GIAMPIERO MUGHINI – CHE BELLE LE RAGAZZE DI VIA MARGUTTA. I REGISTI, I PITTORI E GLI SCRITTORI CHE FECERO DELLA ROMA DEGLI ANNI CINQUANTA LA CAPITALE DEL MONDO

GIAMPIERO MUGHINI – CHE BELLE LE RAGAZZE DI VIA MARGUTTA. I REGISTI, I PITTORI E GLI SCRITTORI CHE FECERO DELLA ROMA DEGLI ANNI CINQUANTA LA CAPITALE DEL MONDO
GIAMPIERO MUGHINI – CHE BELLE LE RAGAZZE DI VIA MARGUTTA. I REGISTI, I PITTORI E GLI SCRITTORI CHE FECERO DELLA ROMA DEGLI ANNI CINQUANTA LA CAPITALE DEL MONDO

GIAMPIERO MUGHINI – CHE BELLE LE RAGAZZE DI VIA MARGUTTA. I REGISTI, I PITTORI E GLI SCRITTORI CHE FECERO DELLA ROMA DEGLI ANNI CINQUANTA LA CAPITALE DEL MONDO

MONDADORI – 2004

16 tav. col. Fuori testo

I – C’È UNA BIONDA FATALE A VIA VENETO p. 3

Dire la via Veneto degli anni Cinquanta è dire il cinema italiano, la sua storia, i suoi personaggi. Immenso in quegli anni è il fascino e la malia di Roma e del suo cinema nel mondo. (pp. 3-4)

E mentre i sedici studi di Cinecittà erano divenuti una fucina mirabolante nel dar vita al miglior cinema al mondo. Cinema fatto talvolta dagli americani, e non soltanto dagli italiani. (p. 4)

In quella Roma degli anni Cinquanta che fungeva da «Hollywood sul Tevere», in quella città dal bel clima e del bel vivere, ci arrivavano a frotte da tutte le parti del mondo, a trovare di che bere, di che sostare, di che guardare attorno e guardarsi a vicenda. (p. 5)

Ci arrivavano belle ragazze in cerca di un destino, attori in cerca di una scrittura, magnati del cinema in cerca di un possibile investimento, giornalisti in cerca di uno spunto, giovani provinciali in cerca di un’occasione, fannulloni in cerca di un drink, gigolo in cerca di un prezzo. (p. 6)

Fra i tanti, sulla «spiaggia» di via Veneto era sbarcata negli ultimi anni Cinquanta una bellissima ragazze tedesca che come nome d’arte portava quello di Nico Otzak. (p. 7)

Prima di arrivare a via Veneto e al cinema italiano, Nico aveva fatto la modella. (p. 8)

A presentare Nico a Fellini era stato probabilmente Lattuada, il regista che l’aveva utilizzata per primo. (p. 9)

Trasmigrata più tardi da via Veneto alla Factory newiorchese di Warhol, Nico ne diverrà una superstar, a cominciare dal suo debutto da cantante nel mitico gruppo dei Velvet Underground di Lou Reed. […]

[…] e questo sino alla tragica caduta da una bicicletta che le darà la morte e mentre era in vacanza su un’isola spagnola, il 18 luglio 1988. (p. 11)

Attraverso la frequentazione di quel mondo sghembo e ilare, Fellini aveva conosciuto l’attore romanissimo Aldo Fabrizi, il suo primo aggancio con il cinema della capitale. (p. 22)

Appena arrivato a Roma, la sua collaborazione a quel «Marc’Aurelio» che inonda di vignette satiriche funge da sua università del creare e del raccontare. (p. 24)

Se Fellini non avesse fatto il cinema, a raccontarsi e a svuotarsi di tutto ciò che lo ingombrava o di cui aveva una memoria struggente, sarebbe impazzito.[…] Sempre partiva da se stesso e sempre raccontava se stesso. (p. 26)

L’Italia de La dolce vita è un’Italia che avevano cominciato a raccontare quei fotografi che dal film di Fellini in poi noi chiameremo «paparazzi»[…]. (p. 27)

È venuto il tempo della supremazia delle foto, ossia delle immagini. (p. 28)

In un’epoca ancora pre-televisiva[…], sono i rotocalchi d’attualità a raccontare l’Italia e gli italiani[…]·

Sta nascendo un cinema parallelo al cinema di celluloide. È il cinema di carta. Ossia il cinema delle foto di scena e delle foto dei paparazzi, quelle che appaiono sui rotocalchi d’attualità che vanno in mano a centinaia di migliaia di persone e ne incendiano l’immaginazione. (p. 29)

Tazio Secchiaroli

Di tutti i paparazzi romani degli anni Cinquanta ce n’è uno il cui nome è indissolubilmente legato al capolavoro felliniano. Friulano di origine ma nato a Roma nel 1924, si chiama Pierluigi Praturlon. (p. 35)

II – A MEZZOGIORNO ANDAVANO ALLA LIBRERIA ROSSETTI p. 40

Vincenzo Cardarelli

Poeta e scrittore probabilmente sconosciuto a chi ha oggi venti o trent’anni, tra i primi ani Venti e i primi Cinquanta Cardarelli era stato tra i maestri di stile ma anche di solitudine e di orgoglio di un paio di generazioni. (p. 41)

Giuseppe Rossetti era nato a Roma nel 1905[…].

Successivamente, con altri soci, Paolo Tombolini e Mario Serandrei, Rossetti aveva rilevato una storica libreria romana che dalla fine dell’Ottocento aveva portato prima il nome Mantegazza e poi Cremonese. Nacque così, il 1° gennaio 1942, quella che è a tutt’oggi la libreria Tombolini di via IV Novembre. Poco dopo, nel luglio 1944, nella roma appena liberata, Rossetti aveva impiantato una libreria al numero 124 di via Veneto. (p. 45)

Mino Maccari

Cesare Zavattini

Ettore Serra

Tra i frequentatori della libreria Rossetti c’era anche il giornalista più maledetto del fascismo, quel Telesio Interlandi cui Mussolini aveva affidato nell’estate del 1938 la direzione dell’ignobile «La difesa della razza»? (p. 56)

Il fascistissimo Interlandi, il direttore del quindicinale «La difesa della razza che Mussolini s’era inventato per dare argomenti alle leggi razziai, il giornalista fascista che l’aveva scampata di misura ai mistra dei partigiani, uno il cui nome in quest’ultimo mezzo secolo è divenuto impronunciabile, che nel secondo dopoguerra entra quatto quatto in una libreria frequentata e marchiata dagli antifascisti? Possibile, possibilissimo. (p. 57)

Da quell’ostilità il mio libro bene sepolto, e ancora mi brucia perché è un libro al quale tenevo molto e che mi era costata molta fatica. Venni preso a colpi in volto d’aver raccontato per centinaia di pagine, e di avere addotto centinaia di episodi dai quali risultava che Interlandi era stato al centro della vita intellettuale romana degli anni Venti e Trenta, che nei suoi giornali avevano debuttato il fior fiore degli scrittori e dei poeti italiani, che a quel tempo non c’erano alcuna impenetrabile spartizione divisoria tra fascismo e antifascismo, che la grandissima parte degli intellettuali italiani di quegli anni aveva un piede in una staffa e l’altro piede e mezzo nell’altra, che è un mito bugiardo quello di un regime fascista che aveva contro tutta la cultura italiana. (p. 59)

Corrado Alvaro

Cardarelli a parte, c’è un altro personaggio che nelle costellazioni culturali romane degli anni Cinquanta e Sessanta fa da centro irradiante. Ennio Flaiano[…]. (p. 67)

III – GLI ANNI DA CUI TUTTO EBBE INIZIO p. 74

E quanto alle ragazze che si offrono ai soldati americani sui marciapiedi di via Veneto, sono probabilmente le stesse che ancora qualche mese prima avevano sorriso agli ufficiali nazi. Gli occupanti passano, Roma e le sue abitudini restano. […]

A poca distanza dall’ambasciata americana a via Vento, al numero 102 di via Bissolati, nella Roma «liberata» resta e continua una galleria d’arte sorta al tempo dell’occupazione tedesca, «La Margherita» di Ghigo Valli. (p. 74)

Irene Brin

Quindici anni prima di Camilla Cederna e trenta prima di Natalia Aspesi, era stata la Brin a inaugurare una maniera giornalistica destinata a un grande domani, quella di fare del gossip chic, di guardare come si vestono e che cosa fanno i ricchi, spiarli e raccontare i loro profumi e i loro vini prediletti e i loro viaggi incessanti, con l’aria di non prenderli troppo sul serio ma anche di non poterne fare a meno. (p. 82)

Irene Brin, ossia Maria Vittoria Rossi, aveva sposato nel 1937 Gaspero del Corso, un ufficiale[…]. (p. 83)

Tre anni dopo, nel novembre 1946, forti di un’eredità familiare arrivata alla Brin, i due fondarono a via Sistina 146 una loro galleria. (p. 84)

Nella Roma dell’immediato dopoguerra sono in campo tre generazioni intellettuali. La prima è rappresentata da quelli che erano nati all’inizio del secolo se non prima, e che hanno alle loro spalle un cursus honorum già lungo. La seconda, quelli che sono nati attorno al 1910 e dunque stanno muovendo i primi passi e le prime battaglie di un destino e di una gloria che s’è appena delineata al loro orizzonte. La terza, quella di chi è nato dopo il 1920 e si accinge a debuttare, e lo fa con tutta la veemenza e il radicalismo propri ai ventenni. (p. 87)

A quel terrazzo era lo studio di Giorgio de Chirico[…]. (p. 88)

Pier Maria Bardi

E poi ci sono quelli che avevano vissuto i fulgori del futurismo e che adesso devono dolorosamente sopravvivere al fatto che la bandiera del futurismo è stata abbattuta e calpestata, e dunque che la loro vita e i loro libri di prima della guerra non valgono più un centesimo bucato. E difatti una buona parte dei futuristi romani ha cambiato intonazione artistica, ha cambiato identità, sé avviata per altre professioni. […]

Piero Bellanova

Ennio de Cincini (p. 92)

Mino Delle Site

Enrico Prampolini

Giacomo Balla

Piero Dorazio

Leonardo Sinisgalli

Tutto al contrario di Sinisgalli, nella Roma del 1945 e degli anni successivi ci sono degli intellettuali che nella politica credono di aver trovato la chiave salvifica della società, le ricette che spiegano ogni andamento del male e del bene, un assoluto da cui la società è spaccata in due, da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Molti di loro appartengono alla seconda generazione in campo, sono quelli che tra 1945 e 1950 non hanno ancora toccato i quarant’anni. […]

Carlo Muscetta (p. 102)

Vittoria Gassman

Da uomo e da attore la sua misura e il suo marchio erano «la dismisura». Era troppo in tutto. Troppo alto, troppo bello, dotato di troppa memoria[…]. E fin troppo «mattatore» in ogni suo gesto professionale e conquista femminile. E fin troppo facilmente sapeva ascendere dal comico alle vette del sublime e viceversa. E troppa la discrasia tra la rocciosità di quella sua corteccia da atleta possente e la fragilità e insicurezza interiori, che faranno un inferno degli ultimi anni della sua vita. Troppo e troppo sfrontata la sua timidezza di fondo e di sostanza, una vulnerabilità in cui solo Carmelo Bene gli poteva fare concorrenza. Troppa e durata troppi anni della sua vita la sudditanza al morso del bere. Troppa la paura dell’invecchiare, una paura che lo prese alla gola dopo i cinquant’anni e ce non lo lasciò più. (pp. 106-107)

E infine la terza generazione che va all’attacco nella Roma del dopoguerra. Sono i più giovani, i più furenti, quello che non accettano le misure di mezzo, quelli che stanno a sinistra ma che ci vogliono stare a modo loro e con gi abiti che preferiscono loro. […]

Achille Perilli, Piero Dorazio e Mino Guerrini. (p. 107)

[…] Consagra si portava sulle spalle una sua scultura in ferro quanto di più astratto e la esponeva sulla scalinata di piazza di Spagna sotto l’insegna «fronte popolare». […]

Di più, che una tale scultura «astratta» era la garanzia della superiorità morale e intellettuale delle sinistre. Sapete che ne pensava Togliatti, il gran capo del comunismo italiano, di tutto questo dipingere e scolpire astratto? Che erano degli «scarabocchi», degli immondi scarabocchi. (p. 110)

I contrasti fra i due poli si faranno roventi. A piazza del Popolo i due diversi caffè indicano due diverse appartenenze. Al Rosati siedono i partigiani della pittura astratta; lì dirimpetto, al Canova, ringhiano Guttuso, Trombadori e i loro sodali. (p. 111)

I tre ex liceali del Giulio Cesare si daranno più tardi una loro sede-roccaforte, una trincea da cui puntare e sparare. Al numero 107 di via del Babuino, giusto all’angolo tra via del Babuino e pizza di Spagna, nei primi mesi del 1950 apre una libreria-galleria d’arte che ha nome «L’Age d’Or», dal titolo di un famoso film surrealista di Luis Bunuel. […]

Le inaugurazioni delle mostre dell’«Age d’Or» avvenivano sul marciapiede di via del Babuino[…]. (p. 112)

Era un angolino di Roma che sapeva di Parigi o di Amsterdam[…]. (p. 113)

Solo che c’è un Evola primario e precedente il demone nero, l’Evola che tra ultimi anni Dieci e primissimi anni Venti ha fatto da protagonista italiano del dada e che in quegli ani ha dipinto alcuni splendidi quadri, che oggi si contendono i musei di tutto il mondo. (p. 114)

E a proposito di debutti, e a proposito di stazioni obbligate dell’avanguardia romana, ancora una volta ad opera di un non romano che è venuto a Roma[…], Ettore Colla[…]. (p. 117)

[…] il Gruppo Origine. Colla fa da locomotiva, ma nel gruppo convivono talenti e itinerari diversi, da Alberto Burri a un Giuseppe Capogrossi allora all’acme del segmento astrattista del suo itinerario artistico, a Emilio Villa. (p. 118)

La sua attività creativa a parte, Colla e il suo appartamento a via Aurora fungono da perno e da sede istituzionale e di un pezzo di storia dell’arte romana anni Cinquanta. Il Gruppo Origine s’era sciolto quasi subito, e al suo posto nasce la Fondazione Origine, che sarà la molla di mostre importanti e farà da spinta propulsiva a una rivista mitica avviata a metà del 1952, «Arti visive». […]

Burri (p. 120)

Medico per studi e formazione, Burri aveva cominciato a dipingere nel campo di prigionia texano, dov’era rimasto la bellezza di diciotto mesi. (p. 121)

IV – COSÌ BELLE, COSÌ INTELLIGENTI, COSÌ RISOLUTE p. 126

Palma Bucarelli

Ingrid Bergman

[…] la Bucarelli rimarrà per oltre trent’anni al centro dell’attenzione del mondo intellettuale romano. Monelli a parte, avrà ai suoi piedi uomini della qualità di Vittorio Gorresio e Giulio Carlo Argan. (p. 130)

Elsa Giorgia Alberti

Dai salotti, dalle case editrici, dalle gallerie d’arte, dai cabaret intellettuali sta emergendo una nuova generazione,donne come Elsa Morante (moglie di Alberto Moravia), Clotilde Scarpitta (moglie del pittore Salvatore Scarpitta), la pittrice glamour Novella Parigini, la giovne scrittrice Milena Milani, la Minnì Pirandello (futura moglie del fotografo e gallerista Plinio De Martiis) che sa danzare e recitare le poesie della Spoon River Anthology, donne alle quali è divenuto più naturale coniugre femminilità e intelligenza. (p. 142)

Novella Parigini

Anna Salvatore

La Salvatore ebbe anche una sua galleria d’arte a piazza del Popolo, la «Galleria del Pincio»[…]· (p. 148)

Milena Milani

V – UN FOTOGRAFO CHE SOMIGLIAVA A DUSTIN HOFFMAN p. 159

Plinio De Martiis

E così, per caso, con in tasca 11.000 lire, lui fondò «La Tartaruga», la galleria che accompagna e alimenta il cammino talvolta leggendario dell’arte romana tra anni Cinquanta e Sessanta. (p. 163)

Emilio Villa

Alberto Arbasino

Di tutti i protagonisti della neoavanguardia letteraria, e sono tanti in quei primissimi anni Sessanta, Arbasino è il più colto e il più dandy. (p. 181)

Jannis Kounellis

Achille Bonito Oliva

A Roma arrivano gli aspiranti pittori e gli aspiranti scrittori. (p. 183)

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Giuseppe Uncini e Mario Schifano

Dal suo esordio e fino alla sua morte, per oltre trent’anni, Schifano farà della sua vita quotidiana un’esibizione continua e un’opera d’arte. (p. 189)

VI – A MONTEVERDE VECCHIO CI ABITAVA LA POESIA p. 192

Pier Paolo Pasolini

A Roma c’era arrivato mano nella mano di sua madre Susanna. […] La madre e il figlio ventottenne fuggivano. Fuggivano la vergogna, lo scandalo, gli sguardi obliqui e irridenti dei loro compaesani. […] Il comunista pervertito che attira a sé e alle sue voglie degli adolescenti senza difesa. (p. 192)

Né, in fatto di ferocia persecutoria, fu da meno la sezione del Pci cui Pasolini s’era iscritto nel 1947. […]

Nella Roma del gennaio 1950 Pasolini non aveva una sola carta in mano, non una paga né un ruolo possibile. (p. 193)

E tuttavia Roma lo accolse, lo protesse, lo nascose. In poco più di cinque anni il professorino braccato e senza una lira vi divenne un artista di straripante produttività, dai romanze alle poesie alle sceneggiature cinematografiche.[…]

Quel che era divenuta impossibile da vivere a Casarsa, la sua condizione di omosessuale manifesto, divenne possibile in quella grande Roma dove c’era un posto per tutto e per tutti. (p. 194)

La Roma degli anni Cinquanta che lui conosce, sperimenta, cerca, è tutt’altra da quella che abbiamo raccontato finora, la Roma della libreria Rossetti e del Caffè Rosati. […]

è una Roma sfregiata, aspra, barbarica, una Roma suburbana fatta di calce e di fango dove i romani che il fascismo ha sfrattato dal centro storico vivono ammucchiati alla ben’e meglio, mescolati con i meridionali immigrati alla disperata nella Roma degli anni Cinquanta. (p. 201)

Il suo primo romanzo, Ragazzi di vita, esce nel maggio 1955. (p. 202)

Con l’accusa di oltraggio al pudore, è il primo dei 33 procedimenti legali contro la sua opera. […]

Lo stesso procuratore della repubblica si ritira dal processo. La sentenza di assoluzione riconobbe «le pagine di autentico lirismo del libro». La celebrità di Pasolini ne venne frustrata a impennarsi verso l’alto.

Già adesso, e lo rimarrà fino alla morte, lui è divenuto un caso, uno scrittore che fa notizia e di cui desta curiosità ogni sua mossa. (p. 203)

Nei sette anni in cui Pasolini abita a Monteverde Vecchio, è come se quel quartiere fosse divenuto il baricentro e il capoluogo della poesia italiana. (p. 205)

Attilio Bertolucci

Giorgio Caproni

Quanto a Pasolini, nel 1957 pubblica sempre da Garzanti Le ceneri di Gramsci, la sua raccolta poetica più importante e famosa. (p. 206)

Il regista con il quale si accorda meglio, nel dare un ritmo e una possibilità visiva a un’idea narrativa, è Mauro Bolognini. Nel 1960 arriva a collaborare nientemeno che a 13 sceneggiature. L’esordio da regista cinematografico arriverà l’anno dopo, nel 1961, con Accattone, il film in cui elegge a protagonista Franco Citti[…].

A 39 anni, la sua identità intellettuale è piena e completa. Il suo piedistallo artistico già eretto e rifinito. (p. 107)

Stare né contro né con, starsene a parte. (p. 208)

Tutta la sua vita il rapporto di Pasolini con il Pci arrivava ogni volta al limite di rottura, per poi ricominciare ed essere ricostruito alla ben’e meglio. […]

A loro, i scritti letterari comunisti, i «ragazzi di vita» non erano piaciuti nemmeno un poco. […]

E più tardi arriveranno le polemiche furibonde di Pasolini contro Maurizio Ferrara, l’allora direttore dell’«Unità», e poi quel suo separarsi e discostarsi polemicamente dai laici al momento de dibattito sulla depenalizzazione dell’aborto, e quella sua poesia del 1968 in cui dice di stare dalla parte dei poliziotti e non da quella degli studenti, borghesi e figli di borghesi com’erano e come lui li disprezzava. E a non dire quel che Pasolini pensava dei «comunisti da salotto»: «Penso dei comunisti da salotto ciò che penso del salotto. Merda». (p. 211)

Quella di Pasolini pensatore politico antiveggente, e da usare come punto di riferimento per le battaglie del presente di un’ideale forza politica moderna, è una leggenda costruita in gran parte post mortem. […]

Un Pasolini artificiale e irreale è stato sovrapposto al Pasolini vero, quello fatto di nervi dolenti e di sensi brucianti. […]

C’ero anch’io quel pomeriggio di novembre del 1975, quando la bare dov’era il corpo di Pasolini venne portata a spalle fuori dalla Casa della cultura di via Arenula. Scattavano verso l’alto i pugni chiusi di quei giovani che lui non aveva mai blandito, sventolavano tutt’attorno i drappi rossi. (p. 213)

NOTE p. 215

INDICE DEI NOMI p. 229