ALESSANDRO MANZONI – TUTTE LE POESIE (BUR)

 

ALESSANDRO MANZONI – TUTTE LE POESIE (BUR)

RIZZOLI – Collana BUR Poesia Classici Italiani – 1° edizione Marzo 2012
A cura di Luca Danzi
INTRODUZIONE 
Luca Danzi p.5
NOTE AL TESTO p.23
BIBLIOGRAFIA p.35
I
POESIE PRIMA DELLA CONVERSIONE p.49
I
DEL TRIONFO DELLA LIBERTÀ p.51
Coronata di rose e di viole

Scendea di Giano a rinserrar le porte

3La bella Pace pel cammin del sole,E le spade stringea d’aspre ritorte,

E cancellava con l’orme divine

6I luridi vestigi de la morte;

E la canizie de le pigre brine

Scotean dal dorso, e de le verdi chiome

9Si rivestian le valli e le colline;

Quand’io fui tratto in parte, io non so come,

Io non so con qual possa o con quai piume,

12Quasi sgravato da le terree some.

E mi ferì le luci un vivo lume ,

Ove non potea l’occhio essere inteso,

15E vinto fu del mio veder l’acume,

Com’uom che da profondo sonno è preso,

Se una vivida luce lo percote,

18Onde subitamente è l’occhio offeso,

Le confuse palpebre agita e scote,

Né può serrarle, né fissarle in lei,

21Che sua virtute sostener non puote;

Così vinti cadevan gli occhi miei,

Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,

24Da sostener la vista de gli Dei.

Non cred’io già che fosser questi frali

Occhi deboli e corti e spesso infidi,

27Cui non lice fissar cose immortali.

Forse fu, s’egli è ver che in noi s’annidi,

Parte miglior che de le membra è donna;

30Onde come io non so, so ben ch’io vidi.

Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,

Non era l’andar suo cosa mortale ,

33Né mai fu tale che vestisse gonna.

Di portamento altera , e quanta e quale

Su gli astri incede quella al maggior Dio

36Del talamo consorte e del natale.

Nobile, umano, maestoso e pio

Era lo sguardo, e l’armonia celeste

39Comprenderla non può chi non l’udio.

Sovra l’uso mortal fulgida veste

Copre le sante immacolate membra,

42E svela in parte le fattezze oneste.

Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;

Ma a tanto già non giunge uman lavoro;

45Oh con quanto stupor me ne rimembra!

Siede su cocchio di finissim’oro

Umilemente altera, ed il decenne

48Berretto il crine affrena, aureo decoro.

Stringe la manca la fatal bipenne,

E l’altra il brando scotitor de’ troni,

51Onde a cotanta altezza e poter venne

La gran madre de’ Fabj e de’ Scipioni;

Sotto cui vide i Regi incatenati

54Curvar l’alte cervici umili e proni.

Pronte a’ suoi cenni stanle d’ambo i lati

Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso

57Pendon de l’universo incerti i fati.

L’una è soave e mansueta in viso,

E stringe con la destra il santo ulivo,

60E il mondo rasserena d’un sorriso.

E l’altra è la ministra di Gradivo,

Che si pasce di gemiti e d’affanni,

63E tinge il lauro in sanguinoso rivo.

Due bandiere scotean de l’aure i vanni;

Su l’una scritto sta: Pace a le genti,

66Su l’altra si leggea: Guerra ai Tiranni.

Taceano al lor passar l’ire de’ venti,

Che, survolando intorno al sacro scritto,

69Lo baciavano umili e reverenti.

Quinci è Colei, che del comun diritto

Vindice, a l’ima plebe i grandi agguaglia,

72Sol diseguai per merto o per delitto;

E se vede che un capo in alto saglia,

E sdegni assoggettarsi a la sua libra,

75Alza la scure adeguatrice, e taglia.

E con la destra alto sospende e libra

L’intatta inesorabile bilancia,

78Ove merto e virtù si pesa e libra.

Non del sangue il valor, ch’è lieve ciancia,

E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;

81E sal Lamagna, e ’l seppe Italia e Francia.

Dolce in vista ed umano e in un feroce

Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi

84Il cor con l’alma face infiamma e cuoce;

E i servi trasformar puote in Eroi,

E non teme il fragor di tue ritorte,

87O Tirannia, né de’ metalli tuoi;

Non quella cieca che si chiama sorte,

Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;

90E scritto ha in petto: O Libertate o morte.

D’ogn’intorno commosso il suol fioriva,

L’aura si fea più pura e più serena,

93E sorridea la fortunata riva.

E a color che fuggir l’aspra catena,

Prorompeva su gli occhi e su le labbia

96Impetuosa del piacer la piena;

Come augel, che fuggì l’antica gabbia,

Or vola irrequieto tra le frondi,

99Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.

Quindi s’udian romor cupi e profondi,

Un franger di corone e di catene,

102Un fremer di Tiranni moribondi.

Impugnando un flagel d’anfesibene

La Tirannia giacevasi da canto,

105E si graffiava le villose gene.

E i torbid’occhi si copria col manto;

Ché la luce vincea l’atre palpebre,

108E le spremea da le pupille il pianto;

Come notturno augel, che le latebre

Ospiti cerca allor che il Sole incalza

111Ne’ buj recinti l’orride tenebre.

Èvvi una cruda, che uno stile innalza,

E ’l caccia in mano a l’uomo e dice: Scanna,

114E forsennata va di balza in balza.

Nera coppa di sangue ella tracanna,

E lacerando umane membra a brani,

117Le spinge dentro a l’insaziabil canna.

E con tabe-grondanti orride mani

I sacrileghi don su l’ara pone,

120E osa tendere al Ciel gli occhi profani.

Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,

E fa ministro il Ciel di sue vendette;

123E il volgo la chiamò Religione.

Si scolorar le faccie maledette,

E l’una a l’altra larva s’avviticchia,

126E stan fra lor sì avviluppate e strette,

Che il cor de l’una al sen de l’altra picchia,

Ansando in petto, e trabalzando, e poscia

129La coppia abbominosa si rannicchia.

Qual’è lo can che tremando s’accoscia,

Se il signor con la verga alto il minaccia,

132Tal ristrinsersi i mostri per l’angoscia.

Ma poi che di quell’altra in su la faccia

Vide languir la moribonda speme,

135Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,

Incorolla dicendo: E mute insieme

Morremo e inoperose? e il nostro lutto

138Fia di letizia a chi ’l procaccia seme?

Tutto si tenti e si ritenti tutto;

E se morire è forza pur, si moja ,

141Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto.

Qualunque aspira a Libertate moja,

Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.

144E l’altra surse e gorgogliava: Moja.

Moja, sì moja, e temerario e baldo

Cerchi in Inferno Libertade; il fio

147Paghi col sangue fumeggiante e caldo.

Acuto allor s’intese un sibilio

Via per le chiome ed un divincolarsi

150E di morsi e percosse un mormorio.

Poscia terribilmente sollevarsi

E un barlume di speme fu veduto

153Brillar sui ceffi lividi e riarsi;

Come allor che nel fosco aer sparuto

In fra ’l notturno vel si mostra e fugge

156Un focherello passeggiero e muto.

L’infame coppia si rosicchia e sugge

Di preda ingorda la terribil ugna,

159Si picchia i lombi risonanti e rugge.

Contra miglior voler voler mal pugna ;

E fra la vil perfidia e la virtute

162Secura è sempre e disegual la pugna.

Ma stavan l’aure pensierose e mute,

E il Ciel di brama e di timor conquiso,

165E pendevan le rive irresolute.

La Dea mirolle, e rise un cotal riso

Di scherno e di disdegno, che dipinge

168Di gioja al giusto, al rio di tema il viso.

E immobile in suo seggio il cocchio spinge

Su le attonite larve, e le fracassa,

171E l’auree rote del lor sangue tinge.

Né per timore o per desio s’abbassa,

Ma disdegnosa e nobile in sua possa

174Alteramente le sogguarda, e passa.

Fumò la terra di quel sangue rossa,

Ond’esalava abbominoso lezzo,

177E da l’ime radici ne fu scossa.

Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo

Apre del sen tenebricoso, e ingoja

180Quei vituperj, e parne aver ribrezzo.

Quinci acuto s’udì grido di gioja,

E quindi un fioco rimbombar di duolo,

183Simile a rugghio di Leon che moja.

S’alzò tre volte, e tre ricadde al suolo

Spossata e vinta l’Aquila grifagna,

186Ché l’arse penne ricusaro il volo.

Alfin, strisciando dietro a la campagna,

Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio

189A gl’intimi recessi di Lamagna.

Allor prese i Tiranni un brividio,

Che gli fe’ paventar de la lor sorte,

192E mal frenato in su le gote uscio,

E gliele tinse d’un color di morte.

Col pensier, con gli orecchi e con le ciglia

I’ era immerso in quell’altera vista,

3Come colui che tace e maraviglia;Qual dicon che de’ Spirti in fra la lista,

Stette mirando le magiche note

6Il furente di Patmo Evangelista.

Quand’io vidi la Dea, che su l’immote

Maladette sorelle il cocchio spinse,

9E su le infami cigolar le rote,

Primamente un terror freddo mi strinse,

Poi surse in petto con subita forza

12La letizia, che l’altro affetto estinse.

Qual se fiamma divora arida scorza

Avidamente, e d’improvviso d’acque

15Talun l’inonda, subito s’ammorza,

Così sotto la gioja il timor giacque;

Poi surse un novo di stupore affetto,

18E l’uno e l’altro moto in sen mi tacque.

Però ch’io vidi un bel drappello eletto

Di Lor che sordi furo al proprio danno,

21Caldi d’amor di Libertade il petto.

Vidi colui che contro al rio Tiranno

Fe’ la vendetta del superbo strupo,

24Poi che s’avvide del lascivo inganno,

E corse furioso, come lupo,

Se mai rapace cacciator gli fura

27I cari figli dal natio dirupo.

E seco è Lei, che d’alma intatta e pura,

Benché polluta ne la spoglia in vita,

30Lavò col sangue la non sua lordura.

Quei che ritolse ai figli suoi la vita,

Poi che ne fero uso malvagio e rio,

33Immolando a la Patria, ostia gradita,

L’affetto di parente, e dir s’udio:

Quei che di fede a la sua patria manca

36Non è figlio di Roma, e non è mio.

Siegue Quei che la destra ardita e franca

Cacciò fremendo ne le fiamme pie,

39E fe’ tremar Porsenna colla manca.

Ve’ la Vergin che corse a le natie

Piaggie, fuggendo del Tiranno l’onte,

42Per le amiche del Tebro ospite vie.

Ecco quel forte, che al famoso ponte

Contra l’Etruria congiurata tenne

45Ferme le piante e immobile la fronte.

E l’urto d’un esercito sostenne,

E contra mille e mille lancie stette,

48Onde immortale a’ posteri divenne.

Ma ben poria le più sottili erbette

Annoverar nel prato e ’n ciel le stelle

51E le arene nel mar minute e strette

Chi noverar volesse l’alme belle

Ch’ivi eran, di valore inclito speglio,

54Sol de la Patria e di Virtute ancelle.

Sorgea fra gli altri il generoso Veglio,

Che involò del Tiranno ai sozzi orgogli

57La figlia intatta, e ben fu morte il meglio.

Fu la figlia che disse al padre: Cogli

Questo immaturo fior: tu mi donasti

60Queste misere membra, e tu le togli,

Pria che impudico ardir le incesti e guasti;

E in quello cadde il colpo, e impallidiro

63Le guancie e i membri intemerati e casti,

E uscì dal puro sen l’ultimo spiro,

Ed a la vista orribile fremea

66Il superbo e deluso Decemviro,

Cui stimolava la digiuna e rea

Libidine, e struggea l’insana rabbia,

69Che i già protesi invan nervi rodea;

Qual lupo, che la preda perdut’abbia,

Batte per fame l’avida mascella,

72Rugge, e s’addenta le digiune labbia.

Quindi segue una coppia rara e bella,

Che ria di ben oprar mercede colse

75Ahi! da la Patria troppo ingrata e fella.

V’è quel grande che Roma ai ceppi tolse,

Indi de l’Afro le superbe mine

78E le audaci speranze in lui rivolse:

Per cui sovra le libiche ruine

Vide Roma discesa al gran tragitto

81Il fulgor de le fiaccole Latine.

E quei che Magno detto era ed invitto,

Che, insiem con Libertà, spoglia schernita

84Giacque su l’infedel sabbia d’Egitto.

V’era la non mai doma Alma, che ardita

Temé la servitù più de la morte,

87Amò la Libertà più de la vita;

Dicendo: Poi che la nimica sorte

Tanto è contraria a Libertate, e invano

90La terribile armò destra quel forte,

Alzisi omai la generosa mano,

E l’alma fugga pria che servir l’empio,

93Ch’io nacqui e vissi e vo’ morir Romano.

E seco è Lei, che con novello scempio

Dietro la fuggitiva Libertate

96Corse animata dal paterno esempio.

Quindi un drappel venia d’ombre onorate

Sacre a la patria, che di sangue diro

99Ne spruzzar le ruine inonorate.

Bruto primo sorgea, che torvi in giro

Pria torse i lumi, indi a Roma gli volse,

102E da l’imo del cor trasse un sospiro.

E a l’ombre circostanti si rivolse,

In cui non fu la virtù patria doma,

105Indi la lingua in tai parole sciolse:

Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non più Roma,

Or che strappotti il glorioso lauro

108Invida man da la vittrice chioma.

Ov’è l’antico di virtù tesauro?

Ove, ove una verace alma Latina?

111Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro?

Ahi! de la Libertà l’ampia ruina

Tutto si trasse ne la notte eterna,

114Ed or serva sei fatta di reina;

Ché il celibe Levita ti governa

Con le venali chiavi, ond’ei si vanta

117Chiuder la porta e disserrar superna.

E i Druidi porporati: oh casta, oh santa

Turba di Lupi mansueti in mostra,

120Che de la spoglia de l’agnel s’ammanta!

E il popol reverente a lor si prostra

In vile atto sommesso, e quasi Dii

123Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!

Che valse a me di sacri ferri e pii

Armar le destre, e franger la catena?

126Lasso! e per chi la grande impresa ardii?

Spento un Tiranno, un altro surse, piena

Di schiavi de la terra era la Donna,

129Infin che strinse la temuta abena

Quei che la Galilea dimessa donna

Trasse dal fango, e i membri sozzi e nudi

132Vestì di tolta altrui fulgida gonna;

E maritolla a’ suoi nefandi Drudi

Incestamente, e al vecchio Sacerdote

135A la canna scappato e a le paludi,

Che infallibil divino a le devote

Genti s’infinse, che a la Putta astuta

138Prestaro omaggio e le fornir la dote.

E nel Roman bordello prostituta,

Vile, superba, sozza e scellerata

141Al maggior offerente era venduta.

Ivi un postribol fece, ove sfacciata

Facea di sé mercato, ed a’ suoi Proci

144Dispensava ora un detto, ora un’occhiata.

Ma poi che ferma in trono fu, feroci

Sensi vestì, l’armi si cinse, e infece

147D’innocuo sangue le mal compre croci.

E sue ministre ira e vendetta fece,

L’inganno, la viltà, la scelleranza,

150E fe’ sua legge: Quel che giova lece.

Quindi la maladetta Intolleranza

Del detto e del pensier, quindi Sofia

153Stretta in catene, e in trono l’Ignoranza.

O ditel voi, che di saver sì ria

Mercede aveste di sospiri e pianto

156Da l’empia de l’ingegno tirannia.

O ditel voi, ch’io già non son da tanto;

Gridino l’ossa inonorate, e il suono

159A l’Indo ne pervenga e al Garamanto.

Questi i diletti de l’Eterno sono?

Questi i ministri del divin volere?

162E questi è un Dio di pace e di perdono?

Dillo, o gran Tosco, tu, che de le spere

Librasti il moto, e a’ tuoi nepoti un varco

165Di veritate apristi e di sapere.

Contra te i dardi dal diabolic’arco

Sfrenò l’invidia, e contra i tuoi sistemi

168Indarno trasse in campo e Luca e Marco.

Empj! che di ragione i divi semi

Spegner tentaro ne gli umani petti,

171E colpirono il ver con gli anatemi.

Van predicando un Nume, e a’ suoi precetti

Fan fronte apertamente, e a chi gl’imita

174Fulminan le censure e gl’interdetti.

Povera, disprezzata, umil la vita

Quel che tu adori in Galilea menava,

177E tu suo servo in Roma un Sibarita.

O greggia stolta, temeraria e prava,

Che col suo Nume e con se stessa pugna;

180Di Dio non già, ma di sue voglie schiava.

Altri nemico di se stesso impugna

Crudo flagello, e il sangue fonde, e ’l fura,

183A la Patria, e de’ suoi dritti a la pugna,

Devoto suicida, ed a la dura

Verginità consacrasi, i desiri

186Soffocando e le voci di natura.

Stolto crudel, che fai? de’ tuoi martiri

Forse l’amante comun Padre frue?

189O si pasce di sangue e di sospiri?

Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei con le sue

Dita divine la diversa brama

192Pose Colui, che disse “sia”, e fue.

Ei con la voce di natura chiama

Tutti ad amarsi, e gli uomini accompagna,

195E va d’ognuno al cor ripetendo: Ama.

E tu fuggi colei che per compagna

Ei ti diede, e i fratei credi nemici,

198E invan natura, invan grida e si lagna.

E tal sotto i flagelli ed i cilici

Cela i pugnali, e vassi a capo chino

201Meditando veleni e malefici.

O degenere figlia di Quirino,

Che i tuoi prodi obliando, al Galileo

204Cedesti i fasci del valor Latino,

Questi sono i tuoi Cati, e in sul Tarpeo

Dei nostri figli si fan scherno e gioco…

207Ma qui si tacque, e dir più non poteo;

Ché tal la carità del natio loco

Lo strinse, e sì l’oppresse, che morio

210La voce in un sospir languido e fioco.

Quindi tra le commosse ombre s’udio

Sorgere un roco ed indistinto gemito,

213Poscia un cupo e profondo mormorio;

Sì come allor che con interno tremito

Quassano i venti il suol che ne rimbomba,

216S’ode sonar da lunge un sordo fremito,

Che tra le foglie via mormora e romba.

I tronchi detti e il lagrimoso volto

Di quella generosa Anima bella

3Avean là tutto il mio pensier raccolto,Quando tutto a sé ’l trasse una novella

Turba, che di rincontro a me venia,

6D’abito più recente e di favella.

Confuso e irresoluto io me ne gìa,

Com’uom che in terra sconosciuta mova,

9Che lento lento dubbiando s’avvia.

Ed erano color che per la nova

Libertade s’alzar fra l’alme prime,

12Di sé lasciando memoranda prova.

Grandeggiava fra queste una sublime

Alma, come fra ’l salcio umile e l’orno

15Torreggian de’ cipressi alto le cime.

Avea di belle piaghe il seno adorno,

Che vibravan di luce accesa lampa,

18E fean più chiaro quel sereno giorno;

Ché men rifulge il sol quando più avvampa,

E sovra noi da lo stellato arringo

21L’orme fiammanti più diritte stampa.

Allor ch’egli me vide il pie’ ramingo

Traggere incerto per l’ignota riva,

24Meditabondo, tacito e solingo,

A me corse, gridando: Anima viva,

Che qua se’ giunta, u’ solo per virtute,

27E per amor di Libertà s’arriva;

Italia mia che fa? di sue ferute

È sana alfine? è in Libertate? è in calma?

30O guerra ancor la strazia e servitute?

Io prodigo le fui di non vil alma,

E nel cruento suo grembo ospitale

33Giacqui barbaro pondo, estrania salma.

Né m’accolse nel seno il suol natale,

Né dolce in su le ceneri agghiacciate

36Il suon discese del materno vale.

Barbaro estranio tu? non son sì ingrate

L’anime Italiane, e non è spento

39L’antico senso in lor de la pietate.

Oh qual non fece Insubria mia lamento

Più sul tuo fato, che sul suo periglio!

42Ahi! con lagrime ancor me ne rammento.

E te, discinta e scarmigliata, figlio

Chiamò, baciando il tronco amato e santo,

45E con la destra ti compose il ciglio.

E adorò ’l tuo cipresso al quale accanto

Il caro germogliò lauro e l’ulivo,

48Che i rai le terse del bilustre pianto.

Li terse? Ahi no! ché a lei costonne un rivo,

Che inondò i membri inanimati e rubri

51Di te, che ’n cielo e ne’ bei cor se’ vivo.

Deh! resti a noi, dicean le rive Insubri,

Deh! resti a noi, ma l’onorata spoglia

54Trasse Francia gelosa a’ suoi delubri.

Ma de l’itala sorte, onde t’invoglia

Tanto desio, come farò parola?

57Ché un seme di Tiranni vi germoglia.

E sotto al giogo de la greve stola

La gran Donna del Lazio il collo spinse,

60E guata le catene, e si consola.

E Partenope serve a lei, che vinse

In crudeltà la Maga empia di Colco,

63E de’ più disumani il grido estinse.

Ed il Siculo e ’l Calabro bifolco

Frange a crudo signor le dure glebe,

66E riga di sudore il non suo solco.

Al mio dir disiosa urtò la plebe

Un’ombra, sì com’irco spinge e cozza

69In su l’uscita le ammucchiate zebe.

Avea i luridi solchi in su la strozza

Del capestro, e la guancia scarna e smunta,

72E la chioma di polve e sangue sozza.

E’ surse de le piante in su la punta,

Come chi brama violenta tocca,

75E uno sciame d’affetti in sen gli spunta,

Ed il cor sopraffatto ne trabocca

Inondato e sommerso, e l’alma fugge

78Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.

Poi gridò: L’empia vive, e non l’adugge

Il telo, che temuto è sì là giue?

81E ’l dolce lume ancor per gli occhi sugge?

Né pur la pena di sue colpe lue,

Ma vive, e vive trionfante, e regna:

84Regna, e del frutto di sue colpe frue.

O tu, diss’io, che sì contra l’indegna

Ardi, che in crudeltate al mondo è sola,

87Spiegami il duol che sì l’alma t’impregna.

Più volte egli tentò formar parola,

Ma sul cor ripiombò tronca la voce;

90Che ’l duol la sospingeva ne la gola;

Sì come arretra il suo corso veloce,

E spumeggia e gorgoglia onda restia,

93Se impedimento incontra in su la foce.

Ma poi che vinse il duol la cortesia,

E per le secche fauci il varco aperse,

96E fu spianata al ragionar la via,

Gridò: Tu vuoi ch’io fuor dal seno verse

Il duol, che tanto già mi punse e punge,

99Se pur si puote anco qua su dolerse.

Ma in quale arena mai grido non giunge

Di sua nequizia e de’ fatti empi e rei?

102E sia pur, quanto esser si voglia, lunge.

Io di sua crudeltà la prova fei,

E giacqui ostia innocente in su l’arena,

105Per amor de la Patria e di Costei,

Di ciò l’alma e la bocca ebbi ognor piena,

Che a me fu sempre fida stella e duce,

108Ed or mi paga la sofferta pena.

Poi che apparve un’incerta e dubbia luce

Sovra l’Italia addormentata, e sparve,

111Onde la notte nereggiò più truce,

E una benigna Libertade apparve,

Che al duro appena ci rapì servaggio,

114Indi sparì come notturne larve,

Io corsi là, com’a un lontano raggio

Correndo e ansando il pellegrin s’affretta,

117Smarrito fra ’l notturno ermo viaggio.

Ahi breve umana gioja ed imperfetta!

Venne, con l’armi no, con le catene

120Una ciurma di schiavi maladetta.

E gli abeti secati a le Rutene

Canute selve del Cumeo Nettuno

123Gravaro il dorso, e ne radean le arene.

Corse fremendo ed ululando il bruno

Tartaro antropofàgo, che per fame

126Spalanca l’atro gorgozzul digiuno.

E l’Anglo avaro, che mercato infame

Fa de le umane vite, e in quella sciarra

129Lo spinsero de l’or le ingorde brame.

Né più i solchi radea sicula marra,

Né più la falce, ma le verdi biade

132Mieteva la cosacca scimitarra.

E non bastar le peregrine spade;

Ché la Patria ancor essa, ahi danno estremo!

135Vomitò contra sé fiere masnade.

Ahi che in pensando ancor ne scoppio e fremo!

Qual dal carcer sboccato e qual dal chiostro,

138Qual tolto al pastorale e quale al remo.

Oh ciurma infame! e un porporato mostro

Duce si fe’ de le ribelli squadre,

141Celando i ferri sotto al fulgid’ostro.

Costor le mani violente e ladre

Commiser ne la Patria, e tutta quanta

144D’empie ferite ricovrir la madre.

Di Libertà la tenerella pianta

Crollar, sì come d’Eolo irato il figlio

147L’aereo pin da le radici schianta.

Poscia un confuso regnava bisbiglio,

Un sordo mormorar fra denti ed una

150Paura, un cupo sovvolger di ciglio;

Come allor che da lunge il ciel s’imbruna,

Siede sul mar, che a poco a poco s’ange,

153Una calma che annunzia la fortuna;

Mentre cigola il vento, che si frange

Tra le canne palustri, e cupo e fioco

156Rotto dai duri massi il fiotto piange.

Ma surse irata la procella, poco

Durò la calma e quel servir tranquillo;

159Sangue al pianto successe e ferro e foco.

E l’aer muto ruppe acuto squillo

Annunziator di stragi, e sulla torre

162L’atro di morte sventolò vessillo.

Il furor per le vie rabido scorre,

E con grida i satelliti, e con cenni

165Incora e sprona, e a nova strage corre.

Allor s’ode uno strider di bipenni,

Un cupo scroscio di mannaje. Ahi come

168Oltre veder con questi occhi sostenni!

Chi solo amò di Libertate il nome,

O appena il proferì, dai sacri lari

171Strappato e strascinato è per le chiome.

Ai casti letti venian que’ sicari,

Qual di lupi digiuni atro drappello,

174D’oro e di sangue e di null’altro avari.

E invan le spose al violato ostello,

Di lagrime bagnando il sen discinto,

177Fean con la debil man vano puntello;

Ché fin fu il ferro, ahimè! cacciato e spinto

Entro il seno pregnante: oh scelleranza!

180E il ferro, il ferro da l’orror fu vinto.

Gli empj no, che con fiera dilettanza

Pascean gli sguardi disiosi e cupi,

183E fean periglio di crudel costanza.

E i pargoletti a que’ feroci lupi

Con un sorriso protendean le mani,

186Con un sorriso da spetrar le rupi.

Ed essi, oh snaturati! oh in volti umani

Tigri! col ferro rimovean l’amplesso,

189E fean le membra tenerelle a brani.

Non era il grido ed il sospir concesso;

Era delitto il lagrimar, delitto

192Un detto, un guardo ed il silenzio istesso.

Morte gridava irrevocando editto.

La coronata e la mitrata stizza

195L’avean col sangue d’innocenti scritto.

Intanto a mille eroi l’anima schizza

Dal gorgozzule oppresso, e brancolando

198Il tronco informe su l’arena guizza.

Anelando, fremendo, mugolando

Gli spirti uscien da’ straziati tronchi,

201Non il lor danno, ma il comun plorando.

Ivi sorgean due smisurati tronchi,

Cui l’adunato sangue era lavacro,

204E d’intorno eran membri e capi cionchi.

Quinci era il tronco infame a morte sacro,

Irto e spumoso di sanguigna gruma,

207Quindi stava di Cristo il simulacro;

E il percotea la fluttuante schiuma,

Che fea del sangue e de la tabe il lago,

210Che ferve e bolle e orrendamente fuma.

Fiero portento allor si vide, un vago

Spettro spinto da voglia empia ed infame

213Lieto aggirarsi intorno al tristo brago.

Avidamente pria fiutò il carname,

E rallegrossi, e poi con un sogghigno

216Guatò de’ semivivi il bulicame.

Quindi il muso tuffò smilzo ed arcigno,

E il diguazzò per entro a la fiumana,

219E il labbro si lambì gonfio e sanguigno.

Come rabido lupo si distana,

Se a le nari gli vien di sangue puzza,

222E ringhia e arrota la digiuna scana,

E guata intorno sospicando, e aguzza

Gli orecchi e ognor s’arretra in su i vestigi,

225Così colei, che di sua salma appuzza

Le viscere cruente di Parigi,

Rigurgitando velenosa bava,

228La barbara consorte di Luigi,

Venia gridando: Insana ciurma e prava,

Che noi di crudi e di Tiranni incolpe,

231E al regno agogni, nata ad esser schiava,

Godi or tuoi dritti, e de le nostre colpe

Il fio tu paga, e sì dicendo morse

234Le membra, e rosicchiò l’ossa e le polpe.

Indi da l’atro desco il grifo torse

Gonfia di sangue già, ma non satolla,

237Quando novo spettacolo si scorse.

Venia uno stuolo di Leviti, colla

Faccia di rabbia e di furor bollente,

240E inzuppata di sangue la cocolla.

Ciascun reca una coppa, e d’innocente

Sangue l’empiero, e le posar su l’ara.

243E lo vide e ’l soffrì l’Onnipossente!

E disser: Bevi, e fean quegli empj a gara.

Danzava intorno oscenamente Erinni,

246E scoteva la cappa e la tiara.

E i profani s’udian rochi tintinni

De’ bronzi, e l’aria, con le negre penne,

249Gl’infernali scotean diabolic’inni.

Bramata alfine ed aspettata venne

A me la morte, ed il supremo sfogo

252Compì su la mia spoglia la bipenne.

Allora scossi l’abborrito giogo,

E, l’ali aprendo a la seconda vita,

255Rinacqui alfin, come fenice in rogo.

Ed ancor tace il mondo? ed impunita

È la Tigre inumana, anzi felice,

258E temuta dal mondo e riverita?

Deh! vomiti l’accesa Etna l’ultrice

Fiamma, che la città fetente copra,

261E la penetri fino a la radice.

Ma no: sol pera il delinquente, sopra

Lei cada il divo sdegno e sui diademi,

264Autori infami de l’orribil’opra.

E fin da lunge ne’ recessi estremi,

Ove s’appiatta, e ne’ covigli occulti

267L’oda l’empia Tiranna, odalo e tremi.

E disperata mora, e ai suoi singulti

Non sia che cor s’intenerisca e pieghi,

270E agli strazj perdoni ed a gli insulti,

O dal Ciel pace a l’empia spoglia preghi;

Ma l’universo al suo morir tripudi,

273E poca polve a l’ossa infami neghi.

E l’alma dentro a le negre paludi

Piombi, e sien rabbia assenzio e fel sua dape,

276E tutto Inferno a tormentarla sudi,

Se pur tanta nequizia entro vi cape.

Tacque ciò detto, e su l’enfiate labbia

Gorgogliava un suon muto di vendetta,

3Un fremer sordo d’intestina rabbia.E le affollate intorno ombre, “vendetta”

Gridar, “vendetta”, e la commossa riva

6Inorridita replicò “vendetta”.

I torbid’occhi il crino a lui copriva;

Fascio parea di vepri o di gramigna,

9Onde un’atra erompea luce furtiva;

Come veggiamo il sol, se una sanguigna

Nugola il raggio ne rinfrange, obbliqua

12Vibrar l’incerta luce e ferrugigna.

Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,

De gli uomini nimica e di natura,

15Or hai pur spenta l’empia sete antiqua!

Gonfia di sangue la corrente e impura

Portò l’umil Sebeto, e de la cruda

18Novella Tebe flagellò le mura.

Tigre inumana di pietate ignuda,

Tu sopravvivi a’ tuoi delitti? un Bruto

21Dov’è? chi ’l ferro a trucidarti snuda?

Questi sensi io volgea per entro al muto

Pensier, che tutto in quell’orror s’affisse,

24Allor che venne al mio veder veduto

D’Insubria il Genio, che le luci fisse

In me tenendo, armoniosa e scorta

27Voce disciolse, e scintillando disse:

Mortal, quello che udrai là giuso porta.

Deh! gli alti detti a la mal ferma e stanca

30Mente richiama, o Musa, e mi sia scorta.

Tu la cadente poesia rinfranca,

Tu la rivesti d’armonia beata,

33E tu sostieni la virtù, che manca;

Tu l’ali al pensier presta, o Diva nata

Di Mnemosine, e fa’ che del mio plettro

36Esca la voce ai colti orecchi grata,

E spargi i detti miei d’eterno elettro.

Già, proseguiva, del real potere

39Sei sciolta, Insubria, e infranto hai l’empio scettro.

Ché gli ubertosi colli e le riviere,

Ove Natura a se medesma piace,

42No, che non son per le Tedesche fiere.

Pace altra volta tu le desti, pace,

O Tiranno, giurasti, e udir le genti

45Il real giuro, e lo credean verace.

Ma di Tiranno fede i sacramenti

Frange e calpesta, e la legge de’ troni

48Son gl’inganni, i spergiuri, i tradimenti.

Venne in fin dai settemplici trioni,

Da te chiamato, e da le fredde rupi

51Un torrente di bruti e di ladroni.

Come in aperto ovile iberni lupi,

Tal su l’Insubria si gittar quegli empi,

54Di sangue ghiotti, di rapine e strupi.

Fino i sacri vestibuli di scempi

Macchiaro e d’adulteri. Oh quali etati

57Fur mai feconde di siffatti esempi?

Ma non fur quegli insulti invendicati,

Né il vizio trionfò: l’infame tresca

60Franse il ferro e ’l valor: gli addormentati

Spirti destarsi alfin, e la Tedesca

Rabbia fu doma, e le fiaccò le corna

63La virtù Cisalpina e la Francesca.

Torna, arrogante a questi lidi, torna;

Qui roco ancor di morte il telo romba,

66Qui la tua morte appiattata soggiorna.

Qui il cavo suol de’ sepolcri rimbomba

De la tua pube, che ancor par che gema:

69Vieni in Italia, e troverai la tomba.

Altra volta scendesti avido, e scema

Ti fu l’audacia temeraria e sciocca:

72Rammenta i campi di Marengo, e trema.

Ché la fatal misura ancor trabocca;

Non affrettar de la vendetta il die,

75Il dì che impaziente è su la cocca.

Pace avesti pur anco, e questa fie

La novissima volta; in l’alemanno

78Confin le tigri tue frena e le arpie.

Ma tu, misera Insubria, d’un Tiranno

Scotesti il giogo, ma t’opprimon mille.

81Ahi che d’uno passasti in altro affanno!

Gentili masnadieri in le tue ville

Succedettero ai fieri, e a genti estrane

84Son le tue voglie e le tue forze ancille.

Langue il popol per fame, e grida: “pane”;

E in gozzoviglia stansi e in esultanza

87Le Frini e i Duci, turba, che di vane

Larve di fasto gonfia e di burbanza,

Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda,

90A piena bocca sclamando: Eguaglianza;

Il volgo, che i delitti e la nefanda

Vita vedendo, le prime catene

93Sospira, e ’l suo Tiranno al ciel domanda.

De l’inope e del ricco entro le vene

Succian l’adipe e ’l sangue, onde Parigi

96Tanto s’ingrassa, e le midolle ha piene.

E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi

Strisciangli intorno in atto umile e chino.

99E tal di risse amante e di litigi

D’invido morso addenta il suo vicino,

Contra il nemico timido e vigliacco,

102Ma coraggioso incontro al cittadino.

Tal ne’ vizj s’avvolge, come ciacco

Nel lordo loto fa; soldato esperto

105Ne’ conflitti di Venere e di Bacco.

E tal di mirto al vergognoso serto

Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,

108Ricco d’audacia, e povero di merto.

Tal pasce il volgo di sonanti fole:

Vile! e di patrio amor par tutto accenso,

111E liberal non è che di parole.

E questi studio d’allargare il censo

Avito rode, e quel tal altro brama

114Di farsi ricco di tesoro immenso.

Senti costui, che “morte, morte” esclama,

E le vie scorre, furibonda Erinni,

117Di sangue ingordo, e dove può si sfama.

Vedi quei, che sua gloria nei concinni

Capei ripone. Oh generosi Spirti

120Degni del giogo estranio e de’ cachinni!

Odimi, Insubria. I dormigliosi spirti

Risveglia alfine, e da l’olente chioma

123Getta sdegnosa gli Acidalj mirti.

Ve’ come t’hanno sottomessa e doma,

Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi

126La Tirannia, che Libertà si noma.

Mira le membra illividite e i tuoi

Antichi lacci; l’armi, l’armi appresta,

129Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi.

E a l’elmo antico la dimessa cresta

Rimetti, e accendi i neghittosi cori,

132E stringi l’asta ai regnator funesta;

Come destrier, che fra l’erbette e i fiori,

Placido, in diuturno ozio recuba,

135Sol meditando vergognosi amori,

Scote nitrendo la nitente giuba,

Se il torpido a ferirlo orecchio giugne

138Cupo clangor di bellicosa tuba,

E stimol fiero di gloria lo pugne,

Drizza il capo, e l’orecchio al suono inchina,

141E l’indegno terren scalpe con l’ugne.

Contra i Tiranni sol la cittadina

Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso,

144Che fosti serva, ed or sarai reina.

Disse e tacque, raggiandomi d’un riso,

Che del mio spirto superò la forza,

147Così ch’io ne restai vinto e conquiso.

Mi scossi, e la rapita anima a forza,

Come chi tenta fuggire e non puote,

150Cacciata fu ne la mortale scorza.

Io restai come quel che si riscote

Da mirabile sogno, che pon mente

153Se dorme o veglia, e tien le ciglia immote.

O Pieride Dea, che ’l foco ardente

Ispirasti al mio petto, e i sempiterni

156Vanni ponesti a la gagliarda mente,

Tu, Dea, gl’ingegni e i cor reggi e governi,

E i nomi incidi nel Pierio legno,

159Che non soggiace al variar de’ verni.

Tu l’ali impenni al Ferrarese ingegno,

Tu co’ suoi divi carmi il vizio fiedi,

162E volgi l’alme a glorioso segno.

Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi

Fai de’ tuoi carmi, e trapassando pungi

165La vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi.

Tu il gran Cantor di Beatrice aggiungi,

E l’avanzi talor; d’invidia piene

168Ti rimiran le felle alme da lungi,

Che non bagnar le labbia in Ippocrene,

Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,

171Onde tal puzzo da’ lor carmi viene.

Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne

De l’arte sacra! Augei palustri e bassi;

174Cigni non già, ma Corvi da carogne.

Ma tu l’invida turba addietro lassi,

E le robuste penne ergendo, come

177Aquila altera, li compiangi, e passi.

Invano atro velen sovra il tuo nome

Sparge l’invidia, al proprio danno industre,

180Da le inquiete sibilanti chiome.

Ed io puranco, ed io, Vate trilustre,

Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume

183A me fo scorta ne l’arringo illustre.

E te veggendo su l’erto cacume

Ascender di Parnaso alma spedita,

186Già sento al volo mio crescer le piume.

Forse, oh che spero! io la seconda vita

Vivrò, se a le mie forze inferme e frali

189Le nove Suore porgeranno aita.

Ma dove mi trasporti, estro? mortali

Son le mie penne, e periglioso il volo,

192Alta e sublime è la caduta; l’ali

Però raccogli, e riposiamci al suolo.

 

II
CAPEL BRUNO: ALTRA LA FRONTE: OCCHIO LOQUACE 
(AUTORITRATTO)
 Capel bruno: alta fronte; occhio loquace:

Naso non grande e non soverchio umile:

Tonda la gota e di color vivace:

Stretto labbro e vermiglio: e bocca esile:Lingua or spedita or tarda, e non mai vile,

Che il ver favella apertamente, o tace.

Giovin d’anni e di senno; non audace:

Duro di modi, ma di cor gentile.

La gloria amo e le selve e il biondo iddio:

Spregio, non odio mai: m’attristo spesso:

Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.

A l’ira presto, e più presto al perdono:

Poco noto ad altrui, poco a me stesso:

Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

III
COME IL DIVO ALIGHIER L’INGRATA FLORA p.123
IV
SE PIEN D’ALTO DISDEGNO E IN ME SECURO p.127
V
FRANCESCO, E’ NON FU MAI CHI PER SENTIERO p.131
VI
QUAL SU LE CINZIE CIME p.135
VII
NUOVO INTATTO SENTIER SEGNAMI, O MUSA p.145
VIII
ADDA. IDILLIO p.149
SERMONI (1803-1804) p.161
IX
Sermone Primo
AMORE A DELIA p.165
X
Sermone Secondo
A GIO BATTISTA PAGANI p.181
XI
Sermone Terzo
PANEGIRICO A TRIMALCIONE p.193
XII
Sermone quarto
[SULLA POESIA] p.211
XIII
IN MORTE DI CARLO IMBONATI
Versi di Alessandro Manzoni a Giulia Beccara sua madre p.225
Se mai più che d’Euterpe il furor santo,

E d’Erato il sospiro, o dolce madre,

L’amaro ghigno di Talia mi piacque,

Non è consiglio di maligno petto.

5Né del mio secol sozzo io già vorrei

Rimescolar la fetida belletta,

Se un raggio in terra di virtù vedessi,

Cui sacrar la mia rima. A te sovente

Così diss’io: ma poi che sospirando,

10Come si fa di cosa amata e tolta,

Narrar t’udia di che virtù fu tempio

Il casto petto di colui che piangi;

Sarà, dicea, che di tal merto pera

Ogni memoria? E da cotanto esemplo

15Nullo conforto il giusto tragga, e nulla

Vergogna il tristo? Era la notte; e questo

Pensiero i sensi m’avea presi; quando,

Le ciglia aprendo, mi parea vederlo

Dentro limpida luce a me venire,

20A tacit’orma. Qual mentita in tela,[p. 702]

Per far con gli occhi a l’egra mente inganno,

Quasi a culto, la miri, era la faccia.

Come d’infermo, cui feroce e lungo

Malor discarna, se dal sonno è vinto,

25Che sotto i solchi del dolor, nel volto

Mostra la calma, era l’aspetto. Aperta

La fronte, e quale anco gl’ignoti affida:

Ma ricetto parea d’alti pensieri.

Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso

30Non difficile il labbro. A me dappresso

Poi ch’e’ fu fatto, placido del letto

Su la sponda si pose. Io d’abbracciarlo,

Di favellare ardea; ma irrigidita

Da timor da stupor da reverenza

35Stette la lingua; e mi tremò la palma,

Che a l’amplesso correva. Ei dolcemente

Incominciò: Quella virtù, che crea

Di due boni l’amor, che sian tra loro

Conosciuti di cor, se non di volto,

40A vederti mi tragge. E sai se, quando

Il mio cor ne le membra ancor battea,

Di te fu pieno; e quanta parte avesti

De gli estremi suoi moti. Or poi che dato

Non m’è, com’io bramava, a passo a passo

45Per man guidarti su la via scoscesa,

Che anelando ho fornita, e tu cominci,

Volli almeno una volta confortarti

Di mia presenza. Io, con sommessa voce,

Com’uom, che parla al suo maggiore, e pensa

50Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,

Risposi: Allor ch’io l’amorose e vere

Note leggea, che a me dettasti prime,

E novissime furo; e la dolcezza

De l’esser teco presentia, chi detto

55M’avria che tolto m’eri! E quando in caldo

Scritto gli affetti del mio cor t’apersi,

Che non saria da gli occhi tuoi veduto,

[p. 703]
Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo

Di te nutrissi desiderio, il pensa.

60E come il pellegrin, che d’amor preso

Di non vista città, ver quella move;

E quando spera che la meta il paghi

Del cammin duro e lungo, e fiso osserva

Se le torri bramate apparir veggia;

65E mira più da presso i fondamenti

Per crollo di tremuoto in su rivolti,

E le porte abbattute, e fori e case

Tutto in ruina inospital converso,

E i meschini rimasti interrogando,

70Con pianto ascolta raccontar dei pregi

E disegnar dei siti; a questo modo

Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti

Di retto acuto senno, d’incolpato

Costume, e d’alte voglie, ugual, sincero,

75Non vantator di probità, ma probo:

Com’oggi al mondo al par di te nessuno

Gusti il sapor del beneficio, e senta

Dolor de l’altrui danno. Egli ascoltava

Con volto nè superbo nè modesto.

80Io rincorato proseguia: se cura,

Se pensier di quaggiù vince l’avello

Certo so ben che il duol t’aggiunge e il pianto

Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,

Te perdendo, ha perduto. E se possanza

85Di pietoso desio t’avrà condotto

Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto

Grondar la stilla del dolor sul primo

Bacio materno. Io favellava ancora,

Quand’ei l’umido ciglio e le man giunte

90Alzando inver lo loco onde a me venne,

Mestamente sorrise, e: se non fosse

Ch’io t’amo tanto, io pregherei che ratto

Quell’anima gentil fuor de le membra

Prendesse il vol, per chiuder l’ali in grembo

95

[p. 704]
Di Quei, ch’eterna ciò che a Lui somiglia.

Ché finch’io non la veggo, e ch’io son certo

Di mai più non lasciarla, esser felice

Pienamente non posso. A questi accenti

Chinammo il volto, e taciti ristemmo:

100Ma per gli occhi d’entrambi il cor parlava.

Poi che il pianto e i singulti a le parole

Dieder la via, ripresi: a le sue piaghe

Sarà dittamo e latte il raccontarle

Che del tuo dolce aspetto io fui beato,

105E ridirle i tuoi detti. Ora, per lei

Ten prego, dammi che d’un dubbio fero

Toglierla io possa. Allor che de la vita

Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto

Di possanza vital feceti a gli occhi

110Il dardo balenar che ti percosse?

O pur ti giunse impreveduto e mite?

Come da sonno, rispondea, si solve

Uom, che né brama né timor governa,

Dolcemente così dal mortal carco

115Mi sentii sviluppato; e volto indietro,

Per cercar lei, che al fianco mio si stava,

Più non la vidi. E s’anco avessi innanzi

Saputo il mio morir, per lei soltanto

Avrei pianto, e per te: se ciò non era,

120Che dolermi dovea? Forse il partirmi

Da questa terra, ov’è il ben far portento,

E somma lode il non aver peccato?

Dove il pensier da la parola è sempre

Altro, e virtù per ogni labbro ad alta

125Voce lodata, ma nei cor derisa;

Dov’è spento il pudor; dove sagace

Usura è fatto il beneficio, e brutta

Lussuria amor; dove sol reo si stima

Chi non compie il delitto; ove il delitto

130Turpe non è, se fortunato; dove

Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.

[p. 705]
Dura è pel giusto solitario, il credi,

Dura, e pur troppo disegual, la guerra

Contra i perversi affratellati e molti.

135Tu, cui non piacque su la via più trita

La folla urtar che dietro al piacer corre

E a l’onor vano e al lucro; e de le sale

Al gracchiar voto, e del censito volgo

Al petulante cinquettio, d’amici

140Ceto preponi intemerati e pochi,

E la pacata compagnia di quelli

Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,

Segui tua strada; e dal viril proposto

Non ti partir, se sai. Questa, risposi,

145Qualsia favilla, che mia mente alluma,

Custodii, com’io valgo, e tenni viva

Finor. Né ti dirò com’io, nodrito

In sozzo ovil di mercenario armento,

Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto

150De l’insipida stoppia, il viso torsi

Da la fetente mangiatoia; e franco

M’addussi al sorso de l’Ascrea fontana.

Come talor, discepolo di tale,

Cui mi saria vergogna esser maestro,

155Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso

Di tanto amor, che mi parea vederli

Veracemente, e ragionar con loro.

Né l’orecchio tuo santo io vo’ del nome

Macchiar de’ vili, che oziosi sempre,

160Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro

L’operosa calunnia. A le lor grida

Silenzio opposi, e a l’odio lor disprezzo.

Qual merti l’ira mia fra lor non veggio;

Ond’io lieve men vado a mia salita,

165Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,

Se di te vero udii che la divina

De le Muse armonia poco curasti.

Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque

[p. 706]
Di chiaro esempio, o di veraci carte

170Giovasse altrui, fu da me sempre avuto

In onor sommo. E venerando il nome

Fummi di lui, che ne le reggie primo

L’orma stampò dell’Italo coturno:

E l’aureo manto lacerato ai grandi,

175Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;

E di quel, che sul plettro immacolato

Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.

Cui, di maestro a me poi fatto amico,

Con reverente affetto ammirai sempre

180Scola e palestra di virtù. Ma sdegno

Mi fero i mille, che tu vedi un tanto

Nome usurparsi, e portar seco in Pindo

L’immondizia del trivio e l’arroganza,

E i vizj lor; che di perduta fama

185Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso

Far di lodi mercato e di strapazzi.

Stolti! Non ombra di possente amico,

Nè lodator comprati avea quel sommo

D’occhi cieco, e divin raggio di mente,

190Che per la Grecia mendicò cantando.

Solo d’Ascra venian le fide amiche

Esulando con esso, e la mal certa

Con le destre vocali orma reggendo:

Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,

195E Rodi a Smirna cittadin contende:

E patria ei non conosce altra che il cielo.

Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli

Sopravissuti, oscura e disonesta

Canizie attende. E tacque; e scosso il capo,

200E sporto il labbro, amaramente il torse,

Com’uom cui cosa appare ond’egli ha schifo.

Gioia il suo dir mi porse, e non ignota

Bile destommi; e replicai: deh! vogli

La via segnarmi, onde toccar la cima

205Io possa, o far che, s’io cadrò su l’erta,

[p. 707]
Dicasi almen: su l’orma propria ei giace.

Sentir, riprese, e meditar: di poco

Esser contento: da la meta mai

Non torcer gli occhi: conservar la mano

210Pura e la mente: de le umane cose

Tanto sperimentar, quanto ti basti

Per non curarle: non ti far mai servo:

Non far tregua coi vili: il santo Vero

Mai non tradir: nè proferir mai verbo,

215Che plauda al vizio, o la virtù derida.

O maestro, o, gridai, scorta amorosa,

Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio

Non mi sia spento; a governar rimani

Me, cui natura e gioventù fa cieco

220L’ingegno, e serva la ragion del core.

Così parlava e lagrimava: al mio

Pianto ei compianse, e: non è questa, disse,

Quella città, dove sarem compagni

Eternamente. Ora colei, cui figlio

225Se’ per natura, e per eletta amico,

Ama ed ascolta, e di filial dolcezza

L’intensa amaritudine le molci.

Dille ch’io so, ch’ella sol cerca il piede

Metter su l’orme mie; dille che i fiori,

230Che sul mio cener spande, io gli raccolgo,

E gli rendo immortali; e tal ne tesso

Serto, che sol non temerà nè bruma,

Ch’io stesso in fronte riporrolle, ancora

De le sue belle lagrime irrorato.

235Dolce tristezza, amor, d’affetti mille

Turba m’assalse; e da seder levato,

Ambo le braccia con voler tendea

A la cara cervice. A quella scossa,

Quasi al partir di sonno io mi rimasi;

240E con l’acume del veder tentando,

E con la man, solo mi vidi; e calda

Mi ritrovai la lacrima sul ciglio.

 XIV
[VERSI A CLAUDE FAURIEL] p.253
XV
URANIA p.261
  Su le populee rive e sul bel piano

Da le insubri cavalle esercitato,

Ove di selva coronate attolle

La mia città le favolose mura,

5Prego, suoni quest’Inno: e se pur degna

Penne comporgli di più largo volo

La nostra Musa, o sacri colli, o d’Arno

Sposa gentil, che a te gradito ei vegna

Chieggo a le Grazie. Chè dai passi primi

10Nel terrestre viaggio, ove il desio

Crudel compagno è de la via, profondo

Mi sollecita amor che Italia un giorno

Me de’ suoi vati al drappel sacro aggiunga,

Italia, ospizio de le Muse antico.

15Nè fuggitive dai laureti achei

Altrove il seggio de l’eterno esiglio

Poser le Dive; e quando a la latina

Donna si feo l’invendicato oltraggio,

Dal barbaro ululato impaurite

20Tacquero, è ver, ma l’infelice amica

Mai non lasciâr; chè ad alte cose al fine

L’itala Poesia, bella, aspettata,

Mirabil virgo, da le turpi emerse[p. 709]

Unniche nozze. E tu le bende e il manto

25Primo le desti, e ad illibate fonti

La conducesti; e ne le danze sacre

Tu le insegnasti ad emular la madre,

Tu de l’ira maestro e del sorriso,

Divo Alighier, le fosti. In lunga notte

30Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,

Tu nostro; e tale, allor che il guardo primo

Su la vedova terra il sole invia,

Nol sa la valle ancora e la cortese

Vital pioggia di luce ancor non beve,

35E già dorata il monte erge la cima.

A queste alme d’Italia abitatrici

Di lodi un serto in pria non colte or tesso;

Chè vil fra ’l volgo odo vagar parola

Che le Dive sorelle osa insultando

40Interrogar che valga a l’infelice

Mortal del canto il dono. Onde una brama

In cor mi sorge di cantar gli antichi

Beneficj che prodighe a l’ingrato

Recar le Muse. Urania al suo diletto

45Pindaro li cantò. Perché di tanto

Degnò la Dea l’alto poeta e come,

Dirò da prima; indi i celesti accenti

Ricorderò, se amica ella m’ispira.Fama è che a lui ne la vocal tenzone

50Rapisse il lauro la minor Corinna,

Misera! e non sapea di quanto Dio

L’ira il premea; chè a la famosa Delfo

Venendo, i poggi d’Elicona e il fonte

Del bel Permesso ei salutando ascese;

55Ma d’Orcomene, ove le Grazie han culto,

Il cammin sacro omise. Il devio passo

Vider da lunge e il non curar superbo

Del fatal giovanetto le immortali,

[p. 710]

E promiser vendetta. Al meditato

60Inno di lode liberato il volo

Pindaro avea, quando le belle irate,

Aerie forme a mortal guardo mute,

Venner seconde di Corinna al fianco.

Aglaja in pria su la virginea gota

65Sparse un fulgor di rosea luce, e un mite

Raggio di gioja le diffuse in fronte:

Ma la fragranza de’ castalj fiori

Che fanno l’opra de l’ingegno eterna,

Eufrosine le diede; e tu pur anco,

70Dolce qual tibia di notturno amante,

Lene Talia, le modulasti il canto.

Di tanti doni avventurata in mezzo

Corinna assurse: il portamento e il volto

Stupia la turba, e il dubitar leggiadro

75E il bel rossor con che tremando al seno

Posò la cetra; e, sotto la palpebra

Mezza velando la pupilla bruna,

Soave incominciò. Volava intorno

La divina armonia che, con le molli

80Ale i cupidi orecchi accarezzando,

Compungea gl’intelletti, e di giocondo

Brivido i cori percotea. Rapito

L’emulo anch’ei, non alito, non ciglio

Movea, né pria de’ sensi ebbe ripresa

85La signoria, che verdeggiar la fronda

Invidiata vide in su le nere

Trecce di lei, che fra il romor del plauso

Chinò la bella gota ove salia

Del gaudio mista e del pudor la fiamma.

90Di dolor punto e di vergogna, al volgo

L’egregio vinto si sottrasse, e solo

Sul verde clivo, onde l’aeria fronte

Spinge il Parnaso, s’avviò. Dolente

Errar da l’alto Licoreo lo scòrse

[p. 711]

95Urania Dea, cui fu diletto il fato

Del giovanetto, e di blandir sua cura

Nel pio voler propose. È nei riposti

Del sacro monte avvolgimenti un bosco

Romito, opaco, ove talor le Muse,

100Sotto il tremolo rezzo esercitando

L’ambrosio piè, ringioviniscon l’erbe

Da mortal orma non offese ancora.

A l’entrar de la selva, e sovra il lembo

Del vel che la tacente ombra distende,

105Balza l’Estro animoso, e de le accese

Menti il Diletto, e, ne la palma alzata

Dimettendo la fronte, il Pensamento

Sta col Silenzio, che per man lo tiene.

Bella figlia del Tempo e di Minerva

110V’è la Gloria, sospir di mille amanti:

Vede la schiva i mille, e ad un sorride.

Ivi il trasse la Diva. A l’appressarsi,

De l’aura sacra a l’aspirar, di lieto

Orror compreso in ogni vena il sangue

115Sentia l’eletto, ed una fiamma leve

Lambir la fronte ed occupar l’ingegno.

Poi che ne l’alto de la selva il pose

Non conscio passo, abbandonò l’altezza

Del solitario trono, e nel segreto

120Asilo Urania il prode alunno aggiunse.

Come tal volta ad uom rassembra in sogno,

Su lunga scala o per dirupo, lieve

Scorrer col piè non alternato a l’imo,

Né mai grado calcar né offender sasso;

125Tal su gli aerei gioghi sorvolando,

Discendea la celeste. Indi la fronte

Spoglia di raggi, e d’ale il tergo, e vela

D’umana forma il dio; Mirtide fassi,

Mirtide già de’ carmi e de la lira

130A Pindaro maestra; e tal repente

[p. 712]

A lui s’offerse. Ei di rossor dipinto,

A che, disse, ne vieni? a mirar forse

Il mio rossore? o madre, oh! perché tanta

Speme d’onor mi lusingasti in vano?

135Come la madre al fantolin caduto,

Mentre lieto al suo piè movea tumulto,

Che guata impaurito, e già sul ciglio

Turgida appar la lagrimetta, ed ella

Nel suo trepido cor contiene il grido,

140E blandamente gli sorride in volto

Perch’ei non pianga; un tal divino riso,

Con questi detti, a lui la Musa aperse:

A confortarti io vegno. Onde sì ratto

«L’anima tua è da viltate offesa?»

145Non senza il nume de le Muse, o figlio,

Di te tant’alto io promettea. Deh! come,

Pindaro rispondea, cura dei vati

Aver le Muse io crederò? Se culto

Placabil mai de gl’Immortali alcuno

150Rendesse a l’uom, chi mai d’ostie e di lodi,

Chi più di me di preci e di cor puro

Venerò le Camene? Or se del mio

Dolor ti duoli, proseguia, deh! vogli

L’egro mio spirto consolar col canto.

155Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,

Qual d’uom che d’udire arda, e fra sé tema

Di far parlando a la risposta indugio.

Allor su l’erba s’adagiaro: il plettro

Urania prese, e gli accordò quest’Inno

160Che in minor suono il canto mio ripete.Fra le tazze d’ambrosia imporporate,

Concittadine degli Eterni e gioja

De’ paterni conviti eran le Muse

Ne’ palagi d’Olimpo, e le terrene

165Valli non use a visitar; ma primo,

[p. 713]

Scola e conforto de la vita, in terra

Di Giove il cenno le inviò. Vedea

Giove da l’alto serpeggiar già folta

La vaga mortale orma, e sotto il pondo

170Di tutti i mali andar curvata e cieca

L’umana stirpe: del rapito foco

Piena gli parve la vendetta; e a l’ira

Spuntate avea l’acri saette il tempo.

Alfin più mite ne l’eterno senno

175Consiglio il Padre accolse, ed, Assai, disse,

E troppo omai le Dire empio governo

Fer de la terra; assai ne’ petti umani

Commiser d’odj, e volser prone al peggio

Le mortali sentenze. Di felici

180Genj una schiera al Dio facea corona,

Inclita schiera di Virtù (ché tale

Suona qua giù lor nome). A questi in pria

Scorrer la terra e perseguir le crude

De l’uom nemiche ed a più miti voglie

185Ricondur l’infelice, impose il Dio.

Al basso mondo ove la luce alterna,

Sceser gli spirti obbedienti, e tutto

Ricercarlo, ma in van; ché non levossi

A tanto raggio de’ mortali il guardo;

190E di Giove il voler non s’adempìa.

Però baldanza a quel voler non tolse

Difficoltà che a l’impotente è freno,

Stimolo al forte; essa al pensier di Giove

Novo propose esperimento. Al desco

195Del Tonante le Muse una concorde

Movean d’inni esultanza; inebriate

Tacean le menti de gli Dei; fe’ cenno

Ei la destra librando; e la crescente

Del volubile canto onda ristette

200Improvviso. Raggiò pacato il guardo

A le Vergini il Padre; e questo ad elle

[p. 714]

D’amor temprato fe’ volar comando,

Figlie, a bell’opra il mio voler ministre

Elegge or voi. Non conosciute ancora

205Errar vedete le Virtù fra i ciechi

Figli di Pirra: d’amor santo indarno

Arder tentaro i duri petti, e vinte

Farsi de l’ardue menti aprir le porte:

La forza sol de l’arti vostre il puote:

210Là giù dunque movete: a voi seguaci

Vengan le Grazie; e senza voi men bella

Già la mia reggia il tornar vostro attende.

Tacque a tanto il Saturnio; e su gli estremi

Detti, dal ciglio e da le labra rise

215Blandamente. Al divino atto commossa

Balzò l’eterea vetta, e d’improvviso

Di tutta luce biondeggiò l’Olimpo.

Nel primo aspetto de la terra intanto

Il lungo duol de le Virtù neglette

220Vider le Muse: ma di lor la prima

Chi fu che volse le propizie cure

I bei precetti ad avverar del Padre?

Calliope fu che fra i mortali accorta

Orfeo trascelse; e sì l’amò che il nome

225A lui di figlio non negò. Vicina

A l’orecchio di lui, ma non veduta,

Stette la Diva, e de l’alunno al core

Sciolse la bella voce onde si noma.

Il bel consiglio di Calliope tutte

230Imitar le sorelle; e d’un eletto

Mortal maestra al par fatta ciascuna,

L’alme col canto ivan tentando, e l’ira

Vincea quel canto de le ferree menti.

Così dal sangue e dal ferino istinto

235Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo

Di lor, che a terra ancor tenea il costume

Che del passato l’avvenir fa servo,

[p. 715]

Levar di nova forza avvalorato.

E quei gli occhi giraro, e vider tutta

240La compagnia de gli stranier divini,

Che a le Dire fea guerra. Ove furente

Imperversar la Crudeltà solea,

Orribil mostro che ferisce e ride,

Vider Pietà che, mollemente intorno

245Ai cor fremendo, dei veduti mali

Dolor chiedea; Pietà, de gl’infelici

Sorriso, amabil Dea. Feroce e stolta

Con alta fronte passeggiar l’Offesa

Vider, gl’ingegni provocando, e mite

250Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,

Lo spontaneo Perdon che con la destra

Cancella il torto e nella manca reca

Il beneficio, e l’uno e l’altro obblia.

Blando a la Dira ei s’offeria: seguace

255Lenta ma certa, l’orme sue ricalca

Nemesi, e quando inesaudito il vede,

Non fa motto, ed aspetta. Un giorno al fine

Ne gl’iterati giri, orba dinanzi

Le vien l’Offesa: al tacit’ arco impone

260Nemesi allor l’amata pena; aggiunge

L’aerea punta impreveduta il fianco,

E l’empio corso allenta. Inonorata

La Fatica mirar, che gli ermi intorno

Campi invano additava, a cui per anco

265Non chiedea de la messe il pigro ferro

Gli aurei doni dovuti: a lei compagno

L’Onor si fea; se forse a la sua luce

Più cara a l’occhio del mortal venisse

L’utile Dea. Vider la Fede, immota

270Servatrice dei giuri, e l’arridente

Ospital Genio che gl’ignoti astringe

Di fraterna catena; e tutta in fine

La schiera dia ne l’opra affaticarsi.

[p. 716]

Videro, e novo di pietà, d’amore

275Ne gli attoniti surse animi un senso,

Che infiammando occupolli. E già de’ lieti

Principj in cor secure, il plettro e l’arte

Sacra del plettro ai figli lor le Muse

Donar, le Grazie il dilettar donaro

280E il suader potente. Essi a la turba

Dei vaganti fratelli ivan cantando

Le vedute bellezze. Al suon che primo

Si sparse a l’aura, dispogliò l’antico

Squallor la terra, e rise: e tu qual fosti,

285Che provasti, o mortal, quando sul core

La prima stilla d’armonia ti scese?

Quale a l’ara de’ Numi allor che il sacro

Tripode ferve, e tremolando rosse

Su le brage stridenti erran le fiamme,

290Se la man pia del sacerdote in esse

Versi copia d’incenso, ecco di bruno

Pallor vestirsi il foco, e dal placato

Ardor repente un vortice s’innalza

Tacito, e tutto d’odorata nebbia

295Turba l’etere intorno e lo ricrea;

Tal su i cori cadea rorido, e l’ira

V’ammorzava quel canto, e dolce, in vece,

Di carità, di pace vi destava

Ignota brama. A l’uom così le prime

300Virtù fur conosciute onde beata,

Quanto ad uom lice, e riposata e bella

Fassi la vita. Allor in cor portando

Il piacer de l’evento, e la divina

Giocondità del beneficio in fronte,

305A l’auree torri de l’Olimpo il volo

Rialzar le Camene. Ivi le prove

De l’alma impresa e le fatiche e il fine

Dissero al Padre; e pieno, in ascoltarle,

Da la bocca di lui scorrea quel dolce

310

[p. 717]

Canto a l’orecchio dei miglior, la lode.

Ma stagion lunga ancor volta non era,

Che ne le Nove ritornate un caro

De la terra desio nacque; ché ameno

Oltre ogni loco a rivedersi è quello

315Che un gentil fatto ti rimembri: e questa

Elesser sede che secreta intorno

Religion circonda, e, l’arti antiche

Esercitando ancor, l’aura divina

Spirano a pochi in fra i viventi, e dànno

320Colpir le menti d’immortal parola.

E te dal nascer tuo benigna in cura

Ebbe, o Pindaro, Urania. E s’oggi, o figlio,

Tanto amor non ti valse, ell’è d’un Nume

Vendetta: incauto, che a le Grazie il culto

325Negasti, a l’alme del favor ministre

Dee, senza cui né gl’Immortai son usi

Mover mai danza o moderar convito.

Da lor sol vien se cosa in fra i mortali

È di gentile, e sol qua giù nel canto

330Vivrà che lingua dal pensier profondo

Con la fortuna de le Grazie attinga;

Queste implora coi voti, ed al perdono

Facili or piega. E la rapita lode

Più non ti dolga. A giovin quercia accanto

335Talor felce orgogliosa il suolo usurpa,

E cresce in selva, e il gentil ramo eccede

Col breve onor de le digiune frondi:

Ed ecco il verno la dissipa; e intanto

Tacitamente il solitario arbusto

340Gran parte abbranca di terreno, e, mille

Rami nutrendo nel felice tronco,

Al grato pellegrin l’ombra prepara.

Signor così de gl’inni eterni, un giorno,

Solo in Olimpia regnerai: compagna

345Questa lira al tuo canto, a te sovente

Il tuo destino e l’amor mio rimembri. ―

[p. 718]

Tacque, e porse la cetra: indi rivolta,

Candida luce la ricinse: aperte

Le azzurre penne s’agitar sul tergo,

350Mentre nel folto de la selva al guardo

Del suo Poeta s’involò. La Diva

Ei riconobbe, e di terror, di lieta

Maraviglia compunto, il prezioso

Dono tenea: ne l’infiammata fronte

355Fremean d’Urania le parole e l’alta

Promessa e il fato: e la commossa corda,

Memore ancor del pollice divino,

Con lungo mormorar gli rispondea.


II
POESIE RELIGIOSE p.297
INNI SACRI (1812-1822) p.299
XVI
LA RISURREZIONE p.302
XVII
IL NOME DI MARIA p.319
XVIII
IL NATALE p.331
XIX
LA PASSIONE p.345
XX
LA PENTECOSTE p.361
III
POESIE POLITICHE p.379
XXI
[APRILE 1814] p.381
Fin che il ver fu delitto, e la Menzogna

Corse gridando, minacciosa il ciglio:

«Io son sola che parlo, io sono il vero»,

Tacque il mio verso, e non mi fu vergogna.

5Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;

Chè non è sola lode esser sincero,

Nè rischio è bello senza nobil fine.[1]

Or che il superbo morso

Ad onesta parola è tolto alfine,

10Ogni compresso affetto al labbro è corso;

Or s’udrà ciò che, sotto il giogo antico,

Sommesso appena esser potea discorso

Al cauto orecchio di provato amico.Toglier lo scudo de le Leggi antique

15E le da lor create, e il sacro patto

Mutar come si muta un vestimento;

O non mutate non serbarle, e inique

Farle serbar benchè segrete, e in atto

Di chi pensa, tacendo, al tradimento;

20E novi statuir padri alla legge,

E, perchè amici ai buoni,

Sperderli a guisa di spregiato gregge:

Questi de’ salvatori erano i doni;

Questo dicean fondarne a civil vita;

[p. 404]
     25Qual se Italia, al chiamar d’esti Anfioni,

Fosse dei boschi e de le tane uscita.Anzi, fatta da lor donna e reina

La salutaro, o fosse frode o scherno:

D’armi reina, io dico, e di consigli;

30Essa che ai piè de la imperante inchina

Stavasi, e fea di sue ricchezze eterno

Censo agli estrani, e de gli estrani ai figli;

Che regger si dovea con l’altrui cenno;

Che ogni anno il suo tesoro

35Su l’avara ponea lance di Brenno.

È ver; tributo nol dicean costoro,

Men turpe nome il vincitor foggiava.

Ma che monta, per Dio! Terra che l’oro

Porta, costretta, allo straniero, è schiava.

40E svelti i figli ai genitor dal fianco,

E aprir loro le porte, ed esser padre

Delitto, e quasi anco i sospir nocenti;

E tratti in ceppi, e noverati a branco,

Spinti ad offesa d’innocenti squadre

45Con cui meglio starieno abbracciamenti.

Oh giorni! oh campi che nomar non oso!

Deh! per chi mai scorrea

Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?

O madri orbate, o spose, a chi crescea

50Nel sen custode ogni viril portato?

Era tristezza esser feconde, e rea

Novella il dirvi: un pargoletto è nato!

Nè gente or voglio cagionar dei mali

Che lo stesso bevea calice d’ira,

55Nè infonder tosco ne le piaghe aperte;

Ma dico sol ch’è da pensar da quali

Strette il perdono del Signor ne tira,

Perchè sien maggior grazie a Lui riferte.

Chè quando eran più l’onte aspre ed estreme,

60E, al veder nostro, estinto

[p. 405]
     Ogni raggio parea d’umana speme;

Allor fuor de la nube arduo ed accinto,

Tuonando, il braccio salvator s’è mostro;

Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto;

65Che a ragion si rallegra il popol nostro.Bel mirar da le inospiti latebre

Giovin raminghi al sospirato tetto

Correr securi, ed a le braccia pie;

E quei che in ferri astrinse ed in tenebre

70L’odio potente, un motto od un sospetto

Al soavi tornar colloquj e al die;

E un favellar di gioja e di speranza,

E su le fronti scòlta

De’ concordi pensier l’alma fidanza;

75E il nobil fior de’ generosi a scolta

Durar ne l’armi e vigilar, mostrando

Con che acceso voler la patria ascolta

Quando libero e vero è il suo dimando;

E quel che a dir le sue ragioni or chiama

80Lunge da basso studio e da contesa,

Parlar per lei com’ella è desiosa,

E l’antica far chiara itala brama;

Che sarà, spero, a quei possenti intesa

Cui par che piaccia ogni più nobil cosa.

85Vedi il drappello che al governo è sopra,

Animoso e guardingo,

Al ben di tutti aver rivolta ogni opra;

E i ministri di Dio dal mite aringo

Nel dritto calle ragunar la greggia.

90Molte e gran cose in picciol fascio io stringo;[2]

Ma qual parlar sì belle opre pareggia?

XXII
IL PROCLAMA DI RIMINI p.397
O delle imprese alla più degna accinto,
     Signor che la parola hai proferita,
     Che tante etadi indarno Italia attese;
     Ah! quando un braccio le teneano avvinto
     5Genti che non vorrian toccarla unita,
     E da lor scissa la pascean d’offese;
     E l’ingorde udivam lunghe contese
     Dei re tutti anelanti a farle oltraggio;
     In te sol uno un raggio
     10Di nostra speme ancor vivea, pensando
     Ch’era in Italia un suol senza servaggio,
     Ch’ivi slegato ancor vegliava un brando.[p. 699]

Sonava intanto d’ogni parte un grido,

Libertà delle genti e gloria e pace!

15Ed aperto d’Europa era il convito;

E questa donna di cotanto lido,

Questa antica, gentil, donna pugnace

Degna non la tenean dell’alto invito:

Essa in disparte, e posto al labbro il dito,

20Dovea il fato aspettar dal suo nemico,

Come siede il mendico

Alla porta del ricco in sulla via;

Alcun non passa che lo chiami amico,

E non gli far dispetto è cortesia.     25Forse infecondo di tal madre or langue

Il glorioso fianco? o forse ch’ella

Del latte antico oggi le vene ha scarse?

O figli or nutre, a cui per essa il sangue

Donar sia grave? o tali a cui piú bella

30Pugna sembri tra loro ingiuria farse?

Stolta bestemmia! eran le forze sparse,

E non le voglie; e quasi in ogni petto

Vivea questo concetto:

Liberi non sarem se non siam uni:

35Ai men forti di noi gregge dispetto,

Fin che non sorga un uom che ci raduni.

Egli è sorto, per Dio! Sì, per Colui

Che un dì trascelse il giovinetto ebreo

Che del fratello il percussor percosse;

40E fattol duce e salvator de’ suoi,

Degli avari ladron sul capo reo

L’ardua furia soffiò dell’onde rosse;

Per quel Dio che talora a stranie posse,

Certo in pena, il valor d’un popol trade;

[p. 700]
45Ma che l’inique spade
     Frange una volta, e gli oppressor confonde;
     E all’uom che pugna per le sue contrade
     L’ira e la gioia de’ perigli infonde.
Con Lui, signor dell’Itala fortuna
     50Le sparse verghe raccorrai da terra,
     E un fascio ne farai nella tua mano

XXIII

MARZO 1821 p.407Soffermati sull’arida sponda,

Vòlti i guardi al varcato Ticino,

Tutti assorti nel novo destino,

Certi in cor dell’antica virtù,

Han giurato: Non fia che quest’onda 5

Scorra più tra due rive straniere:

Non fia loco ove sorgan barriere

Tra l’Italia e l’Italia, mai più!

L’han giurato: altri forti a quel giuro

Rispondean da fraterne contrade, 10

Affilando nell’ombra le spade

Che or levate scintillano al sol.

Già le destre hanno stretto le destre;

Già le sacre parole son porte:

O compagni sul letto di morte, 15

O fratelli su libero suol.

[p. 695]

3Chi potrà della gemina Dora,

Della Bormida al Tanaro sposa,

Del Ticino e dell’Orba selvosa

Scerner l’onde confuse nel Po;

Chi stornargli del rapido Mella

E dell’Oglio le miste correnti,

Chi ritoglierli i mille torrenti

Che la foce dell’Adda versò,4Quello ancora una gente risorta

Potrà scindere in volghi spregiati,

E a ritroso degli anni e dei fati,

Risospingerla ai prischi dolor:

Una gente che libera tutta,

O fia serva tra l’Alpe ed il mare;

Una d’arme, di lingua, d’altare,

Di memorie, di sangue e di cor.

5Con quel volto sfidato e dimesso,

Con quel guardo atterrato ed incerto,

Con che stassi un mendico sofferto

Per mercede nel suolo stranier,

Star doveva in sua terra il Lombardo;

L’altrui voglia era legge per lui;

Il suo fato, un segreto d’altrui;

La sua parte servire, e tacer.

6O stranieri, nel proprio retaggio

Torna Italia, e il suo suolo riprende;

O stranieri, strappate le tende

Da una terra che madre non v’è.

Non vedete che tutta si scote,

Dal Cenisio alla balza di Scilla?

Non sentite che infida vacilla

Sotto il peso de’ barbari piè?

[p. 696]

O stranieri! sui vostri stendardi

Sta l’obbrobrio d’un giuro tradito; 50

Un giudizio da voi proferito

V’accompagna all’iniqua tenzon;

Voi che a stormo gridaste in quei giorni:

Dio rigetta la forza straniera;

Ogni gente sia libera, e pera 55

Della spada l’iniqua ragion.Se la terra ove oppressi gemeste

Preme i corpi de’ vostri oppressori,

Se la faccia d’estranei signori

Tanto amara vi parve in quei dì; 60

Chi v’ha detto che sterile, eterno

Saria il lutto dell’Itale genti?

Chi v’ha detto che ai nostri lamenti

Saria sordo quel Dio che v’udì?

Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia 65

Chiuse il rio che inseguiva Israele,

Quel che in pugno alla maschia Giaele

Pose il maglio, ed il colpo guidò;

Quel che è padre di tutte le genti,

Che non disse al Germano giammai: 70

Va’, raccogli ove arato non hai;

Spiega l’ugne; l’Italia ti do.

Cara Italia! dovunque il dolente

Grido uscì del tuo lungo servaggio;

Dove ancor dell’umano lignaggio 75

Ogni speme deserta non è;

Dove già libertade è fiorita,

Dove ancor nel segreto matura,

Dove ha lacrime un’alta sventura,

Non c’è cor che non batta per te. 80

[p. 697]

Quante volte sull’Alpe spiasti

L’apparir d’un amico stendardo!

Quante volte intendesti lo sguardo

Ne’ deserti del duplice mar!

Ecco alfin dal tuo seno sbocciati, 85

Stretti intorno a’ tuoi santi colori,

Forti, armati de’ propri dolori,

I tuoi figli son sorti a pugnar.Oggi, o forti, sui volti baleni

Il furor delle menti segrete: 90

Per l’Italia si pugna, vincete!

Il suo fato sui brandi vi sta.

O risorta per voi la vedremo

Al convitto de’ popoli assisa,

O più serva, più vil, più derisa 95

Sotto l’orrida verga starà.

Oh giornate del nostro riscatto!

Oh dolente per sempre colui

Che da lunge, dal labbro d’altrui,

Come un uomo straniero, le udrà! 100

Che a’ suoi figli narrandole un giorno,

Dovrà dir sospirando: io non c’era;

Che la santa vittrice bandiera

Salutata quel dì non avrà.
XXIV

IL V MAGGIO p.423

fu. Siccome immobile,

Dato il mortal sospiro,

Stette la spoglia immemore

Orba di tanto spiro,

Così percossa, attonita5

La terra al nunzio sta,

Muta pensando all’ultima

Ora dell’uom fatale;

Nè sa quando una simile

Orma di piè mortale10

La sua cruenta polvere

A calpestar verrà.

[p. 690]

Lui folgorante in solio

Vide il mio genio e tacque;

Quando, con vece assidua,15

Cadde, risorse e giacque,

Di mille voci al sonito

Mista la sua non ha:Vergin di servo encomio

E di codardo oltraggio,20

Sorge or commosso al subito

Sparir di tanto raggio:

E scioglie all’urna un cantico

Che forse non morrà.

Dall’Alpi alle Piramidi,25

Dal Manzanarre al Reno,

Di quel securo il fulmine

Tenea dietro al baleno;

Scoppiò da Scilla al Tanai,

Dall’uno all’altro mar.30

Fu vera gloria? Ai posteri

L’ardua sentenza: nui

Chiniam la fronte al Massimo

Fattor, che volle in lui

Del creator suo spirito35

Più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida

Gioia d’un gran disegno,

L’ansia d’un cor che indocile

Serve, pensando al regno;40

E il giunge, e tiene un premio

Ch’era follia sperar;

Tutto ei provò: la gloria

Maggior dopo il periglio,

La fuga e la vittoria,45

[p. 691]

La reggia e il tristo esiglio:

Due volte nella polvere,

Due volte sull’altar.Ei si nomò: due secoli,

L’un contro l’altro armato,50

Sommessi a lui si volsero,

Come aspettando il fato;

Ei fe’ silenzio, ed arbitro

S’assise in mezzo a lor.

E sparve, e i dì nell’ozio55

Chiuse in sì breve sponda,

Segno d’immensa invidia

E di pietà profonda,

D’inestinguibil odio

E d’indomato amor.60

Come sul capo al naufrago

L’onda s’avvolve e pesa,

L’onda su cui del misero,

Alta pur dianzi e tesa,

Scorrea la vista a scernere65

Prode remote invan;

Tal su quell’alma il cumulo

Delle memorie scese!

Oh quante volte ai posteri

Narrar se stesso imprese,70

E sull’eterne pagine

Cadde la stanca man!

Oh quante volte, al tacito

Morir d’un giorno inerte,

Chinati i rai fulminei,75

Le braccia al sen conserte,

Stette, e dei dì che furono

L’assalse il sovvenir!

[p. 692]

E ripensò le mobili

Tende, e i percossi valli,80

E il lampo de’ manipoli,

E l’onda dei cavalli,

E il concitato imperio,

E il celere ubbidir.Ahi! forse a tanto strazio85

Cadde lo spirto anelo,

E disperò: ma valida

Venne una man dal cielo,

E in più spirabil aere

Pietosa il trasportò;90

E l’avviò, pei floridi

Sentier della speranza,

Ai campi eterni, al premio

Che i desidéri avanza,

Dov’è silenzio e tenebre95

La gloria che passò.

Bella Immortal! benefica

Fede ai trionfi avvezza!

Scrivi ancor questo, allegrati;

Chè più superba altezza100

Al disonor del Golgota

Giammai non si chinò.

Tu dalle stanche ceneri

Sperdi ogni ria parola:

Il Dio che atterra e suscita,105

Che affanna e che consola,

Sulla deserta coltrice

Accanto a lui posò.

108

APPENDICE p.439
I
da Virgilio, Eneide, V 286-361 p.441
II
Da Orazio, Sermoni, I 3,1-56 p.444
III
[AD UN CALUNNIATORE, p. Volpini Barnabita] (1800) p.446
 IV
[FRAMMENTO DI UN’ODE] (1802) p.448
V
A PARTENEIDE (1809-1810) p.449
VI
[LA VACCINA] (1809-1812) P.452
VII
L’IRA DI APOLLO (1817) p.454
VIII
IL CANTO XVI DEL TASSO p.458
IX
[A CARLO PORTA] (1819) p.471
X
[A FRANCESCO HAYEZ] (1822) p.472
XI
[VERSI IMPROVVISATI SOPRA IL NOME DI MARIA] (1823) p.472
XII
[AD ANGELICA PALLI] (1827) p.474
XIII
[IN MORTE DI VINCENZO MONTI] (1828) p.475
XIV
STROFE PER UNA PRIMA COMUNIONE (1832) p.475
XV
OGNISSANTI (1847) p.478
XVI
VOLUCRES (1868) p.480
XVII
A MICHELE FERRUCCI (1870) p.481
XVIII
[A MARIA DANDOLO] (1869-1870) p.481
INDICE DEI NOMI p.483
SOMMARIO p.493