ENZO DI MAURO – FENOMENOLOGIA DI BATTIATO
A curo di Claudio Chianura.
Con un saggio fotografico di Roberto Masotti
AUDITORIUM – Seconda Edizione 2004
A UN CERTO PUNTO ARRIVò FRANCO BATTIATO
Di Claudio Chianura p.17
L’esplosione di Battiato a rigenerare la scena musicale italiana…
Inoltre, verso la fine degli anni Settanta, a una scena internazionale eccitante ed esplosiva grazie a punk, new wave, reggae e quant’altro gli girava intorno, faceva da triste contraltare un desolante panorama nostrano che aveva in pochi nomi sconosciuti una sparuta rappresentanza all’altezza dei tempi.
Fu allora che arrivò lui, Franco Battiato. (p.18)
Nessuno avrebbe scommesso un soldo su quella produzione. E invece, proprio allora, tutti iniziammo ad ascoltare Battiato. (p.19)
Lucidi e geniali i giornalisti…
Tutto questo, però, non ha mai scatenato la stampa contro il musicista, anzi. Per i giornalisti Battiato era un personaggio familiare.
In ogni caso, Battiato non era certo un cantante “costruito” dai discografici:[…] (p.20)
A quel punto però, la popolarità di Battiato stava crescendo a dismisura. Le vendite erano inarrestabili. Lui era ovunque. E non solo, ma scriveva e scriveva canzoni per questa e per quella interprete della scena italiana, si trattasse di Milva, di Alice, di Giuni Russo…
Appariva in ogni trasmissione televisiva. (p.20)
Battiato scrisse un pezzo per il Festival di Sanremo, affidandolo ad Alice, e vinse il festival. Partecipò all’Eurofestival cantando con Alice quella canzone meravigliosa che si chiama I treni di Tozeur. Vinse anche lì.[…]
Battiato riempivano gli stadi. Le sue interviste erano ospitate su giornali di ogni genere. (p.22)
Come accade spesso in questi casi, si cercava la chiave di tanto successo, tentando di definirne a posteriori la ricetta, per così dire, “scientificamente”. (p.23)
Non si contano le interviste rilasciate da Battiato negli anni dalla sua ascesa discografica ad oggi. Considerato come un vero e proprio maestro di pensiero, il suo parere viene richiesto sugli argomenti più disparati.
Ma se cercassimo nelle sue innumerevoli dichiarazioni un pur minimo cenno di coerenza, resteremmo delusi. Il suo pensiero si mostra cangiante.
E soprattutto, le affermazioni del musicista sembrano riferirsi sempre a qualcosa di diverso dalla propria musica. (p.24)
Continuamente indeciso tra il ruolo di ‘nuovo filosofo’ impegnato e quello di ‘saggio’ sopra le parti, Battiato scrive testi di valore alterno, che riscuotono accoglienze ondivaghe da parte dei giornalisti e che egli stesso difende strenuamente o sminuisce drasticamente a seconda dell’interlocu- tore. (p.25)
Per un verso sembra volersi liberare compieta- mente, attaccando in maniera esplicita i totem della cultura di massa, le cause del degrado contemporaneo che egli certamente riconosce. Per un altro preferirebbe puntare a un equilibrio che consenta la pacata osservazione e il misurato giudizio sulle cose e le persone che lo circondano. Il saggio vorrebbe tacere il polemista. Il polemista toglie la pace al saggio, alla ricerca di una continua, infaticabile sovraesposizione dell’artista che si fa merce da promuovere, vendere e consumare.
E poi nel bene nel male, è una questione sociale…
Provocatoriamente, fa capolino nei testi l’invettiva, ma sempre frenata da ripensamenti, retromarce, esitazioni. (p.27)
Perdere tempo intorno alla dialettica servo-padrone ha il solo scopo di allontanarsi dai problemi ben più seri e fondamentali, quali per esempio la comprensione dell’universo e della relazione nostra con esso.”(Bertrando, Caisraghi, Mazzoni – Intervista a Franco Battiato, “Re Nuovo”, 1981).
Un vero e proprio tributo alla maggioranza silenziosa, che gli riconoscerà, col cuore gonfio di commossa gratitudine, il ruolo di cantore delle verità trascendenti e immutabili. (p.30)
In Battoato la decisione di abbandonare la ricerca rappresenta quindi un affrancamento dalla cultura accademica e dall’idea di centralità della musica. (p.34)
Gli piace cullarsi nell’idea di aver compiuto un percorso ascetico, una evoluzione che dall’aridità sperimentale lo ha condotto al riconoscimento e all’apprezzamento generale, nobilitato di tanto in tanto da qualche puntatina nei giardini profumati del sacro e dell’opera, tra i banchi di una chiesa o i palchi di un teatro. (pp.36-37)
È un cantautore, ma conosce la musica sperimentale. Fustigatore delle apparenze, è attentissimo all’uso della propria immagine. Non ama l’accademia, ma si circonda di intellettuali che esibisce con malcelato orgoglio. Collaborazioni che parrebbero fuori luogo. Il filosofo che parla in greco antico. Il maestro di violino… Tutto questo non serve a migliorare la musica di Battiato, ma semplicemente a innalzarla di grado, “nobilitandola” rispetto al resto della musica leggera. (pp.39-40)
“L’opera d’arte più meravigliosa e compiuta che una persona può fare è se stesso, quindi sei in un continuo viaggio alla scoperta di te stesso. E diventi responsabile, perché non dai più la colpa agli altri, non pensi più che è sempre fuori che c’è qualcosa che non va, ma cominci a guardare quali sono i tuoi meccanismi e i tuoi limiti.” (Carlo Silvestro, Franco Battiato, Frigidaire, 1983. Intervista) (p.41)
Perchè l’autore di Oceano di silenzio porge il silenzio infrangendolo? Perché ha scelto di non darci quella splendida suggestione? Perché ha deciso di negare ciò a cui allude? Ha scelto di essere ovunque, cantare ovunque, suonare ovunque, presenziare ovunque, esserci piuttosto che non esserci, parlare piuttosto che tacere…[…]
Ma Battiato non sembra voler compiere davvero questa scelta, perché egli è, come tutti noi siamo, prigioniero di quel desiderio d’affermazione che ci porta sempre verso il tumulto della folla, piuttosto che nella solitudine del silenzio. Così, egli sarà più simile ai moltissimi che nella propria umana, dolcissima debolezza possono riconoscersi nelle parole illuminanti di Léonard Bernstein:
“Il problema è che noi musicisti vogliamo che tutti ci vogliano bene, proprio tutti quelli che ci ascoltano, presi uno per uno. ” (p.45)
NOTE p.46
FENOMENOLOGIA DI BATTIATO
Di Enzo Di Mauro p.49
Via da questa religiosità a buon mercato e da supermercato, dovrebbe gridare Battiato al pubblico che lo segue attraverso i dischi e ai concerti. Via da qui i buddisti da discoteca e i dervisci griffati. Siate duri e rigorosi. Siate precisi come una freccia che non può non colpire il centro del bersaglio. Naturalmente, per fare questo, Battiato dovrebbe precisare meglio l’oggetto del proprio desiderio, aggiustare il tiro. Cosa che forse non può fare perché la sua modernità non glielo consente e nemmeno glielo consente lo spazio di sperimentazione che si è scelto e da cui è stato scelto. La fortuna e la dannazione di Battiato è questa: egli è assoluta- mente moderno. (p.51)
Battiato rappresenta come nessuno questo stato di disperato eroismo, questa coscienza della perdita di sé. Un po’ come gli eroi omerici che vanno allo scontro sapendo che resteranno uccisi sul campo di battaglia. Battiato mette in scena la transitorietà della canzone, la sua splendida fragilità, il vacillamento delle povere rime in musica, il legame mortale col proprio tempo. Rimuovendo il passato e senza occhi per il futuro. Le sue canzoni sanno che la gloria non può che essere elargita e insieme lacerata dal presente, anzi da un attimo del presente, da una scheggia di tempo. Se nessun dio abita in quelle note e in quelle parole, Battiato abita come un principe le macerie di questo sputo di secolo, egli stesso fiammeggiante maceria, sorridente e frantumato come un angelo senza ali, tendine che sfrigola, appunto. Se è vero che non ci sono più le stagioni, altrettanto indiscutibile mi pare che siamo solo di passaggio. (pp.52-53)
Sì, Battiato racconta raramente. Non costruisce storie, ma solo pensiero frantumato, sbrindellato. Non il tempo, ma semmai ciò che accade tra un atto e l’altro. Ma potrebbe – se solo lo volesse o lo potesse – dimostrarsi un narratore straordinario. Come quando, ad esempio, compaiono i luoghi della disciplina e dell’educazione, la famiglia in primo luogo, e poi il collegio, la scuola, l’oratorio, la palestra. Insomma, gli ordinamenti chiusi, ovattati, ripetitivi, rigidi, addirittura sadici. Un vero teatro della crudeltà. Qui, appunto, entra in gioco il corpo. Quando ciò non accade – ossia quasi sempre – Battiato si costringe all’astrattezza e all’ideologia. E proprio per questo viene amato dal pubblico che, essendo consumista, non tollera il materialismo. Che niente lo disturbi, insomma, dai fieri pasti. (pp.53-54)
Dadaumpa. Battiato usa, per costruire le proprie canzoni, citazioni, orli di sapere, pensieri associativi e automatici. Anche in questo egli è novecentesco. […]
Si tratta di una tecnica abile e, nel complesso, abbastanza elementare di cut-up. È, in fondo, la resistenza del vecchio spirito dadaista che pure ha lasciato tracce ampie e ben visibili e ancora operanti nel corso di tutto il secolo. Battiato ha successo esattamente a questo incrocio, in questa oscillazione: tra moralismo apocalittico e gioco che cancella, tra desiderio di ricompattamento e necessità di rompere tutto, tra eticità e nichilismo, tra furore apocalittico e cautele mediatiche. (pp.54-55)
Non vi è alcun dubbio, ad esempio, circa il disprezzo che Battiato prova per la televisione e per i presentatori e conduttori, eppure questo dato non gli impedisce – qualora si renda necessario – di frequentare gli studi dove si registrano le trasmissioni peggiori, vera spazzatura, micidiale veleno. Ugualmente, non è pensabile che Battiato preferisca le piazze oceaniche del vari Festivalbar ai chiostri e alle chiese di Assisi, eppure, sempre all’interno di quell’orizzonte, egli si esibisce in entrambi i luoghi. Battiato ha in odio i direttori artistici e gli addetti alla cultura, ma ciò non impedisce che egli possa dedicarsi a questo utile servizio sociale. Battiato ha in gran dispetto – sentitamente ricambiato, credo – il mondo della musica cosiddetta seria, i suoi operatori, i suoi santuari, ma allo stesso tempo compone Genesi, Gilgamesh, Il cavaliere dell’intelletto. Sbaglierebbe colui il quale pensasse a un atteggiamento auto-giustificazionista, frutto di furbizia e di cinismo. No, è solo paura e tremore, modernità e timidezza, sentimentalismo e voglia di autocancellazione, sfida a un mondo che continua ad amarlo e a leggere in tutti i suoi atti un filo resistentissimo di coerenza che egli considera inutile e nefasta. È, in ultima analisi, piuttosto una sfida al giustificazionismo degli altri, dei giornalisti, dei critici e dei fans. È – ancora una volta – la coscienza alta di vivere il proprio tempo, il tempo in cui tutto è possibile, fino in fondo, fino all’annullamento del senso e di ogni senso.
- Ansa. I giornalisti musicali, specie con Battiato, non esercitano il mestiere della critica. Essi lo considerano – a ragione – uno fra i più bravi, e dunque non lo discutono neppure. (pp.57-58)
In Battiato, per i giornalisti, una cosa non è mai una cosa. È sempre un’altra cosa ancora. Invece, in quelle canzoni – nelle più belle, nelle più riuscite, nelle più ispirate – la forza si nasconde in superficie. Esse sono prive di profondità, pronte a polverizzarsi quando vedono la luce o sentono l’aria. Anche la sineciosi è visibile, limpida, esposta. Battiato è il musicista meno misterioso che esista, colui che più di chiunque altro non può che mostrarsi nudo, anzi scarnificato. Si potrebbe dire, con un paradosso, che non ha inconscio. Trattandolo alla stregua di un asceta, di un mistico, di un veggente, di un povero romito o di un monaco trappista, i giornalisti finiscono per neutralizzarlo, per renderlo inoffensivo. Naturalmente, tutto questo Battiato lo ha capito e ne approfitta. Dinanzi a una stampa fatta di discenti, egli si chiede: “Dove vogliono arrivare?”.
- Enrico Panzacchi. Battiato, suo malgrado, ha una sconfinata ammirazione per gli uomini di cultura. Per gli intellettuali, per gli scrittori, per i musicisti “seri”. (p.59)
Sono diventate tensioni privatissime, espresse e ad un tempo chiuse in una ricerca che ha sempre oscillato fra sperimentalismo e ricomposizione, fra entropia e disordine, fra sacralità ed empietà, fra nostalgia e disastro del senso. Fra aspirazione al silenzio e necessità del rumore. Battiato mette in scena un dissidio insanabile, divorante. Egli espone, sull’altare di quella forma di comunicazione di massa che è la canzone, i cocci del soggetto, la filigrana tenerissima, pronta a rompersi, di ciò che non potremo più essere. Non un simulacro, ma la sua traccia prima che si cancelli per sempre.
- Curzio Malaparte. Battiato ha capito come va il mondo. Allora usa il bastone del moralismo insieme alla carota del nichilismo. Nulla va bene, tutto va bene.
- Mario Rapisardi. L’autentico furore dadaista di Battiato si è esercitato innanzitutto sui detriti della cultura di massa, sui tic, le manie e le smànie anzi della sottocultura. E poi sulle reminiscenze scolastiche. Memorabilità e citabilità estreme. (p.61)
Anche il plurilinguismo – l’arabo, il greco antico, il siciliano, l’inglese, il tedesco, il portoghese, lo spagnolo – oltre che un divertente gioco dadaista, qui è un sottrarre senso e peso alla lingua, rimozione, nascondimento, ottundimento della comunicazione, ronzìo, afasìa. In ultima analisi, cornice con tela strappata. Apparenza e statua vuota. Edonismo, dunque ideologia. A Battiato sarebbe bastato non ambire all’occupazione del centro. (p.62)
Questo residuo di cultura romantica è un aspetto commovente di Battiato. Egli, forse, dice così poco di sé perché non ha nulla da dire. Sente di non possedere nulla, neppure una biografia e sa – da uomo tutto dentro lo scorcio di secolo che sta attraversando – di non riuscire a costruirsene una, mancandogli la dedizione alla rinuncia. Se – come scriveva Pasolini – bisogna essere forti per amare la solitudine, non meno forza occorre a colui il quale pretende una biografia tutta per sé. (p.65)
INSERTO FOTOGRAFICO
Di Roberto Masotti p.67
CONVERSAZIONE CON FRANCO BATTIATO DOPO “L’IMBOSCATA”
A cura di Enzo Di Mauro e Andrea Pasini p.119