ALESSANDRO MANZONI – TUTTE LE POESIE (BUR)
Scendea di Giano a rinserrar le porte
3La bella Pace pel cammin del sole,E le spade stringea d’aspre ritorte,
E cancellava con l’orme divine
6I luridi vestigi de la morte;
E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
9Si rivestian le valli e le colline;
Quand’io fui tratto in parte, io non so come,
Io non so con qual possa o con quai piume,
12Quasi sgravato da le terree some.
E mi ferì le luci un vivo lume ,
Ove non potea l’occhio essere inteso,
15E vinto fu del mio veder l’acume,
Com’uom che da profondo sonno è preso,
Se una vivida luce lo percote,
18Onde subitamente è l’occhio offeso,
Le confuse palpebre agita e scote,
Né può serrarle, né fissarle in lei,
21Che sua virtute sostener non puote;
Così vinti cadevan gli occhi miei,
Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,
24Da sostener la vista de gli Dei.
Non cred’io già che fosser questi frali
Occhi deboli e corti e spesso infidi,
27Cui non lice fissar cose immortali.
Forse fu, s’egli è ver che in noi s’annidi,
Parte miglior che de le membra è donna;
30Onde come io non so, so ben ch’io vidi.
Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,
Non era l’andar suo cosa mortale ,
33Né mai fu tale che vestisse gonna.
Di portamento altera , e quanta e quale
Su gli astri incede quella al maggior Dio
36Del talamo consorte e del natale.
Nobile, umano, maestoso e pio
Era lo sguardo, e l’armonia celeste
39Comprenderla non può chi non l’udio.
Sovra l’uso mortal fulgida veste
Copre le sante immacolate membra,
42E svela in parte le fattezze oneste.
Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;
Ma a tanto già non giunge uman lavoro;
45Oh con quanto stupor me ne rimembra!
Siede su cocchio di finissim’oro
Umilemente altera, ed il decenne
48Berretto il crine affrena, aureo decoro.
Stringe la manca la fatal bipenne,
E l’altra il brando scotitor de’ troni,
51Onde a cotanta altezza e poter venne
La gran madre de’ Fabj e de’ Scipioni;
Sotto cui vide i Regi incatenati
54Curvar l’alte cervici umili e proni.
Pronte a’ suoi cenni stanle d’ambo i lati
Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso
57Pendon de l’universo incerti i fati.
L’una è soave e mansueta in viso,
E stringe con la destra il santo ulivo,
60E il mondo rasserena d’un sorriso.
E l’altra è la ministra di Gradivo,
Che si pasce di gemiti e d’affanni,
63E tinge il lauro in sanguinoso rivo.
Due bandiere scotean de l’aure i vanni;
Su l’una scritto sta: Pace a le genti,
66Su l’altra si leggea: Guerra ai Tiranni.
Taceano al lor passar l’ire de’ venti,
Che, survolando intorno al sacro scritto,
69Lo baciavano umili e reverenti.
Quinci è Colei, che del comun diritto
Vindice, a l’ima plebe i grandi agguaglia,
72Sol diseguai per merto o per delitto;
E se vede che un capo in alto saglia,
E sdegni assoggettarsi a la sua libra,
75Alza la scure adeguatrice, e taglia.
E con la destra alto sospende e libra
L’intatta inesorabile bilancia,
78Ove merto e virtù si pesa e libra.
Non del sangue il valor, ch’è lieve ciancia,
E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;
81E sal Lamagna, e ’l seppe Italia e Francia.
Dolce in vista ed umano e in un feroce
Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi
84Il cor con l’alma face infiamma e cuoce;
E i servi trasformar puote in Eroi,
E non teme il fragor di tue ritorte,
87O Tirannia, né de’ metalli tuoi;
Non quella cieca che si chiama sorte,
Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;
90E scritto ha in petto: O Libertate o morte.
D’ogn’intorno commosso il suol fioriva,
L’aura si fea più pura e più serena,
93E sorridea la fortunata riva.
E a color che fuggir l’aspra catena,
Prorompeva su gli occhi e su le labbia
96Impetuosa del piacer la piena;
Come augel, che fuggì l’antica gabbia,
Or vola irrequieto tra le frondi,
99Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.
Quindi s’udian romor cupi e profondi,
Un franger di corone e di catene,
102Un fremer di Tiranni moribondi.
Impugnando un flagel d’anfesibene
La Tirannia giacevasi da canto,
105E si graffiava le villose gene.
E i torbid’occhi si copria col manto;
Ché la luce vincea l’atre palpebre,
108E le spremea da le pupille il pianto;
Come notturno augel, che le latebre
Ospiti cerca allor che il Sole incalza
111Ne’ buj recinti l’orride tenebre.
Èvvi una cruda, che uno stile innalza,
E ’l caccia in mano a l’uomo e dice: Scanna,
114E forsennata va di balza in balza.
Nera coppa di sangue ella tracanna,
E lacerando umane membra a brani,
117Le spinge dentro a l’insaziabil canna.
E con tabe-grondanti orride mani
I sacrileghi don su l’ara pone,
120E osa tendere al Ciel gli occhi profani.
Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,
E fa ministro il Ciel di sue vendette;
123E il volgo la chiamò Religione.
Si scolorar le faccie maledette,
E l’una a l’altra larva s’avviticchia,
126E stan fra lor sì avviluppate e strette,
Che il cor de l’una al sen de l’altra picchia,
Ansando in petto, e trabalzando, e poscia
129La coppia abbominosa si rannicchia.
Qual’è lo can che tremando s’accoscia,
Se il signor con la verga alto il minaccia,
132Tal ristrinsersi i mostri per l’angoscia.
Ma poi che di quell’altra in su la faccia
Vide languir la moribonda speme,
135Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,
Incorolla dicendo: E mute insieme
Morremo e inoperose? e il nostro lutto
138Fia di letizia a chi ’l procaccia seme?
Tutto si tenti e si ritenti tutto;
E se morire è forza pur, si moja ,
141Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto.
Qualunque aspira a Libertate moja,
Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.
144E l’altra surse e gorgogliava: Moja.
Moja, sì moja, e temerario e baldo
Cerchi in Inferno Libertade; il fio
147Paghi col sangue fumeggiante e caldo.
Acuto allor s’intese un sibilio
Via per le chiome ed un divincolarsi
150E di morsi e percosse un mormorio.
Poscia terribilmente sollevarsi
E un barlume di speme fu veduto
153Brillar sui ceffi lividi e riarsi;
Come allor che nel fosco aer sparuto
In fra ’l notturno vel si mostra e fugge
156Un focherello passeggiero e muto.
L’infame coppia si rosicchia e sugge
Di preda ingorda la terribil ugna,
159Si picchia i lombi risonanti e rugge.
Contra miglior voler voler mal pugna ;
E fra la vil perfidia e la virtute
162Secura è sempre e disegual la pugna.
Ma stavan l’aure pensierose e mute,
E il Ciel di brama e di timor conquiso,
165E pendevan le rive irresolute.
La Dea mirolle, e rise un cotal riso
Di scherno e di disdegno, che dipinge
168Di gioja al giusto, al rio di tema il viso.
E immobile in suo seggio il cocchio spinge
Su le attonite larve, e le fracassa,
171E l’auree rote del lor sangue tinge.
Né per timore o per desio s’abbassa,
Ma disdegnosa e nobile in sua possa
174Alteramente le sogguarda, e passa.
Fumò la terra di quel sangue rossa,
Ond’esalava abbominoso lezzo,
177E da l’ime radici ne fu scossa.
Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo
Apre del sen tenebricoso, e ingoja
180Quei vituperj, e parne aver ribrezzo.
Quinci acuto s’udì grido di gioja,
E quindi un fioco rimbombar di duolo,
183Simile a rugghio di Leon che moja.
S’alzò tre volte, e tre ricadde al suolo
Spossata e vinta l’Aquila grifagna,
186Ché l’arse penne ricusaro il volo.
Alfin, strisciando dietro a la campagna,
Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio
189A gl’intimi recessi di Lamagna.
Allor prese i Tiranni un brividio,
Che gli fe’ paventar de la lor sorte,
192E mal frenato in su le gote uscio,
E gliele tinse d’un color di morte.
I’ era immerso in quell’altera vista,
3Come colui che tace e maraviglia;Qual dicon che de’ Spirti in fra la lista,
Stette mirando le magiche note
6Il furente di Patmo Evangelista.
Quand’io vidi la Dea, che su l’immote
Maladette sorelle il cocchio spinse,
9E su le infami cigolar le rote,
Primamente un terror freddo mi strinse,
Poi surse in petto con subita forza
12La letizia, che l’altro affetto estinse.
Qual se fiamma divora arida scorza
Avidamente, e d’improvviso d’acque
15Talun l’inonda, subito s’ammorza,
Così sotto la gioja il timor giacque;
Poi surse un novo di stupore affetto,
18E l’uno e l’altro moto in sen mi tacque.
Però ch’io vidi un bel drappello eletto
Di Lor che sordi furo al proprio danno,
21Caldi d’amor di Libertade il petto.
Vidi colui che contro al rio Tiranno
Fe’ la vendetta del superbo strupo,
24Poi che s’avvide del lascivo inganno,
E corse furioso, come lupo,
Se mai rapace cacciator gli fura
27I cari figli dal natio dirupo.
E seco è Lei, che d’alma intatta e pura,
Benché polluta ne la spoglia in vita,
30Lavò col sangue la non sua lordura.
Quei che ritolse ai figli suoi la vita,
Poi che ne fero uso malvagio e rio,
33Immolando a la Patria, ostia gradita,
L’affetto di parente, e dir s’udio:
Quei che di fede a la sua patria manca
36Non è figlio di Roma, e non è mio.
Siegue Quei che la destra ardita e franca
Cacciò fremendo ne le fiamme pie,
39E fe’ tremar Porsenna colla manca.
Ve’ la Vergin che corse a le natie
Piaggie, fuggendo del Tiranno l’onte,
42Per le amiche del Tebro ospite vie.
Ecco quel forte, che al famoso ponte
Contra l’Etruria congiurata tenne
45Ferme le piante e immobile la fronte.
E l’urto d’un esercito sostenne,
E contra mille e mille lancie stette,
48Onde immortale a’ posteri divenne.
Ma ben poria le più sottili erbette
Annoverar nel prato e ’n ciel le stelle
51E le arene nel mar minute e strette
Chi noverar volesse l’alme belle
Ch’ivi eran, di valore inclito speglio,
54Sol de la Patria e di Virtute ancelle.
Sorgea fra gli altri il generoso Veglio,
Che involò del Tiranno ai sozzi orgogli
57La figlia intatta, e ben fu morte il meglio.
Fu la figlia che disse al padre: Cogli
Questo immaturo fior: tu mi donasti
60Queste misere membra, e tu le togli,
Pria che impudico ardir le incesti e guasti;
E in quello cadde il colpo, e impallidiro
63Le guancie e i membri intemerati e casti,
E uscì dal puro sen l’ultimo spiro,
Ed a la vista orribile fremea
66Il superbo e deluso Decemviro,
Cui stimolava la digiuna e rea
Libidine, e struggea l’insana rabbia,
69Che i già protesi invan nervi rodea;
Qual lupo, che la preda perdut’abbia,
Batte per fame l’avida mascella,
72Rugge, e s’addenta le digiune labbia.
Quindi segue una coppia rara e bella,
Che ria di ben oprar mercede colse
75Ahi! da la Patria troppo ingrata e fella.
V’è quel grande che Roma ai ceppi tolse,
Indi de l’Afro le superbe mine
78E le audaci speranze in lui rivolse:
Per cui sovra le libiche ruine
Vide Roma discesa al gran tragitto
81Il fulgor de le fiaccole Latine.
E quei che Magno detto era ed invitto,
Che, insiem con Libertà, spoglia schernita
84Giacque su l’infedel sabbia d’Egitto.
V’era la non mai doma Alma, che ardita
Temé la servitù più de la morte,
87Amò la Libertà più de la vita;
Dicendo: Poi che la nimica sorte
Tanto è contraria a Libertate, e invano
90La terribile armò destra quel forte,
Alzisi omai la generosa mano,
E l’alma fugga pria che servir l’empio,
93Ch’io nacqui e vissi e vo’ morir Romano.
E seco è Lei, che con novello scempio
Dietro la fuggitiva Libertate
96Corse animata dal paterno esempio.
Quindi un drappel venia d’ombre onorate
Sacre a la patria, che di sangue diro
99Ne spruzzar le ruine inonorate.
Bruto primo sorgea, che torvi in giro
Pria torse i lumi, indi a Roma gli volse,
102E da l’imo del cor trasse un sospiro.
E a l’ombre circostanti si rivolse,
In cui non fu la virtù patria doma,
105Indi la lingua in tai parole sciolse:
Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non più Roma,
Or che strappotti il glorioso lauro
108Invida man da la vittrice chioma.
Ov’è l’antico di virtù tesauro?
Ove, ove una verace alma Latina?
111Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro?
Ahi! de la Libertà l’ampia ruina
Tutto si trasse ne la notte eterna,
114Ed or serva sei fatta di reina;
Ché il celibe Levita ti governa
Con le venali chiavi, ond’ei si vanta
117Chiuder la porta e disserrar superna.
E i Druidi porporati: oh casta, oh santa
Turba di Lupi mansueti in mostra,
120Che de la spoglia de l’agnel s’ammanta!
E il popol reverente a lor si prostra
In vile atto sommesso, e quasi Dii
123Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!
Che valse a me di sacri ferri e pii
Armar le destre, e franger la catena?
126Lasso! e per chi la grande impresa ardii?
Spento un Tiranno, un altro surse, piena
Di schiavi de la terra era la Donna,
129Infin che strinse la temuta abena
Quei che la Galilea dimessa donna
Trasse dal fango, e i membri sozzi e nudi
132Vestì di tolta altrui fulgida gonna;
E maritolla a’ suoi nefandi Drudi
Incestamente, e al vecchio Sacerdote
135A la canna scappato e a le paludi,
Che infallibil divino a le devote
Genti s’infinse, che a la Putta astuta
138Prestaro omaggio e le fornir la dote.
E nel Roman bordello prostituta,
Vile, superba, sozza e scellerata
141Al maggior offerente era venduta.
Ivi un postribol fece, ove sfacciata
Facea di sé mercato, ed a’ suoi Proci
144Dispensava ora un detto, ora un’occhiata.
Ma poi che ferma in trono fu, feroci
Sensi vestì, l’armi si cinse, e infece
147D’innocuo sangue le mal compre croci.
E sue ministre ira e vendetta fece,
L’inganno, la viltà, la scelleranza,
150E fe’ sua legge: Quel che giova lece.
Quindi la maladetta Intolleranza
Del detto e del pensier, quindi Sofia
153Stretta in catene, e in trono l’Ignoranza.
O ditel voi, che di saver sì ria
Mercede aveste di sospiri e pianto
156Da l’empia de l’ingegno tirannia.
O ditel voi, ch’io già non son da tanto;
Gridino l’ossa inonorate, e il suono
159A l’Indo ne pervenga e al Garamanto.
Questi i diletti de l’Eterno sono?
Questi i ministri del divin volere?
162E questi è un Dio di pace e di perdono?
Dillo, o gran Tosco, tu, che de le spere
Librasti il moto, e a’ tuoi nepoti un varco
165Di veritate apristi e di sapere.
Contra te i dardi dal diabolic’arco
Sfrenò l’invidia, e contra i tuoi sistemi
168Indarno trasse in campo e Luca e Marco.
Empj! che di ragione i divi semi
Spegner tentaro ne gli umani petti,
171E colpirono il ver con gli anatemi.
Van predicando un Nume, e a’ suoi precetti
Fan fronte apertamente, e a chi gl’imita
174Fulminan le censure e gl’interdetti.
Povera, disprezzata, umil la vita
Quel che tu adori in Galilea menava,
177E tu suo servo in Roma un Sibarita.
O greggia stolta, temeraria e prava,
Che col suo Nume e con se stessa pugna;
180Di Dio non già, ma di sue voglie schiava.
Altri nemico di se stesso impugna
Crudo flagello, e il sangue fonde, e ’l fura,
183A la Patria, e de’ suoi dritti a la pugna,
Devoto suicida, ed a la dura
Verginità consacrasi, i desiri
186Soffocando e le voci di natura.
Stolto crudel, che fai? de’ tuoi martiri
Forse l’amante comun Padre frue?
189O si pasce di sangue e di sospiri?
Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei con le sue
Dita divine la diversa brama
192Pose Colui, che disse “sia”, e fue.
Ei con la voce di natura chiama
Tutti ad amarsi, e gli uomini accompagna,
195E va d’ognuno al cor ripetendo: Ama.
E tu fuggi colei che per compagna
Ei ti diede, e i fratei credi nemici,
198E invan natura, invan grida e si lagna.
E tal sotto i flagelli ed i cilici
Cela i pugnali, e vassi a capo chino
201Meditando veleni e malefici.
O degenere figlia di Quirino,
Che i tuoi prodi obliando, al Galileo
204Cedesti i fasci del valor Latino,
Questi sono i tuoi Cati, e in sul Tarpeo
Dei nostri figli si fan scherno e gioco…
207Ma qui si tacque, e dir più non poteo;
Ché tal la carità del natio loco
Lo strinse, e sì l’oppresse, che morio
210La voce in un sospir languido e fioco.
Quindi tra le commosse ombre s’udio
Sorgere un roco ed indistinto gemito,
213Poscia un cupo e profondo mormorio;
Sì come allor che con interno tremito
Quassano i venti il suol che ne rimbomba,
216S’ode sonar da lunge un sordo fremito,
Che tra le foglie via mormora e romba.
Di quella generosa Anima bella
3Avean là tutto il mio pensier raccolto,Quando tutto a sé ’l trasse una novella
Turba, che di rincontro a me venia,
6D’abito più recente e di favella.
Confuso e irresoluto io me ne gìa,
Com’uom che in terra sconosciuta mova,
9Che lento lento dubbiando s’avvia.
Ed erano color che per la nova
Libertade s’alzar fra l’alme prime,
12Di sé lasciando memoranda prova.
Grandeggiava fra queste una sublime
Alma, come fra ’l salcio umile e l’orno
15Torreggian de’ cipressi alto le cime.
Avea di belle piaghe il seno adorno,
Che vibravan di luce accesa lampa,
18E fean più chiaro quel sereno giorno;
Ché men rifulge il sol quando più avvampa,
E sovra noi da lo stellato arringo
21L’orme fiammanti più diritte stampa.
Allor ch’egli me vide il pie’ ramingo
Traggere incerto per l’ignota riva,
24Meditabondo, tacito e solingo,
A me corse, gridando: Anima viva,
Che qua se’ giunta, u’ solo per virtute,
27E per amor di Libertà s’arriva;
Italia mia che fa? di sue ferute
È sana alfine? è in Libertate? è in calma?
30O guerra ancor la strazia e servitute?
Io prodigo le fui di non vil alma,
E nel cruento suo grembo ospitale
33Giacqui barbaro pondo, estrania salma.
Né m’accolse nel seno il suol natale,
Né dolce in su le ceneri agghiacciate
36Il suon discese del materno vale.
Barbaro estranio tu? non son sì ingrate
L’anime Italiane, e non è spento
39L’antico senso in lor de la pietate.
Oh qual non fece Insubria mia lamento
Più sul tuo fato, che sul suo periglio!
42Ahi! con lagrime ancor me ne rammento.
E te, discinta e scarmigliata, figlio
Chiamò, baciando il tronco amato e santo,
45E con la destra ti compose il ciglio.
E adorò ’l tuo cipresso al quale accanto
Il caro germogliò lauro e l’ulivo,
48Che i rai le terse del bilustre pianto.
Li terse? Ahi no! ché a lei costonne un rivo,
Che inondò i membri inanimati e rubri
51Di te, che ’n cielo e ne’ bei cor se’ vivo.
Deh! resti a noi, dicean le rive Insubri,
Deh! resti a noi, ma l’onorata spoglia
54Trasse Francia gelosa a’ suoi delubri.
Ma de l’itala sorte, onde t’invoglia
Tanto desio, come farò parola?
57Ché un seme di Tiranni vi germoglia.
E sotto al giogo de la greve stola
La gran Donna del Lazio il collo spinse,
60E guata le catene, e si consola.
E Partenope serve a lei, che vinse
In crudeltà la Maga empia di Colco,
63E de’ più disumani il grido estinse.
Ed il Siculo e ’l Calabro bifolco
Frange a crudo signor le dure glebe,
66E riga di sudore il non suo solco.
Al mio dir disiosa urtò la plebe
Un’ombra, sì com’irco spinge e cozza
69In su l’uscita le ammucchiate zebe.
Avea i luridi solchi in su la strozza
Del capestro, e la guancia scarna e smunta,
72E la chioma di polve e sangue sozza.
E’ surse de le piante in su la punta,
Come chi brama violenta tocca,
75E uno sciame d’affetti in sen gli spunta,
Ed il cor sopraffatto ne trabocca
Inondato e sommerso, e l’alma fugge
78Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.
Poi gridò: L’empia vive, e non l’adugge
Il telo, che temuto è sì là giue?
81E ’l dolce lume ancor per gli occhi sugge?
Né pur la pena di sue colpe lue,
Ma vive, e vive trionfante, e regna:
84Regna, e del frutto di sue colpe frue.
O tu, diss’io, che sì contra l’indegna
Ardi, che in crudeltate al mondo è sola,
87Spiegami il duol che sì l’alma t’impregna.
Più volte egli tentò formar parola,
Ma sul cor ripiombò tronca la voce;
90Che ’l duol la sospingeva ne la gola;
Sì come arretra il suo corso veloce,
E spumeggia e gorgoglia onda restia,
93Se impedimento incontra in su la foce.
Ma poi che vinse il duol la cortesia,
E per le secche fauci il varco aperse,
96E fu spianata al ragionar la via,
Gridò: Tu vuoi ch’io fuor dal seno verse
Il duol, che tanto già mi punse e punge,
99Se pur si puote anco qua su dolerse.
Ma in quale arena mai grido non giunge
Di sua nequizia e de’ fatti empi e rei?
102E sia pur, quanto esser si voglia, lunge.
Io di sua crudeltà la prova fei,
E giacqui ostia innocente in su l’arena,
105Per amor de la Patria e di Costei,
Di ciò l’alma e la bocca ebbi ognor piena,
Che a me fu sempre fida stella e duce,
108Ed or mi paga la sofferta pena.
Poi che apparve un’incerta e dubbia luce
Sovra l’Italia addormentata, e sparve,
111Onde la notte nereggiò più truce,
E una benigna Libertade apparve,
Che al duro appena ci rapì servaggio,
114Indi sparì come notturne larve,
Io corsi là, com’a un lontano raggio
Correndo e ansando il pellegrin s’affretta,
117Smarrito fra ’l notturno ermo viaggio.
Ahi breve umana gioja ed imperfetta!
Venne, con l’armi no, con le catene
120Una ciurma di schiavi maladetta.
E gli abeti secati a le Rutene
Canute selve del Cumeo Nettuno
123Gravaro il dorso, e ne radean le arene.
Corse fremendo ed ululando il bruno
Tartaro antropofàgo, che per fame
126Spalanca l’atro gorgozzul digiuno.
E l’Anglo avaro, che mercato infame
Fa de le umane vite, e in quella sciarra
129Lo spinsero de l’or le ingorde brame.
Né più i solchi radea sicula marra,
Né più la falce, ma le verdi biade
132Mieteva la cosacca scimitarra.
E non bastar le peregrine spade;
Ché la Patria ancor essa, ahi danno estremo!
135Vomitò contra sé fiere masnade.
Ahi che in pensando ancor ne scoppio e fremo!
Qual dal carcer sboccato e qual dal chiostro,
138Qual tolto al pastorale e quale al remo.
Oh ciurma infame! e un porporato mostro
Duce si fe’ de le ribelli squadre,
141Celando i ferri sotto al fulgid’ostro.
Costor le mani violente e ladre
Commiser ne la Patria, e tutta quanta
144D’empie ferite ricovrir la madre.
Di Libertà la tenerella pianta
Crollar, sì come d’Eolo irato il figlio
147L’aereo pin da le radici schianta.
Poscia un confuso regnava bisbiglio,
Un sordo mormorar fra denti ed una
150Paura, un cupo sovvolger di ciglio;
Come allor che da lunge il ciel s’imbruna,
Siede sul mar, che a poco a poco s’ange,
153Una calma che annunzia la fortuna;
Mentre cigola il vento, che si frange
Tra le canne palustri, e cupo e fioco
156Rotto dai duri massi il fiotto piange.
Ma surse irata la procella, poco
Durò la calma e quel servir tranquillo;
159Sangue al pianto successe e ferro e foco.
E l’aer muto ruppe acuto squillo
Annunziator di stragi, e sulla torre
162L’atro di morte sventolò vessillo.
Il furor per le vie rabido scorre,
E con grida i satelliti, e con cenni
165Incora e sprona, e a nova strage corre.
Allor s’ode uno strider di bipenni,
Un cupo scroscio di mannaje. Ahi come
168Oltre veder con questi occhi sostenni!
Chi solo amò di Libertate il nome,
O appena il proferì, dai sacri lari
171Strappato e strascinato è per le chiome.
Ai casti letti venian que’ sicari,
Qual di lupi digiuni atro drappello,
174D’oro e di sangue e di null’altro avari.
E invan le spose al violato ostello,
Di lagrime bagnando il sen discinto,
177Fean con la debil man vano puntello;
Ché fin fu il ferro, ahimè! cacciato e spinto
Entro il seno pregnante: oh scelleranza!
180E il ferro, il ferro da l’orror fu vinto.
Gli empj no, che con fiera dilettanza
Pascean gli sguardi disiosi e cupi,
183E fean periglio di crudel costanza.
E i pargoletti a que’ feroci lupi
Con un sorriso protendean le mani,
186Con un sorriso da spetrar le rupi.
Ed essi, oh snaturati! oh in volti umani
Tigri! col ferro rimovean l’amplesso,
189E fean le membra tenerelle a brani.
Non era il grido ed il sospir concesso;
Era delitto il lagrimar, delitto
192Un detto, un guardo ed il silenzio istesso.
Morte gridava irrevocando editto.
La coronata e la mitrata stizza
195L’avean col sangue d’innocenti scritto.
Intanto a mille eroi l’anima schizza
Dal gorgozzule oppresso, e brancolando
198Il tronco informe su l’arena guizza.
Anelando, fremendo, mugolando
Gli spirti uscien da’ straziati tronchi,
201Non il lor danno, ma il comun plorando.
Ivi sorgean due smisurati tronchi,
Cui l’adunato sangue era lavacro,
204E d’intorno eran membri e capi cionchi.
Quinci era il tronco infame a morte sacro,
Irto e spumoso di sanguigna gruma,
207Quindi stava di Cristo il simulacro;
E il percotea la fluttuante schiuma,
Che fea del sangue e de la tabe il lago,
210Che ferve e bolle e orrendamente fuma.
Fiero portento allor si vide, un vago
Spettro spinto da voglia empia ed infame
213Lieto aggirarsi intorno al tristo brago.
Avidamente pria fiutò il carname,
E rallegrossi, e poi con un sogghigno
216Guatò de’ semivivi il bulicame.
Quindi il muso tuffò smilzo ed arcigno,
E il diguazzò per entro a la fiumana,
219E il labbro si lambì gonfio e sanguigno.
Come rabido lupo si distana,
Se a le nari gli vien di sangue puzza,
222E ringhia e arrota la digiuna scana,
E guata intorno sospicando, e aguzza
Gli orecchi e ognor s’arretra in su i vestigi,
225Così colei, che di sua salma appuzza
Le viscere cruente di Parigi,
Rigurgitando velenosa bava,
228La barbara consorte di Luigi,
Venia gridando: Insana ciurma e prava,
Che noi di crudi e di Tiranni incolpe,
231E al regno agogni, nata ad esser schiava,
Godi or tuoi dritti, e de le nostre colpe
Il fio tu paga, e sì dicendo morse
234Le membra, e rosicchiò l’ossa e le polpe.
Indi da l’atro desco il grifo torse
Gonfia di sangue già, ma non satolla,
237Quando novo spettacolo si scorse.
Venia uno stuolo di Leviti, colla
Faccia di rabbia e di furor bollente,
240E inzuppata di sangue la cocolla.
Ciascun reca una coppa, e d’innocente
Sangue l’empiero, e le posar su l’ara.
243E lo vide e ’l soffrì l’Onnipossente!
E disser: Bevi, e fean quegli empj a gara.
Danzava intorno oscenamente Erinni,
246E scoteva la cappa e la tiara.
E i profani s’udian rochi tintinni
De’ bronzi, e l’aria, con le negre penne,
249Gl’infernali scotean diabolic’inni.
Bramata alfine ed aspettata venne
A me la morte, ed il supremo sfogo
252Compì su la mia spoglia la bipenne.
Allora scossi l’abborrito giogo,
E, l’ali aprendo a la seconda vita,
255Rinacqui alfin, come fenice in rogo.
Ed ancor tace il mondo? ed impunita
È la Tigre inumana, anzi felice,
258E temuta dal mondo e riverita?
Deh! vomiti l’accesa Etna l’ultrice
Fiamma, che la città fetente copra,
261E la penetri fino a la radice.
Ma no: sol pera il delinquente, sopra
Lei cada il divo sdegno e sui diademi,
264Autori infami de l’orribil’opra.
E fin da lunge ne’ recessi estremi,
Ove s’appiatta, e ne’ covigli occulti
267L’oda l’empia Tiranna, odalo e tremi.
E disperata mora, e ai suoi singulti
Non sia che cor s’intenerisca e pieghi,
270E agli strazj perdoni ed a gli insulti,
O dal Ciel pace a l’empia spoglia preghi;
Ma l’universo al suo morir tripudi,
273E poca polve a l’ossa infami neghi.
E l’alma dentro a le negre paludi
Piombi, e sien rabbia assenzio e fel sua dape,
276E tutto Inferno a tormentarla sudi,
Se pur tanta nequizia entro vi cape.
Gorgogliava un suon muto di vendetta,
3Un fremer sordo d’intestina rabbia.E le affollate intorno ombre, “vendetta”
Gridar, “vendetta”, e la commossa riva
6Inorridita replicò “vendetta”.
I torbid’occhi il crino a lui copriva;
Fascio parea di vepri o di gramigna,
9Onde un’atra erompea luce furtiva;
Come veggiamo il sol, se una sanguigna
Nugola il raggio ne rinfrange, obbliqua
12Vibrar l’incerta luce e ferrugigna.
Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,
De gli uomini nimica e di natura,
15Or hai pur spenta l’empia sete antiqua!
Gonfia di sangue la corrente e impura
Portò l’umil Sebeto, e de la cruda
18Novella Tebe flagellò le mura.
Tigre inumana di pietate ignuda,
Tu sopravvivi a’ tuoi delitti? un Bruto
21Dov’è? chi ’l ferro a trucidarti snuda?
Questi sensi io volgea per entro al muto
Pensier, che tutto in quell’orror s’affisse,
24Allor che venne al mio veder veduto
D’Insubria il Genio, che le luci fisse
In me tenendo, armoniosa e scorta
27Voce disciolse, e scintillando disse:
Mortal, quello che udrai là giuso porta.
Deh! gli alti detti a la mal ferma e stanca
30Mente richiama, o Musa, e mi sia scorta.
Tu la cadente poesia rinfranca,
Tu la rivesti d’armonia beata,
33E tu sostieni la virtù, che manca;
Tu l’ali al pensier presta, o Diva nata
Di Mnemosine, e fa’ che del mio plettro
36Esca la voce ai colti orecchi grata,
E spargi i detti miei d’eterno elettro.
Già, proseguiva, del real potere
39Sei sciolta, Insubria, e infranto hai l’empio scettro.
Ché gli ubertosi colli e le riviere,
Ove Natura a se medesma piace,
42No, che non son per le Tedesche fiere.
Pace altra volta tu le desti, pace,
O Tiranno, giurasti, e udir le genti
45Il real giuro, e lo credean verace.
Ma di Tiranno fede i sacramenti
Frange e calpesta, e la legge de’ troni
48Son gl’inganni, i spergiuri, i tradimenti.
Venne in fin dai settemplici trioni,
Da te chiamato, e da le fredde rupi
51Un torrente di bruti e di ladroni.
Come in aperto ovile iberni lupi,
Tal su l’Insubria si gittar quegli empi,
54Di sangue ghiotti, di rapine e strupi.
Fino i sacri vestibuli di scempi
Macchiaro e d’adulteri. Oh quali etati
57Fur mai feconde di siffatti esempi?
Ma non fur quegli insulti invendicati,
Né il vizio trionfò: l’infame tresca
60Franse il ferro e ’l valor: gli addormentati
Spirti destarsi alfin, e la Tedesca
Rabbia fu doma, e le fiaccò le corna
63La virtù Cisalpina e la Francesca.
Torna, arrogante a questi lidi, torna;
Qui roco ancor di morte il telo romba,
66Qui la tua morte appiattata soggiorna.
Qui il cavo suol de’ sepolcri rimbomba
De la tua pube, che ancor par che gema:
69Vieni in Italia, e troverai la tomba.
Altra volta scendesti avido, e scema
Ti fu l’audacia temeraria e sciocca:
72Rammenta i campi di Marengo, e trema.
Ché la fatal misura ancor trabocca;
Non affrettar de la vendetta il die,
75Il dì che impaziente è su la cocca.
Pace avesti pur anco, e questa fie
La novissima volta; in l’alemanno
78Confin le tigri tue frena e le arpie.
Ma tu, misera Insubria, d’un Tiranno
Scotesti il giogo, ma t’opprimon mille.
81Ahi che d’uno passasti in altro affanno!
Gentili masnadieri in le tue ville
Succedettero ai fieri, e a genti estrane
84Son le tue voglie e le tue forze ancille.
Langue il popol per fame, e grida: “pane”;
E in gozzoviglia stansi e in esultanza
87Le Frini e i Duci, turba, che di vane
Larve di fasto gonfia e di burbanza,
Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda,
90A piena bocca sclamando: Eguaglianza;
Il volgo, che i delitti e la nefanda
Vita vedendo, le prime catene
93Sospira, e ’l suo Tiranno al ciel domanda.
De l’inope e del ricco entro le vene
Succian l’adipe e ’l sangue, onde Parigi
96Tanto s’ingrassa, e le midolle ha piene.
E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi
Strisciangli intorno in atto umile e chino.
99E tal di risse amante e di litigi
D’invido morso addenta il suo vicino,
Contra il nemico timido e vigliacco,
102Ma coraggioso incontro al cittadino.
Tal ne’ vizj s’avvolge, come ciacco
Nel lordo loto fa; soldato esperto
105Ne’ conflitti di Venere e di Bacco.
E tal di mirto al vergognoso serto
Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,
108Ricco d’audacia, e povero di merto.
Tal pasce il volgo di sonanti fole:
Vile! e di patrio amor par tutto accenso,
111E liberal non è che di parole.
E questi studio d’allargare il censo
Avito rode, e quel tal altro brama
114Di farsi ricco di tesoro immenso.
Senti costui, che “morte, morte” esclama,
E le vie scorre, furibonda Erinni,
117Di sangue ingordo, e dove può si sfama.
Vedi quei, che sua gloria nei concinni
Capei ripone. Oh generosi Spirti
120Degni del giogo estranio e de’ cachinni!
Odimi, Insubria. I dormigliosi spirti
Risveglia alfine, e da l’olente chioma
123Getta sdegnosa gli Acidalj mirti.
Ve’ come t’hanno sottomessa e doma,
Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi
126La Tirannia, che Libertà si noma.
Mira le membra illividite e i tuoi
Antichi lacci; l’armi, l’armi appresta,
129Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi.
E a l’elmo antico la dimessa cresta
Rimetti, e accendi i neghittosi cori,
132E stringi l’asta ai regnator funesta;
Come destrier, che fra l’erbette e i fiori,
Placido, in diuturno ozio recuba,
135Sol meditando vergognosi amori,
Scote nitrendo la nitente giuba,
Se il torpido a ferirlo orecchio giugne
138Cupo clangor di bellicosa tuba,
E stimol fiero di gloria lo pugne,
Drizza il capo, e l’orecchio al suono inchina,
141E l’indegno terren scalpe con l’ugne.
Contra i Tiranni sol la cittadina
Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso,
144Che fosti serva, ed or sarai reina.
Disse e tacque, raggiandomi d’un riso,
Che del mio spirto superò la forza,
147Così ch’io ne restai vinto e conquiso.
Mi scossi, e la rapita anima a forza,
Come chi tenta fuggire e non puote,
150Cacciata fu ne la mortale scorza.
Io restai come quel che si riscote
Da mirabile sogno, che pon mente
153Se dorme o veglia, e tien le ciglia immote.
O Pieride Dea, che ’l foco ardente
Ispirasti al mio petto, e i sempiterni
156Vanni ponesti a la gagliarda mente,
Tu, Dea, gl’ingegni e i cor reggi e governi,
E i nomi incidi nel Pierio legno,
159Che non soggiace al variar de’ verni.
Tu l’ali impenni al Ferrarese ingegno,
Tu co’ suoi divi carmi il vizio fiedi,
162E volgi l’alme a glorioso segno.
Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi
Fai de’ tuoi carmi, e trapassando pungi
165La vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi.
Tu il gran Cantor di Beatrice aggiungi,
E l’avanzi talor; d’invidia piene
168Ti rimiran le felle alme da lungi,
Che non bagnar le labbia in Ippocrene,
Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,
171Onde tal puzzo da’ lor carmi viene.
Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne
De l’arte sacra! Augei palustri e bassi;
174Cigni non già, ma Corvi da carogne.
Ma tu l’invida turba addietro lassi,
E le robuste penne ergendo, come
177Aquila altera, li compiangi, e passi.
Invano atro velen sovra il tuo nome
Sparge l’invidia, al proprio danno industre,
180Da le inquiete sibilanti chiome.
Ed io puranco, ed io, Vate trilustre,
Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume
183A me fo scorta ne l’arringo illustre.
E te veggendo su l’erto cacume
Ascender di Parnaso alma spedita,
186Già sento al volo mio crescer le piume.
Forse, oh che spero! io la seconda vita
Vivrò, se a le mie forze inferme e frali
189Le nove Suore porgeranno aita.
Ma dove mi trasporti, estro? mortali
Son le mie penne, e periglioso il volo,
192Alta e sublime è la caduta; l’ali
Però raccogli, e riposiamci al suolo.
Naso non grande e non soverchio umile:
Tonda la gota e di color vivace:
Stretto labbro e vermiglio: e bocca esile:Lingua or spedita or tarda, e non mai vile,
Che il ver favella apertamente, o tace.
Giovin d’anni e di senno; non audace:
Duro di modi, ma di cor gentile.
La gloria amo e le selve e il biondo iddio:
Spregio, non odio mai: m’attristo spesso:
Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.
A l’ira presto, e più presto al perdono:
Poco noto ad altrui, poco a me stesso:
Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.
E d’Erato il sospiro, o dolce madre,
L’amaro ghigno di Talia mi piacque,
Non è consiglio di maligno petto.
5Né del mio secol sozzo io già vorrei
Rimescolar la fetida belletta,
Se un raggio in terra di virtù vedessi,
Cui sacrar la mia rima. A te sovente
Così diss’io: ma poi che sospirando,
10Come si fa di cosa amata e tolta,
Narrar t’udia di che virtù fu tempio
Il casto petto di colui che piangi;
Sarà, dicea, che di tal merto pera
Ogni memoria? E da cotanto esemplo
15Nullo conforto il giusto tragga, e nulla
Vergogna il tristo? Era la notte; e questo
Pensiero i sensi m’avea presi; quando,
Le ciglia aprendo, mi parea vederlo
Dentro limpida luce a me venire,
20A tacit’orma. Qual mentita in tela,
Quasi a culto, la miri, era la faccia.
Come d’infermo, cui feroce e lungo
Malor discarna, se dal sonno è vinto,
25Che sotto i solchi del dolor, nel volto
Mostra la calma, era l’aspetto. Aperta
La fronte, e quale anco gl’ignoti affida:
Ma ricetto parea d’alti pensieri.
Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso
30Non difficile il labbro. A me dappresso
Poi ch’e’ fu fatto, placido del letto
Su la sponda si pose. Io d’abbracciarlo,
Di favellare ardea; ma irrigidita
Da timor da stupor da reverenza
35Stette la lingua; e mi tremò la palma,
Che a l’amplesso correva. Ei dolcemente
Incominciò: Quella virtù, che crea
Di due boni l’amor, che sian tra loro
Conosciuti di cor, se non di volto,
40A vederti mi tragge. E sai se, quando
Il mio cor ne le membra ancor battea,
Di te fu pieno; e quanta parte avesti
De gli estremi suoi moti. Or poi che dato
Non m’è, com’io bramava, a passo a passo
45Per man guidarti su la via scoscesa,
Che anelando ho fornita, e tu cominci,
Volli almeno una volta confortarti
Di mia presenza. Io, con sommessa voce,
Com’uom, che parla al suo maggiore, e pensa
50Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,
Risposi: Allor ch’io l’amorose e vere
Note leggea, che a me dettasti prime,
E novissime furo; e la dolcezza
De l’esser teco presentia, chi detto
55M’avria che tolto m’eri! E quando in caldo
Scritto gli affetti del mio cor t’apersi,
Che non saria da gli occhi tuoi veduto,
Di te nutrissi desiderio, il pensa.
60E come il pellegrin, che d’amor preso
Di non vista città, ver quella move;
E quando spera che la meta il paghi
Del cammin duro e lungo, e fiso osserva
Se le torri bramate apparir veggia;
65E mira più da presso i fondamenti
Per crollo di tremuoto in su rivolti,
E le porte abbattute, e fori e case
Tutto in ruina inospital converso,
E i meschini rimasti interrogando,
70Con pianto ascolta raccontar dei pregi
E disegnar dei siti; a questo modo
Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti
Di retto acuto senno, d’incolpato
Costume, e d’alte voglie, ugual, sincero,
75Non vantator di probità, ma probo:
Com’oggi al mondo al par di te nessuno
Gusti il sapor del beneficio, e senta
Dolor de l’altrui danno. Egli ascoltava
Con volto nè superbo nè modesto.
80Io rincorato proseguia: se cura,
Se pensier di quaggiù vince l’avello
Certo so ben che il duol t’aggiunge e il pianto
Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
Te perdendo, ha perduto. E se possanza
85Di pietoso desio t’avrà condotto
Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto
Grondar la stilla del dolor sul primo
Bacio materno. Io favellava ancora,
Quand’ei l’umido ciglio e le man giunte
90Alzando inver lo loco onde a me venne,
Mestamente sorrise, e: se non fosse
Ch’io t’amo tanto, io pregherei che ratto
Quell’anima gentil fuor de le membra
Prendesse il vol, per chiuder l’ali in grembo
95
Ché finch’io non la veggo, e ch’io son certo
Di mai più non lasciarla, esser felice
Pienamente non posso. A questi accenti
Chinammo il volto, e taciti ristemmo:
100Ma per gli occhi d’entrambi il cor parlava.
Poi che il pianto e i singulti a le parole
Dieder la via, ripresi: a le sue piaghe
Sarà dittamo e latte il raccontarle
Che del tuo dolce aspetto io fui beato,
105E ridirle i tuoi detti. Ora, per lei
Ten prego, dammi che d’un dubbio fero
Toglierla io possa. Allor che de la vita
Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto
Di possanza vital feceti a gli occhi
110Il dardo balenar che ti percosse?
O pur ti giunse impreveduto e mite?
Come da sonno, rispondea, si solve
Uom, che né brama né timor governa,
Dolcemente così dal mortal carco
115Mi sentii sviluppato; e volto indietro,
Per cercar lei, che al fianco mio si stava,
Più non la vidi. E s’anco avessi innanzi
Saputo il mio morir, per lei soltanto
Avrei pianto, e per te: se ciò non era,
120Che dolermi dovea? Forse il partirmi
Da questa terra, ov’è il ben far portento,
E somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier da la parola è sempre
Altro, e virtù per ogni labbro ad alta
125Voce lodata, ma nei cor derisa;
Dov’è spento il pudor; dove sagace
Usura è fatto il beneficio, e brutta
Lussuria amor; dove sol reo si stima
Chi non compie il delitto; ove il delitto
130Turpe non è, se fortunato; dove
Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.
Dura, e pur troppo disegual, la guerra
Contra i perversi affratellati e molti.
135Tu, cui non piacque su la via più trita
La folla urtar che dietro al piacer corre
E a l’onor vano e al lucro; e de le sale
Al gracchiar voto, e del censito volgo
Al petulante cinquettio, d’amici
140Ceto preponi intemerati e pochi,
E la pacata compagnia di quelli
Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
Segui tua strada; e dal viril proposto
Non ti partir, se sai. Questa, risposi,
145Qualsia favilla, che mia mente alluma,
Custodii, com’io valgo, e tenni viva
Finor. Né ti dirò com’io, nodrito
In sozzo ovil di mercenario armento,
Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto
150De l’insipida stoppia, il viso torsi
Da la fetente mangiatoia; e franco
M’addussi al sorso de l’Ascrea fontana.
Come talor, discepolo di tale,
Cui mi saria vergogna esser maestro,
155Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso
Di tanto amor, che mi parea vederli
Veracemente, e ragionar con loro.
Né l’orecchio tuo santo io vo’ del nome
Macchiar de’ vili, che oziosi sempre,
160Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
L’operosa calunnia. A le lor grida
Silenzio opposi, e a l’odio lor disprezzo.
Qual merti l’ira mia fra lor non veggio;
Ond’io lieve men vado a mia salita,
165Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,
Se di te vero udii che la divina
De le Muse armonia poco curasti.
Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque
170Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo. E venerando il nome
Fummi di lui, che ne le reggie primo
L’orma stampò dell’Italo coturno:
E l’aureo manto lacerato ai grandi,
175Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
E di quel, che sul plettro immacolato
Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
Cui, di maestro a me poi fatto amico,
Con reverente affetto ammirai sempre
180Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
L’immondizia del trivio e l’arroganza,
E i vizj lor; che di perduta fama
185Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
Far di lodi mercato e di strapazzi.
Stolti! Non ombra di possente amico,
Nè lodator comprati avea quel sommo
D’occhi cieco, e divin raggio di mente,
190Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d’Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo:
Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
195E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il cielo.
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravissuti, oscura e disonesta
Canizie attende. E tacque; e scosso il capo,
200E sporto il labbro, amaramente il torse,
Com’uom cui cosa appare ond’egli ha schifo.
Gioia il suo dir mi porse, e non ignota
Bile destommi; e replicai: deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
205Io possa, o far che, s’io cadrò su l’erta,
Sentir, riprese, e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi: conservar la mano
210Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: nè proferir mai verbo,
215Che plauda al vizio, o la virtù derida.
O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
Non mi sia spento; a governar rimani
Me, cui natura e gioventù fa cieco
220L’ingegno, e serva la ragion del core.
Così parlava e lagrimava: al mio
Pianto ei compianse, e: non è questa, disse,
Quella città, dove sarem compagni
Eternamente. Ora colei, cui figlio
225Se’ per natura, e per eletta amico,
Ama ed ascolta, e di filial dolcezza
L’intensa amaritudine le molci.
Dille ch’io so, ch’ella sol cerca il piede
Metter su l’orme mie; dille che i fiori,
230Che sul mio cener spande, io gli raccolgo,
E gli rendo immortali; e tal ne tesso
Serto, che sol non temerà nè bruma,
Ch’io stesso in fronte riporrolle, ancora
De le sue belle lagrime irrorato.
235Dolce tristezza, amor, d’affetti mille
Turba m’assalse; e da seder levato,
Ambo le braccia con voler tendea
A la cara cervice. A quella scossa,
Quasi al partir di sonno io mi rimasi;
240E con l’acume del veder tentando,
E con la man, solo mi vidi; e calda
Mi ritrovai la lacrima sul ciglio.
Da le insubri cavalle esercitato,
Ove di selva coronate attolle
La mia città le favolose mura,
5Prego, suoni quest’Inno: e se pur degna
Penne comporgli di più largo volo
La nostra Musa, o sacri colli, o d’Arno
Sposa gentil, che a te gradito ei vegna
Chieggo a le Grazie. Chè dai passi primi
10Nel terrestre viaggio, ove il desio
Crudel compagno è de la via, profondo
Mi sollecita amor che Italia un giorno
Me de’ suoi vati al drappel sacro aggiunga,
Italia, ospizio de le Muse antico.
15Nè fuggitive dai laureti achei
Altrove il seggio de l’eterno esiglio
Poser le Dive; e quando a la latina
Donna si feo l’invendicato oltraggio,
Dal barbaro ululato impaurite
20Tacquero, è ver, ma l’infelice amica
Mai non lasciâr; chè ad alte cose al fine
L’itala Poesia, bella, aspettata,
Mirabil virgo, da le turpi emerse
25Primo le desti, e ad illibate fonti
La conducesti; e ne le danze sacre
Tu le insegnasti ad emular la madre,
Tu de l’ira maestro e del sorriso,
Divo Alighier, le fosti. In lunga notte
30Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,
Tu nostro; e tale, allor che il guardo primo
Su la vedova terra il sole invia,
Nol sa la valle ancora e la cortese
Vital pioggia di luce ancor non beve,
35E già dorata il monte erge la cima.
A queste alme d’Italia abitatrici
Di lodi un serto in pria non colte or tesso;
Chè vil fra ’l volgo odo vagar parola
Che le Dive sorelle osa insultando
40Interrogar che valga a l’infelice
Mortal del canto il dono. Onde una brama
In cor mi sorge di cantar gli antichi
Beneficj che prodighe a l’ingrato
Recar le Muse. Urania al suo diletto
45Pindaro li cantò. Perché di tanto
Degnò la Dea l’alto poeta e come,
Dirò da prima; indi i celesti accenti
Ricorderò, se amica ella m’ispira.Fama è che a lui ne la vocal tenzone
50Rapisse il lauro la minor Corinna,
Misera! e non sapea di quanto Dio
L’ira il premea; chè a la famosa Delfo
Venendo, i poggi d’Elicona e il fonte
Del bel Permesso ei salutando ascese;
55Ma d’Orcomene, ove le Grazie han culto,
Il cammin sacro omise. Il devio passo
Vider da lunge e il non curar superbo
Del fatal giovanetto le immortali,
60Inno di lode liberato il volo
Pindaro avea, quando le belle irate,
Aerie forme a mortal guardo mute,
Venner seconde di Corinna al fianco.
Aglaja in pria su la virginea gota
65Sparse un fulgor di rosea luce, e un mite
Raggio di gioja le diffuse in fronte:
Ma la fragranza de’ castalj fiori
Che fanno l’opra de l’ingegno eterna,
Eufrosine le diede; e tu pur anco,
70Dolce qual tibia di notturno amante,
Lene Talia, le modulasti il canto.
Di tanti doni avventurata in mezzo
Corinna assurse: il portamento e il volto
Stupia la turba, e il dubitar leggiadro
75E il bel rossor con che tremando al seno
Posò la cetra; e, sotto la palpebra
Mezza velando la pupilla bruna,
Soave incominciò. Volava intorno
La divina armonia che, con le molli
80Ale i cupidi orecchi accarezzando,
Compungea gl’intelletti, e di giocondo
Brivido i cori percotea. Rapito
L’emulo anch’ei, non alito, non ciglio
Movea, né pria de’ sensi ebbe ripresa
85La signoria, che verdeggiar la fronda
Invidiata vide in su le nere
Trecce di lei, che fra il romor del plauso
Chinò la bella gota ove salia
Del gaudio mista e del pudor la fiamma.
90Di dolor punto e di vergogna, al volgo
L’egregio vinto si sottrasse, e solo
Sul verde clivo, onde l’aeria fronte
Spinge il Parnaso, s’avviò. Dolente
Errar da l’alto Licoreo lo scòrse
Del giovanetto, e di blandir sua cura
Nel pio voler propose. È nei riposti
Del sacro monte avvolgimenti un bosco
Romito, opaco, ove talor le Muse,
100Sotto il tremolo rezzo esercitando
L’ambrosio piè, ringioviniscon l’erbe
Da mortal orma non offese ancora.
A l’entrar de la selva, e sovra il lembo
Del vel che la tacente ombra distende,
105Balza l’Estro animoso, e de le accese
Menti il Diletto, e, ne la palma alzata
Dimettendo la fronte, il Pensamento
Sta col Silenzio, che per man lo tiene.
Bella figlia del Tempo e di Minerva
110V’è la Gloria, sospir di mille amanti:
Vede la schiva i mille, e ad un sorride.
Ivi il trasse la Diva. A l’appressarsi,
De l’aura sacra a l’aspirar, di lieto
Orror compreso in ogni vena il sangue
115Sentia l’eletto, ed una fiamma leve
Lambir la fronte ed occupar l’ingegno.
Poi che ne l’alto de la selva il pose
Non conscio passo, abbandonò l’altezza
Del solitario trono, e nel segreto
120Asilo Urania il prode alunno aggiunse.
Come tal volta ad uom rassembra in sogno,
Su lunga scala o per dirupo, lieve
Scorrer col piè non alternato a l’imo,
Né mai grado calcar né offender sasso;
125Tal su gli aerei gioghi sorvolando,
Discendea la celeste. Indi la fronte
Spoglia di raggi, e d’ale il tergo, e vela
D’umana forma il dio; Mirtide fassi,
Mirtide già de’ carmi e de la lira
130A Pindaro maestra; e tal repente
A che, disse, ne vieni? a mirar forse
Il mio rossore? o madre, oh! perché tanta
Speme d’onor mi lusingasti in vano?
135Come la madre al fantolin caduto,
Mentre lieto al suo piè movea tumulto,
Che guata impaurito, e già sul ciglio
Turgida appar la lagrimetta, ed ella
Nel suo trepido cor contiene il grido,
140E blandamente gli sorride in volto
Perch’ei non pianga; un tal divino riso,
Con questi detti, a lui la Musa aperse:
A confortarti io vegno. Onde sì ratto
«L’anima tua è da viltate offesa?»
145Non senza il nume de le Muse, o figlio,
Di te tant’alto io promettea. Deh! come,
Pindaro rispondea, cura dei vati
Aver le Muse io crederò? Se culto
Placabil mai de gl’Immortali alcuno
150Rendesse a l’uom, chi mai d’ostie e di lodi,
Chi più di me di preci e di cor puro
Venerò le Camene? Or se del mio
Dolor ti duoli, proseguia, deh! vogli
L’egro mio spirto consolar col canto.
155Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,
Qual d’uom che d’udire arda, e fra sé tema
Di far parlando a la risposta indugio.
Allor su l’erba s’adagiaro: il plettro
Urania prese, e gli accordò quest’Inno
160Che in minor suono il canto mio ripete.Fra le tazze d’ambrosia imporporate,
Concittadine degli Eterni e gioja
De’ paterni conviti eran le Muse
Ne’ palagi d’Olimpo, e le terrene
165Valli non use a visitar; ma primo,
Di Giove il cenno le inviò. Vedea
Giove da l’alto serpeggiar già folta
La vaga mortale orma, e sotto il pondo
170Di tutti i mali andar curvata e cieca
L’umana stirpe: del rapito foco
Piena gli parve la vendetta; e a l’ira
Spuntate avea l’acri saette il tempo.
Alfin più mite ne l’eterno senno
175Consiglio il Padre accolse, ed, Assai, disse,
E troppo omai le Dire empio governo
Fer de la terra; assai ne’ petti umani
Commiser d’odj, e volser prone al peggio
Le mortali sentenze. Di felici
180Genj una schiera al Dio facea corona,
Inclita schiera di Virtù (ché tale
Suona qua giù lor nome). A questi in pria
Scorrer la terra e perseguir le crude
De l’uom nemiche ed a più miti voglie
185Ricondur l’infelice, impose il Dio.
Al basso mondo ove la luce alterna,
Sceser gli spirti obbedienti, e tutto
Ricercarlo, ma in van; ché non levossi
A tanto raggio de’ mortali il guardo;
190E di Giove il voler non s’adempìa.
Però baldanza a quel voler non tolse
Difficoltà che a l’impotente è freno,
Stimolo al forte; essa al pensier di Giove
Novo propose esperimento. Al desco
195Del Tonante le Muse una concorde
Movean d’inni esultanza; inebriate
Tacean le menti de gli Dei; fe’ cenno
Ei la destra librando; e la crescente
Del volubile canto onda ristette
200Improvviso. Raggiò pacato il guardo
A le Vergini il Padre; e questo ad elle
Figlie, a bell’opra il mio voler ministre
Elegge or voi. Non conosciute ancora
205Errar vedete le Virtù fra i ciechi
Figli di Pirra: d’amor santo indarno
Arder tentaro i duri petti, e vinte
Farsi de l’ardue menti aprir le porte:
La forza sol de l’arti vostre il puote:
210Là giù dunque movete: a voi seguaci
Vengan le Grazie; e senza voi men bella
Già la mia reggia il tornar vostro attende.
Tacque a tanto il Saturnio; e su gli estremi
Detti, dal ciglio e da le labra rise
215Blandamente. Al divino atto commossa
Balzò l’eterea vetta, e d’improvviso
Di tutta luce biondeggiò l’Olimpo.
Nel primo aspetto de la terra intanto
Il lungo duol de le Virtù neglette
220Vider le Muse: ma di lor la prima
Chi fu che volse le propizie cure
I bei precetti ad avverar del Padre?
Calliope fu che fra i mortali accorta
Orfeo trascelse; e sì l’amò che il nome
225A lui di figlio non negò. Vicina
A l’orecchio di lui, ma non veduta,
Stette la Diva, e de l’alunno al core
Sciolse la bella voce onde si noma.
Il bel consiglio di Calliope tutte
230Imitar le sorelle; e d’un eletto
Mortal maestra al par fatta ciascuna,
L’alme col canto ivan tentando, e l’ira
Vincea quel canto de le ferree menti.
Così dal sangue e dal ferino istinto
235Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo
Di lor, che a terra ancor tenea il costume
Che del passato l’avvenir fa servo,
E quei gli occhi giraro, e vider tutta
240La compagnia de gli stranier divini,
Che a le Dire fea guerra. Ove furente
Imperversar la Crudeltà solea,
Orribil mostro che ferisce e ride,
Vider Pietà che, mollemente intorno
245Ai cor fremendo, dei veduti mali
Dolor chiedea; Pietà, de gl’infelici
Sorriso, amabil Dea. Feroce e stolta
Con alta fronte passeggiar l’Offesa
Vider, gl’ingegni provocando, e mite
250Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,
Lo spontaneo Perdon che con la destra
Cancella il torto e nella manca reca
Il beneficio, e l’uno e l’altro obblia.
Blando a la Dira ei s’offeria: seguace
255Lenta ma certa, l’orme sue ricalca
Nemesi, e quando inesaudito il vede,
Non fa motto, ed aspetta. Un giorno al fine
Ne gl’iterati giri, orba dinanzi
Le vien l’Offesa: al tacit’ arco impone
260Nemesi allor l’amata pena; aggiunge
L’aerea punta impreveduta il fianco,
E l’empio corso allenta. Inonorata
La Fatica mirar, che gli ermi intorno
Campi invano additava, a cui per anco
265Non chiedea de la messe il pigro ferro
Gli aurei doni dovuti: a lei compagno
L’Onor si fea; se forse a la sua luce
Più cara a l’occhio del mortal venisse
L’utile Dea. Vider la Fede, immota
270Servatrice dei giuri, e l’arridente
Ospital Genio che gl’ignoti astringe
Di fraterna catena; e tutta in fine
La schiera dia ne l’opra affaticarsi.
275Ne gli attoniti surse animi un senso,
Che infiammando occupolli. E già de’ lieti
Principj in cor secure, il plettro e l’arte
Sacra del plettro ai figli lor le Muse
Donar, le Grazie il dilettar donaro
280E il suader potente. Essi a la turba
Dei vaganti fratelli ivan cantando
Le vedute bellezze. Al suon che primo
Si sparse a l’aura, dispogliò l’antico
Squallor la terra, e rise: e tu qual fosti,
285Che provasti, o mortal, quando sul core
La prima stilla d’armonia ti scese?
Quale a l’ara de’ Numi allor che il sacro
Tripode ferve, e tremolando rosse
Su le brage stridenti erran le fiamme,
290Se la man pia del sacerdote in esse
Versi copia d’incenso, ecco di bruno
Pallor vestirsi il foco, e dal placato
Ardor repente un vortice s’innalza
Tacito, e tutto d’odorata nebbia
295Turba l’etere intorno e lo ricrea;
Tal su i cori cadea rorido, e l’ira
V’ammorzava quel canto, e dolce, in vece,
Di carità, di pace vi destava
Ignota brama. A l’uom così le prime
300Virtù fur conosciute onde beata,
Quanto ad uom lice, e riposata e bella
Fassi la vita. Allor in cor portando
Il piacer de l’evento, e la divina
Giocondità del beneficio in fronte,
305A l’auree torri de l’Olimpo il volo
Rialzar le Camene. Ivi le prove
De l’alma impresa e le fatiche e il fine
Dissero al Padre; e pieno, in ascoltarle,
Da la bocca di lui scorrea quel dolce
310
Ma stagion lunga ancor volta non era,
Che ne le Nove ritornate un caro
De la terra desio nacque; ché ameno
Oltre ogni loco a rivedersi è quello
315Che un gentil fatto ti rimembri: e questa
Elesser sede che secreta intorno
Religion circonda, e, l’arti antiche
Esercitando ancor, l’aura divina
Spirano a pochi in fra i viventi, e dànno
320Colpir le menti d’immortal parola.
E te dal nascer tuo benigna in cura
Ebbe, o Pindaro, Urania. E s’oggi, o figlio,
Tanto amor non ti valse, ell’è d’un Nume
Vendetta: incauto, che a le Grazie il culto
325Negasti, a l’alme del favor ministre
Dee, senza cui né gl’Immortai son usi
Mover mai danza o moderar convito.
Da lor sol vien se cosa in fra i mortali
È di gentile, e sol qua giù nel canto
330Vivrà che lingua dal pensier profondo
Con la fortuna de le Grazie attinga;
Queste implora coi voti, ed al perdono
Facili or piega. E la rapita lode
Più non ti dolga. A giovin quercia accanto
335Talor felce orgogliosa il suolo usurpa,
E cresce in selva, e il gentil ramo eccede
Col breve onor de le digiune frondi:
Ed ecco il verno la dissipa; e intanto
Tacitamente il solitario arbusto
340Gran parte abbranca di terreno, e, mille
Rami nutrendo nel felice tronco,
Al grato pellegrin l’ombra prepara.
Signor così de gl’inni eterni, un giorno,
Solo in Olimpia regnerai: compagna
345Questa lira al tuo canto, a te sovente
Il tuo destino e l’amor mio rimembri. ―
Candida luce la ricinse: aperte
Le azzurre penne s’agitar sul tergo,
350Mentre nel folto de la selva al guardo
Del suo Poeta s’involò. La Diva
Ei riconobbe, e di terror, di lieta
Maraviglia compunto, il prezioso
Dono tenea: ne l’infiammata fronte
355Fremean d’Urania le parole e l’alta
Promessa e il fato: e la commossa corda,
Memore ancor del pollice divino,
Con lungo mormorar gli rispondea.
Corse gridando, minacciosa il ciglio:
«Io son sola che parlo, io sono il vero»,
Tacque il mio verso, e non mi fu vergogna.
5Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
Chè non è sola lode esser sincero,
Nè rischio è bello senza nobil fine.[1]
Or che il superbo morso
Ad onesta parola è tolto alfine,
10Ogni compresso affetto al labbro è corso;
Or s’udrà ciò che, sotto il giogo antico,
Sommesso appena esser potea discorso
Al cauto orecchio di provato amico.Toglier lo scudo de le Leggi antique
15E le da lor create, e il sacro patto
Mutar come si muta un vestimento;
O non mutate non serbarle, e inique
Farle serbar benchè segrete, e in atto
Di chi pensa, tacendo, al tradimento;
20E novi statuir padri alla legge,
E, perchè amici ai buoni,
Sperderli a guisa di spregiato gregge:
Questi de’ salvatori erano i doni;
Questo dicean fondarne a civil vita;
Fosse dei boschi e de le tane uscita.Anzi, fatta da lor donna e reina
La salutaro, o fosse frode o scherno:
D’armi reina, io dico, e di consigli;
30Essa che ai piè de la imperante inchina
Stavasi, e fea di sue ricchezze eterno
Censo agli estrani, e de gli estrani ai figli;
Che regger si dovea con l’altrui cenno;
Che ogni anno il suo tesoro
35Su l’avara ponea lance di Brenno.
È ver; tributo nol dicean costoro,
Men turpe nome il vincitor foggiava.
Ma che monta, per Dio! Terra che l’oro
Porta, costretta, allo straniero, è schiava.
40E svelti i figli ai genitor dal fianco,
E aprir loro le porte, ed esser padre
Delitto, e quasi anco i sospir nocenti;
E tratti in ceppi, e noverati a branco,
Spinti ad offesa d’innocenti squadre
45Con cui meglio starieno abbracciamenti.
Oh giorni! oh campi che nomar non oso!
Deh! per chi mai scorrea
Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?
O madri orbate, o spose, a chi crescea
50Nel sen custode ogni viril portato?
Era tristezza esser feconde, e rea
Novella il dirvi: un pargoletto è nato!
Nè gente or voglio cagionar dei mali
Che lo stesso bevea calice d’ira,
55Nè infonder tosco ne le piaghe aperte;
Ma dico sol ch’è da pensar da quali
Strette il perdono del Signor ne tira,
Perchè sien maggior grazie a Lui riferte.
Chè quando eran più l’onte aspre ed estreme,
60E, al veder nostro, estinto
Allor fuor de la nube arduo ed accinto,
Tuonando, il braccio salvator s’è mostro;
Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto;
65Che a ragion si rallegra il popol nostro.Bel mirar da le inospiti latebre
Giovin raminghi al sospirato tetto
Correr securi, ed a le braccia pie;
E quei che in ferri astrinse ed in tenebre
70L’odio potente, un motto od un sospetto
Al soavi tornar colloquj e al die;
E un favellar di gioja e di speranza,
E su le fronti scòlta
De’ concordi pensier l’alma fidanza;
75E il nobil fior de’ generosi a scolta
Durar ne l’armi e vigilar, mostrando
Con che acceso voler la patria ascolta
Quando libero e vero è il suo dimando;
E quel che a dir le sue ragioni or chiama
80Lunge da basso studio e da contesa,
Parlar per lei com’ella è desiosa,
E l’antica far chiara itala brama;
Che sarà, spero, a quei possenti intesa
Cui par che piaccia ogni più nobil cosa.
85Vedi il drappello che al governo è sopra,
Animoso e guardingo,
Al ben di tutti aver rivolta ogni opra;
E i ministri di Dio dal mite aringo
Nel dritto calle ragunar la greggia.
90Molte e gran cose in picciol fascio io stringo;[2]
Ma qual parlar sì belle opre pareggia?
Sonava intanto d’ogni parte un grido,
Libertà delle genti e gloria e pace!
15Ed aperto d’Europa era il convito;
E questa donna di cotanto lido,
Questa antica, gentil, donna pugnace
Degna non la tenean dell’alto invito:
Essa in disparte, e posto al labbro il dito,
20Dovea il fato aspettar dal suo nemico,
Come siede il mendico
Alla porta del ricco in sulla via;
Alcun non passa che lo chiami amico,
E non gli far dispetto è cortesia. 25Forse infecondo di tal madre or langue
Il glorioso fianco? o forse ch’ella
Del latte antico oggi le vene ha scarse?
O figli or nutre, a cui per essa il sangue
Donar sia grave? o tali a cui piú bella
30Pugna sembri tra loro ingiuria farse?
Stolta bestemmia! eran le forze sparse,
E non le voglie; e quasi in ogni petto
Vivea questo concetto:
Liberi non sarem se non siam uni:
35Ai men forti di noi gregge dispetto,
Fin che non sorga un uom che ci raduni.
Egli è sorto, per Dio! Sì, per Colui
Che un dì trascelse il giovinetto ebreo
Che del fratello il percussor percosse;
40E fattol duce e salvator de’ suoi,
Degli avari ladron sul capo reo
L’ardua furia soffiò dell’onde rosse;
Per quel Dio che talora a stranie posse,
Certo in pena, il valor d’un popol trade;
XXIII
MARZO 1821 p.407Soffermati sull’arida sponda,
Vòlti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel novo destino,
Certi in cor dell’antica virtù,
Han giurato: Non fia che quest’onda 5
Scorra più tra due rive straniere:
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l’Italia e l’Italia, mai più!
L’han giurato: altri forti a quel giuro
Rispondean da fraterne contrade, 10
Affilando nell’ombra le spade
Che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno stretto le destre;
Già le sacre parole son porte:
O compagni sul letto di morte, 15
O fratelli su libero suol.
3Chi potrà della gemina Dora,
Della Bormida al Tanaro sposa,
Del Ticino e dell’Orba selvosa
Scerner l’onde confuse nel Po;
Chi stornargli del rapido Mella
E dell’Oglio le miste correnti,
Chi ritoglierli i mille torrenti
Che la foce dell’Adda versò,4Quello ancora una gente risorta
Potrà scindere in volghi spregiati,
E a ritroso degli anni e dei fati,
Risospingerla ai prischi dolor:
Una gente che libera tutta,
O fia serva tra l’Alpe ed il mare;
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
5Con quel volto sfidato e dimesso,
Con quel guardo atterrato ed incerto,
Con che stassi un mendico sofferto
Per mercede nel suolo stranier,
Star doveva in sua terra il Lombardo;
L’altrui voglia era legge per lui;
Il suo fato, un segreto d’altrui;
La sua parte servire, e tacer.
6O stranieri, nel proprio retaggio
Torna Italia, e il suo suolo riprende;
O stranieri, strappate le tende
Da una terra che madre non v’è.
Non vedete che tutta si scote,
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
Sotto il peso de’ barbari piè?
Sta l’obbrobrio d’un giuro tradito; 50
Un giudizio da voi proferito
V’accompagna all’iniqua tenzon;
Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;
Ogni gente sia libera, e pera 55
Della spada l’iniqua ragion.Se la terra ove oppressi gemeste
Preme i corpi de’ vostri oppressori,
Se la faccia d’estranei signori
Tanto amara vi parve in quei dì; 60
Chi v’ha detto che sterile, eterno
Saria il lutto dell’Itale genti?
Chi v’ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v’udì?
Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia 65
Chiuse il rio che inseguiva Israele,
Quel che in pugno alla maschia Giaele
Pose il maglio, ed il colpo guidò;
Quel che è padre di tutte le genti,
Che non disse al Germano giammai: 70
Va’, raccogli ove arato non hai;
Spiega l’ugne; l’Italia ti do.
Cara Italia! dovunque il dolente
Grido uscì del tuo lungo servaggio;
Dove ancor dell’umano lignaggio 75
Ogni speme deserta non è;
Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel segreto matura,
Dove ha lacrime un’alta sventura,
Non c’è cor che non batta per te. 80
L’apparir d’un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
Ne’ deserti del duplice mar!
Ecco alfin dal tuo seno sbocciati, 85
Stretti intorno a’ tuoi santi colori,
Forti, armati de’ propri dolori,
I tuoi figli son sorti a pugnar.Oggi, o forti, sui volti baleni
Il furor delle menti segrete: 90
Per l’Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
Al convitto de’ popoli assisa,
O più serva, più vil, più derisa 95
Sotto l’orrida verga starà.
Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
Che da lunge, dal labbro d’altrui,
Come un uomo straniero, le udrà! 100
Che a’ suoi figli narrandole un giorno,
Dovrà dir sospirando: io non c’era;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata quel dì non avrà.
XXIV
IL V MAGGIO p.423
fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attonita5
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
Nè sa quando una simile
Orma di piè mortale10
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Vide il mio genio e tacque;
Quando, con vece assidua,15
Cadde, risorse e giacque,
Di mille voci al sonito
Mista la sua non ha:Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio,20
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio:
E scioglie all’urna un cantico
Che forse non morrà.
Dall’Alpi alle Piramidi,25
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar.30
Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito35
Più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
Gioia d’un gran disegno,
L’ansia d’un cor che indocile
Serve, pensando al regno;40
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar;
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria,45
Due volte nella polvere,
Due volte sull’altar.Ei si nomò: due secoli,
L’un contro l’altro armato,50
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe’ silenzio, ed arbitro
S’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell’ozio55
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d’immensa invidia
E di pietà profonda,
D’inestinguibil odio
E d’indomato amor.60
Come sul capo al naufrago
L’onda s’avvolve e pesa,
L’onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere65
Prode remote invan;
Tal su quell’alma il cumulo
Delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
Narrar se stesso imprese,70
E sull’eterne pagine
Cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
Morir d’un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei,75
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dì che furono
L’assalse il sovvenir!
Tende, e i percossi valli,80
E il lampo de’ manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.Ahi! forse a tanto strazio85
Cadde lo spirto anelo,
E disperò: ma valida
Venne una man dal cielo,
E in più spirabil aere
Pietosa il trasportò;90
E l’avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidéri avanza,
Dov’è silenzio e tenebre95
La gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Chè più superba altezza100
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita,105
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
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