GIAMPIERO MUGHINI – DIZIONARIO SENTIMENTALE. DEMONI MITI AMORI RICORDI RABBIE DI UNA GENERAZIONE DAL 1960 A OGGI

GIAMPIERO MUGHINI – DIZIONARIO SENTIMENTALE. DEMONI MITI AMORI RICORDI RABBIE DI UNA GENERAZIONE DAL 1960 A OGGI
GIAMPIERO MUGHINI – DIZIONARIO SENTIMENTALE. DEMONI MITI AMORI RICORDI RABBIE DI UNA GENERAZIONE DAL 1960 A OGGI

GIAMPIERO MUGHINI – DIZIONARIO SENTIMENTALE. DEMONI MITI AMORI RICORDI RABBIE DI UNA GENERAZIONE DAL 1960 A OGGI

RIZZOLI – 1992

ADÈLE H. p. 7

… la protagonista del film di François Truffaut, interpretata da Isabelle Adjani… (p. 7)

L’anno del film era il 1975, un anno in cui da poco s’erano spente le ossessioni assolute dei nostri vent’anni, quegli amori totali per un’idea o per una politica o per un libro-vangelo che quasi ci avevano fatto andar di matto negli interminabili Sessanta. (pp. 7-8)

Era di nuovo la primazia di dei sentimenti individuali, il sorriso e il dolore, la pena e la paura, la memoria e la rabbia, quei sentimenti che scavano e devastano e fanno di te quel che sei davvero, non quel che sbandieri a una tribuna o a un corteo dove tutte le voci sono arrochite e falsate. (p. 8)

ALBERTO p. 13

… l’amico non più ritrovato…

L’avevo conosciuto alla metà circa dei Sessanta, quando ogni cosa sul creato sussultava e stava cambiando forma. […]

Palmiro Togliatti era appena morto, mentre stava facendo una vacanza in Urss[…]. (p. 13)

Studenti universitari voraci di ogni libro, avevamo impiantato un circolo politico-culturale nella città siciliana in cui sono nato, Catania. Lo avevamo intestato al nome leggendario di Giaime Pintor[…]. (p. 15)

Al circolo Pintor c’era, in più, un tavolo da ping-pong, o meglio tennis tavolo come d’ora in poi lo chiamerò, perché così merita. (p. 16)

Una sera ospitammo il terzetto che costituiva l’apice del tennis tavolo catanese, una squadra che militava in serie B.[…]

Se lui giocava d’attacco, io ero invece un difensore, secondo uno schema che è stato di tutto il tennis tavolo mondiale sino a una ventina d’anni fa. (p. 17)

Aveva insomma niente a che vedere con il nostro estremismo di sinistra. (p. 18)

In quella prima metà dei Settanta, al tempo in cui mi ero congedato di brusco dagli amici dei Sessanta, la gran parte ancora abbarbicata ai dogmi politici della nostra giovinezza, lui era l’unico che continuassi a vedere. Tutti gli altri amici dei vent’anni erano stati smarriti. (p. 20)

Era l’amico che riassumeva ai miei occhi tanto i Sessanta, di cui ci eravamo entrambi nutriti, seppure ciascuno selezionandone a suo modo il bene e il male, quanto i Settanta, ai quali reagivamo allo stesso modo. (pp. 20-21)

Finché qualcosa si spezzò in quel suo meccanismo psicologico che pure sembrava così sodo, qualcosa arruffò l’armonia dei suoi comportamenti. […]

Andò via di casa, lontano da quei mobili che aveva comprato e amato, e gliene restò un trauma. Si aggirava, tra il suo ufficio e casa mia, come belva ferita. […]

Una sera tarda, ché evidentemente non ne poteva più, suonò al mio citofono. (p. 21)

Gli dissi che non me la sentivo di fare combutta quella sera, lo rimandai a un altro e vicino incontro.

Se la prese a morte. Lo interpretò come un tradimento[…]. (pp. 21-22)

Io, reso ottuso dall’insonnia, per la mia goffaggine nel comprendere a gran velocità […] che lui laggiù al citofono, aveva bisogno di parole e di compagnia; lui, laggiù al citofono, perché non poteva capire il mio panico dinanzi alla mancanza di sonno, il tallone d’Achille della mia vita, quando tutto il carbone che ho dentro irrompe alla superficie e raccontarmi quanto faccio schifo.

L’ho poi visto solo n paio di volte, distratto e assente. (p. 22)

ALGERIA p. 23

… la guerra d’Algeria, 1958-1962, quella di prima del Vietnam e dunque il vero punto di partenza politico-intellettuale della mia generazione…

Présence de Jean Bastien-Thiry era stato pubblicato nel 1966, alle Editions du Fuseau.[…] era stato il capo del commando Oas che aveva attentato alla vita di Charles De Gaulle, al Petit Clamart. […]

Bastien-Thiry venne fucilato all’alba dell’11 marzo 1963, mentre una leggera pioggia cadeva su Parigi. (p. 26)

Sapevo nulla di Bastien-Thiryne, 1985, quando avevo comprato la plaquette. Nei primi anni Sessanta, ai tempi della guerra d’Algeria e dei micidiali attentati dell’Oas, ero stato con tutte le mie forze dall’altra parte. […]

Molto prima dei cortei contro la guerra degli americani in Vietnam, la causa dell’indipendenza algerina aveva fatto da baricentro della formazione morale della nostra generazione. […]

Ai nostri occhi di quando avevamo vent’anni, quelli che stavano per l’Algeria francese erano solo dei fascisti, dei mostri sadici, dei torturatori ignobili. (p. 27)

Il libriccino conteneva il testo dell’autodifesa pronunciata da Bastien-thiry in tribunale e le testimonianze postume di alcuni suoi amici o o sodali[…].

Bastien-Thiry non aveva nulla del fascista o del mostro sadico. (p. 28)

Oggi come ieri sono contro le idee di Bastien-Thiry, e ritengo che gli algerini avessero sacrosanto diritto alla loro indipendenza; che la Francia non potesse non accettare quella dolorosissima amputazione. (pp. 28-29)

E comunque, nel caso dell’Oas, il fascismo non c’entrava nulla. La buona parte dei combattenti e dei dirigenti i più strenui dell’Oas aveva difatti un passato da eroici combattenti di prima fila durante la Resistenza. (p. 29)

Quando i soldati francesi s’erano accampati a Dien-Bien-Phu, nel novembre del 1953, nemmeno un istante lo Stato maggiore francese aveva pensato che il campo potesse essere circondato e costretto alla pura difensiva[…]. (p. 30)

E quando, il 13 marzo 1954, i Vietminh attaccano dopo oltre quattro mesi di assedio, è subito chiaro che il campo è una trappola mortale. […]

È una guerra senza odio, ma accanitissima. Ufficiali francesi e ufficiali vietminh parlano la stessa lingua, molti di questi ultimi hanno studiato nelle università francesi. (p. 32)

Nelle trincee di Dien-Bien-Phu, che le piogge stanno trasformando in una melma di fango, combattono paracadutisti francesi, fucilieri algerini, legionari tedeschi, mercenari italiani e spagnoli, vietnamiti anticomunisti. (pp. 32-33)

Nella notte tra il 6 e il 7 maggio, all’ora in cui a Parigi i gentiluomini e le dame escono dai teatri più sofisticati d’Europa, i Vietminh sferrano l’ultimo attacco. (p. 33)

[…] penseranno d’essere dei «soldati perduti», i derelitti «centurioni» di una Roma sazia e che non si curava di loro.

Nasce nelle trincee di Dien-Bien-Phu il risentimento e la rabbia anti-Parigi di cui si alimenterà l’Oas al momento caldo della guerra d’Algeria, cinque o sei anni dopo. Ufficiali che erano stati in prima linea contro i nazi e che erano stati valorosissimi in Indocina, diventano acesi partigiani dell’«Algeria francese». (p. 34)

Di oltre 36mila soldati francesi caduti in mano ai Vietminh dopo il 1946, ne torneranno in Francia appena 10.754, e di questi 61 morranno in ospedale poco dopo. Degli oltre 11mila combattenti di Dien-BienPhu sopravvissuti alla fine della battaglia e caduti prigionieri dei Vietming, oltre 7mila morirono durante la marcia di avvicinamento ai campi di prigionia o nei primi tre mesi di detenzione, i più atroci.

Sono le 16 e 45 del 7 maggio 1954, e la seduta alla Camera s’è appena avviata quando, vestito di nero, la voce che gli si spezza dalla commozione, il capo del governo francese, Joseph Laniel, dà l’annuncio che il campi di Dien-Bien-Phu è caduto. Mentre una donna deputato scoppia a piangere a dirotto, tutti i parlamentari si alzano in piedi, in segno di lutto. Tutti, fuorché i comunisti. Loro che erano stati pronti a scappellarsi dinanzi ai nazi alleati dei russi, non vollero scappellarsi dinanzi al sacrificio dei soldati francesi che s’erano battuti per la bandiera del loro paese.

In Le manifest du camp n 1[…] l’ex prigioniero Jean Pouget ha raccontato nei particolari l’orrore dei campi vietminh, le sopraffazioni subite dagli ufficiali e dai soldati francesi[…]. (pp. 34-35)

La guerra pulita non esiste. Ci trovi il riflesso della natura umana, il bene e il male che coabitano. […]

I paracadutisti francesi vinsero la battaglia d’Algeri. L’ultimo terrorista algerino a cadere fu Ali La Pointe, nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 1957, un episodio raccontato da Gillo Pontecorvo nel suo La battaglia d’Algeri. […]

Sconfitto nella battaglia d’Algeri, il Fln stava però vincendo la guerra. (p. 42)

ANGELI p. 44

… angeli del ciclostile… (p. 44)

Dappertutto giornaliste col microfono, mentre esplodono le bombe, quelle settimana di gennaio e febbraio del 1991. […]

Le donne in prima linea, in ogni campo della vita. Le donne-giornaliste, le donne-magistrato, le donne-soldato, le donne-poliziotto dai cui berretti divampano cascate di capelli. (p. 45)

L’espressione «angeli del ciclostile» nacque nel giuoco del Sessantotto e dintorni, pure la prima volta che le donne partecipavano in massa alle cose degli uomini. […]

Lo gridarono sempre più forte, per tutti i Settanta. E dinanzi all’assalto di quelle grida, noi non potevamo scamparla e non la scampammo. (p. 46)

Cominciarono a irrompere dappertutto le ragazze delle gran gonne che cadevano fino ai piedi, le mille e mille Thelma e Louise che era come se avessero la colt puntata contro di noi; le vendicatrici dallo sguardo accusatorio, poco trucco, niente reggiseno, e mai più in una cucina, nemmeno morte. (p. 47)

Non ho mai affidato a una donna un compito inferiore, e mentre io davo l’assalto al cielo, mai una volta in vita mia. Tutti e tutte facevamo di tutto. A non tirare la carretta erano talvolta gli uni, ma anche le altre. Vanità ce n’erano sicuramente, ma tanto nell’una che nell’altra metà del cielo. (p. 48)

Insomma che l’esperienza del terrorismo smentiva che il brutale appartenga al maschile e il tenero al femminile, perché l’ideologia sconvolge e ribalta tutto, e perché il gioco competitivo dei ruoli, la gara a chi si fa più mascalzone, risulta devastante. No, non lo voglio e non lo posso accettare il luogo comune che loro sono tutte angeliche e portatrici di grazia. (p. 52)

Altro che angeli del ciclostile,quelle nostre amiche e compagne erano divenute belve assetate di sangue e di amore, e perciò ancor più splendenti e femminili. (p. 53)

ARISTARCO p. 55

… Guido Aristarco, critico cinematografico influentissimo negli anni Cinquanta e Sessanta… (p. 55)

Di «Cinema Nuovo» mi piacque giustappunto l’idea di una critica cinematografica e di un cinema fatti a difendere il Bene, a trasformare la Società[…]. (p. 58)

Di tutte le poche cose allora riservate a un ventenne della borghesia piccola di provincia, l’acquisto di quella rivista era una delle migliori, un modo comunque di imparare a guardare all’Italia e ai suoi problemi, e sapere di libri nuovi, di libri che scuotevano l’anima. (p. 59)

L’ARMÉE DES OMBRES

…L’armata degli eroi, film del regista francese Jean-Pierre Melville, 1969…

L’ultimo giorno di gennaio del 1973, al cinema Diana di Catania, avevo finalmente beccato L’Armée des Ombres, un film del 1969 che avevo lungamente cercato, lungamente covato. Di un regista che prediligevo su tutti, il francese Jean-Pierre Melville[…].

Lo stile che era di mio padre. Mio padre che stava morendo, quel pomeriggio dell’ultimo giorno del gennaio 1973. […]

Per un po’ papà sparve dalla mia vita, fors’anche dal mio vocabolario di bambino. (p. 60)

Per tutti gli anni del ginnasio e del liceo continuai a vederlo così, una volta a settimana. […]

Se mi diceva qualcosa, teneva lo sguardo basso, forse il residuo di una sua timidezza di ragazzo che era stato povero; ma sapevo che mi stava scrutando e pesando. (p. 61)

Nel 1961, quando ero un ventenne che già tuonava a sinistra, mio padre vide una volta una mia paginetta in cui davo addosso alle «squadracce fasciste». […]

Mi guardò e chiese tranquillamente se sapevo che di quelle «squadracce» lui aveva fatto parte. Risposi di sì, che lo sapevo. […]

Lui non replicò, non disse nulla nemmeno quella volta. (p. 62)

[…] aveva scelto di non dirmi, per non ingiuriare i miei vent’anni: il perché avesse creduto all’uomo della foto, e quale idea di un0’Italia grande fosse stata ingenuamente la sua. Mai più, dopo la sua morte, ho smesso di tentare di capirli, gli uomini in camicia nera[…]. (p. 63)

Aveva 73 anni quando gli arrivò la botta al cuore[…]. (p. 64)

ASSASSINI p. 72

…alcuni dei miei compagni di generazione sono divenuti degli assassini. Ne conservano la colpa, ma anche un lutto e una lacerazione morale che hanno mutato la loro pelle. Tra quelli che hanno ricusato completamente i loro crimini, e che credo saranno buoni cittadini della Repubblica, alcuni sono divenuti miei amici. L’ex brigatista Valerio Morucci è uno di questi… (p. 72)

BALCONCINO p. 87

…reggiseno a balconcino, primazia dei Sessanta… (p. 87)

Sparirono dunque, all’alba dei Settanta, reggiseni e quanto altro aveva acceso e modellato la nostra immaginazione, a cominciare dalla giarrettiera[…].

Il reggiseno venne improvvisamente giudicato un impaccio, un simbolo deteriore della perversa immaginazione maschile, addobbo che sviava la libertà della comunicazione femminile[…].

Furibonde di avere sopportato una tale umiliazione da parte di noi latinisti, le ex ragazze di liceo lo mandarono la rogo. […]

Obbediente e devoti come sempre, pronti a qualsiasi sacrificio pur di farle sorridere, noi maschi disimparammo a desiderare e a toccare lì da quelle parti, dove non c’erano più stecche entro cui avventurarsi come alla ricerca dell’America, e anche perché s’erano fatti diversi i corpi femminili, affusolati e appiattiti dalla sconfitta della dieta mediterranea. (p. 88)

Il reggiseno a balconcino fece nuovamente capolino da quei templi del mondo contemporaneo che sono i negozi di biancheria femminile[…]. (p. 89)

BENEDETTI p. 93

…Arrigo Benedetti, dopo Leo Longanesi il fondatore e il maestro del settimanalismo italiano, mio direttore al «Paese Sera» per un anno e fino alla sua morte… (p. 93)

A scegliere Benedetti alla testa del quotidiano paracomunista della capitale, un giornale che era stato valoroso e importante tra Cinquanta e Sessanta[…], era stato lo stesso Enrico Berlinguer. (pp. 94-95)

A quel tempo, gli ultimi mesi del 1975, Benedetti era disoccupato, dopo una non esaltante esperienza di direttore di un «Mondo» che aveva ormai ben poco del carisma del settimanale fondato da Mario Pannunzio. […]

Il «Paese Sera» di Benedetti restò grigio e irrilevante, con gran sollievo di Scalfari e dei suoi. […]

Come direttore del «Paese Sera» l’ex direttore dell’«Espresso» è stato nullo[…]. (p. 95)

Fu lui ad assumermi. Avevo cominciato a collaborare al «Paese Sera» a metà del 1973, con inchieste ed elzeviri per la terza pagina. (p. 96)

Mi affidava pezzi di cui intuiva che erano nelle mie corde. (p. 97)

CI DEVE ESSERE UN ERRORE p. 98

… espressione della lingua parlata, la usi generalmente quando il risultato della giocata dei dadi ti è stato particolarmente avverso… (p. 98)

CINA p. 101

…nome di una gattina siamese, mia compagna dei Settanta…

Non so se avesse ragione Vincenzo Cardarelli a dire tanto male del cane, nel suo giudizio uno degli esseri meno originali del creato. […]

Secondo Cardarelli, il cane sembrava innamorato fino all’ipnosi del suo padrone, e invee è uno che bada al comodaccio suo. […]

E comunque nessuna di queste imputazioni – servilismo, mancanza di personalità – potrebbe essere indirizzata a Cina, la gattina siamese che ha vissuto dieci anni in casa mia prima che io la tradissi. (p. 101)

Prima era venuto Athos, un gatto siamese che lei non sapeva essere suo fratello, maggiore di una covata. Quando lei entrò in casa, minuta e altera, il posto sulle mie ginocchia era occupato in permanenza da Athos. (pp. 101-102)

Athos somigliava alla descrizione che del cane fa Cardarelli. Del gatto non aveva nulla, era un cane affettuosissimo e viziato, che non si scostava mai un centimetro da me, che divideva con me ogni atto della mia vita. […]

Finché Athos morì di un male ai reni, nell’estate del 1973. (p. 102)

Da quell’estate del 1973 il posto sulle mie ginocchia era libero. Cina lo occupò immediatamente, sobria e regale, e senza per questo mutare nulla suo stile, che era forte e indipendente. Lei non era u cane, era una gatta che sapeva distinguere tra sé e me, che da me prendeva quel che le piaceva prendere, ma che non si affidava completamente all’animale uomo[…]. (pp. 102-103)

Le trovai un nuovo compagno, un siamese da cui s’erano dolorosamente separati i suoi proprietari. Gli diedi un nome «John Wayne». […]

La mia ipotesi, di un dominio del siamese maschio sulla siamese femmina, si rivelò completamente fallace. Era Cina a dominare a fare quel che voleva del povero John Wayne. (p. 103)

E mai si sbagliava nel giudicare le persone, nel simpatizzare o antipatizzare. (p. 104)

Cina e John Wayne li ho traditi un giorno d’estate, all’inizio degli Ottanta. Gravato dagli oneri del vivere da solo, non ce la facevo più a badare a loro. Chiesi a mia madre di poterli lasciare nella villa di alcuni nostri amici, ad Acireale, pochi chilometri da Catania. Non ebbi il coraggio di guardare un’ultima volta negli occhi Cina, né di tentare id spiegarle il perché di quella separazione, una separazione per sempre. […]

Aveva dato e preso, questo rapporto tra noi adesso finiva, com’è sempre nella vita, com’è dell’ordine classico delle cose. Avrebbe certamente capito, misteriosa e astuta com’era. E mi avrebbe guardato andar via, accovacciata sulle sue zampette, ferma e indipendente. Ma io non ebbi il coraggio di quest’ultimo confronto, tra me e lei.

Né mai più ho chiesto di Cina, a mia madre o ai nostri amici. Né mai più vorrò tenere un compagno a quattro zampe in casa, perché il posto è rimasto vuoto sulle mie ginocchia è come se fosse rimasto per sempre quello di Cina. (p. 106)

DUEL p. 107

… Duel è il titolo di un film del 1971 di Steven Spielberg, dov’è il duello alla mote tra un automobilista e un camion massiccio e terrificante; e comunque quello del duello è il paradigma che meglio riassume in nostro stare al mondo… (p. 107)

E questo ho poi capito, che nelle questioni della vita non è tanto il coraggio che conta, quanto la mancanza di paura, perché la paura ti sforma il mondo e ti fa credere chissà che, a chissà quali fantasmi e minacce. […]

Quel maggio del 1981 sarebbe stato proprio alla sbarra lo scontro, il duello, tra due splendidi ginnasti dell’era moderna, un tedesco dell’Ovest e un russo.

Aleksandr Tkachev era il più fantasioso dei ginnasti della scuola russa. (p. 109)

Il rivale di Tkachev alla sbarra era l’unico ginnasta occidentale che nei Settanta avesse retto la sfida dello squadrone russo. Tedesco dell’Ovest, Eberhard Ginger[…]. (p. 110)

I due uomini che non avevano paura erano entrambi medaglia d’oro, alla fine di uno dei più bei duelli alla sbarra mai visti nella storia della ginnastica moderna. (p. 113)

EDIE p. 114

… Edie Sedwick, Superstar americana dei Sessanta, morta di droga nel 1971 a 28 anni…

Era sottile, acerba, le gambe infinite, i capelli biondi a caschetto, la gonna che cadeva appena sotto la curva dell’anca. […]

Quando Edie entrava nelle discoteche nuovaiorchesi, a metà dei Sessanta, possibilmente ala fianco di Andy Warhol, la gente tratteneva il fiato[…]. (p. 114)

Quando trovarono Edie priva di vita nel suo letto, la mattina del 16 novembre 1971, irrigidita nella stessa posizione in cui s’era addormentata, la droga l’aveva ormai ridotta a un cencio d’ossa e di nervi a vivo. (pp. 114-115)

S’era sposata cinque mesi prima, il 4 luglio 1971, con un ex tossicodipendente che aveva conosciuto in un ospedale, Michael Post[…].

«Eccesso di barbiturici», dirà l’autopsia. A Warhol telefonarono subito la notizia, quella morte precoce seppur non inaspettata. […]

Non una parola di pietà per la ragazza che s’era sfranta[…]. L’aveva conosciuta in una discoteca

(p. 115)

Dovrebbe essere un’incubazione di superuomini e invece è un’incubazione di esseri fragili, disadattati alla lotta per il vivere, repressi quando non umiliati da un padre autoritario e da una madre tradizionalista. […]

Una bellezza che le spalanca le porte dell’underground e poi della moda nuovaiorchesi. Dea di tutte le feste, è sulle pagine di «Vogue» o di «Fashion». […]

Intanto Warhol l’ha eletta a sua attrice prediletta in quei film dov’è un’unica scena, i personaggi fermi in un’unica situazione che la camera resta a spiare, muta e indiscreta, quasi fossero gli occhi di Warhol. (p. 117)

Edie le droghe se le portava appresso a ceste, e attingeva a piene mani. […]

La sottoporranno a qualcosa come venti elettroshock, prima della caduta finale e decisiva. (p. 119)

FELLATIO p. 121

[…] quel che l’uomo sottoposto a una fellatio è solo simbolicamente: una vittima. Una vittima della capacità di iniziativa sessuale della donna, della sua possibilità inesausta di prendere e dare piacere. […]

Se c’è un atto sessuale che marca la supremazia della donna sull’uomo, è proprio la fellatio. Un atto che dipende dalla donna, un atto di cui a donna è la regista suprema. (p. 123)

Andy Warhol era talmente invasato dall’idea dell’amore orale che nel 1964 aveva deciso di farne il soggetto e il titolo di uno dei suoi film più famosi. Blow Job[…] è un film muto e consiste n una sola inquadratura della durata di 33 minuti. (p. 128)

GIOVANE CRITICA p. 135

Il primo numero era uscito a Catania tra la fine del 1963 e l’inizio del 1964. l’ultimo numero, il 37, uscì a Roma nel giugno del 1973. era nata come rivista cinematografica, poi ci ficcai subito il resto, tutto il resto, a cominciare dalla politica[…]. L’ultima volta che vendetti una collezione completa, nel 1972, una biblioteca milanese me la pagò 200mila lire, in prezzo enorme per quei tempi: non avresti pagato tanto nemmeno la collezione completa della «Poesia» di Filippo Tommaso Marinetti. Mai più l’ho vista, in questi ultimi anni, in un qualche catalogo antiquario. (p. 135)

[…] morivano delle amicizie che erano state strenue, andavano in malora rapporti dove tutto era stato condiviso, e dove credevamo che all’infinito avremmo continuato a scambiare e condividere tutto, rapporti che mai più sarebbero stato sostituiti. E a lungo è stato grande lo sgomento, la sorpresa, il lutto di vere trovato una vita nuova e diversissima, dove ognuno s’era staccato da ognuno, e non eravamo più tutti assieme[…]. (p. 137)

Per molti, d’aver trovato questa nuova vita, sarebbe stato intollerabile. Da cui la diffusione della droga, i tanti suicidi in quella generazione. […]

La mia reazione è stata altrettanto estremista. Quella di sfuggire adesso come la peste ogni comunanza e ogni solidarietà di gruppo – dopo che erano andate in malore le comunanze e le solidarietà dei Sessanta- e di ritenere impossibile che la verità non sia accompagnata alla solitudine. Alla solitudine morale e intellettuale pi totale. […]

Le spese di avvio della rivista le aveva pagate il Centro universitario cinematografico, un milione di allora. Dopo di che la sganciai e feci tutto da solo. Comincia col vendere un migliaio di copie, arrivai a venderne tra 2500 e 3000. […]

Nella redazione di «Giovane critica» figurava anche Gianni Amelio[…]. (p. 138)

Quando arrivai a Roma, nel gennaio del 1970, avevo in tasca 6000 lire e portavo i pacchi con le copie del numero 21 destinate alle librerie. (p. 139)

Decisi di mettere un punto, perché non aveva più senso. La rivista era nata come specchio di una generazione, e io in quella generazione non mi ci sentivo più. (p. 140)

KRETINO p. 142

… il kretino di sinistra, caro compagno di questi tren’tanni sono commosso mentre ti saluto e ti dico addio, adesso che il nostro tempo migliore, tuo e mio, s’è concluso; adesso che hanno battuto il muso per terra le statue che tu avevi idolatrato, e contro le quali io avevo inveito. Ti devo molto, non so quel che sarei stato on questi trent’anni senza di te, senza lo sprone costante della tua inesauribile kretinità. (p. 142)

Ti stanno imbiancando le tempie. Non sei più il ragazzo che aveva fatto irruzione nella vita italiana di metà dei Sessanta. Anche a te cominciano a pesare le sconfitte, e la tua è una serie ininterrotta di sconfitte, anche se ogni volta te ne gloriavi, dicendo che la tua sconfitta era la prova di quanto fossero immondi i vincitori e di come tu fossi di tutt’altra razza. (p. 144)

Ognuno che digrignasse i denti e promettesse fucilate e bombe, da Frantz Fanon in poi, tu ti commuovevi e lo sentivi dei tuoi. […]

La guerra non si fa, solo la pace è bella. (p. 146)

Adesso sei al congedo, o mio doppio. Per noi è il crepuscolo, il tempo dell’uscita di scena. Si fanno avanti altri protagonisti inarrestabili; la loro non sarà un’epopea lunga come la tua, nel cestino della spazzatura ci finiranno presto, ma quanto a tracotanza non scherzano. […]

So che mi mancherai molto e che ti rimpiangerò, in fondo eravamo fatti della stessa pasta. Un’intera stagione della vita la avevamo trascorsa gomito a gomito. (p. 148)

MICHEL p. 150

… Michel Platini, calciatore e artista degli Ottanta, a metà tra Italia e Francia… (p. 150)

Per i cinque anni del suo soggiorno in Italia, Michel portò l’arte del calcio a vette filosofiche. […]

Quando sentì di non aver più voglia, che la sintesi di «esprit de finesse» e «espirit de géométrie» non gli riusciva più, non indugiò un solo attimo. Era stato bello, ma era finito. Tutto finisce. Anche la stagione del più grande artista del football moderno. (p. 155)

MICHÈLE p. 156

… Michèle Firk, cineasta e giornalista francese, morta suicida a 31 anni, il 7 settembre 1968, mentre la polizia guatemalteca stava per arrestarla…

[…] si sarebbe uccisa piuttosto che correre il rischio di parlare sotto la tortura. […]

Se n’era andata, tirandosi un colpo in bocca. Aveva 31 anni. […]

È stata lei la prima intellettuale europea dei Sessanta a scegliere la cultura e la pratica del terrorismo[…]. (p. 156)

Era stata lei, una francese andata in Sudamerica a cercare un rischio dove tutto fosse in gioco, ad affittare la macchina giapponese rossa su cui, il pomeriggio del 26 agosto 1968, erano saliti i tre militanti del Far (in gruppo castrista guatemalteco= che avrebbero assassinato l’ambasciatore americano, John Gordon Mein, a titolo di rappresaglia contro l’arresto di uno dei dirigenti del Far. […]

Era la prima volta nella storia degli Stati Uniti che un ambasciatore americano veniva assassinato.

Michèle Firk era stata comunista sino al 1956. […]

Di Michèle mi aveva parlato Paul Louis-Thirard, mio grande amico parigino quando io vivevo ancora a Catania. (p. 157)

[…] dedicati il numero diciannovesimo di «Giovane critica» a Michèle Firk. (p. 160)

MUGHETTI p. 161

…soprannome spregiante datomi da Sergio Saviane in occasione di una mia performance televisiva…

Su un’intera pagina di un «Espresso» del dicembre 1987, Saviane aveva scritto che più demente di così non potevo essere.[…]

Era lamia esistenza a 24 pollici, miserabile «Mughetti» che altro non ero, a risultargli demente e insopportabile. (p. 161)

C’è un rapporto strano e morboso tra chi scrive di televisione e chi fa la televisione. (p. 162)

Chi scrive di televisione ha spesso un atteggiamento di corpo a corpo con la sua materia. Come se volessero acciuffare alla gola trasmissioni e interpreti, e stringere forte finché schizza il sangue. Non so se prendano la televisione troppo sul serio, o se, sciagura ancora più grande, prendano se stessi troppo sul serio. La televisione è bella, triviale, stupidissima. Non ti assicura un posto in inferno né in paradiso, ha compiti infinitamente più modesti: farti scorrere un’ora o dieci minuti, mentre l’acqua della pasta sta bollendo. La televisione vale quel che vale, l’attimo in cui la vedi, giusto il tempo di un sorriso o di una sbirciata maliziosa, e poi è subito spazzatura. (p. 164)

Condivido appieno quel che ha spiegati più volte Gianni Boncompagni, che la televisione è tutta eguale, è tutta spazzatura. Ciascun autore o interprete, tanto gli aggrondati che i faceti, vi ha un suo segmento di pubblico, un suo ruolo; ma è tutta la stessa pappa, libero tu di mangiarla o di scagliarla dalla finestra. (p. 165)

NANNI p. 171

… Nanni Moretti, regista cinematografico, a lungo come un fratello… (p. 171)

PASOLINI p. 174

… Pier Paolo Pasolini, regista scrittore e poeta omosessuale. Assassinato il 2 novembre 1975…

[…] la dinamica della morte di Pasolini all’Idroscalo nulla ha a che fare con la letteratura; o, bugia ancora peggiore, con la politica. Ha a che fare col suo destino doloroso di omosessuale. (p. 174)

Tra le tante bugie raccontate a sinistra, da quella parte della sinistra che si diletta a rimodellare la vita secondo i suoi schemi, questa è stata una delle più grandi. Presero a raccontare che era rata una vendetta del Palazzo, da Pasolini eternamente sfidato a viso aperto; che s’era trattato di un complotto contro il temibile prosatore della prima pagine del «Corriere della Sera»; che c’erano sicuramente di mezzo i fascisti[…]. (p. 175)

A Pasolini stavano rubando la morte, vittima che non rientrava in nessuno degli schemi abituali del sinistrese. Era come passato in secondo piano, un particolare del tutto trascurabile, quel che era all’essenza l’avventura umana di Pasolini, la sua ossessione erotica, un’ossessione che gli ultimi suoi film denunciavano come devastante e totale[…]. (p. 176)

Di noi tutti fratello, povero Pasolini dolorante e contraddittorio. Lasciato solo entrare alla sua morte.

Quando la bara portata a spalle venne fuori dalla Casa della cultura di via Arenula, quel pomeriggio di novembre del 1975, ero lì davanti. Scattavano verso l’alto i pugni chiusi di quei giovani che lui non aveva mai blandito, sventolavano i drappi rossi. (p. 177)

Non avevo mai conosciuto Pasolini. Solo intravisto una volt,a in un ristorante di Campo dei Fiori: minuto, teso come a uno scatto imminente, gli occhi che fulminavano. (pp. 177-178)

Nell’introduzione al volume che ho citato all’inizio, il Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione e morte, Alberto Moravia arriva a scrivere che la borghesia italiana aveva come condannato a morte Paoslini, e che Pelosi era forse l’«inconscio» esecutore di quella condanna. Una tesi talmente estravagante che l’editore del libro, Aldo Garzanti, pur affettuosamente leale allo scrittore in cui aveva creduto tra i primissimi, se ne dissociò in chiusura del volume. (p. 178)

A cominciare dal fatto che un Pasolini ucciso sull’altare della storia e della politica c’è sicuramente, ed è il fratello Guido, partigiano librale massacrato dai partigiani comunisti filotitoisti in uno degli episodi più sciagurati degli anni della Resistenza. (p. 180)

Uno che non sapevi domani a quale latitudine lo avresti trovato, membro com’era di nessuna famiglia, seguace di nessun conformismo intellettuale, capace di adoperare un linguaggio e un codice di riferimenti che erano soltanto suoi. Lui e il suo sguardo che fulminava da quanto la tensione aveva scavato dentro. (pp. 180-181)

PINTOR p. 182

… Luigi Pintor, fratello di Giaime Pintor, mio ex direttore al «Manifesto», il miglior giornalista comunista del dopoguerra…

Credo davvero che il toscanaccio Indro Montanelli e il sardo Luigi Pintor siano della stessa razza, anche se forse nessuno dei due lo sa dell’altro. E se Indro è per me come un padre, anche per Luigi ho una stima e un affetto particolarissimi.

Di Indro non conoscevo la lettera aperta a Leon Longanesi che apre un volume edito da Longanesi nel 1955, Lettera Longanesi e ad altri nemici, un volume che avevo appena comprato da un catalogo antiquario. Venti pagine circa, è la più bella confessione di un ex giovane fascista che abbia mai letto[…]. (p. 182)

Mi sarebbe piaciuto molto scrivere la saga dei Pintor. (p. 185)

Poco più che ventenne, Roberta prendeva parte alle riunioni del «Manifesto» quotidiano. Avevamo firmato dinanzi a un notaio, noi i dodici soci fondatori, alla fine di gennaio del 1971. ero l’unico che non appartenesse al loro ceppo politico, di comunisti di sinistra[…]. (p. 186)

Luigi mi chiamò nel suo ufficio, dopo che avevo presentato la lettera di dimissioni, i primissimi giorni di aprile, a quattro giorni dall’uscita del primo numero del quotidiano. (pp. 186-187)

Mi propose 70mila lire al mese per scrivere dei pezzi, dall’esterno del giornale. Ciò che feci per un mese, dopo di che lasciai perdere. I connotati politici del giornali, dov’era una gara a dire peste e corna dei comunisti e socialisti, della Sinistra reale e non velleitaria, mi sembravano pazzeschi. […]

alle riunioni di redazione dove quasi li supplicavo di non commettere l’errore settario di voler creare la cellula fondante di una nuova organizzazione politica. Pensassero a fare un giornale, a raccontare un mondo che stava cambiando nelle fondamenta, a mettere ordine nei criteri e nei giudizi di una sinistra moderna. Guardassero al trambusto dei Settanta per imparare, non per predicare e insegnare.

Era tempo perso. Loro comunisti erano e rimanevano, di quelli che devono portare luce alla società, che senza quella luce sarebbe cieca e orribile. (p. 187)

Dopo le mie dimissioni dal giornale da lui diretto, e con l’eccezione di quel breve incontro del 1977, non ho mai più incontrato Luigi. Se ci scorgevamo per strada, lui si scostava e quasi si sottraeva al saluto. (p. 188)

Interlandi e gli altri giornalisti iperfasciti dell’«Impero»[…] stavano all’avventura politica e intellettuale del fascismo come i giornalisti e gli intellettuali del «Manifesto» stanno all’avventura intellettuale dell’ipercomunismo. (p. 190)

Le proposi di scrivere un «Papà, io ti accuso», già allora innamorato com’ero della storia dei rapporti tra i padri comunisti dell’età eroica e i loro figli[…].

A Roberta brillavano gli occhi mentre le facevo quella proposta, so che quel «j’accuse» avrebbe voluto scriverlo. Epperò non lo fece, l’articolo non le venne fuori: non le riuscì a metter per iscritto i suoi conti con un padre venerato e difficile. (p. 192)

QUARTIERE LATINO p. 193

… ho vissuto a Parigi due anni intensi, tra 1968 e 1969, sempre abbarbicato alle strade del Quartiere Latino… (p. 193)

RADICAL-CHIC p. 199

A Milano, come a New York, a Roma come a Parigi, l’autunno del 1969 fece da gran stagione del radical-chic, di quei miliardari che andavano in sollucchero per l’estrema sinistra più infuocata, per i sovvertitori i più radicali. (p. 199)

L’espressione «radical-chic» era stata coniata dallo scrittore e giornalista americano Tom Wolfe, sempre all’avanguardia nel fiutare quel che è in voga e dà il timbro ai salotti l’apice del radical-chic americano dei tardi anni Sessanta, di quando tutto era sottosopra, fu un party offerto nel suo lussuoso attico e superattico, a Manhattan, da un uomo tra i più ammirati d’America, un direttore d’orchestra magnetico, aguzzo, scintillante, Leonard Barnstein. Lui e sua moglie Filicia avevano deciso di ospitare festeggiare una rappresentanza di uomini e donne delle Black Panthers, il gruppo nero d’estrema, gente che proclamava la necessità della violenza e l’attuava talvolta. […]

Anche se i primi «radical-chic» di questo secolo erano stati due americani dell’anteguerra, la bellissima Martha Dodd Sterne e suo marito Alfred, un ricchissimo finanziere. (p. 200)

Gente che si sarebbe fatta scannare pur di non rinunciare al costumino ricamato su misura, o al tailleur di lino ultimo grido; gente addestratissima nell’intonare il maoismo con i pullover in cachemire, gente che non si perdeva una sola settimana bianca ma che restava ipnotizzata di ammirazione se uno dei fondatori delle Br[…]. (p. 201)

Sì, per i miliardari di Milano o di Trastevere o di Manhattan era proprio l’ultimo grido quello spalancare gli occhi d’ammirazione per ciò che è estremo, per ciò che rovescia completamente le regole e preannuncia un’apocalisse di fuoco e fiamme da cui tutto rinascerà di nuovo[…]. (pp. 201-202)

Così come dové essere imbarazzante, per un ebreo come Bernestein, sapere che i Black Panthers erano forsennatamente ostili a Israele, ed erano soliti dipingere gli israeliani come un branco di porci. Ma se la causa da difendere è la causa all’ultimo grido, un impasto di buoni sentimenti e di ostentazione sociale, tutto si fa per essa, anche ingoiare i più raccapriccianti giudizi su Israele. (pp. 202-203)

Il primo numero del «Manifesto» uscì pochi giorni dopo, ed era un quotidiano che voleva tenere in gran conto quelli di Potere operaio e gli altri forsennati loro pari. A quattro giorni dall’uscita del primo numero, mi dimisi. Ero disoccupato. Né Marx né caviale. (p. 206)

RIBEMONT-DESSAIGNES p. 207

…scrittore e pittore della pattuglia d’esordio dei dadaisti. Oggi dimenticato se non da cultori e collezionisti…

Era un romanzo che da tempo cercavo in antiquariato. Finalmente lo avevo trovato. L’autruche aux yeux clos («Lo struzzo dagli occhi chiusi») di Georges Ribemont-Dessaignes, uno dei più interessanti dadaisti francesi della primissima ora, figurava al numero 691 dell’asta «Litolatta», che la Christie’s aveva organizzato a Roma, il 14 maggio 1991. (p. 207)

L’asta «Litolatta» era difatti, per i lotti dal 551 al 740, l’asta in cui veniva dispersa la collezione di prime edizioni del Novecento italiano e francese di Sinisgalli, l’ingegnere-poeta lucano morto nel 1981. (pp. 207-208)

Nato nel 1884, Ribemont-Dessaignes era stato scrittore, musicista e pittore. (p. 208)

Avvicinatosi ai surrealisti, Ribemont-Dessaignes divenne poi, tra 1929 e 1931, il direttore di una delle riviste mitiche della Francia tra le due guerre, «Bifur»[…]. (p. 209)

Mi chiedo talvolta se mi piacerebbe assistere allo sperdersi della mia collezione di prime edizioni del Novecento italiano, se mi piacerebbe assistere a un pezzetto della mia morte. (p. 213)

SEMPRUN p. 215

… Jorge Semprun, scrittore, ex dirigente del Partito comunista spagnolo, oggi ministro della Cultura nel governo spagnolo guidato da un socialista…

Nel secondo dopoguerra fu un coraggioso militante del Pc clandestino: nome di battaglia «Diego», faceva la navetta tra la Spagna e la Francia. […]

Nel 1963 vinse il premio Formentor col suo primo romanzo, Il grande viaggio, un romanzo prediletto dalla mia generazione. Nel 1964 venne espulso dal Pc spagnolo, accusato di deviazione di destra.

Al tempo del nostro lungo colloquio, era appena uscita, prima in Spagna e poi in Francia, la sa drammaticissima autobiografia[…]. (p. 215)

Quelli che furono sottoposti alle torture delle polizie staliniane, invece, erano corresponsabili del sistema che li stava distruggendo. E del resto arrivavano al processo solo quelli che accettavano di «recitare» le autoaccuse, gli altri venivano uccisi prima. (p. 219)

SOFRI p. 236

… Adriano Sofri, ex leader di Lotta continua, forse il migliore della mia generazione. Una corte di primo grado e una di secondo grado lo hanno condannato a 22 anni quale mandante dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi. Attende il responso della Cassazione…

Il pomeriggio del 13 maggio 1972, quel sabato in cui secondo l’accusatore Salvatore Marino Sofri gli avrebbe dato il via a uccidere Calabresi, e glielo avrebbe dato alla fine del comizio pisano in morte di Franco Serantini, ero a Pisa, in casa di Luciano Della Mea. […]

Ero a causa sua perché avevo da raccogliere il materiale e poi scrivere sulla morte di Serantini, l’anarchico ventenne che non era sopravvissuto alle botte della polizia, durante gli scontri del 5 maggio.

Pioveva a dirotto, a Pisa, quel sabato pomeriggio. E perciò Luciano e io avevamo esitato, se andare al comizio con cui Sofri stava celebrando Serantini, a poche centinaia di metri di distanza. (p. 236)

Continuava a piovere, e io sbirciavo dai vetri della finestra. Alla fine andammo. […]

In un primo momento Marino raccontò che al colloquio era presente anche l’altro presunto mandante, Giorgio Pietrostefani, il leader dell’ala operaista di Lotta continua. Poi risultò inconfutabile che Pietrostefani a Pisa quel giorno non c’era, e dunque lui sparì dal comizio pisano[…]. (p. 237)

Pochi giorni dopo, la mattina del 17 maggio, un mercoledì, nella sua casa milanese di via Cherubini, saranno state le otto e trenta, il commissario di polizia Luigi Calabresi s’apprestava ad andare al lavoro. (p. 238)

Marino ha raccontato in dettaglio l’azione del 17 maggio mattina, lui alla guida e Ovidio Bompressi che scende dall’auto ad uccidere. Quei dettagli non concordano talvolta con il racconto di alcuni testimoni, altre volte corrispondono a pieno. […]

Se io credo che Marino abbia comunque partecipato all’azione? Non lo escludo affatto; così come continua a ritenere che l’ipotesi più probabile è che gli assassini di Calabresi venissero dall’estrema sinistra. (p. 242)

Per tornare la mio argomento Sofri che conosce l’identitkit, se non addirittura i nomi, di chi ha ucciso Calabresi a dirglielo, lui se ne risente come di un’offesa; e dichiara che romperebbe i rapporti personali con chi lo credesse. Eppure sera stato proprio un suo articolo su «Lotta continua» ad alimentare in me questo interrogativo. (p. 243)

Adriano come lo dipingono gli avvocati d’accusa, cinico e spavaldo? Mai un attimo ci crederò.

E comunque queste domande sono mal poste, in termini di diritto certo e obiettivo, in diritto peri l quale la condanna deve poggiare su prove di fatto, prove che nel caso in questione non ci sono. (p. 245)

VIOLENZA p. 247

… violenza sulle donne, una cosa esecrabile, da non fare mai… (p. 247)

Né mai un solo istante, nel quarto di secolo che rende quel pomeriggio lontano ma non remoto, mi sono pentito di quella violenza contro una donna, del colpo netto e veloce portato contro la guancia della bionda sovversiva che così ferocemente mi era divenuta nemica e avrebbe voluto tagliarmi a pezzi. (p. 250)

WALTER p. 251

… il mio amico Walter Tobagi, inviato speciale del «Corriere della sera», assassinato da terroristi rossi a 32 anni…

Era stato lui a spezzare la cappa di piombo del conformismo cattocomunista, nel sindacato dei giornalisti degli anni Settanta[…]. (p. 251)

E a una vittima sacrificale di quell’accecamento, al mio amico Walter, io da lui così diverso, io così mal riuscito e così inetto alla misura di mezzo, dedico questo libro: brandelli di quel che m’è restato nella memoria, dei nostri ultimi cinquant’anni. E che ancora mi bruciano. (p. 254)

WALTZ p. 255

…The last Waltz, ovvero «L’ultimo valzer», un film del 1978 di Martin Scorsese…

Dieci anni dopo Woodstock[…], Scorse afferrò al volo l’occasione di girare non più la gran festa della tribù giovanile, ma il suo congedo. L’ultimo e struggente suo giro di valzer al tempo in cui, come candele in agonia, si stavano spegnendo le euforie e le speranze dei Settanta. (p. 255)

Adesso ero quasi alle lacrime, ad ascoltare il commiato di «The Band», le note che annunciavano la fine della nostra giovinezza. (p. 257)

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE p. 259

INDICE GENERALE p. 269