DINO BUZZATI – LA BOUTIQUE DEL MISTERO

DINO BUZZATI – LA BOUTIQUE DEL MISTERO
DINO BUZZATI – LA BOUTIQUE DEL MISTERO

DINO BUZZATI – LA BOUTIQUE DEL MISTERO

MONDADORI – Collana Oscar Moderni n. 33 – Ristampa 2017

Dino Buzzati p. 5

I SETTE MESSAGGERI p. 3

Da oltre otto anni un principe avanza nei territori del proprio regno per raggiungerne i confini, senza tuttavia esser riuscito ancora a raggiungerli. Lo scoramento si fa in lui vieppiù sempre più vasto, con pensieri negativi quali lo “stiamo girando in cerchio” o “mai potrò arrivare alla fine” e che forse è partito troppo tardi…

Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla

città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.

Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati,

esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla

partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho

continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.

Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere

sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.

Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si

estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine. (p. 3)

Con sé ha portato i sette migliori cavalieri del regno per poter intrattenere comunicazioni con i genitori utilizzandoli come messaggeri…

[…] e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri. (p. 4)

Inizialmente gli erano sembrati un’esagerazione, accorgendosi ben presto di essere in errore. Lasciato partire il primo al secondo giorno di viaggio e poi gli altri uno di seguito all’altro, all’ottavo giorno il primo non aveva ancora fatto ritorno… L’intervallo del loro ritorno si fa inevitabilmente sempre più ampio e la nostalgia s’impossessa di lui, ormai lontano dalla capitale e straniero nel suo stesso ignoto regno…

Le nuvole, il cielo, l’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero. (p. 5)

Dopo otto anni e mezzo eccolo accogliere durante il bivacco serale Domenico, il quarto messaggero, di ritorno dopo quasi sette anni. Ne riceve le lettere, affidandogli le sue per l’ultimo viaggio in direzione della capitale. Sa che non si rivedranno più. Nella capitale a regnare è ora il fratello maggiore e nuove costruzioni sono sorte sui luoghi dell’infanzia. L’ansia di sapere cosa si trova oltre lo coglie, pur convinto che probabilmente non si accorgerà nemmeno del valico dei confini, decidendo d’inviare di lì in poi i messaggeri in avanti per scoprire cosa lo aspetti lungo il cammino…

Porta, il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. […]

Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera.

Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno non nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro. (p. 6)

Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo. (pp.6-7)

Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne

inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il

campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città

lontanissima l’inutile mio messaggio. (p. 7)

L’ASSALTO AL GRANDE CONVOGLIO p. 8

Dopo tre anni di carcere per contrabbando, il capo brigante Gaspare Planetta ottiene la libertà. Debole e malato, si dirige verso il suo vecchio covo sul Monte Fumo. Nessuno dei presenti lo riconosce e così riesce a spacciarsi per un compagno di cella. Apprende che il capo è ora Andrea, forte ed energico, che arriva successivamente. Gaspare capisce di essere ormai stato tagliato fuori…

[…] capiva di essere vecchio, che per lui non c’era posto, che il suo tempo era tramontato. (p. 10)

Richiedendo i vecchi oggetti di Planetta, si fa infine riconoscere, sebbene nessuno, vedendone il mutamento fisico, ne faccia parola. A denti stretti Andrea gli fa recuperare gli oggetti lasciati, compreso fucile e pugnale, con i quali poco dopo il vecchio lascia il covo…

Gaspare si ritira in un rifugio immerso nei boschi del monte dove un giorno si presenta un ragazzo diciassettenne, Pietro, entusiasta di poter iniziare una vita da brigante dopo esser riuscito a rubare un fucile. Dato che cerca i briganti, Gaspare si presenta come Planetta, destando ammirazione nel ragazzo che gli chiede di poter restare. Ma i giorni passano nell’inattività e il giovane inizia a pensare che il vecchio sia malato e non voglia più compiere nessuna scorribanda nonostante le proposte che gli presenta. Per placarlo Gaspare inventa un fantomatico piano d’assalto al Grande Convoglio Imperiale che il 12 settembre di ogni anno trasporta le tasse della provincia alla capitale. Invano negli anni in molti ci hanno provato. Pietro è estasiato dal coraggio del maestro… Ma i giorni passano e l’unica cosa che Gaspare mette in moto è la lingua per profferire dettagli del piano che non ha intenzione di porre in atto, impossibile da realizzarsi com’è…

L’11 settembre il ragazzo torna furente al rifugio: ha scoperto la verità incontrando i banditi di Andrea… L’indomani se ne andrà… Scosso nell’orgoglio, Gaspare decide di tenere fede alla promessa e di tornare ad essere per un giorno il vero sé stesso, partendo al mattino per attaccare il convoglio…

Ma all’indomani fu Planetta ad alzarsi per primo.[…]

Eppure non erano storie. Planetta, ora che era rimasto solo, andò ad assalire il Gran Convoglio. (p. 16)

Appostatosi nei pressi della salita che quello dovrà attraversare, eccolo raggiunto dal giovane che inizialmente accetta di andarsene salvo poi tornare al suo fianco… Il convoglio è sempre più vicino e un colpo di fucile scuote improvvisamente l’aria, non di cacciatore, bensì degli uomini di scorta che hanno centrato il maldestro giovane. Ormai individuato, il vecchio raggiunge Pietro, ricevendo a sua volta un colpo al petto. Prima di morire i due hanno l’onore di essere omaggiati da una nutrita schiera di eroici briganti morti per assaltare quello stesso convoglio… Le anime dei due assassinati escono dai rispettivi corpi, unendo al gruppo. Tra gli spiriti c’è anche l’amato cavallo Polak sul quale Gaspare fa però salire Pietro che avanza con i briganti verso il Regno dei Briganti Morti… Dopo aver osservato la strada e il convoglio e la scorta, Gaspare si accorge che i gendarmi hanno assistito a tutta la scena, salutandolo mentre s’incammina a piedi, fischiettando, per il Regno dei Briganti Morti…

SETTE PIANI p. 23

Giuseppe Corte, affetto da una leggera febbre, giunge una mattina di marzo nella città dove si trova la celebre casa di cura per quel tipo di malessere…

Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c’era la famosa casa di cura. (p. 23)

L’edificio è moderno ed efficiente e Giuseppe si ritrova sistemato in una camera del settimo piano. Lì un’infermiera gli spiega che i malati sono divisi, in base alla gravità, in sette categorie smistate sui vari piani dello stabile, con al primo quelli ormai moribondi… Prima di sera scambia qualche battuta con il malato della stanza a fianco, già ricoverato da due mesi, che gli spiega che le tapparelle delle stanze al primo piano vengono abbassate alla morte del paziente… Giuseppe inizia a pensare incessantemente ai misteri di quel primo piano, sentendosene tuttavia ben lontano…

I giorni passano e, pur attenendosi alle prescrizioni mediche, non ottiene miglioramenti. Dopo circa dieci giorni dal ricovero, con la scusa di cedere il posto al figlio di una signora che deve essere ricoverata, Giuseppe si trova trasferito al sesto piano. Lì i medici lo rassicurano, nonostante venga a sapere che il suo male è sì di lievi intensità ma di vasta espansione e che il processo di distruzione delle cellule non è forse ancora cominciato…

Passano pochi giorni e per una presunta nuova procedura di classificazione dei malati, l’ospedale procede a trasferire al piano inferiore i pazienti ritenuti più gravi di ogni piano. Giuseppe si vede così trasferito al quinto, dando in escandescenze. Il medico lo rassicura, dichiarandolo dovuto certamente a un errore, ma che forse sarà curato meglio. La febbre debilitante costringe Giuseppe a placarsi…

Alla fine si accorse che gli mancavano la forza e soprattutto la voglia di reagire ulteriormente all’ingiusto trasloco. E senza altre ipotesi si lasciò portare al piano di sotto. (p. 30)

Dopo solo tre giorni, con la scusa di dover curare un eczema presentatosi su una gamba, Giuseppe viene trasferito al quarto piano dove si trova il macchinario a raggi Digamma… Inizialmente si era opposto, ma l’allargarsi dell’eczema lo avevano costretto ad accettare…

I giorni passano, l’eczema si riduce ma non scompare. Pressato dai consigli del medico, Giuseppe decide di scendere al terzo piano dove si trovano macchinari ancora più potenti… Ma anche lì resta poco: i medici devono andare in vacanza e i malati sono spostati al secondo. Lì Giuseppe subisce un peggioramento delle proprie condizioni psico-fisiche, finendo trasferito all’ultimo piano, “per errore”… Verso le tre del pomeriggio si accorge del buio che invade la stanza per il lento calo delle tapparelle, segno evidente della sua prossima morte…

EPPURE BATTONO ALLA PORTA p. 39

Al termine della giornata di lavoro Maria Gron torna nella viva dove vive con i familiari, il marito Stefano e i figli Federico e Giorgina. In casa è presente anche l’amico medico Eugenio Martora, mentre fuori impazza un furioso temporale…

Giorgina inizia d’un tratto a raccontare di aver visto un contadino portare su di un carro uno dei cani di pietra presenti a ingresso villa con quello a dichiararle di averlo recuperato sulle sponde del fiume. Inspiegabilmente Maria cerca a più riprese di cambiare discorso, mentre un sordo rumore zittisce i presenti…

D’un tratto suona il giovane Massigher che, trafelato, sembra voler dichiarare qualcosa d’importante. Anche stavolta, inspiegabilmente, Maria cerca di impedirgli di parlare, mentre un secondo boato scuote la casa… Il giovane vorrebbe avvisare della prossima esondazione del fiume che scorre proprio a ridosso della villa… I ricchi padroni di casa sono sicuri della villa, con Federico a scacciare il fattore giunto per chiedergli di perlustrare i dintorni per via del fiume ingrossato. Massigher tenta di convincere il coetaneo, ma alla fine è costretto a sedersi al tavolo da gioco con gli uomini mentre Girgina va a dormire e Maria inizia un ricamo… L’acqua inizia però a invadere il pavimento e i tonfi si fanno rombo costante. I servitori sono fuggiti e alla fine i Gron sono costretti ad ammettere che la casa è in balia del fiume esondato… Maria non può far altro che gettarsi dalla finestra, mentre qualcuno, forse uno spirito, bussa al portone…

IL MANTELLO p. 52

Dopo lunghi mesi al fronte, un giovane soldato, Giovanni, torna a casa inaspettatamente. La madre e i fratelli sono felicissimi del suo arrivo, ma lui è triste e distaccato. Un uomo misterioso, avvolto in un mantello, lo attende in strada… Anche lui indossa un mantello di cui non vuol separarsi… La donna gli offre cibo e bevande, sorpresa che il figlio gli preannunci una nuova partenza non potendo far aspettare oltre chi lo attende in strada. Quando uno dei fratelli gli alza il mantello, si scorge il sangue di una ferita. Ad aspettarlo è la Morte, con cui riparte in direzione del monte…

UNA COSA CHE COMINCIA PER ELLE p. 57

Il mercante di legnami Cristoforo Schroder arriva nel paese di Sisto accusando un lieve malessere. Chiamato l’amico dottore Lugosi, si mette a dormire dopo la di lui partenza. L’indomani il dottore torna accompagnato da un uomo che dichiara essere Don Valerio Melito. Insinuante, questi lascia intendere di conoscerlo e di averlo visto finire fuori strada tre settimane prima facendosi aiutare da un uomo che aveva “una cosa che inizia per elle”… Sempre più nervoso, la verità si palesa a Cristoforo: ad aiutarlo a rientrare in strada era stato un lebbroso e ora anche lui è malato. Dovrà indossare una campana e lasciare paese e Regno. Don Valerio si rivela l’alcade che si diverte ad allontanarlo senza fargli prendere nulla dei propri beni…

UNA GOCCIA p. 65

In un casamento una goccia risale la notte per le scale destando ansia e paura negli inquilini…

LA CANZONE DI GUERRA p. 68

Il re dapprima e i generali poi si chiedono come mai, nonostante le sfolgoranti vittorie e la continua avanzata degli eserciti, i soldati si ostinino a cantare una triste canzone che termina con “dove ti ho lasciata una croce ci sta”… Dopo alcuni decenni le vittorie continuano a susseguirsi, ma nella capitale sono ormai sorti cimiteri sterminati per i soldati caduti, dando così un senso al fatale canto…

LA FINE DEL MONDO p. 73

Un giorno in cielo appare un pugno gigante che si apre poi pronto a ghermire. È Dio nel giorno del giudizio universale. La popolazione cade nel panico e inizia a cercare la salvezza dell’anima nei rari preti che vede in giro. Uno di essi finisce nella disperazione: la sua anima da chi sarà salvata?…

INVITI SUPERFLUI p. 77

Inviti superflui di un innamorato a una donna ormai lontana che l’ha probabilmente obliato…

RACCONTO DI NATALE p. 81

La notte di Natale un mendicante si presenta in Duomo per chiedere a Don Valentino, in servizio di preparazione per la messa dell’arcivescovo, un po’ di spirito divino. Il prete glielo nega, ma lo spirito si allontana. Valentino lo insegue, raggiungendolo presso una casa operaia e poi in campagna da un contadino, vedendolo allontanarsi sempre più al rifiuto di quelli a cedergliene una parte. Alla fine, tra la neve, al limite delle forze, apre una porta ritrovando in una chiesa al cospetto dell’arcivescovo circondato dalla luce divina…

IL CANE CHE HA VISTO DIO p. 85

A Tis, paese di miscredenti antireligiosi, il ricco fornaio Spirito lascia beffardamente al nipote, Defendente, il forno e tutti i propri averi a condizione che, per cinque anni, ogni mattina distribuisca ai poveri cinquanta chili di pane. Seppur controvoglia, il giovane sta ai patti, pur trovando il modo di beffare i poveri e lo spirito dello zio: da un’apertura della cesta dove pone i pani ne recupera molti durante la distribuzione…

Alle porte del paese, richiamato dalla fame di miscredenza, si stabilisce l’eremita Silvestro attorno alla cui dimora, di notte, si diffonde un riverbero visibile anche dai paesani che, però, totalmente indifferente, mai da lui salgono a verificare…

Un cane inizia ogni mattino a prelevare un pane che poi via lentamente, senza fuggire, eludendo la caccia che Defendente organizza. Un giorno il fornaio lo segue con la bicicletta e il fucile, fino ad arrivare ai piedi di un colle dove giace Silvestro cui il cane, Galeone, porge il pane dal quale l’eremita preleva solo una piccola parte. Defendente si fa avanti ma una sorta di blocco lo coglie rendendolo docile e impossibilitato ad adirarsi, arrivando a farsi il segno della croce e a dichiararsi addirittura credente e disponibile a lasciare il pane al cane…

Per evitare di essere scoperto e screditato, Defendente lascia a Galeone il pane sotto la panca di una baracca… Passano i mesi e, giunto l’inverno, una notte una forte luce illumina il colle: Silvesotro è morto!… Il parroco e il becchino lo seppelliscono e per due settimane del cane non si hanno più notizie. Poi, eccolo ricomparire in paese, debole e smunto, in cerca di cibo. Defendente, all’osteria con alcuni amici, nega sia il cane dell’eremita e di averci avuto a che fare… Nella mente, però, gli resta il turbamento per l’eventuale reale santificazione dell’animale…

Passano i giorni e il cane, sebbene non tocchi il pane che il fornaio gli lascia, appare sempre più florido, evidentemente alimentato di nascosto dagli ipocriti abitanti di Tis che tentanto forse così d’ingraziarsi Dio…

Un giorno, mentre è intento a prelevare il pane destinato ai poveri, Defendente si accorge della presenza di Galeone, che, imperturbabile, lo guarda con occhi accusatori prima di andarsene lentamente…

Il cane diviene presenza fissa in paese, inquietando gli abitanti e costringendoli, con latrati, abbai e guaiti a riconoscere il male che stan per compiere, a desistere e a tornare sulla retta via. Il più perseguitato è ovviamente il fornaio, timoroso di perdere la propria eredità se denunciato nell’atto di trafugare parte del pane destinato ai poveri…

Le malefatte dei cittadini si riducono allo zero fino a che, una notte, Defendente si sveglia credendo di udire il rumore di ladri in azione. Dalla finestra scorge anche l’ombra di un cane. Apre il fuoco e, a giacere al suolo, è proprio Galeone… Eppure, nel pomeriggio dell’indomani, il cane ricompare in strada alimentando così il mito della divinità in lui presente. Le offerte in chiesa si moltiplicano così come le elargizioni ai poveri per via della paura di essere giudicati che gli abitanti ora nutrono nei suoi riguardi…

Anni dopo, ormai invecchiato, Galeone è vittima di una paralisi alle gambe posteriori presso il Duomo. Di giorno nessuno gli si avvicina per timore di essere deriso, ma, ipocritamente, un’infinita processione di nere ombre gli fa dono nottetempo di cibo e bevande… Gli abitanti, per causa sua, hanno cambiato radicalmente il proprio stile di vita, sperando che la bestia muoia presto, oppressi dai suoi sguardi e della sua voce…

Il cane alla fine muore, ma gli abitanti restano inquieti e incapaci dopo lungo tempo di tornare alla abitudini modificate… Decidono di seppellirlo al fianco di Silvestro ma, giunti in collina, scoprono le ossa consumate di Galeone proprio al di sopra della tomba del padrone… Si sono autosuggestionati per anni…

QUALCOSA ERA SUCCESSO p. 112

Un uomo viaggia a bordo di un direttissimo. Giunti a un passaggio a livello di un paesino di campagna, si accorge della presenza di una donna ferma alla sbarra per ammirare quel gioiello della tecnologia. Ma la donna, al passaggio del treno si volta per rispondere alla chiamata concitata di un uomo sopraggiungente alle sue spalle. Il viaggiatore non dà troppo peso alla cosa, ma poco dopo si accorge di un contadino che chiama a gran voce un gruppetto di persone… Il treno fila via veloce… Cosa sarà successo?… Il dubbio diviene certezza quando analoga concitazione gli sembra di scorgere in tutti i paesini attraversati… “qualche cosa era successo e noi sul treno non ne sapevamo niente”.

Gli altri passeggeri non si accorgono di nulla, o fingono di non avere paura? Il treno, stranamente, non si ferma mai e viaggia imperterrito verso nord proprio mentre invece tutti sembrano dirigersi verso sud per scampare a un ignoto pericolo…

“E tutti avevano la stessa direzione, scendevano verso mezzogiorno, fuggivano il perclo mentre noi gli si andava direttamente incontro[…].

Con il passare delle ore il pericolo si fa evidente, ma nessuno dei passeggeri, per contegno, pone domande o tira la leva del freno d’emergenza…

“Ma nessuno parlò o ebbe l’audacia di rompere il silenzio o semplicemente osò chiedere agli altri se avessero notato, fuori, qualche cosa di allarmante.

Ora le strade formicolavano di veicoli e gente, tutti in cammino verso il sud. Rigurgitanti i treni che ci venivano incontro. Pieni di stupore gli sguardi di coloro che da terra ci vedevano passare, volando con tanta fretta al settentrione”.

Una passeggera, in una stazione, riesce a reperire la prima pagina di un quotidiano, ma il vento gliela strappa eccetto un triangolino che indica una parola che finisce con IONE…

Verso una cosa che finisce in IONE noi correvamo come pazzi, e doveva essere spaventosa se, alla notizia, popolazioni intere si erano date a immediata fuga. […]

ma il nostro treno, no, il maledetto treno marciava con la regolarità di un orologio, al modo del soldato onesto che risale le turbe dell’esercito in disfatta per raggiungere la sua trincea dove il nemico già stava bivaccando.

Giunti in stazione il treno si ferma. Nulla sembra cambiato, eccetto una desolazione totale. Nessuno è in vista e solo il grido d’aiuto di una donna evidentemente abbandonata dà ai passeggeri segno di sopravvivenza umana…

In città non avremmo più trovato un’anima? Finché la voce di una donna, altissima e violenta come uno sparo, ci diede un brivido. “Aiuto! Aiuto!” urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte con la vacua sonorità dei luoghi per sempre abbandonati.

I TOPI p. 117

Il narratore si dichiara preoccupato per la sorte degli amici Coria, usi ospitarlo ogni estate nella loro casa di campagna. Quest’anno il capofamiglia, Giovanni, gli ha scritto di non poterlo ospitare senza aggiungere altro…

Il narratore ricorda così di come anno dopo anno la presenza di topi in casa Coria sia vieppiù aumentata, con il primogenito Giorgio a mostrargli il loro numero ormai esorbitante e la loro cattiveria nella passata estate… Giunge peraltro voce che la casa sia ora occupata dagli stessi topi e che i Coria siano ormai loro schiavi…

“E adesso? Perché Giovani ha scritto di non potere più invitarmi? Cosa è successo? Avrei la tentazione di fargli una visita, pochi minuti basterebbero, tanto per sapere. Ma confesso che non ne ho il coraggio”. […]

Dicono che nella villa nessuno possa entrare; che enormi topi l’abbiano occupata: e che i Corio ne siano gli schiavi.

IL DISCO SI POSÒ p. 123

Una sera Don Pietro si vede atterrare nel giardino un disco volante dal quale escono due marziani. Questi spiegano di essere interessati alle strane antenne che vedono in ogni dove: le croci. Don Pietro gli spiega di Dio, che han tradito mangiando il frutto proibito, per poi uccidere il di lui figlio… Gli alieni ripartono, puri, senza peccato e per questo non bisognosi di pregare Dio. Il prete si rincuora, sparando al disco volante in allontanamento… Dio senz’altro preferisce i peccatori umani che a lui son costretti a rivolgersi costantemente…

IL TIRANNO MALATO p. 129

Nel parco di un giardino di un quartiere di recente costruzione, il mastino Tronk, tiranno indiscusso del posto, viene di sera portato a spasso dal padrone, un professore. Qualcosa in lui non va, si accorge subito una delle sue vittime, il volpino Leo, che trova il coraggio di addentarlo. A supportare il volpino, un altro cane, ma Tronk riesce a cavarsela. Spossato, ansima, quand’ecco arrivare un pastore tedesco. Stavolta per il tiranno si mette male, giacché anche gli altri due tornano all’attacco. Il professore va a cercare aiuto, ma, d’un tratto, i cani si allontanano, avendo percepito che il virus che ha reso debole Tronk si sta ora propagando per contagio anche in loro… Con le ultime forze Tronk guarda la notte che avanza, ormai quasi cieco, triste di non poter più vedere quel verde dove per quattro anni ha regnato incontrastato…

I SANTI p. 135

“I Santi hanno ciascuno una casetta lungo la rica con un balcone che guarda l’oceano, e quell’oceano è Dio”.

L’ultimo arrivato tra i santi, al termine di un lungo processo di beatificazione, c’è Gancillo, umile e semplice contadino… Questi rimira continuamente l’Oceano, Dio, accorgendosi tuttavia che un fattorino consegna a tutti sempre un pacco. Scopre così trattarsi di preghiere e corrispondenza dei terrestri. Apprende così che nessuno si cura di lui. Prova allora ad attirare l’attenzione dei compaesani, presi dal più pittoresco Marcolino, ma invano, facendo anzi osannare ancor di pi l’altro che lo credono l’autore dei miracoli… Rassegnato, si contenta di rimirare l’Oceano, divertendosi assieme a Marcolino, giunto per scusarsi dell’ingiusto trattamento riservatogli dagli umani…

LO SCARAFAGGIO p. 140

Rincasato tardi, un giovane schiaccia in corridoio uno scarafaggio. Di lì il sonno gli è impossibile per i lamenti di una donna, di un cane, il pianto di un bambino e tanti altri rumori. Alle tre, insonne, si alza per bere, avvedendosi di una zampetta dell’insetto schiacciato ancora in movimento. Finisce di schiacciarlo e il silenzio cala sul quartiere… “in altri punti del mondo la morte si era spostata a gonfiare la sua inquietudine”…

CONIGLI SOTTO LA LUNA p. 143

La vita, piena d’affanni e con l’incertezza di cosa ci riserva il futuro… Come conigli ignari di dove le tagliole siano state piazzate…

“Neppure noi sappiamo, quando insieme agli amici si gioca e ride, ciò che ci attende, nessuno può conoscere i dolori, le sorprese, le malattie destinate forse all’indomani. (p. 143)

QUESTIONI OSPEDALIERE p. 145

Un uomo entra disperato in un ospedale portando il braccio la figlioletta sanguinante, alla testa ferita… Entrato in un primo padiglione, viene scacciato da un infermiere: deve recarsi in quello del ricovero. Strada facendo s’imbatte in un medico che, furioso e pedante, insiste per sapere da quale cancello lasciato aperto sia entrato… Spossato e sfiduciato, l’uomo avanza verso i Ricoveri…

IL CORRIDOIO DEL GRANDE ALBERGO p. 148

Il cliente d’un albergo rientra tardi nella struttura. Bisognoso di andare al bagno, esce nel semibuio corridoio, avvedendosi tuttavia, a metà strada dai bagni, della presenza di un altro cliente che avanza in opposta direzione. Per pudore nessuno dei due si ferma, proseguendo oltre e nascondendosi nell’incavo di una porta… Passano le ore e dopo altri due tentativi, l’uomo si addormenta risvegliandosi alle sei del mattino avvedendosi della presenza di tutti i clienti che hanno trascorso la notte nel suo stesso modo…

RICORDO DI UN POETA p. 152

La crescita lenta del “poeta” interiore che sempiternamente vivrà con le sue opere ben oltre il mortale corpo materiale destinato a perire…

IL COLOMBRE p. 156

Stefano Roi, compiuti i dodici anni, ottiene dal padre in regalo il permesso di essere preso a bordo del veliero, che quello possiede e comanda, per la prima esperienza in mare al fine di abituarsi a un’avventurosa vita che vuol intraprendere a suo esempio…

Quando Stefano Roi compì i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.

Stefano è felice e curioso per la nuova esperienza. Giunto a poppa, osservando la scia del veliero, si accorge della presenza di un’ombra che appare e scompare, attraendolo irresistibilmente…

E, sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente.

Al padre rivela la scoperta, ma quello, munitosi di cannocchiale, realizza trattarsi del funesto squalo Colombre che adocchia una vittima seguendola fino a che non riesce a divorarlo. L’animale è visibile solamente al morituro e ai di lui parenti…

Quello è un colombre. […] È uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell’uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l’ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue. […]

Stefano, non c’è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e fin che tu andrai per mare non ti darà pace.

L’uomo decide così di riportare Stefano in porto per fargli salva la vita, con l’intimazione di non tentare mai più di avventurarsi il mare… Dalla banchina il giovane nota il Colombre pattugliare il mare in attesa di poterlo sbranare…

Con il tempo la sua diviene una vera ossessione crescente, pur, trascorsi gli anni, vivendo ormai in una città dell’entroterra assieme alla moglie…

Così, l’idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione. […]

Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del Colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi più insistente.

A ventidue anni il giovane non resiste e, lasciata la città, torna in quella natale annunciando alla felicissima madre di voler riprendere il mestiere paterno…

Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora piú grande è l’attrazione dell’abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli amici della città e licenziatosi dall’impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno.

Affronta così la propria maledizione, la propria condanna e ossessione…

Egli sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene.

Gli anni trascorrono veloci e, nonostante la fortuna accumulata, Stefano non abbandona l’incessante peregrinare per i mari, sempre seguito dallo squalo, più fedele di qualsiasi migliore amico…

Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l’impazienza di ripartire. Sapeva che fuori c’era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente. Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all’altro.

Anche per Stefano giunge infine la vecchiaia e, una sera, realizzato di essere in punto di morte, dopo cinquant’anni decide di affrontare il proprio destino e raggiungere lo squalo…

Finché, all’improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; […]Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo.

Fattosi calare su una scialuppa, avanza faticosamente a remi verso il mostro, armato di un solo arpione. Ma la sorpresa è immane e dolorosa nell’apprendere che il Colombre lo ha seguito per così tanti anni unicamente per consegnargli una Perla del Mare, per conto del Re del Mare, che dona al possessore fortuna, potenza, amore e pace dell’animo… Una vita di angosce per un’infondata credenza…

Due mesi dopo, il barchino si arena nei pressi di una scogliera con a bordo lo scheletro di Stefano che tiene in mano un sasso rotondo…

« Eccomi a te, finalmente » disse Stefano. « Adesso, a noi due! » E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l’arpione per colpire. « Uh » mugolò con voce supplichevole il colombre « che lunga strada per trovarti. Anch’io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente. » « Perché? » fece Stefano, punto sul vivo. « Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l’incarico di consegnarti questo. » E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente. Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore, e pace dell’animo. Ma era ormai troppo tardi. « Ahimè! » disse scuotendo tristemente il capo. «Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua.» « Addio, pover’uomo » rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre. Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancora seduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo.

L’UMILTÀ p. 162

Un frate eremita di nome Celestino decide di andare “a vivere nel cuore della metropoli dove massima è la solitudine dei cuori e più forte è la tentazione di Dio”.

Sistematosi nei pressi di un capannone industriale dismesso, riceve anche numerosi fedeli nella cabina di una motrice abbandonata…

Un giorno arriva un giovanissimo prete a confessare il proprio peccato: provare piacere nell’esser chiamato reverendo. Celestino lo congeda ma, dopo tre anni circa, se lo vede ricomparire a confessare analogo peccato, stavolta appellato monsignore. Ritenendolo vittima degli scherzi dei parrocchiani di un qualche paesino di montagna, lo assolve tra il divertito e l’impietosito. Ma gli anni passano e quello torna denunciando il piacere provato per essere chiamato con appellativi sempre più altisonanti, fino a Santo Padre…

Giunto ormai in punto di morte, il vecchissimo Celestino chiede di poter vedere Roma e il Papa. Questi lo riceve, rivelando essere quel giovane frate tante volte assolto. I due si abbracciano in lacrime…

RISERVATISSIMA AL SIGNOR DIRETTORE p. 168

Buzzati scrive un’accorata lettera al direttore svelando un’impostura che lo vede protagonista e che va avanti ormai da trent’anni… Assunto come cronista, si è sempre rivelato volenteroso ma di scarsa valenza letteraria, vedendosi costantemente modificati gli articoli presentati. Romanzi, racconti e altre opere le ha sempre dovute abortire sul nascere per mancanza di talento… Ma ecco che un giorno si presenta in redazione un amico dello zio, il cinquantenne Ileano Bissàt che gli chiede di aiutarlo a piazzare alcuni suoi racconti e romanzi. Buzzati spiega di essere un semplice cronista, promettendo tuttavia di leggere il materiale… Trascorsi un paio di mesi, una notte insonne Buzzati si ritrova a leggere i racconti dell’uomo che si rivelano essere belli, o, quantomeno, in simbiosi con quanto da lui invano voluto sempre realizzare… Rabbia e gelosia ne colmano ora il cuore…

Fui preso da una selvaggia gelosia che dopo trent’anni non si è ancora quietata. Boia d’un mondo, che roba. Era strana, era nuova, era bellissima. […]

Erano una per una le cose che avrei voluto scrivere e invece non ero capace. Il mio mondo, i miei gusti, i miei oddi. Mi paiceva da morire. Ammirazione? No. Rabbia, ma fortissima[…].

Dopo circa un mese Ileano torna a trovarlo, proponendogli un patto: la cessione di tutto il materiale e di futuri inediti in cambio dell’80% dei guadagni… Per coltivare la propria ambizione Buzzati accetta…

I termini dell’accordo erano semplici. Ileano Bissàt si impegnava a scrivere per me ciò che avrei voluto, lasciandomi il diritto di firmare; a seguirmi e assistermi in caso di viaggi e servizi giornalistici; a mantenere il più rigoroso segreto; a non scrivere nulla per proprio conto o per conto di terzi. Io, in compenso, gli cedevo l’80 per cento dei guadagni. E così avvenne.

E così Buzzati, racconto dopo racconto, romanzo dopo romanzo, ottiene un successo strepitoso lasciando basiti colleghi e conoscenti…

Ma, dopo trent’anni, a seguito delle richieste sempre più esose dell’avido Ileano, Buzzati litiga con lo scrittore ombra. Questi entra così in “sciopero”, costringendo l’altro a scrivere una lettera al direttore con la quale confessa l’impostura, che molta fama ha comunque portato al giornale, chiedendo un aumento per poter accontentare Ileano e farlo così tornare a scrivere…

LE GOBBE NEL GIARDINO p. 175

Camminando nottetempo nell’amato semplice giardino ad osservare le stelle e riflettere, una notte Dino Buzzati si accorge della presenza di una gobba che apprende essere il ricordo di un amico morto in un incidente di montagna…

Con il passare degli anni le gobbe aumenteranno di numero e dimensioni, risultando più grandi quelle degli amici più cari… Un giorno, anche se morirà solo, nel giardino di qualcuno dovrà pur essere anche lui una lieve gobba…

Può darsi che, per colpa del mio dannato carattere, io muoia solo come un cane in fondo a un vecchio e deserto corridoio. Eppure una persona quella sera inciamperà nella gobbetta cresciuta nel giardino e inciamperà anche la notte successiva e ogni volta penserà, perdonate la mia speranza, con un filo di rimpianto penserà a un certo tipo che si chiamava Dino Buzzati. (p. 179)

L’UOVO p. 180

Gilda Soso, umile governante di una famiglia benestante, appreso di una caccia all’uovo organizzata dalla Croce Viola Internazionale nel parco della Villa Reale, decide di portarvi la figlioletta Antonella… Abbigliandosi da colf di lusso, riesce, profittando di un momento di confusione, a far entrare gratis la piccola che, però, di soli quattro anni e intimidita dagli altri bambini ricchi, rimane a mani vuote. Una bambina, Ignazia, carica di uova, impietosita, gliene dona una. Ma alla sopraggiunta madre dichiara che Antonella gli ha rubato il piccolo ovetto che quella ha avuto il coraggio di chiederle. Sopraggiunge una delle organizzatrici che chiede ad Antonella dove sia la madre. Gilda viene così smascherata e, assistendo alla brutalità e al cinismo con il quale la donna sottrae il misero uovo alla figlioletta, ora umiliata, accecata dalla rabbia dà in escandescenze profferendo frasi e parole ingiuriose… Viene arrestata, ma la rabbia le ha fatto dono del potere di far morire le persone. Può così allontanarsi con la piccola, ben presto assediata e vanamente bombardata dall’esercito. Passa il tempo e alla fine al segretario generale dell’ONU, giunto a trattare le condizioni per la pace, chiede un uovo per Antonella. La piccola si accontenta di uno piccolo, lo stesso che la patronessa le aveva sottratto…

LA GIACCA STREGATA p. 187

Un uomo resta affascinato, durante una cena di gala, dalla bellezza del vestito di un coinvitato a lui ignoto. Questi rivela essergli stato preparato su misura dal sarto Alfonso Corticella di via Ferrara 17… L’indomani vi si reca, accolto da melliflui sorrisi e con la promessa di avere un abito magnifico di lì a tre settimane. Invero una sensazione di malessere e turbamento lo coglie, per via di quei sorrisi e del mancato riferimento al pagamento…

Per settimane il vestito non viene indossato, poi ecco che l’uomo lo fa. In ufficio si accorge di qualcosa nella tasca, non il conto ma un biglietto da diecimila lire… Uno ne toglie un altro si pone… La sera, a casa, si ritrova con oltre cinquantotto milioni di lire… L’indomani sul giornale apprende di una sanguinosa rapina dello stesso ammontare. Seppur in balia di vaghi sensi di colpa, nel tempo che segue persiste ad accumulare soldi e beni pur sapendoli legati a disgrazie e crimini…

Quando, per aver perso trentamila lire, un’umile donna delle pulizie del suo stesso palazzo si suicida, decide di disfarsi della giacca, certo di aver stretto un patto con il diavolo..

Tutto dunque congiurava a dimostrarmi che, senza saperlo, io avevo stretto un patto con il demonio. (p. 191)

Recatosi nei pressi di una villa di montagna acquistata, dà fuoco nel bosco alla giacca, ma, dalle ultime fiamme, ode una voce che dichiara “troppo tardi ormai”… Tornato alla macchina, non ce la trova, così come svaniti sono tutti i beni acquistati con il denaro sporco… Riprende così una vita umile e piena di sensi di colpa…

LA TORRE EIFFEL p. 193

Parigi. Durante la cerimonia d’inaugurazione della Torre Eiffel, un operaio, André Lejeune, ricorda con commozione la propria giovinezza e l’opera prestata alla realizzazione di quell’opera che, attualmente, è in realtà mutila rispetto al progetto originario. Avvicinato dall’ingegnere Eiffel, aveva accettato con migliaia di altri di lavorare alla costruzione della Torre, ufficialmente di 300 metri d’altezza. Ma, raggiunta la cifra stabilita, Eiffel propose ad alcuni volontari di proseguire. Per anni gli operai s’innalzano sempre più verso il cielo, fino a che la forza pubblica, allertata dal figlio del defunto Eiffel, li obbliga ad arrendersi e scendere…

RAGAZZA CHE PRECIPITA p. 199

Sul terrazzo di un altissimo grattacielo, la diciannovenne Marta, dopo aver osservato la vita frenetica e lussuosa della città, decide di lanciarsi nel vuoto per arrivare a prender parte all’agognata festa… La discesa è lunga, dapprima gioiosa, poi triste, infine paurosa. Non è la sola ad averla intrapresa, altre e più belle di lei, stanno precipitando… Giunta ormai quasi al suolo, è scorta come una vecchia impaurita… Metafora della vita…

I DUE AUTISTI p. 204

A distanza di anni Dino si chiede ancora di cosa parlassero i due autisti del carro funebre incaricati di trasportare la salma della madre fino a Milano in una lenta marcia sui 70-75 km/h…

Dino, dai rimorsi colto per quel suo restare a lavoro mentre la morente donna sarebbe stata felice di saperlo semplicemente presente in casa durante i pasti, lei immobile al letto… Di lei non c’è più nulla, ma, talvolta, sente per alcune ore dentro di sé una presenza rassicurante…

“Ma l’incantesimo dura poco, un’ora e mezzo, non di più. Poi la giornata ricomincia a macinarmi con le sue aride ruote”. (p. 208)