CÉLINE E L’ATTUALITÀ LETTERARIA

CÉLINE E L’ATTUALITÀ LETTERARIA
CÉLINE E L’ATTUALITÀ LETTERARIA

CÉLINE E L’ATTUALITÀ LETTERARIA

SE – Collana Testi e Documenti n° 44 – Ristampa gennaio 2020

TESTI RIUNITI DA JEAN-PIERRE DAUPHIN E HENRI GODARD

A cura e con uno scritto di Giancarlo Pontiggia [CinéCéline]

In Céline e l’attualità letteraria (Cahiers Céline 1), Dauphin e Godard presentano una serie d’interviste, interventi e commenti di Céline rilasciati tra il 1932 e il 1957, dal successo post Voyage al rientro dall’esilio danese.

L’edizione della SE vanta la traduzione di Giancarlo Pontiggia (che ha curato anche le note e firmato la postfazione, CinéCéline).

[Riporto qui di seguito alcuni passi, per me significativi, trovati nelle interviste/commenti N.d.C.]

La ristampa del 2020 non cambia formato e veste grafica rispetto quella del 2010, a parte una colorazione più scura nella prima di copertina e un differente numero di ISBN. Assente, sulla quarta di copertina, come già nell’edizione precedente, la foto di Céline corazziere, presente invece in quella del 1992.

I – L’EPOCA DI «VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE» (1932-1933) p. 11

1 – INTERVISTA A CURA DI PIERRE-JEAN LAUNAY [7/11/1932] p. 13

« Cosa conta il mio libro? Non è letteratura. È vita, la vita così come si presenta. La miseria umana mi sconvolge, fisica o morale che sia. È sempre esistita, d’accordo; ma un tempo la si offriva a un Dio, qualunque esso fosse. Oggi il mondo è pieno di miserabili, e la loro angoscia non ha più alcun senso. La nostra epoca, del resto, è un’epoca di miseria senz’arte; una cosa penosa. L’uomo è nudo, spogliato di tutto, anche della fede in se stesso.

Il mio libro è questo ». (p.13)

3 – INTERVISTA A CURA DI MERRY BROMBERGER [8/12/1932] p. 19

Di giorno lavoro per guadagnarmi la pagnotta per me, mia madre e i miei due marmocchi. Al mattino faccio della letteratura farmaceutica. La sera sono all’ambulatorio. Dopo, mi riempio di cinema. Più è stupido, più mi piace. Ma la notte, cosa fare quando non si dorme? Ascolto nell’orecchio la matta di casa, la fantasia. Sapesse quante me ne racconta, da sei anni che scrivo il libro. E poiché ho un temperamento operaio, ne comincio un altro. Ma prima ho voluto sapere se potevo far pubblicare il mio Viaggio al termine della notte a mie spese. L’editore ha voluto accollarsele lui, le spese, e da allora sono cominciate le grane. Mi perseguitano, mi tormentano. Perfino mia madre, che ne soffre. Cosa può loro interessare quello che io penso? Il medico che sono non pensa. Scrive per la farmacia. Cura la gente dell’ambulatorio. […]

Un’autobiografia il mio libro? È un racconto alla terza potenza. Céline fa delirare Bardamu che dice quello che sa di Robinson. Non pensi a una tranche de vie, ma a un delirio. […] (p. 20)

Il vero significato della storia? Nessuno che l’abbia capito. Non il mio editore, non i critici, nessuno. Neppure lei.

È questo! È l’amore di cui ancora osiamo parlare in questo inferno, come se si potessero comporre quartine in un macello. L’amore impossibile oggi. […]

Ho 40 anni, sono malato. Un uomo finito. Se soltanto in questo povero libro ci fossero tre pagine su seicento che valessero qualcosa, sarebbe abbastanza.

I miei maestri? Dei medici. Follet innanzitutto, dell’Università di Rennes, un gran brav’uomo; poi Rachmann, che dirige alla Società delle Nazioni la lotta contro le epidemie, che mi ama come un figlio e mi ha fatto viaggiare. E anche una ballerina americana che mi ha insegnato tutto quel che c’è nel ritmo, la musica e il movimento.[…] (p. 21)

La letteratura attuale? Per tre quarti non vale una sola nota d’osservazione clinica, poco ma sicuro.

Hanno detto che brigavo per i premi letterari; mi lasci ridere. Sono candidato alla tranquillità. Non ci può essere un uomo ragionevole, d’altra parte, che s’interessi ai miei deliri ». (p. 22)

4 – INTERVISTA A CURA DI PAUL VIALAR [9/12/1932] p. 23

[…] La cosa che mi interessa più di tutto è scrivere, dire quello che ho da dire, con passione; non potrei fare altrimenti. Ci ho messo degli anni a metter giù Viaggio al termine della notte. Ma ce ne vorranno forse cinque di anni per scrivere il libro che ho cominciato. Voglio che sia come una cattedrale gotica. Ci saranno buoni e cattivi, assassini, massoni, come viene viene in principio, finché tutto prenderà ordine, se ne avrò la forza, come in una cattedrale. […]

Il mio stile? Se lo abbasso al livello familiare e volgare, è perché è così che lo voglio.[…] (p. 24)

5 – INTERVISTA A CURA DI GEORGES ALTMAN [10 DICEMBRE 1932] p. 25

Perché Louis-Ferdinand Céline non è uno scrittore professionista, è un medico, un medico di poveri, il medico di uno di quegli ambulatori della banlieu operaia di una grande città. (p. 25)

Quello che ci viene incontro con la mano tesa, e mi guarda con i suoi occhi azzurri un po’ vaghi, con il sorriso timido e remoto dell’uomo abituato a vivere solo, in un mondo tutto «suo», è un ragazzone biondo, un po’ dinoccolato, un po’ curvo; il volto è dolce, ma leggermente teso, corrugato, sulla difensiva. Ed eccolo che parla, che racconta, rapido, rapido, legando le frasi tra di loro con un eloquio precipitoso, interrotto da risa fragorose, fatto di aneddoti pittoreschi, di parole volutamente ciniche. Un riso che non è mai totalmente gaio, un riso che stride un poco e che forse, semplicemente, cela la rivolta interiore, il tormento segreto, quel male di vivere che conferisce al libro quello straordinario tono straziato che non sentivamo da molto tempo. (p. 26)

7 – UNA CONVERSAZIONE RACCOLTA DA ÉLISABETH PORQUEROL [16 FEBBRAIO 1933] p. 35

Capisco il suo rifiuto selvatico di veder gente, diffida di se stesso, sentendosi incapace di dominarsi, di una debolezza estrema; subito, probabilmente, davanti al primo che passa, deve vuotargli il sacco, abbandonarsi intero. Si inebria. E dopo, ovviamente furioso: Sporco ciancione! Ancora c’è bisogno che ti lasci andare, che gli molli i tuoi sproloqui, che gli spiattelli tutto…

Tanto più furioso perché i suoi eccessi sono da commedia. Il malessere che diffonde viene da questo gioco continuo, da questo artificio, più forte di lui, tutto con lui devia verso il buffonesco, nel giullare con i sognagli. Lo so bene che cos’è. Timidezza. Quando si dà troppa importanza agli altri, quando li si adora, si ha talmente paura che possano voltarci le spalle, che si annoino con noi, mentre si vorrebbe tanto sedurli, averli per sé, esserne amati, che non si sa che cosa fare, ci si affanna come bambini; che male ci facciamo! Che finisce naturalmente in goffaggini, in smorfie, ci si comporta al contrario. (p. 36)

[…] l’importante per lui è inebriarsi, stordirsi, l’interlocutore è solo uno spettatore, e ancora ancora – non cerca di convincermi, fa il suo numero, semplicemente si sbornia. (p. 38)

Ha il senso della morte, come altri parlano del senso della vita. Sono rimasta piuttosto turbata, eravamo forse al dunque? Questo malessere di vivere, talvolta intollerabile, non potrebbe venire dall’atteggiamento umano verso la morte? Non la desideriamo; non pensiamo che sia una nuova nascita ma la temiamo; la guardiamo come una rottura, non come una continuazione. Se tenessimo il filo della morte, non avremmo paura della vita, potremmo vivere liberi; perché noi viviamo in prigione, tutti.

Questo affanno che impedisce ogni gioia completa, libera, Céline, lo mette a nudo. Gli artifici inventati dalla società gli sono insopportabili. (p. 39)

9 -«SPIEGHIAMOCI…» [16 marzo 1933] p. 44

«Ci sono (nella mia biblioteca) libri di ogni genere; ma sareste assai stupiti se li apriste. Sono tutti incompleti; alcuni, nella loro rilegatura, ormai non contengono che due o tre fogli. Sono del parere che si debba fare tranquillamente quello che già si fa ogni giorno; insomma, io leggo con le forbici, scusatemi, e taglio tutto ciò che non mi va. Così le letture non mi offendono mai. (p. 44)

II – PUBBLICAZIONE DI «LÉGLISE» E «OMAGGIO A ZOLA» (marzo-novembre 1933) p. 51

2 – INTERVISTA A CURA DI G. ULYSSE [MAGGIO 1933] p. 56

« Come no, ma in ogni paese, lei lo sa meglio di me, le donne hanno un tipo di bellezza più o meno pronunciata. Ho viaggiato un po’ dappertutto, in Europa centrale in particolare, ma le più belle donne che ho visto sono le cecoslovacche. I più bei culi li si trova a Praga ». (p. 57)

4 – OMAGGIO A ZOLA [1/10/1933] (p. 59)

Pensando a Zola, restiamo un po’ imbarazzati dinanzi alla sua opera; egli è ancora troppo vicino a noi per poterlo giudicare bene, cioè nelle sue intenzioni. […]

Zola aveva lavorato troppo bene per i suoi successori? O più semplicemente i nuovi venuti hanno avuto paura del naturalismo? Forse…

Oggi il naturalismo di Zola, con i mezzi di informazione che possediamo, diventa quasi impossibile.[…] è nei simboli e nei sogni che passiamo i nove decimi della nostra vita, giacché i nove decimi dell’esistenza, cioè del piacere vivo, ci sono ignoti, o vietati. (p. 58)

Tocchiamo la meta di venti secoli di grande civiltà, eppure nessun regime resisterebbe a due mesi di verità. Parlo del sistema marxista così come dei nostri sistemi, borghesi e fascisti.

Perché l’uomo non può sopravvivere in nessuna di queste forme sociali, totalmente brutali, tutte masochiste, senza la violenza di una menzogna permanente e sempre più massiccia, ripetuta, frenetica, «totalitaria», come noi la definiamo. […] Hitler non è l’ultima parola, ne vedremo di più epilettici ancora, e magari proprio qui. […]

Gli sbraitamenti dittatoriali, oggi, vanno ovunque incontro agli innumerevoli ossessionati alimentari, alla monotonia dei lavori quotidiani, all’alcool, alle miriadi di repressi; tutto questo paralizza in un immenso narcisismo sado-masochista ogni possibilità di ricerche, di esperienze e di sincerità sociale. (p. 60)

[…] dopo questa fase esistiamo solo per mezzo di scialbe ripetizioni, sempre meno sincere, sempre più teatrali. Forse, dopo tutto, le «civiltà» subiscono la stessa sorte? La nostra sembra invischiata in un’incurabile psicosi guerresca. Non viviamo altro che per questo tipo di ripetizioni distruttrici. […]

L’unanime sadismo attuale deriva innanzitutto da un desiderio del nulla profondamente radicato nell’uomo e soprattutto nelle masse umane, una sorta di impazienza amorosa, più o meno irresistibile, unanime, per la morte. (p. 61)

Vogliono vedere soltanto burattini, assassini a comando, vittime su misura. Liberali, marxisti, fascisti, sono d’accordo su un unico punto: soldati! (pp. 61-62)

[…] i grandi entusiasmi di massa, le frenesie durature delle folle sono quasi sempre stimolati, provocati, alimentati con la stupidità e la brutalità. […]

Nel gioco dell’uomo, l’istinto di morte, l’istinto silenzioso, si è piazzato proprio bene, forse a fianco dell’egoismo. (p. 62)

Per distrarci non ci sarà lasciato altro che l’istinto di distruzione. È lui ad essere coltivato fin dalla scuola, mantenuto lungo tutto ciò che ancora chiamiamo: La vita. (p. 63)

5 – INTERVISTA A CURA DI CHARLES CHASSÉ [11/10/1933] p. 65

[…]Deve pensare che non ho fatto il liceo: giusto le elementari. Dunque, niente influenze classiche. […] A parte i libri tecnici, dove vuole che trovassi il tempo di leggere? No, credo di non dover niente a nessuno scrittore. Semmai è il cinema che mi ha influenzato. Ah, me n’intendo io di cinema! Anche il music-hall, e i giornali, i giornali illustrati soprattutto. In fondo il mio libro, in molti punti, è una specie di reportage come quelli che si possono trovare nelle riviste.

[…]se dunque la letteratura ha una giustificazione, è quella di raccontare i nostri deliri. Il delirio, non c’è altro! e attualmente il nostro grande maestro, il maestro di tutti noi, è Freud. Ma se proprio ci tiene a scovarmi delle influenze più letterarie, potrei indicarle i libri di Barbusse ».

« Niente influenze di Zola o di Rabelais? ».

« No, no, non credo, ma influenze dello stile parlato di gente che ho incontrata: americani (perché ci sono stato insieme parecchio con gli americani), militari, gente della strada (perché mi piace molto il linguaggio triviale) ».

[…]

« E la letteratura americana? ».

«La letteratura americana? Ma non ne hanno, via! No, no, glielo giuro, non ho ricevuto influenze letterarie di nessuna specie ». (p. 68)

III – L’EPOCA DI «MORTE A CREDITO» (fine 1933-ottobre 1936) p. 73

3 – INTERVISTA A CURA DI STERLING NORTH [18/07/1934]

Gli americani sono ripieni di bellezza, di grazia, ma anche senza cultura, ossessionati dalla radio, e in più dei poveri beoni. Le donne americane! ma sì! Sono le regine dell’universo. La tragedia della loro bellezza flessibile, sinuosa, inafferrabile! Il dottor Destouches è medico. Conosce il corpo umano. Non ha mai visto niente che assomigli alla bellezza argento-vivo, arielica, delle donne americane. Corpi e anime inafferrabili. Perfette. (p. 78)

LETTERA A ANDRÉ ROUSSEAUX [30/05/1936] p. 80

Non posso leggere un romanzo scritto nel linguaggio tradizionale. Sono abbozzi di romanzi. Non sono mai romanzi. Il lavoro è ancora tutto da fare… La loro lingua è impossibile. E morta. […]

… Una lingua, come il resto, muore continuamente. Deve morire. Bisogna rassegnarsi. La lingua abituale dei romanzi è morta, sintassi morta, tutto morto. Moriranno presto anche i miei, senza dubbio. Ma almeno avranno avuto una piccola superiorità su tanti altri, quella di esser vissuti per un anno, un mese, un giorno. (p. 80)

IV – ALL’EPOCA DEI PAMPHLETS E DURANTE LA GUERRA (1937-1944) p. 87

V – ESILIO DANESE, ESILIO FRANCESE (1945-1957) p. 109

5 – INTERVISTA A CURA DI ANDRÉ PARINAUD [1/01/1953] p. 116

[…]

Deve rompere i coglioni a parecchi, no, che respiri quest’aria, e che sia ancora di questo mondo? Bisogna dire che han fatto di tutto per mettermi le mani addosso. Sfortunatamente per loro, anche rovistando dappertutto, non han scoperto niente che gli consenta di appendermi». (p. 117)

[…]

« In quello della necessità! Non ho più niente. Niente, mi capisce? Niente di quello che sta qui è mio. Vivo di regali. Sono indebitato fin qua – e alza la mano fin sopra la testa – non mi resta altro che il mio stile. Allora scriverò per vivere. Ma questo non vuol dire prostituirmi. Non ci conti».Smette di camminare in lungo e in largo, si lascia cadere su una sedia davanti al tavolo da lavoro, distende le mani e medita profondamente.

« Mi vomitano tutti addosso, eh? Per le mie posizioni politiche, dicono! Ma forse anche, un pochino, perché gli impedisco di dormire, a tutti quei meschini, giovani e vecchiardi dell’Académie francaise, postulanti all’Académie Trouduc, che scrivono come prima dell’età del cinema, che fanno delle sceneggiature credendo di fare dei romanzi, tutti quegli ispirati che raccontano delle storie, perché è meno faticoso che imparare a scrivere, tutti quei tipi che non han niente nel cuore, nella testa, in pancia, che si triturano l’immaginazione per riempire il vuoto dello spirito.

Romanzi! Fatemi ridere. Ci vuole uno stile per scrivere. Poi si può parlare della pioggia o del bel tempo, dell’amore o dell’odio; c’è lo stile che ti salva. Le storie! basta abbassarsi per raccoglierne, gettare un’occhiata in strada… Ma scrivere! Comunicare la tua febbre, la tua fifa, la tua fame, il tuo amore, la tua rabbia… Ma alt! Prima bisogna sentirle queste cose, poi trovarsi, capirsi, lavorare su se stessi. Roba lunga. Non paga. Meglio inventare. Il cinema ha bisogno di sceneggiature. Ma quando questo te lo chiamano romanzo, salto in aria dai nervi. Il tempo metterà a posto le cose ». (p.118)

[…]

« Eccoti un libro… Ore, ore e ore a torturare dei fogli… Perché? Chi mi legge oggi? Per chi è che scrivo? Sicuro sicuro, bisogna fottersene, ma non posso aspettare cent’anni. Devo sbafarmi qualcosa tutti i giorni, pagare il gas… E allora scrivo, tanto peggio. Scrivo come un pazzo. Più mi scogliono, più gli rompo i coglioni. Spalle al muro ».[…]

« In fondo, » dice « sono in una posizione ideale; solitario, abbandonato, tartassato, qualsiasi cosa faccia, non posso scendere più in basso di così. […] (p. 119)

6 – UNA CONVERSAZIONE RACCOLTA DA MELEINE LÉGER [23/07/1954] p. 121

[…]Non sono uno scrittore. Sono tutto quel che volete eccetto che uno scrittore. Non ho la pretesa di recare un messaggio. No, no e NO. Vi garantisco che non sono del giro, proprio nessun giro. Non ho avuto alcuna influenza sulla generazione della « Drole de Guerre»… Ho inventato uno stile, è tutto quello che mi si può rimproverare… Sono un tecnico, uno stilista, un punto è tutto…

Al diavolo libri e tirature. Mi è capitato di scrivere quel che mi passava per la testa, ma non voglio essere altro che un semplice medico di banlieue… (p. 121)

7 – INTERVISTA A CURA DI ANDRÉ BRISSAUD [17/10/1954] p. 122

[…] Che Féerie si venda, pensavo, e mi riassesto! Come no, ma anche se Féerie si è venduto nonostante i soffocamenti di Gaston, io non ho visto il becco di un dollaro o di un rublo, e di franchi così pochi che non riesco neanche a pagarci i debiti. Liquidato Ferdinand, raschiato fino al fondo, condannato a vendere tutto a Gallimard, che mi fa la carità e seppellisce i miei libri nelle sue cantine. Non ha fretta, lui, sa che i miei libri si venderanno sempre. Ma io? Il miracolo della moltiplicazione dei pani lascia attoniti, ma il miracolo della moltiplicazione dei libri, e di conseguenza la gratuità del lavoro di scrittore, è una cosa ben nota… L’autore tira sempre la cinghia. Si presuppone che lui, l’autore, goda di un cospicuo patrimonio personale, o della rendita di un grosso Partito, o che abbia scoperto (altro che la fusione dell’atomo) il segreto di vivere senza sbafare… (pp. 122-123)

Tirando le somme, a guardar bene, vedrete un sacco di scrittori andare in malora, mentre di rado troverete un editore sotto i ponti… c’è proprio da ridere. […] (p. 123)

Poiché non volevo il microfono, il film o la televisione, ho preso la penna e mi sono intervistato da solo per la N.N.R.F. in uno pseudo-colloquio con il professor Y. […]

Questo mi permette di starmene in santa pace, perché ho orrore delle visite, salvo che di amici… e siccome non sono numerosi… Voglio continuare a fare il vecchio clown su un trapezio, lassù, a quarantacinque metri, per questo mi pagano da Gallimard, mica per qualcos’altro…[…]

Ditegli dunque ai vostri lettori che non sono uno scrittore, sapete, uno di quelli che si ruffianano i giovani, che rigurgitano di idee, che sintetizzano, che hanno delle ideae. Sono soltanto un piccolo inventore, un piccolo inventore, proprio così! e di una trovatina, giusto di una trovatina… Non mando messaggi al mondo, io, no! non mi ubriaco di parole, né di porto, né di lusinghe per i giovani!… mica cogito per il pianeta!… sono soltanto un piccolo inventore, e di una microscopica trovatina che passerà perdio! ! come il resto! come il gemello da collo! riconosco la mia infima importanza! ma tutto piuttosto che delle ideae! ai magnaccia, ai confusionisti!… Quel che ho inventato, l’ho scritto nella Nouvellenouvellerevuefrançaise (tutto insieme)… Ho inventato l’emozione del linguaggio scritto!… Sì, il linguaggio scritto era a secco, sono io che ho restituito l’emozione al linguaggio scritto… proprio come glielo dico… mica uno sgobbo da poco, giuro!… la trovata, la magia, che adesso qualsiasi coglione può commuoverla “per iscritto”!… ritrovare l’emozione del “parlato” attraverso lo scritto! non è niente, è l’infimo degli infimi, ma è sempre qualcosa! Ecco cos’è che ho voluto dire nella Nouvellenouvellerevuefrançaise (tutto insieme). Nemmeno io, io in persona, saprei dirle quante volte mi han copiato, trascritto, trafficato! […] L’emozione non te la ritrovi, e a costo di sforzi immani, che nel”parlato”… l’emozione non si lascia captare che nel “parlato”, riprodurre attraverso lo scritto, se non a prezzo di sforzi, di meticolose pazienze…[…] Lo scrittore che non si sciacallo, che non plagia bel bello, che non patacca, è un uomo perduto… si becca l’odio del mondo intero… da lui non ci si aspetta che una cosa, che crepi, per potergli sgraffignare tutte le sue trovate… Non è lui che guadagna milioni di dollari o di rubli all’anno… Sono i “patacca”… tutti “patacca”… per questo si vendono più di tutti gli altri! […] (pp. 124-125) […]

Mi hanno etichettato “attentatore”, stupratore della lingua francese, teppista, neanche pederasta, neanche pregiudicato comune, fin dal 1932!… tutti i librai glielo diranno, preferirebbero chiuder bottega che avere, anche solo in magazzino, una copia del Viaggio e dopo il 1932 ho aggravato ulteriormente il mio caso, sono diventato, oltre che stupratore, traditore, genocida, uomo delle nevi… l’uomo di cui non si deve neanche parlare!… oh! ma che si può ben bene spellare! e come! integrale! (p. 126)

Ho un dono per la letteratura ma non una vocazione. La mia unica vocazione è la medicina, mica la letteratura. (p. 128)

8 – INTERVISTA A CURA DI GÉRARD JARLOT [19-25/04/1956] p. 129

« I francesi? Non vogliono più lavorare. Sbafano, bevono, bevono, sbafano. Io mangio pane nero, pasta; bevono acqua; lavoro. Cosa voglio? Scrivere i miei libri e che mi lascino finalmente in santa pace. Cosa cerco nei miei libri? Una musichetta francese, del Couperin o del Rameau». (p. 129)

[…]

Ho tutto il mondo contro di me. Mi soffocano. Mi han rubato tutto. […]

La letteratura attuale cos’è? Intingolo. Quel che cerco è l’emozione, ancora, sempre, della musichetta francese. […]

« Il mio ultimo straccio di speranza, vede, è di raccontarle, le mie fantasticherie, le mie bazzecole, e che mi paghino abbastanza per sopravvivere, per pagare l’acqua e il gas, a tutte e due, me e mia moglie ». (p. 130)

9 – RISPOSTA A UN’INCHIESTA DI « ARTS »: « GLI SCRITTORI HANNO DEI CASI DI COSCIENZA? » [14-20/11/1956] p. 131

Sono stato il più coglione dei francesi, io… Mi hanno preso tutto quello che avevo e buttato nel cesso i miei manoscritti, sette manoscritti. Ho fatto il Bambin Gesù. Di tutto questo, non mi restano che dispiaceri. Ho una figlia di trentacinque anni, mio genero mi detesta; ho cinque nipotini che non ho mai visto. Va bene lo stesso. Dispiaceri, sì, dispiaceri. E tutto il resto, i casi di coscienza, sono solo masturbazioni. Ma sull’argomento, Gide ha già fatto tutto… ». (p. 133)

10 – CONVERSAZIONE SU FERNAND TRIGNOL E L’ARGOT, A CURA DI « ARTS »

[6-12/02/1957] p. 134

[…]… No, l’argot non si fa con un glossario, ma con delle immagini nate dall’odio, è l’odio che fa l’argot. L’argot è fatto per esprimere i veri sentimenti della miseria; leggete « L’Humanité », ci troverete solo il charabia di una dottrina. L’argot è fatto per permettere all’operaio di dire al padrone che detesta: tu vivi bene e io male, tu mi sfrutti e giri su un macchinone, ti farò fuori… Ma l’argot di oggigiorno non è più sincero, non resiste nell’ufficio del giudice istruttore. Devo ancora vedere l’accattone che farà fuggire il giudice col suo argot. Nelle prigioni di oggigiorno si riga dritto: sissignore, certo signore. Si sta buoni e non si parla argot, lo so per esperienza. Sono passati i tempi in cui Mandrin rischiava ogni giorno la Grève. […] (p. 134)

Questa infermità dell’argot, il cinema e i gialli vorrebbero nascondercela, ma allora, come per Trignol, diventa un’industria. (p. 135)

CINÉCELINE

Di Giancarlo Pontiggia p. 137

I – Fra misantropia e fascismo p. 139

Voglio raccontare una storia degli anni Settanta. Chiunque abbia studiato in quegli anni nevrotici e ipocriti, sa con precisione a cosa mi riferisco. Oggi, 1992, dopo la caduta del sistema sovietico, tutti parlano impunemente, spesso disinvoltamente di marxismo. Ma allora per quei pochi, come me, che non credevano nei paradisi dell’internazionale, esistevano due sole strade: la prima (la mia) era la misantropia; la seconda era il fascismo. Era disperante sapere che non avresti mai avuto ragione, che nessuno ti avrebbe mai dato ragione, anche esibendo le prove documentate dalle inettitudini e delle efferatezze del comunismo; era impossibile non provare sgomento di fronte all’arroganza, alla violenza costituita di tutto il mondo intellettuale di allora: o sprofondavi nella cupa, silenziosa depressione, o ti mettevi a confezionar bombe e a bruciar macchine. Al di fuori della sinistra non c’era nulla, solo il vuoto di una rabies solitaria. […] Niente è più violento della disonestà intellettuale, niente è più terribile del conformismo. […] parlare senza appoggi è una provocazione che nessuno ti perdonerà mai. Vivevo come un esiliato. (p. 139)

Lo capivo fino in fondo. E mi meravigliavo che si fossero scritte tante sciocchezze sul suo conto. Non per questo lo amavo, né avrei mai difeso le sue scelte; ma sentivo che c’era in lui un animale ferito dall’ipocrisia; non quella sociale, che è in fondo prevedibile, ma quella intellettuale, che immagineremo più riparata rispetto agli eventi. […]

Sappiamo cosa successe: ritornò inorridito, e il libretto che scrisse fu Mea culpa. Avrebbe potuto vivere ricco e stimato; scelse di vivere emarginato, sottoposto all’imperio di una denigrazione calcolata. Céline, che era stato sempre un misantropo, si avvicinò alle idee della desta, al nazionalismo più ottuso. (p. 140)

A cominciare dagli anni Cinquanta, e in particolare con il famoso libro di Poulet (Mon ami Bardamu), che è del 1959, Céline fu man mano riabilitato anche intellettualmente: si cominciò a difendere le sue scelte politiche, o a negare che ne avesse mai fatte: in fondo non aveva amato né Hitler né Mussolini[…], e il suo collaborazionismo si sera limitato a qualche decina di scritti sulle riviste più ideologicamente violente di quegli anni. (pp. 140-141)

2 – Uno stile-métro p. 141

Ma io, nel corso degli anni, continuavo a pensare a Céline, e mi chiedevo ogni volta se le sue opere fossero davvero mostruose, illeggibili, censurabili, come si era sempre ripetuto. […]

La mia sensazione era che in realtà lo spirito di Céline fosse perfettamente integrato in quello, ciarlatanesco e irrazionale, del nostro secolo. […]

Ma l’opera di Céline appariva modellata esattamente sulle forme del mondo in cui abitiamo, si poteva anzi definire come l’incarnazione esemplare del metodo contemporaneo: soppressione delle capacità riflessive; potenziamento della visceralità.[…]

Nel disastro calcolato delle sue pagine, io sempre più leggevo il sopravvento della tecnica sull’uomo: Céline era davvero quello che negli ultimi anni andava ripetendo di essere, e cioè uno stilista, un tecnico di laboratorio dello stile. (p. 141)

Cinema americano, naturalmente, genialmente patinato con raffinate angosce europee: forti tinte, sovreccitazioni, sovrarealtà; avventure, immagini, musiche, emozioni allo stato brado, pugni nello stomaco del potenziale spettatore, trascinato verso il cinemascope degli istinti a buon mercato. […]

La sua intelligenza, acuta ma fragile, durava l’istante di un’illuminazione, sommersa dalla marea delle infinite ottusità che ogni giorno attraversano lo schermo della nostra mente. […]

Il suo anarchismo si colorò di osservazioni banali, casuali, meschine, efferate, neoromantiche. Ciò che Céline paventava, e cioè la grande alluvione delle forze irrazionali, era proprio ciò che lo possedeva. (p. 142)

3 – Un urlo contro la menzogna p. 143

Céline ha urlato contro la menzogna: ma la menzogna stessa è un grido. CinéCéline: il film di oggi, un film per tutti. Nelle migliori sale editoriali. (p. 144)