RENÉ GUENON – AUTORITÀ SPIRITUALE E POTERE TEMPORALE

RENÉ GUENON – AUTORITÀ SPIRITUALE E POTERE TEMPORALE

ADELPHI – Collana PICCOLA BIBLIOTECA ADELPHI n. 661 – 2014

TRADUZIONE: PIETRO NUTRIZIO

PREFAZIONE p. 11

I – AUTORITÀ E GERARCHIA p. 19

In epoche molto diverse della storia, risalendo anche al di là di quelli che per convenzione sono chiamati i « tempi storici » – nella misura in cui ci è possibile farlo con l’ausilio delle testimonianze concordanti forniteci dalle tradizioni orali o scritte di tutti i popoli -,1 troviamo le tracce di una frequente opposizione tra i rappresentanti di due poteri, l’uno spirituale e l’altro temporale, indipendentemente dalle forme particolari che questi due poteri assunsero per adattarsi alla diversità delle circostanze, secondo le epoche e i paesi. Ciò nonostante non si può affermare che tale opposizione e le lotte da essa generate siano «vecchie come il mondo », per usare un’espressione troppo spesso abusata; sarebbe una palese esagerazione, giacché, se si segue l’insegnamento di tutte le tradizioni, tali lotte cominciarono ad aver luogo soltanto quando l’umanità fu giunta a una fase già alquanto lontana dalla pura spiritualità primordiale. D’altronde, alle origini, i due poteri non esistevano allo stato di funzioni separate, rispettivamente esercitate da individualità diverse; entrambi, al contrario, erano contenuti nel principio comune da cui procedono tutte e due e del quale non rappresentavano che due aspetti indivisibili, indissolubilmente legati nell’unità di una sintesi a un tempo superiore e anteriore alla loro distinzione. (pp. 19-20)

In effetti, ciascun uomo, V in virtù della propria natura, è adatto a esercita- re certe funzioni definite a esclusione di altre; e, in una società regolarmente fondata su basi tradizionali, queste attitudini vanno determinate secondo regole precise affinché […]ciascuno si trovi nel posto che deve occupare secondo la norma, e l’ordine sociale traduca così esattamente ( i rapporti gerarchici che derivano dalla natura stessa degli esseri. (p.22)

La distinzione delle caste, insieme alla differenziazione delle funzioni sociali che vi corrisponde, deriva in ultima istanza dalla rottura dell’unità primitiva; ed è in quel momento che fanno la loro comparsa, separati l’uno dall’altro, il potere spirituale e il potere temporale, i quali, nel loro esercizio distinto, costituiscono le funzioni rispettive delle prime due caste, quella dei Brahmani e quella degli Kshatriya. D’altronde, tra questi due poteri, così come più in generale fra tutte le funzioni sociali assegnate da lì in a- vanti a gruppi diversi di individui, dovette esistere in origine una perfetta armonia, in virtù della quale l’unità primigenia veniva conservata per quanto lo permettevano le condizioni di esistenza dell’umanità nella sua nuova fase, poiché l’armonia, in fin dei conti, non è che un riflesso o un’immagine della vera unità. È soltanto in uno stadio ulteriore che la distinzione si trasformò in opposizione e in rivalità, e l’armonia venne distrutta per lasciare posto alla lotta fra i due poteri, nell’attesa che le funzioni inferiori pretendessero a loro volta la supremazia, e si arrivasse infine alla confusione più completa, alla negazione e al rovesciamento di ogni gerarchia. Il quadro generale che abbiamo a grandi linee tracciato è conforme alla dottrina tradizionale delle quattro età successive in cui si divide la storia dell’umanità terrestre, dottrina che non si incontra soltanto in India, ma era nota anche all’antichità occidentale, in particolare ai Greci e ai Latini. Le quattro età sono le differenti fasi che l’umanità attraversa nel suo allontanarsi dal principio, cioè dall’unità e dalla spiritualità primordiali; esse sono in certo modo le tappe di u- na specie di materializzazione progressiva, inerente in modo necessario allo sviluppo di ogni ciclo di manifestazione, come abbiamo spiegato altrove.

Soltanto nell’ultima di queste quattro età – che nella tradizione indù viene chiamata Kali-Yuga o « età oscura » e corrisponde all’epoca in cui ci troviamo attualmente -, ha avuto luogo la sovversione dell’ordine normale e, innanzitutto, il potere temporale ha preso il sopravvento sullo spirituale […] (p. 24)

Tutto ciò che è, qualunque sia il suo modo di essere, partecipa necessariamente dei princìpi universali, e nulla esiste se non per partecipazione a tali princìpi, che sono le essenze eterne e immutabili contenute nella permanente attualità dell’Intelletto divino; si può quindi affermare che ciascuna cosa, per quanto in se stessa contingente, traduce o rappresenta i princìpi a suo modo e secondo il suo ordine di esistenza, altrimenti non sarebbe che puro nulla. Così, da un ordine all’altro: tutte le cose si concatenano e si corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale, giacché l’armonia, come accennavamo poco fa, è il riflesso dell’unità principiale nella molteplicità del mondo manifestato; e questa corrispondenza è il vero fondamento del simbolismo. (p. 27)

L’inferiore può simboleggiare il superiore, ma è impossibile l’inverso[…]. (p. 28)

II – FUNZIONI DEL SACERDOZIO E DELLA REGALITÀ p. 31

L’opposizione dei due poteri spirituale e temporale, in una forma piuttosto che un’altra, si incontra pressappoco in tutti i popoli, il che non ha nulla di sorprendente giacché corrisponde a una legge generale della storia umana, la quale del resto si ricollega all’insieme delle « leggi cicliche », a cui in quasi tutte le nostre opere abbiamo fatto frequenti allusioni. Nei periodi più antichi, tale opposizione di solito si trova espressa, nei dati tradizionali, sotto forma simbolica, come abbiamo già indicato sopra a proposito dei Celti; ma non è questo l’aspetto della questione che ci proponiamo qui di sviluppare. Per il momento ricorderemo in particolare due esempi storici, tratti l’uno dall’Oriente e l’altro dall’Occidente: in India, l’antagonismo di cui trattiamo si incontra sotto forma di rivalità tra Brahmani e Kshatriya, rivalità di cui ripercorreremo alcuni episodi; nell’Europa medioevale, esso si presenta soprattutto come ciò che è stato chiamato « la controversia tra il Sacerdozio e l’impero » […]. (p. 31)

Non si è mai contestato, almeno in genere e tranne in casi estremi, che i due poteri, che possiamo chiamare potere sacerdotale e potere regale, essendo queste le loro vere denominazioni tradizionali, abbiano entrambi la loro ragion d’essere e il loro proprio ambito. In definitiva, il dibattito non verte di solito che sulla questione dei rapporti gerarchici che devono esistere fra loro; è una lotta per la supremazia, e tale lotta si verifica invariabilmente nello stesso modo: vediamo i guerrieri, detentori del potere temporale, dopo essere stati inizialmente sottomessi all’autorità spirituale, rivoltarsi contro di essa, dichiararsi indipendenti da ogni potere superiore o addirittura cercare di sottomettere a sé quell’autorità nella quale avevano riconosciuto, in origine, la fonte del proprio potere, e di farne uno strumento al servizio del proprio dominio. (p.32)

per sottolineare meglio la distinzione preferiamo usare per l’ordine spirituale per lo più il termine « autorità » invece di « potere », che sarà allora riservato all’ordine temporale, al quale meglio si addice qualora lo si voglia intendere in senso stretto. Il termine « potere », infatti, evoca quasi inevitabilmente l’idea di potenza o di forza, e soprattutto di una forza materiale, di una potenza che si manifesta visibilmente all’esterno e si afferma con l’utilizzo di mezzi esteriori; e tale è, per definizione, il potere temporale.1 L’autorità spirituale invece, per essenza interiore, non si afferma che per se stessa, indipendentemente da ogni appoggio sensibile, e si esercita in certo modo invisibilmente […]. (p. 34)

Per cominciare da quest’ultima, diremo che la funzione regale comprende tutto ciò che nell’ordine sociale costituisce il «governo» propriamente detto, anche quando tale governo non abbia forma monarchica; questa funzione, di fatto, è quella che appartiene in proprio a tutta la casta degli Kshatriya, e il re non è che il primo fra essi. Tale funzione è in certo modo duplice: amministrativa e giudiziaria da un lato, militare dall’altro, poiché deve garantire il mantenimento dell’ordine all’interno, come funzione regolatrice ed equilibratrice, e al tempo stesso all’esterno, come funzione protettrice dell’organizzazione sociale; i due elementi costitutivi del potere regale sono, nelle varie tradizioni, simboleggiati rispettivamente dalla bilancia e dalla spada. Da ciò si vede come « potere regale » sia realmente un sinonimo di « potere temporale », anche quando si prenda quest’ultimo in tutta l’estensione di cui è suscettibile […].

Quanto al sacerdozio, la sua funzione essenziale è la conservazione e la trasmissione della dottrina tradizionale, nella quale ogni organizzazione sociale regolare trova i suoi princìpi fondamentali[…]. (p. 35)

È facile capire come la funzione del sacerdozio non sia precisamente quella che le concezioni occidentali, soprattutto oggi, attribuiscono al « clero » o ai « preti », o per lo meno, se pure può essere tale in certa misura e in certi casi, come possa essere anche molto diversa. In effetti, a possedere propriamente il carattere di « sacro » è la dottrina tradizionale e quanto vi si riferisce diretta- mente, e questa dottrina non assume necessariamente la forma religiosa;1 « sacro » e « religioso », quindi, non sono equivalenti, e il primo dei due termini è molto più esteso del secondo; se la religione appartiene all’ambito del « sacro », questo comprende anche elementi e modalità che non hanno nulla di religioso; e il sacerdozio, come indica il nome, si riferisce, senza restrizione alcuna, a tutto quello che si può veramente dire « sacro ».

La vera funzione del sacerdozio è quindi, innanzitutto, una funzione di conoscenza e di insegnamento, ed è per questo motivo che, come dicevamo sopra, il suo attributo specifico è la saggezza; naturalmente, vi appartengono anche altre funzioni più esteriori, come l’adempimento dei riti, poiché queste richiedono, almeno in linea di principio, la conoscenza della dottrina e partecipano del carattere «sacro» proprio di quest’ultima; ma non sono che funzioni secondarie, contingenti e in certo modo accidentali. (pp. 36-37)

Che le cose non siano sempre state così lo prova il termine stesso di « clero », giacché in origine « chierico » non significa che « dotto », e si contrappone a « laico », che designa l’uomo del popolo, cioè il «volgo», assimilato all’ignorante o al «profano », colui al quale si può soltanto chiedere di credere ciò che non è in grado di comprendere, perché questo è il solo mezzo di renderlo partecipe della tradizione nella misura delle sue possibilità.(pp.38-39)

Se il sacerdozio è, per essenza, il depositario della conoscenza tradizionale, ciò non significa che ne abbia il monopolio, dato che la sua missione non è soltanto di conservarla integralmente, ma anche di comunicarla a tutti coloro che sono atti a riceverla, distribuirla in certo in modo gerarchicamente secondo le capacità intellettuali di ciascuno. Ogni conoscenza di questo tipo ha quindi la propria fonte nell’insegnamento sacerdotale, che è l’organo della sua trasmissione regolare[…]. (p. 40)

Nella conoscenza sacra o tradizionale, da questa distinzione di due ordini che si possono definire, in generale, quello dei princìpi e quello delle applicazioni, o anche, in base a quanto abbiamo appena detto, ordine « metafisico » e ordine « fisico », era derivata nei misteri antichi, in Occidente come in Oriente, la distinzione  tra quelli che erano chiamati i « grandi misteri » e i «piccoli misteri», dove i secondi comportavano di fatto essenzialmente la conoscenza della natura, mentre i primi la conoscenza di ciò che è al di là della natura. Tale distinzione corrispondeva precisamente a quella dell’«iniziazione sacerdotale» e dell’«iniziazione regale»[…]. (pp. 42-43)

III – CONOSCENZA E AZIONE p. 47

   

In precedenza abbiamo detto che i rapporti tra i due poteri spirituale e temporale sono determinati da quelli tra i loro rispettivi ambiti; ricondotta così al suo principio, la questione ci sembra molto semplice perché si riduce in fondo a quella dei rapporti tra conoscenza e azione.[…]

La conoscenza per eccellenza, la sola che meriti veramente questo nome nel suo pieno significato, è la conoscenza dei princìpi, indipendentemente da ogni applicazione contingente, e appartiene esclusivamente a chi possiede l’autorità spirituale, poiché nulla in essa dipende dall’ordine temporale, anche inteso nell’accezione più ampia. Quando si passa invece alle applicazioni, ci si riferisce all’ordine temporale, perché allora la conoscenza non è più considerata unicamente in sé e per sé, ma in quanto dà all’azione la sua legge[…]. (p. 47)

È evidente che il potere temporale, nelle sue varie forme, militare, giudiziaria e amministrativa, è interamente impegnato nell’azione; per le sue attribuzioni, quindi, è racchiuso negli stessi confini dell’azione, cioè nei confini del mondo che possiamo dire propriamente «umano», comprendendo peraltro questo termine possibilità molto più ampie di quelle che si prendono normalmente in considerazione. a Per contro, l’autorità spirituale si fonda interamente sulla conoscenza, poiché, come si è visto, la sua funzione essenziale è la conservazione e l’insegnamento della dottrina, e il suo ambito è illimitato come la verità stessa:1 ciò che le è riservato dalla natura stessa delle cose, ciò che f essa non può comunicare a uomini le cui funzioni sono di un altro ordine – e questo perché , le loro facoltà non lo consentono -, è la conoscenza trascendente e « suprema »[…]. (p. 48)

Deve essere ben chiaro che non si tratta della volontà della casta sacerdotale di conservare solo per sé la conoscenza di certe verità, ma di una necessità che discende diretta- mente dalle differenze di natura esistenti tra gli esseri, differenze che, abbiamo detto, sono la ragione d’essere e il fondamento della distinzione delle caste. Gli uomini fatti per l’azione non sono fatti per la conoscenza pura, e in una società costituita su basi veramente tradizionali ciascuno deve svolgere la funzione per cui è realmente «qualificato»; altrimenti tutto è confusione e disordine, nessuna funzione è eseguita come dovrebbe, e ciò è appunto quanto accade attualmente. (pp. 48-49)

Ma torniamo ai rapporti tra conoscenza e azione[…].

Abbiamo mostrato come l’antitesi tra Oriente e Occidente, allo stato attuale delle cose, sia in definitiva riconducibile a questo: l’Oriente conserva la superiorità della conoscenza sull’azione, mentre l’Occidente moderno afferma al contrario la superiorità dell’azione sulla conoscenza, quando non si spinga fino alla completa negazione dì quest’ultima; parliamo dell’Occidente moderno soltanto, perché nell’antichità e nel Medioevo la situazione era completamente diversa. Tutte le dottrine tradizionali, sia orientali sia occidentali, sono unanimi nell’affermare la superiorità, e anzi la trascendenza, della conoscenza nei confronti dell’azione, rispetto alla quale essa svolge in certo modo il molo del «motore immobile» di Aristotele[…] (pp. 50-51)

L’autorità spirituale, proprio perché implica tale conoscenza, possiede anch’essa in sé l’immutabilità;

il potere temporale, invece, è soggetto a tutte le vicissitudini del contingente e del transitorio, a meno che un principio superiore non gli comunichi, nella misura compatibile con la sua | natura e il suo carattere, la stabilità che esso non può possedere con i propri mezzi. Il principio può essere soltanto quello rappresentato dall’autorità spirituale; il potere temporale ha dunque bisogno, per sussistere, di una consacrazione che gli provenga da essa; è tale consacrazione a determinare la sua legittimità, cioè la sua conformità all’ordine stesso delle cose. Questa era la ragion d’essere dell’« iniziazione regale », che abbiamo definito nel capitolo precedente; e in ciò consiste propriamente il « diritto divino» dei re, o quello che la tradizione estremo-orientale chiama «mandato celeste»: l’esercizio del potere temporale in virtù di una delega da parte dell’autorità spirituale a cui , questo potere appartiene «eminentemente», come spiegavamo allora. Ogni, azione che non proceda dalla conoscenza manca di principio e non è che vana agitazione; ogni potere che non si riconosca subordinato all’autorità spirituale è del pari vano e illusorio; separato dal suo principio, potrà esercitarsi soltanto in modo disordinato e correrà fatalmente verso la rovina. (pp. 52-53)

Penetrata la natura delle cose, le conoscenze raggiungono il grado più elevato. Quando le conoscenze sono arrivate al grado più elevato, la volontà diventa perfetta. (p. 53)

È facile comprendere ora che il capovolgimento dei rapporti tra conoscenza e azione, in una civiltà, è conseguenza dell’usurpazione della supremazia da parte del potere temporale; quest’ultimo, di fatto, dovrà allora sostenere che non vi è alcuna sfera superiore alla propria, la quale è appunto la sfera dell’azione. Tuttavia, se le cose si fermano qui, non arrivano ancora al punto in cui le vediamo oggi e nel quale alla conoscenza è negato ogni valore; perché questo avvenga, occorre che anche gli Kshatriya siano stati privati del potere da parte delle caste inferiori. (p. 54)

Invece, quando gli elementi corrispondenti alle funzioni sociali di ordine inferiore arrivano a loro volta a dominare, scompare del tutto ogni dottrina tradizionale, anche mutilata o alterata; non sopravvive il più piccolo    vestigio della « scienza sacra», e si instaura il regno del « sapere profano », cioè dell’ignoranza che si spaccia per scienza e si compiace nel suo nulla. Tutto ciò può riassumersi in poche parole: la supremazia dei Brahmani conserva l’ortodossia dottrinale, la rivolta degli Kshatriya conduce all’eterodossia; ma con la dominazione delle caste inferiori cala la notte intellettuale, ed è a questo stadio che è arrivato oggi l’Occidente, il quale, peraltro, minaccia di diffondere le proprie tenebre sul mondo intero. (p.56)

IV – NATURA RISPETTIVA DEI BRAHMANI E DEGLI KSHATRIYA p. 59

Saggezza e forza, questi sono gli attributi rispettivi dei Brahmani e degli Kshatriya, o, se si preferisce, dell’autorità spirituale e del potere temporale; ed è interessante notare che presso gli antichi Egizi il simbolo della Sfinge, in uno dei suoi significati, riuniva precisamente i due attributi i visti secondo i loro rapporti normali. Si può infatti considerare la testa umana come raffigurazione della saggezza, e il corpo di leone raffigurazione della forza; la testa è l’autorità spirituale che dirige, il corpo è il potere temporale f che agisce. È da sottolineare peraltro che la Sfinge è raffigurata sempre a riposo, giacché il potère temporale è inteso qui allo stato «non agente » nel suo principio spirituale, in cui è contenuto « eminentemente », quindi soltanto come possibilità d’azione, o, ancora meglio, nel principio divino che unifica spirituale e temporale poiché è al di là della loro distinzione e costituisce la fonte comune dalla quale procedono entrambi, il primo però direttamente, il secondo indirettamente e per il tramite del primo. Altrove troviamo un simbolo verbale che, per la sua costituzione geroglifica, è un esatto equivalente del precedente: è il nome dei Druidi, che si legge dru-vid[…] (p.59)

In altri termini, dal momento che di solito il sacerdozio non comporta l’esercizio effettivo della regalità, occorre che i rappresentanti rispettivi del sacerdozio e della regalità traggano il loro potere da una fonte comune, che è « al di là delle caste »; la differenza gerarchica che esiste tra essi consiste nel fatto che il sacerdozio riceve il potere direttamente | da questa fonte, con la quale è in contatto immediato per sua stessa natura, mentre la regalità, in virtù del carattere più esteriore e propriamente terrestre della sua funzione, non può ricevere il proprio se non per tramite del sacerdozio. (p.61)

Perciò, se si vuole risalire all’origine prima dei due poteri sacerdotale e regale, bisogna cercarla nel « mondo celeste »[…]. (p. 62)

Tornando al punto di partenza della nostra digressione, è evidente che gli attributi di saggezza e di forza si riferiscono rispettivamente alla conoscenza e all’azione; d’altra parte, in India si dice anche, in connessione con lo stesso punto di vista, che il Brahmano è il prototipo degli esseri stabili, e lo Kshatriya il prototipo degli esseri mutevoli;1 in altri termini, nell’ordine sociale, che del resto è in perfetta corrispondenza con l’ordine cosmico, il primo rappresenta l’elemento immutabile, il secondo l’elemento mobile. Anche qui, l’immutabilità è quella della conoscenza, che è raffigurata in modo sensibile dalla postura immobile dell’uomo in meditazione; la mobilità, dal canto suo, è quella inerente all’azione, a motivo del suo carattere transitorio e momentaneo.(p. 63)

Nella natura del Brahmano predomina sattwa, che lo orienta verso gli stati sovraumani; in quello dello Kshatriya predomina rajas, che ; tende alla realizzazione delle possibilità comprese nello stato umano.1 Alla predominanza di sattwa corrisponde quella dell’intellettualità; alla predominanza di rajas quella di ciò che, in f mancanza di un termine migliore, possiamo f chiamare la sentimentalità[…]. (p.64)

Quest’ultima osservazione permette di comprendere la vera ragion d’essere delle forme religiose: esse sono particolarmente adatte alle razze il cui comportamento è in generale rivolto soprattutto all’azione, cioè alle razze che, considerate collettivamente, hanno in sé una preponderanza dell’elemento «rajasico» che caratterizza la natura degli Kshatriya. Tale è il caso del mondo occidentale, ed è per questo che, come abbiamo già segnalato altrove, in India si dice che se l’Occidente tornasse a uno stato normale e nuovamente in possesso di un’organizzazione sociale regolare, vi si troverebbero molti Kshatriya, ma pochi Brahmani; questo è anche il motivo per cui la religione, intesa in senso stretto, è cosa propriamente occidentale. E ancora questo che spiega come in Occidente sembri non esistere un’autorità spirituale pura, o per lo meno non ve n’è una che si affermi esteriormente come tale, con i caratteri che abbiamo descritto in precedenza. (pp. 65-66)

[…]un’autorità che sia soltanto religiosa continua tuttavia a essere, nel caso più sfavorevole, un’autorità spirituale relativa; vogliamo dire che, pur non essendo un’autorità spirituale pienamente effettiva, ne possiede la virtualità che le deriva dalla sua origine, e perciò è sempre in grado di esercitarne le funzioni all’esterno[…]. (p.69)

V – DIPENDENZA DELLA REGALITÀ DAL SACERDOZIO p. 72

Qui si vede che il rapporto tra i due poteri può anche essere rappresentato | come quello tra «interno» ed «esterno», rapporto che in effetti ben simboleggia quello tra conoscenza e azione, o, se si vuole, tra « motore» e «mobile», per riprendere l’idea che abbiamo esposto sopra, riferendoci tanto alla teoria aristotelica quanto alla dottrina indù. (p. 72)

In cambio della garanzia che l’autorità spirituale dà alla loro potenza, gli Kshatriya, con la forza di cui dispongono, devono assicurare ai Brahmani il modo di svolgere in pace, al riparo dal disordine e dall’agitazione, la propria funzione di conoscenza e di insegnamento; è ciò che il simbolismo indù rappresenta nella figura di Skanda, Signore della guerra, che protegge la meditazione di Ganesha, Signore della conoscenza. (pp. 73-74)

I Brahmani devono esercitare solo un’autorità in certo modo invisibile, che, come tale, può restare ignota all’uomo comune, ma non per questo cessa di essere il principio immediato di ogni potere visibile; questa autorità è come il perno intorno al quale ruotano tutte le cose contingenti, l’asse fisso intorno a cui il mondo compie la sua rivoluzione, il polo o il centro immutabile che dirige e regola il movimento cosmico senza parteciparvi. La dipendenza del potere temporale dall’autorità spirituale ha il suo segno visibile nell’incoronazione dei re: essi non sono veramente «legittimati » se non quando abbiano ricevuto dal sacerdozio l’investitura e la consacrazione, che implicano la trasmissione di un’«influenza spirituale » necessaria all’esercizio regolare delle loro funzioni. (pp. 75-76)

Ciò dimostra come essa non appartenga in proprio al re, ma gli sia conferita da una specie di delega dell’autorità spirituale, delega in cui consiste propriamente il « diritto divino », come abbiamo già detto; il re, quindi, non ne è che il depositario, e di conseguenza in certi casi può perderlo; per questo motivo, nella « Cristianità» medioevale, il Papa poteva sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà verso il loro sovrano. Nella tradizione cattolica, del resto, si rappresenta san Pietro che tiene in mano non soltanto la chiave d’oro del potere sacerdotale, ma anche la chiave d’argento del potere regale; presso gli antichi Romani queste due chiavi erano uno degli attributi di Giano, ed erano allora le chiavi dei « grandi misteri » e dei « piccoli misteri», i quali, come abbiamo spiegato, corrispondono anche, rispettivamente, all’«iniziazione sacerdotale » e all’ « iniziazione regale » . (p.77)

Quanto è stato detto definisce i rapporti normali tra autorità spirituale e potere temporale; e, se questi rapporti fossero osservati sempre e dovunque, mai nessun conflitto potrebbe nascere tra l’una e l’altro, perché ciascuno occuperebbe così il posto che gli spetta in virtù della gerarchia delle funzioni e degli esseri, gerarchia che, torniamo a insistervi, è strettamente conforme alla natura stessa delle cose. Purtroppo, di fatto, le cose son ben lontane dallo stare così, e troppo spesso le relazioni normali sono state misconosciute o addirittura rovesciate; a questo proposito va innanzitutto rilevato come sia già un grave errore considerare lo spirituale e il temporale semplicemente come due termini correlativi o complementari senza rendersi conto che il secondo ha il suo principio nel primo.(pp. 78-79)

[…]tale complementarità non è sbagliata, ma soltanto insufficiente, perché corrisponde a un punto di vista pur sempre esteriore, qual è del resto la divisione stessa dei due poteri, resa necessaria da uno stato del mondo in cui il potere unico e supremo non è più a portata dell’umanità ordinaria. (p.79)

Se quindi è un errore considerare lo spirituale e il temporale semplici correlativi, ve n’è un altro, ancora più grave, che consiste nel voler subordinare lo spirituale al temporale, cioè in definitiva la conoscenza all’azione; questo errore, che capovolge completamente i rapporti normali, corrisponde alla tendenza che è, in linea generale, quella dell’Occidente moderno, e che può manifestarsi soltanto in un periodo di decadenza intellettuale molto avanzata. Oggi, peraltro, alcuni si spingono ancora più lontano in questa direzione, fino a negare il valore stesso della conoscenza in quanto tale e anche, » come conseguenza logica essendo le due cose strettamente correlate, fino alla negazione pura e semplice di ogni autorità spirituale; quest’ultimo gradino nella degenerazione, che comporta la dominazione delle caste inferiori,  è uno dei segni caratteristici della fase finale del Kali-Yuga. (pp.82-83)

[…]oggi non si vuole vedere nella religione niente più che uno degli elementi dell’ordine sociale, un elemento fra gli altri e al loro stesso livello; è l’asservimento dello spirituale al temporale, o addirittura l’assorbimento del primo nel secondo, in attesa della completa negazione dello spirituale, che ne è l’inevitabile esito. Di fatto, considerare le cose a questo modo conduce necessariamente a « umanizzare » la religione, a trattarla cioè come fatto meramente umano, di ordine sociale, o meglio « sociologico », per gli imi, di ordine forse più psicologico per gli altri; e allora, a dire il vero, non è più religione, perché la religione comporta essenzialmente qualcosa di « sovraumano », senza il quale non siamo più nell’ambito spirituale,giacché temporale e umano sono in realtà i- dentici, in base a quanto dicevamo sopra; si tratta quindi, a dispetto delle apparenze, di una vera e propria negazione implicita della religione e dello spirituale[…]. (pp.83-84)

VI – LA RIVOLTA DEGLI KSHATRIYA p. 85

Presso quasi tutti i popoli, in epoche diverse, e sempre più spesso via via che ci avviciniamo alla nostra epoca, i detentori del potere temporale, come abbiamo visto, hanno tentato di rendersi indipendenti da ogni autorità superiore, sostenendo di trarre solo da sé il proprio potere, e di separare completamente lo spirituale dal temporale, quando non addirittura di sottomettere il primo al secondo. Questa «insubordinazione », nel senso etimologico del termine, ha diversi gradi, i più accentuati dei quali sono anche i più recenti, come abbiamo indicato nello scorso capitolo; mai come nell’epoca moderna le cose si sono spinte tanto oltre, e soprattutto non sembra che, in precedenza, le concezioni per vari aspetti corrispondenti si siano mai tanto integrate alla mentalità generale come durante gli ultimi secoli. A questo proposito, potremmo ripetere quanto già dicemmo in altra occasione sull’«individualismo» considerato come caratteristica del mondo moderno:1 la funzione dell’autorità spirituale è la sola che si riferisce a un ambito sovraindividuale; quando questa autorità è misconosciuta, è logico che subito l’individualismo faccia la sua comparsa, almeno come tendenza[…]. (p.85)

[…]sono di ordine puramente umano, e l’individualismo è precisamente la riduzione dell’intera civiltà ai soli elementi umani. Lo stesso discorso vale per il  « naturalismo », come si diceva prima: l’autorità ] spirituale, essendo connessa alla conoscenza metafìsica e trascendente, è la sola ad avere un carattere veramente « sovrannaturale »; tutto il resto è di ordine naturale o «fisico»[…]. (p.86)

[…]in linea del tutto generale si può constatare che la comparsa di dottrine «naturalistiche» o antimetafisiche si verifica quando, in una civiltà, l’elemento che f rappresenta il potere temporale ha il sopravvento su quello che rappresenta l’autorità spirituale. (p.86)

[…]e va aggiunto che, sottomettendo l’intero essere al mutamento, lo si riduce con ciò stesso all’individuo, giacché ciò che permette di superare l’individualità, ciò che la trascende, non può essere altro che il principio immutabile dell’essere; qui si vede dunque assai chiaramente la correlazione tra naturalismo e individualismo di cui abbiamo appena parlato. (p.89)

Infatti, quando venga negato il principio stesso della gerarchia, non si vede come una qualunque casta possa conservare la supremazia sulle altre, né, peraltro, in nome di che cosa possa pretendere di imporla; chiunque, in queste condizioni, può pensare di avere gli stessi diritti al potere di chiunque altro, non appena disponga materialmente della forza necessaria per impadronirsene e per esercitarlo di fatto; e, se si tratta di una semplice questione di forza materiale, non è forse evidente che questa debba trovarsi in sommo grado presso gli elementi che sono al tempo stesso i più numerosi e i più lontani, per le loro funzioni, da ogni preoccupazione che tocchi, anche indirettamente, la spiritualità? La negazione delle caste apriva dunque la porta a tutte le usurpazioni; anche gli uomini dell’ultima casta, gli Shudra, potevano approfittarne[…]. (pp. 90-91)

VII – LE USURPAZIONI DELLA REGALITÀ E LE LORO CONSEGUENZE p. 92

Si dice talvolta che la storia si ripete, il che è falso, perché non vi possono essere nell’universo due esseri o due eventi che siano perfettamente identici sotto ogni aspetto; se lo fossero, non sarebbero più due ma, coincidendo in tutto, semplicemente si confonderebbero, sicché non sarebbero che un solo e medesimo essere o evento. La ripetizione di possibilità identiche implica del resto un’ipotesi contraddittoria, quella di una limitazione della possibilità universale e totale, e, come abbiamo spiegato altrove con tutti gli approfondimenti necessari, questo è ciò che permette di confutare teorie come quelle della «reincarnazione» e dell’«etemo ritorno». Ma non meno falsa è l’opinione, diametralmente opposta, che sostiene che i fatti storici sono completamente dissimili e che tra essi non vi è nulla in comune; la verità è che ci sono sempre differenze per certi aspetti e, al tempo stesso, somiglianze per altri, e che, come in natura vi sono vari generi di esseri, così in questo ambito, come in ogni altro, vi sono del pari vari generi di fatti; in altri termini, esistono fatti che, in circostanze diverse, sono manifestazioni o espressioni di una medesima legge. Per questo motivo ci si imbatte talvolta in situazioni paragonabili che, se si trascurano le differenze per rilevare solo i punti di somiglianza, possono dare l’illusione di una ripetizione; in realtà non vi è mai identità tra i diversi periodi della storia, bensì corrispondenza e analogia, come tra i cicli cosmici o gli stati molteplici di un essere; e come esseri diversi possono passare attraverso fasi paragonabili nei limiti delle modalità proprie alla natura di ciascuno di essi, lo stesso accade per i popoli e le civiltà.

Così, come abbiamo segnalato sopra, nonostante differenze molto notevoli, esiste un’incontestabile analogia, forse mai abbastanza sottolineata, tra l’organizzazione sociale dell’india e quella del Medioevo occidentale; tra le caste dell’una e le classi dell’altro vi è soltanto corrispondenza e non identità, ma questa corrispondenza non è meno importante, giacché può servire a mostrare con particolare chiarezza che tutte le istituzioni con un carattere autenticamente tradizionale poggiano sugli stessi fondamenti naturali e differiscono in fondo soltanto per gli adattamenti necessari a circostanze diverse di tempo e di luogo. (pp. 92-93)

In Europa troviamo anche, sin dal Medioevo, l’analogo della rivolta degli Kshatriya; lo troviamo in particolare in Francia, dove, a partire da Filippo il Bello – che dobbiamo considerare uno dei principali artefici della deviazione caratteristica dell’epoca moderna, la regalità fu quasi costantemente impegnata a rendersi indipendente dall’autorità spirituale, pur conservando però, per una singolare incongruenza, il segno esteriore della sua dipendenza originaria, poiché, come abbiamo detto, l’incoronazione dei re era questo. I «legisti» di Filippo il Bello sono già, molto prima degli « umanisti » del Rinascimento, i veri precursori dell’attuale «laicismo»; ed è a quell’epoca, cioè all’inizio del secolo XIV, che bisogna in realtà far risalire la rottura del mondo occidentale con la propria tradizione. Per motivi che sarebbe troppo lungo esporre qui e che abbiamo del resto indicato in altri studi,1 riteniamo che il punto di partenza di questa rottura fu segnato in modo nettissimo dalla distruzione dell’Ordine del Tempio[…]. (pp.94-95)

Ne risulta che l’autorità spirituale, mentre può e deve sempre controllare il potere temporale, non può essere controllata da niente altro, almeno esteriormente[…]. (pp. 97-98)

e il re non si accontenta più di essere il primo fra gli Kshatriya, cioè il capo della nobiltà, e di svolgere la funzione di « regolatore » che a tale titolo gli appartiene, perde ciò che costituisce la sua ragion d’essere essenziale e, al tempo stesso, si oppone alla nobiltà, di cui non era che l’emanazione e l’espressione più compiuta. Allora vediamo la regalità, nell’intento di « centralizzare » e assorbire in sé i poteri appartenenti collettivamente alla nobiltà nel suo insieme, entrare in lotta contro quest’ultima e applicarsi con accanimento alla distruzione del feudalesimo, dal quale tuttavia era nata; e d’altra parte la regalità non poteva condurre tale lotta se non appoggiandosi al «terzo stato», che corrisponde ai Vaishya; è la stessa ragione per la quale, proprio a partire da Filippo il Bello, vediamo i re di Francia circondarsi quasi costantemente di borghesi, soprattutto quelli che, come Luigi XI e Luigi XIV, svilupparono di più l’opera di « centralizzazione », di cui la borghesia doveva poi cogliere i benefici quando, con la Rivoluzione, si impadronì del potere.

La « centralizzazione » temporale è in genere il segno di un’opposizione all’autorità spirituale, di cui i governi si sforzano così di neutralizzare F influenza per sostituirvi la loro[…]. (p. 100)

L’epoca moderna, che rappresenta la rottura con la tradizione, dal punto di vista politico potrebbe caratterizzarsi come la sostituzione del sistema nazionale a quello feudale; è nel secolo XIV che le « nazionalità » cominciarono a costituirsi grazie all’opera di « centralizzazione » di cui parliamo. (p.101)

Ma a noi ora preme soprattutto far rilevare che la formazione delle «nazionalità» è essenzialmente uno degli episodi della lotta del temporale contro lo spirituale; e se si vuol toccare il nocciolo della questione., si può dire che proprio per questo essa fu fatale alla regalità,, la quale, quando sembrava stesse realizzando tutte le sue ambizioni, si stava invece avviando alla rovina.1 Esiste una specie di unificazione politica, quindi del tutto esteriore, che implica il misconoscimento, se non la negazione, dei princìpi spirituali i quali soli possono creare l’unità autenti ca e profonda di una civiltà, e le «nazionalità» ne sono un esempio. Nel Medioevo vi era in tutto l’Occidente un’unità reale, fondata subasi propriamente tradizionali, ed era quella della «Cristianità»; quando si formarono quelle unità secondarie, di ordine puramente politi co, cioè temporale e non spirituale, che sono le nazioni, la grande unità dell’Occidente venne irrimediabilmente spezzata, e l’esistenza effettiva della « Cristianità » ebbe fine. Le nazioni, che sono allora i frammenti dispersi dell’antica « Cristianità», false unità sostituite all’unità autentica dalla volontà di dominio del potere- temporale, proprio per come erano sorte non potevano vivere se non opponendosi le une alle altre, scontrandosi senza sosta in tutti i campi: lospirito è unità, la materia è molteplicità e divisione, e più ci si allontana dalla spiritualità, più gli antagonismi si accentuano e si amplificano. (pp.101-102-103)

D’altra parte, il costituirsi delle «nazionalità» rese possibili veri e propri tentativi di asservimento dello spirituale al temporale, implicanti un capovolgimento totale dei rapporti gerarchici tra i due poteri; questo asservimento trova la sua espressione più definita nell’idea di una Chiesa «nazionale», subordinata cioè allo Stato e rinchiusa nei limiti di quest’ultimo; il termine stesso di « religione di Stato », sotto la sua apparenza volutamente equivoca, infondo non significa altro: è la religione di cui il temporale si serve come mezzo per rendere bile il suo dominio; è la religione ridotta a fattore dell’ordine sociale. (pp.103-104)

Ma, via via che si sprofonda nella materialità, l’instabilità aumenta, i cambiamenti si producono sempre più rapidamente; anche il regno della borghesia non potrà che avere una durata piuttosto breve, in confronto a quella del regime a cui è succeduto; e poiché usurpazione chiama usurpazione dopo i Vaishya sono ora gli Shùdra ad aspirare al dominio: esattamente questo è il significato del bolscevismo. Non vogliamo formulare previsioni al riguardo, ma non sarebbe certo molto difficile ricavare da quel che precede alcune conseguenze per l’avvenire: se gii elementi sociali inferiori hanno in un modo o nell’altro accesso al potere, il loro regno sarà verosimilmente il più breve di tutti e segnerà l’ultima || fase di un determinato ciclo storico, giacché non è possibile scendere più in basso; se anche f un tale evento non ha una rilevanza più generale, v’è da supporre che esso costituirà, almeno per l’Occidente, la fine del periodo moderno.(p.107)

VIII – PARADISO TERRESTRE E PARADISO CELESTE p. 109

[…]più interessante è comprendere quel che avrebbe dovuto essere veramente l’imperatore, e che cosa abbia dato i origine all’errore che lo indusse a scambiare la f sua supremazia relativa per una supremazia assoluta.La distinzione tra Papato e Impero nasceva in | qualche modo da una divisione dei poteri che,  nell’antica Roma, si trovavano riuniti in una sola persona, giacché allora l’lmperator era al tempo stesso Pontifex Maximus. (pp. 109-110)

in altri termini, è di nuovo l’errore che consiste nell’assumere il rapporto tra i due poteri come un rapporto di coordinazione, mentre si tratta di un rapporto di subordinazione, giacché, dal momento in cui sono separati, l’uno procede direttamente dal principio supremo, l’altro ne procede solo indirettamente; ci siamo già spiegati a sufficienza sull’argomento perché sia necessario insistervi oltre.

Al termine del De Monarchia Dante definisce in modo chiarissimo le attribuzioni rispettive del Papa e dell’imperatore; ecco il passaggio fondamentale[…]. (pp.111-112)

Perciò fu necessaria all’uomo una duplice guida, corrispondente al duplice fine: cioè il Sommo Pontefice che, secondo la Rivelazione, guidasse il genere umano alla vita eterna, e l’imperatore che, secondo gli insegnamenti filosofici, indirizzasse il genere umano alla felicità temporale.(p. 113)

Se ci rifacciamo a quanto abbiamo già spiegato, si vedrà senza difficoltà che la distinzione che fa Dante tra i due fini dell’uomo corrisponde esattamente a quella tra « piccoli misteri » e « grandi misteri», e anche, di conseguenza, a quella tra « iniziazione regale » e « iniziazione sacerdotale». L’Imperatore presiede ai «piccoli misteri», che riguardano il «Paradiso terrestre», cioè la realizzazione della perfezione dello stato umano;1 il Sovrano Pontefice presiede ai «grandi misteri», che riguardano il «Paradiso celeste », cioè la realizzazione degli stati sovraumani, collegati allo stato umano dalla funzione «pontificale», intesa in senso strettamente etimologico.2 L’uomo, in quanto uomo, da solo ovviamente non può raggiungere che il primo dei due fini, che si può dire « naturale », mentre il secondo è propriamente « sovrannaturale », poiché si situa al di là del mondo manifestato; la distinzione è dunque quella tra ordine «fisico » e ordine « metafisico ». (pp.114-115)

Dante assegna dunque all’imperatore e al Papa la funzione di condurre l’umanità rispettivamente al «Paradiso terrestre» e al «Paradiso celeste»; la prima delle due funzioni viene adempiuta «secondo la filosofia», la seconda « secondo la Rivelazione »; questi sono termini, però, che richiedono una spiegazione accurata. E ovvio, infatti, che «filosofia» non va qui intesa nel suo significato ordinario e profano perché, se così fosse, sarebbe troppo manifestamente inadeguata a svolgere la funzione che le è assegnata; per comprendere di che cosa si tratti realmente, occorre restituire alla parola «filosofia» il suo significato primitivo, quello che aveva per i Pitagorici, che furono i primi a utilizzarla. Come abbiamo indicato altrove,1 questo termine, che etimologicamente significa « amore per la saggezza» . designa innanzitutto una disposizione preliminare per pervenire alla saggezza, e può designare anche, per naturale estensione, la ricerca che, nascendo da questa disposizione, deve condurre alla conoscenza autentica; si tratta dunque di un semplice stadio propedeutico e preparatorio, un avvio alla saggezza, così come il «Paradiso terrestre» è una tappa lungo la via che porta al « Paradiso celeste ». La « filosofia» così intesa si potrebbe chiamare, volendo, « saggezza umana», perché comprende l’insieme di tutte le conoscenze raggiungibili mediante le sole facoltà dell’individuo umano, facoltà che Dante sintetizza nella ragione, poiché è grazie a essa che l’uomo viene definito tale; ma la « saggezza umana », proprio perché umana, non è la vera saggezza, la quale si identifica con la conoscenza metafisica. (pp.116-117)

[…]così per la conoscenza di tutto ciò che oltrepassa lo stato umano le facoltà individuali si rivelano impotenti e sono necessari altri mezzi: a questo punto interviene la «Rivelazione», che è una comunicazione diretta degli stati superiori, comunicazione che, come precisavamo poco fa, è di fatto stabilita dal « pontificato ». La possibilità della « Rivelazione » si fonda sull’esistenza di facoltà trascendenti rispetto all’individuo: qualunque sia il nome che viene dato loro[…]. (p.117)

In questa accezione, <<Rivelazione>> e <<filosofia>> corrispondono rispettivamente alle due parti che nella dottrina indù sono designate con i nomi Shruti e Smriti. (p.118)

[…]per spiegare i rapporti fra i due poteri, si potrebbe dire che il Papa deve conservare per sé la chiave d’oro del «Paradiso celeste » e affidare all’imperatore la chiave d’argento del « Paradiso terrestre »; e abbiamo visto poc’anzi che, nel simbolismo, la seconda chiave era talvolta sostituita dallo scettro, insegna più specifica della regalità.(p.121)

Di fatto, ogni conoscenza che abbia veramente il carattere di « scienza sacra », di qualunque ordine essa sia, può essere a buon diritto costituita soltanto da coloro che, prima di tutto, possiedono in modo completo la conoscenza principiale, e perciò sono i soli qualificati per attuare, conformemente alla più rigorosa ortodossia tradizionale, ogni adattamento richiesto dalle circostanze di tempo e luogo; per questo gli adattamenti, quando sono effettuati in modo regolare, sono necessariamente opera del sacerdozio, al quale appartiene per definizione la conoscenza principiale; ecco perché soltanto il , sacerdozio può conferire legittimamente l’«iniziazione regale », mediante la comunicazione delle conoscenze che la costituiscono. Da questo si può capire meglio come le due chiavi – considerate quelle della conoscenza nell’ordine « metafisico » e nell’ordine « fisico » – appartengano realmente entrambe all’autorità sacerdotale, e come la seconda sia affidata ai detentori del potere regale solo per delega, per così dire. Infatti, quando la conoscenza «fisica» è £’ separata dal suo principio trascendente perde la sua principale ragion d’essere e non tarda a diventare eterodossa; appaiono allora, come abbiamo spiegato, le dottrine « naturalistiche », risultato dell’adulterazione delle « scienze tradizionali » da parte degli Kshatriya ribelli; è già un avvio verso la « scienza profana », che sarà o- pera delle caste inferiori e il segno del loro dominio nella sfera intellettuale, sempre che in j un caso simile si possa ancora parlare di intellettualità. In questo campo, come in quello politico, la ribellione degli Kshatriya prepara dunque la via a quella dei Vaishya e degli Shùdra; ed è così che, di tappa in tappa, si arriva al più basso utilitarismo, alla negazione di ogni conoscenza disinteressata, anche di rango inferiore, e di ogni realtà che oltrepassi l’ambito sensibile; è quanto precisamente si può constatare nella nostra epoca, in cui il mondo occidentale è quasi arrivato all’ultimo stadio di questa discesa che, come la caduta dei gravi, diventa sempre più rapida. (pp.122-123)

IX – LA LEGGE IMMUTABILE p. 130

Come si è visto, gli insegnamenti di tutte le dottrine tradizionali sono unanimi nell’affermare la supremazia dello spirituale nei confronti del temporale, e nel considerare normale e legittima soltanto l’organizzazione sociale in cui tale supremazia sia riconosciuta e si rifletta nei rapporti dei due poteri corrispondenti a questi due ambiti. D’altra parte, la storia mostra chiaramente come il mancato riconoscimento di quest’ordine gerarchico porti con sé, sempre e ovunque, le medesime conseguenze: squilibrio sociale, confusione delle funzioni, egemonia di elementi via via inferiori, insieme a declino intellettuale, oblio dei princìpi trascendenti dapprima, per arrivare poi, discendendo la china, fino alla negazione di ogni vera conoscenza. (p.130)

Se tale verità fosse riconosciuta anche soltanto da un ristretto numero di individui, sarebbe un risultato di notevole importanza, perché soltanto così può cominciare un cambio di orientamento che conduca alla restaurazione dell’ordine normale; tale restaurazione, quali ne siano i mezzi e le modalità, prima o poi avrà necessariamente luogo; è su quest’ultimo punto che occorre dare ancora qualche spiegazione.

Il potere temporale, dicevamo, riguarda il mondo dell’azione e del cambiamento; ora, il cambiamento, non avendo in sé la propria ragione sufficiente,1 deve ricevere da un principio superiore la sua legge, in virtù della quale soltanto si integra nell’ordine universale; quando invece si proclama indipendente da ogni principio superiore, non ne deriva che disordine puro e semplice.(pp.130-131)

[…]per questa ragione la rivoluzione che abbatte la regalità è allo stesso tempo la conseguenza logica e il castigo, cioè la compensazione, della precedente rivolta della regalità contro l’autorità spirituale. La legge è negata nel momento stesso in cui è negato il principio dal quale emana; ma i suoi negatori non hanno potuto sopprimerla veramente, ed essa si ritorce contro di loro; così il disordine deve alla fine rientrare nell’ordine, al quale nulla può opporsi se non in apparenza e in modo affatto illusorio. Certo, si obietterà che la rivoluzione, sostituendo il potere delle caste inferiori a quello degli Kshatriya, non è che l’aggravarsi del disordine, e ciò è senz’altro vero se si considerano soltanto i risultati immediati; ma è questo stesso aggravarsi a impedire che il disordine si perpetui indefinitamente. (p. 132)

Ogni volta che il disordine aumenta, il movimento subisce un’accelerazione, giacché viene fatto un passo avanti nel senso del cambiamento puro e dell’«istantaneità»; è per questo che, come dicevamo prima, quanto più gli elementi sociali sono di qualità inferiore, tanto meno dura la loro egemonia. Come tutto quello che ha un’esistenza solo negativa, il disordine distrugge se stesso[…].

Prima dicevamo che mai come oggi l’umanità è stata tanto lontana dal «Paradiso terrestre »; ma non bisogna dimenticare che la fine di un ciclo coincide con l’inizio di un altro ciclo[…]. (p. 133)

L’identità dei caratteri dell’epoca moderna con quelli che le dottrine tradizionali attribuiscono alla fase finale del Kali-Yuga fa pensare, senza troppa inverosimiglianza, che una tale eventualità potrebbe anche non essere molto lontana; e certo si tratterebbe, dopo l’oscuramento presente, del trionfo completo dello spirituale. (p. 134)

Se simili previsioni sembrano troppo azzardate, e tali in effetti potrebbero apparire a chi non abbia dati tradizionali sufficienti per fondarle, si possono almeno ricordare gli esempi del passato, i quali mostrano chiaramente come tutto ciò che si regge soltanto sul contingente e sul transitorio sia fatalmente destinato a scomparire, come sempre il disordine svanisca, e alla fine si ristabilisca l’ordine, sicché, se anche il disordine sembra talvolta trionfare, tale trionfo non potrà essere che passeggero, e tanto più effimero quanto più il disordine sarà stato grande. Senza dubbio la stessa cosa accadrà, prima o poi, e forse prima di quanto si sarebbe tentati di supporre, nel mondo occidentale, dove il disordine si è spinto, in tutti gli ambiti, più lontano di quanto non sia mai accaduto da nessun’altra parte; anche qui è opportuno aspettare la fine; e anche se il disordine dovesse estendersi per un certo tempo a tutta la terra, come si ha qualche motivo di temere, ciò non modificherebbe le nostre conclusioni, giacché si tratterebbe solo della conferma delle previsioni a cui accennavamo poco fa circa la fine di un ciclo storico, e la restaurazione dell’ordine in questo caso dovrebbe solo verificarsi su una scala molto più vasta che in tutti gli esempi noti, ma sarebbe anche incomparabilmente più profonda e integrale, poiché rappresenterebbe il ritorno a quello « stato primordiale » di cui parlano tutte le tradizioni. (pp. 134-135)

Tuttavia, finché sopravviverà un’autorità spirituale regolarmente costituita, foss’anche misconosciuta da quasi tutti, compresi i suoi stessi rappresentanti, foss’anche ridotta all’ombra di se stessa, tale autorità avrà sempre la parte migliore, né questa potrà mai esserle tolta, poiché vi è in essa qualcosa di più elevato delle possibilità meramente umane: per quanto indebolita o assopita, essa incarna ancora « la sola cosa necessaria», l’unica che non sia transeunte.(pp.137-138-139)

[…]nella sua vera essenza, l’autorità spirituale partecipa dell’eternità e dell’immutabilità dei princìpi; è per questo che, in tutti i conflitti che mettono il potere temporale alle prese con l’autorità spirituale, si può essere certi che, nonostante le apparenze, sarà sempre la seconda ad avere l’ultima parola.(p. 139)

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rene guenon, autorità spirituale e potere temporale, adelphi, pietro nutrizio