confine tra l’Emilia Romagna e la Toscana. […]

Papà era nato a poche decine di metri dalla casa di famiglia di Dino Campana[…]. (p. 188)

Quando i re si prendevano a pugni

[…] l’incontro per la corona mondiale dei massimi che il 30 ottobre del 1974 avrebbe opposto Cassius Clay a George Foreman. A fare autopropaganda a sé e al suo regime, era stato il maresciallo Mobutu, il dittatore dello Zaire, l’ex Congo belga, a organizzare l’incontro a Kinshasa. (p. 190)

Sì, era avvenimento degno del secolo e che lo rappresentava. Era lo scontro tra due fenomeni della boxe, entrambi neri ma l’uomo quanto di più diverso dall’altro. Erano due re quelli che si sarebbero presi a pugni. Al tempo dell’incontro, Clay aveva 32 anni. […]

Foreman aveva 26 anni, era marmoreo e terrificante. (p. 191)

Le previsioni di tutti erano che Foreman avrebbe distrutto in pochi round il traballante Clay. […]

Lo scontro del 1974 era dunque lo scontro tra due personalità. […]

Il ruolo di rappresentante dei neri Clay se lo autoattribuisce, e guai a chi glielo tocca. (p. 192)

All’ottavo round Clay si sottrae a Foreman, lo aggira, gli molla un primo colpo, poi una seconda e terza mazzata. Foreman barcolla e capitombola: è ko. Ci metterà due anni a uscire dalla depressione provocatagli da quella sconfitta. (p. 193)

Più che belli, erano divini. Persero.

I giocatori che facevano parte della nazionale olandese che nel luglio del 1974 affrontò la Germania occidentale nella finale del Campionato del mondo di calcio, più che belli erano divini.[…]

Giovano un calcio totale e avvolgente, a quei tempi del tutto inedito. Tutti e dieci i giocatori andavano avanti e indietro[…]. (p. 193)

Uno dei giocatori più brutti al mondo da vedere era Gerd Mueller, la punta della nazionale tedesca. […] Fu lui a mettere dentro la palla del 2-1 per la Germania. (p. 196)

«Cazzo. Cazzo cazzo cazzo»

È l’incipit di Porci con le ali, il romanzo che la casa editrice Savelli pubblicò nel luglio 1976. la prima edizione era di 1500 copie. (p. 198)

Alla sinistra la più sussiegosa e ideologizzante, il libro non piacque affatto. (p. 201)

La nazionale italiana del 1978 era un dream team, una squadra. (p. 204)

Quella macchina da scrivere color rosso fuoco

[…] una «Valentina» color rosso fuoco, la macchina da scrivere che Ettore Sottsass aveva disegnato per la Olivetti. […]

ebbe un successo più di prestigio che di vendite, e che dopo tre anni la misero fuori produzione perché non ne valeva più la pena.

Tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta, erano stati anni di eccezionale creatività per il design italiano. (p. 206)

Anni Settanta, addio

Catastrofico era il pegno avvelenato, l’eredità che i Settanta lasciavano alla società italiana. (p. 208)

VII – CHE GRAN DADA, A BOLOGNA E DINTORNI p. 211

Ci sono ormai più analogie tra il testo di un cantautore e Céline, tra una discussione in un’assemblea di emarginati e un dramma di Beckett che non tra Beckett e Céline…(p. 214)

I personaggi di spicco della tribù romana erano quattro o cinque. A dare le imbeccate era Maurizio Gabbianelli, nome d’arte «Fanale», cui faceva da alter ego Pablo Echaurren, nome d’arte «Paino». Era Gabbianelli quello che scriveva i discorsi e i manifesti più incendiari. […]

Gandalf il Viola era il nome d’arte di Olivier Turquet[…]. C’era nel gruppo anche Massimo Terracini, figlio di Umerto[…], e Carlo Infante[…]. (p. 217)

Per un tempo gli indiani metropolitani romani ebbero una loro casa, a via dell’Orso 88. (p. 218)

Quanto a «Fanale» e «Paino», nel marzo del 1977 erano entrati a far parte del collettivo redazionale del quotidiano «Lotta continua»[…]. (p. 219)

La commistione con la violenza di ogni idea di ogni comportamento, sarà inesausta per tutti i Settanta e sino all’omicidio di Aldo Moro l’idea che la violenza forzi la realtà in senso positivo, nel senso di fecondarne possibilità nascoste, nel senso di preludere a gioie e libertà ulteriori. Nella cultura della sinistra che la più sofisticata, sono rarissimi quelli che erigono una barriera di principio contro la violenza e la sua libidine; contro chi ha fatto un metodo e una filosofia dell’uso della violenza in politica. (p. 222)

Il 9 febbraio 1976 è una data importante nella storia della controcultura giovanile degli anni Settanta. È il giorno in cui un’emittente radiofonica bolognese, Radio Alice, avvia le sue trasmissioni. […]

Torna, e sarà anzi esaltata da tutta la stagione eroica di Radio Alice, la commistione tra gusto del linguaggio d’avanguardia e ammiccamento all’uso della violenza in politica. […]

Una stagione che si chiuderà il12 marzo del 1977, all’indomani della morte di Francesco Lorusso, uno studente bolognese ucciso da un carabiniere durante una manifestazione. (p. 224)

L’ascensione vertiginosa dei costi di stampa rendeva meno costoso l’impiantare un’emittente radiofonica, e mentre si stava rompendo il monopolio Rai dell’informazione radiofonica e televisiva. È del 26 luglio 1976 la sentenza della Corte Costituzionale che lo abolisce.

Le prime radio private di chiamarono «radio libere», a tal punto vi era prevalente il fine politico e di una comunicazione politica. Nel 1978 le emittenti radiofoniche private in Italia erano già 2275; proporzionalmente alla popolazione e all’estensione del territorio più numerose che in America, dove pure il fenomeno aveva alle spalle alcuni decenni. Pochi strumenti hanno contribuito quanto le radio private a cambiare i tempi e le caratteristiche della comunicazione massmediatica. Di tutte le radio private degli anni Settanta, Radio Alice resta celebre e speciale. (p. 226)

Capitale culturale per antonomasia, Bologna lo sarà negli anni Settanta. (p. 229)

«lavorare tutti lavorare pochissimo». (p. 232)

Per la letteratura italiana, i Settanta furono anni di esiti modesti fa clamore il Vogliamo tutto (1971) di Nanni Balestrini, ma è clamore più che valore. Macerato dalla lunghissima gestazione e straziante d’ambizione letteraria, l’Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo non valse le attese. In tanti esaltarono La Storia (1974) di Elsa Morante, in molti la spregiarono. E se un Giorgio Manganelli cominciava ad affermare la sua sigla e il suo talento, abbagliante è la purezza di una gemma estratta da dai cassetti del poeta triestino Umberto Saba, quell’Ernesto (1975) che pure era rimasto incompiuto e a lungo tralasciato.

Non erano anni di centralità della letteratura. A trovare una data che fa storia nella nostra vicenda culturale del tempo, la dobbiamo cercare altrove. Ad esempio la data che fa dal 26 maggio all’11 settembre 1972, i mesi che dura la mostra che il Museum of Modern Art di New York aveva organizzato a trionfo e ad apoteosi del design italiano. Italy: The New Domestic Landscape è il titolo di quell’apoteosi e del bellissimo catalogo che la documenta[…]. (pp. 232-233)

Tra anni Sessanta e Settanta, scrive il curatore della mostra, Emilio Ambasz, il design italiano ha reinventato il paesaggio domestico e sìè offerto come modello ai designer e agli architetti di tutto il mondo. Consacrata da uno dei musei pi autorevoli del mondo, la creatività italiana trionfava. (p. 233)

Beninteso, i designer e gli architetti italiani esposti a New York trasudavano anch’essi di passione politica di sinistra. Se Bologna era stata la capitale del fumetto e della musica, Firenze sarà la capitale dell’architettura la più radicale, di quelli che volevano costruire case e disegnare oggetti in modo da accelerare la morte del capitalismo. Il gruppo Archizoom animato da Andrea Branzi e Paolo Deganello[…] fece per un tempo da capintesta di questa tendenza, cui non fu minimamente estraneo il Sottsass dei primi anni Settanta. A New York quelli del Gruppo Strum distribuirono dei fascicoli sotto forma di «fotoromanzi» che raccontavano le lotte dei proletari per avere una casa. (pp. 233-234)

«La Repubblica», «Il Giornale nuovo», il «Male». Questi tre giornali nati negli anni settanta furono, ciascuno a suo modo, tre eventi importanti nella storia della nostra cultura e del nostro giornalismo.

I primi due, questa la loro novità essenziale, furono ben presto molto più che due giornali. Divennero due giornali-partito nei quali si riconoscevano e si esaltavano le due metà del cielo ideologico italiano. Da una parte, dalla parte del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, la sinistra chic e liberale[…]; dall’altra la zona moderata e anticomunista del Paese, quelli che si impaurivano in quei sabati milanesi durante i quali una fumana contestataria s’avventava sulla città[…] non fosse stato per il quotidiano che fonderà e dirigerà Indro Montanelli. (p. 235)

[…] il primo numero del «Giornale» apparve il 25 giugno del 1974. […]

Montanelli aveva abbandonato il gran quotidiano lombardo, di cui era stato la stella per 35 ani, nell’ottobre dell’anno precedente. […]

Il più «solista» dei giornalisti italiani s’era dato per compito quello di fare il conduttore d’orchestra. […]

Rarissimamente durante gli anni della direzione Montanelli «il Giornale nuovo» superò le 200.000 copie vendute. […] era un giornale-partito, e il suo direttore aveva l’autorità e il prestigio di un segretario di partito[…]. (p. 236)

Il suo era un vero e proprio potere di ipnosi esercitato, oltre che con gli editoriali, con quei brevissimi corsivi di prima pagina, i «Controcorrente». […]

Arcisicuro di questo suo potere di ipnosi, a un certo punto Montanelli sbatté la porta di casa Berlusconi, il giovane imprenditore milanese che a un certo punto aveva comprato il quotidiano, salvandolo da sicura morte, e che per anni non aveva messo becco. Quando Berlusconi entrò n politica, traal fine del 1993 e l’inizio del 1994, e fece capire a Montanelli che ne avrebbe gradito l’appoggio, Montanelli sentì la sua autonomia di direttore in pericolo e se ne andò a fare di nuovo un suo giornale, sicuro che il suo pubblico lo avrebbe seguito, come sempre aveva fatto per vent’anni. […] «La Voce» fu un disastro giornalistico e editoriale. […]

Il «Corriere» da cui Montanelli – e con lui una squadra eccellente di «corrieristi» – s’era congedato alla fine del 1973, era un quotidiano che dal 1972, l’anno del’avvento di Ottone, s’era allontanato dal solco della sua tradizione, di giornale stemma della borghesia milanese tranquilla e sicura di sé. (p. 237)

Tra le firme prestigiose del «Corriere», Bettiza fu uno di quelli che seguì Montanelli nell’avventura del «Giornale nuovo», e con lui Zappulli, Guido Piovene, Antonio Spinosa. Così com’erano prestigiose le firme che diede l’impronta alla terza pagina del «Giornale», da Rosario Romeo a François Fito, da Renzo De Felice a Mario Praz, il grande anglista solitario e introverso che andava nella redazione di piazza Torre in Pietra e ci restava seduto a lungo, a rimirare la bionda segretaria di redazione, che gli piaceva molto. […]

Erano gli anni in cui dové entrare in campo con tutto il suo peso Giorgio Amendola, a placare l’ignobile linciaggio contro quel De Felice che aveva avviato una fondamentale rilettura del ventennio fascista. (p. 239)

Montanelli era maledetto e stramaledetto dalla sinistra, escluso da qualsiasi salotto, il suo nome impronunciabile. Finché un giorno una pattuglia di terroristi milanesi gli andò incontro e gli sparò alle gambe[…]. (pp. 239-240)

E poi, nel rapporto con i giornalisti che lo aiutavano a fare il suo giornale, era un padre che divorava i suoi figli. Attorno a sé aveva via via creato il deserto, a cominciare dalla rottura con Bettiza, o da quella con Guido Paglia, vigoroso capo della redazione romana, o con centro altri. I rapporti con lui duravano una stagione, e poi morivano per sempre. È stato così anche con Roberto Gervaso, con il quale aveva scritto a quattro mani non so quanti libri, e che un giorno uscì per sempre dalla sua vita e dai suoi interessi. Nel suo immaginario, e per tutti i sessanta e passa anni della sua avventura professionale, gli unici suoi veri interlocutori sono stati Leo Longanesi e Giuseppe Prezzolini; il resto di quanti gli sono stati attorno è per lui di nessun rilievo, fantasmi la cui immagine subito svaniva. L’unico suo dio è stato la Lettera 22, la macchina da scrivere disegnata da Marcello Nizzoli, uno strumento che lui sa far suonare come fosse un violino. L’unico suo dio, lui che è un laico. […]

Da laico, Scalfari era diverso da Montanelli. […]

Scalfari è stato grandissimo innanzitutto come direttore d’orchestra. (p. 241)

È stato il primo direttore-manger nella storia del giornalismo italiano, tanto da meritare d’essere divenuto il giornalista più ricco d’Italia e forse del mondo.[…]

C’ero anch’io alla sede della Stampa estera, seduto in seconda fila dietro Mario Formenton, quella mattina di gennaio del 1976 in cui Scalfari presentò il quotidiano che lui aveva creato e che stava per andare in edicola. […]

Nelle poche battute di presentazione, disse che «la Repubblica» sarebbe stata una voce che proveniva dalla casa socialista, la casa che fino a quel momento era stata la sua. […]

Il mestiere di giornalista, il mestiere di raccontare in modo che il lettore non si annoi e ti molli, lo aveva imparato all’«Espresso» da Arrigo Benedetti[…]. (p. 242)

In prima pagina sarebbe andata la vignetta di Giorgio Forattini[…]. (p. 243)

Tre anni dopo, il successo della «Repubblica» aveva annichilito «Paese Sera», cui aveva sottratto e ruolo giornalistico e pubblico. Dopo un inizio stentatissimo (60-70.000 copie vendute, alla soglia del disastro), il quotidiano di Scalfari aveva cominciato ad scendere vertiginosamente. (p. 244)

Finché un giorno, a Castiglio Fibocchi, venne trovato l’elenco degli iscritti a una loggia massonica, la loggia P2 che faceva capo a un affarista toscano di cui molto si sussurrava e poco si sapeva, Licio Gelli. In quella lista c’era tutto lo stato maggiore della Rizzoli, la casa editrice proprietaria del «Corriere». C’era l’azionista di maggioranza, Angelo Rizzoli jr. l’amministratore delegato, Bruno Tassan Din, i direttori di tutti i principali giornali del gruppo.[…]

La Rizzoli, indebitatissima, dipendeva per la sua vita dai crediti erogati dal Banco Ambrosiano retto da Roberto Calvi. Calvi era legato a filo doppio a Gelli, e dunque membro anche lui della P2. (p. 245)

La Rizzoli venne mutilata e avvilita da questa buriana. Angelo Rizzoli jr, ci rimise pressoché per intero il suo patrimonio di famiglia, e subì anche l’umiliazione di alcuni mesi di carcere. […]

Molti giornalisti famosi abbandonarono un «Corriere» in crisi verticale di delegittimazione[…].

La testa di Di Bella cadde; e così quella di altri giornalisti di cui non si comprendeva quali peccati avessero commesso in punto di deontologia professionale, e perché dovessero essere come cancellati dalla professione: accadde a Di Bella, ad Alberto Sensini, a Roberto Gervaso, a Roberto Ciuni[…] a Massimo Donelli. […]

C’era anche Maurizio Costanzo in quella lista, e andò una volta in tv a dire quanto ne fosse dolorosamente pentito. (p. 246)

La Rizzoli ne cade in ginocchio, e così il «Corriere», la cui direzione era passata nelle mani di Alberto Cavallari, un candidato gradito al Pci e al comitato di redazione. […]

Forte di quell’olocausto, il quotidiano di Scalfari prese il sopravvento, un sopravvento che sarebbe durato per tutti gli anni Ottanta. Finché il bastone di comando di via Solferino non passò nelle mani di Paolo Mieli, uno che aveva studiato giornalismo accanto a Scalfari e che la sapeva lunga. E che restituì al «Corriere» quel che era del «Corriere».

Terzo in ordine di nascita tra i giornali che hanno dato la loro impronta al decennio, il «Male» venne inventato in un appartamentino romano a via dei Banchi Vecchi. (p. 247)Come supplemento satirico di «Lotta continua» era nato «l’avventurista»[…]. Nel corso del 1978 «l’avventurista» si fuse col «Male». […]

A «Cannibale» collaboravano Andrea Pazienza e Filippo Scozzari, quelli che diverranno i grandi protagonisti del fumetto di qualità tra gli anni Settanta e Ottanta. (p. 250)

Dopo il 1980 il «Male» comincia lentamente a declinare, diventa la routine di se stesso. (p. 252)

Nasce anch’esso negli ani Settanta il personaggio della pornostar[…]. (p. 253)

VIII – GLI INTELLETTUALI E IL CASO MORO p. 254

[…] quando si trovava già sul traghetto che andava Villa San Giovanni, ed era il pomeriggio del 9 maggio 1978, Leonardo Sciascia seppe che Aldo Moro era stato ucciso dalle Brigate rosse. (p. 256)

[…] avrebbe voluto scrivere di Moro e della sua lunga agonia. […]

Il dattiloscritto da cui l’editore Sellerio avrebbe tratto L’affaire Moro, pubblicato poi in ottobre, portava la data finale del 24 agosto 1978. (p. 257)

Cinquantacinque giorni. Gli ultimi della sua vita. Durante i quali Moro aveva visto solo due persone, il brigatista che faceva da carceriere, Prospero Gallinari, e quello che lo interrogava, Moretti. (p. 258)

Pagare o non pagare un prezzo per la vita di Aldo Moro? (p. 259)

Se la formula «Né con lo stato né con le Br» ha mai avuto un senso e un contenuto intellettuale, certamente era quello che si desumeva dall’articolo di Moravia. (p. 263)

La separazione polemica dai comunisti sedimenta in Sciascia e diventa risentimento. (p. 276)

Ai tempi del ratto Moro, l’impaccio e le contraddizioni della politica comunista toccarono il loro apice. LA tesi da cui mai il Pci si smosse d’un centimetro nei 55 giorni, e cioè che lo Stato doveva essere «fermo» nel non trattare in alcun modo con quei brigatisti che aveva in pugno la vita di Moro, sapeva di granito e non di politica. (pp. 276-277)

Immobilizzati dall’orrore di questa simiglianza, e dunque dalla possibile accusa di essere un partito ammiccante ai brigatisti, continuarono a dire no, no e no. Due soli comunisti emeriti, Umberto Terracini e Lucio Lombardo-Radice[…], si espressero pubblicamente a favore della trattativa. (p. 277)

Lo Stato era rimasto «fermo», ma nessuno aveva vinto; né la politica, né la pietà. Né è vero che a politica della «fermezza» accelerò la sconfitta del partito armato. […]

La morte di Moro chiudeva gli anni Settanta, questo sì. (p. 278)

[…] tentare una «trattativa» ove fosse stata possibile, Craxi ne ebbe l’investitura a leader di una terza sinistra, una sinistra diversissima dalle due che fino a quel momento avevano dominato il campo, quella comunista e quella rabbiosamente extraparlamentare. Era un sinistra libertaria, garantista, filoccidentale, convinta delle superiorità del «mercato», implacabile nel denunciare ogni atto e ogni anno della storia del «comunismo reale». […]

Era nata per caso nel 1974, quando il ruolo di direttore del moribondo mensile socialista «Mondoperaio» era toccato a un funzionario del senato seguace di Antonio Giolitti e del suo socialismo dal volto moderno. (p. 279)

Da quel tramestio di uomini e di vocazioni nacque più tardi «Reporter», un quotidiano che ebbe vita breve ma vivacissima, e nella quale debuttò un corsivario di una lussuosa intelligenza, il poco più che trentenne Giuliano Ferrara, uno che nel frattempo aveva rumorosamente abbandonato il Pci. (p. 280)

Nuove fogge, nuovi eroi, nuovi protagonisti, nuovi imbecilli s’avanzano a far festa. Una festa che sarebbe durata sino a quel 17 febbraio del 1992, quando un socialista milanese sino a quel momento poco rinomato, Mario Chiesa, venne colto in flagrante. Aveva in mano sette milioni che non erano frutto del suo lavoro o del suo ingegno, ma di un’estorsione compiuta nella sua veste di politico. Era cominciata Tangentopoli. (p. 281)

IX – IL TERZO DOPOGUERRA p. 282

Quando la violenza e la ferocia dei Settanta s’erano finalmente spente, come un terzo dopoguerra. Le armi tacevano, la vita tornava a far valere i suoi diritti. L’Italia voleva tornare a ridere, a far tardi la sera, a godersi l’insostenibile leggerezza dell’essere. (p. 286)

Un nuovo ordine, che era quello dei piaceri individuali e del gusto di assaporare la vita in ogni sa sfumatura, s’era instaurato e voleva durare. […]

Ci mettemmo tutti a vivere paurosamente al di sopra dei nostri mezzi. Debiti, debiti, debiti. (p. 287)

Cominciò una nuova guerra, una guerra che molti di noi hanno disertato. Troppo diversa da quelle cui eravamo abituati e di cui avevamo pensato che ne valesse la pena. Questa guerra, la chiamarono Seconda repubblica. (p. 288)

DIECI ANNI p. 291

NOTE p. 301

REFERENZE FOTOGRAFICHE p. 320

INDICE DEI NOMI p. 321