PIERRE DRIEU LA ROCHELLE – IDEE PER UNA RIVOLUZIONE DEGLI EUROPEI


PIERRE DRIEU LA ROCHELLE – IDEE PER UNA RIVOLUZIONE DEGLI EUROPEI
EDIZIONI RITTER – Collana LA SPADA E IL MARTELLO – Dicembre 2014

INTRODUZIONE
Di Maurizio Rossi p.5

PREFAZIONE
Di Adriano Romualdip.23

TRADUZIONE: Alfredo Cattabiani

Antologia di brani tratti dal volume Socialismo,Fascismo,Europa edita  dalle Edizioni Volpe nel 1964. Troppi refusi per un libro venduto a quindici euro. Carenti le indicazioni bibliografiche dei passi citati…

IDEE PER UNA RIVOLUZIONE DEGLI EUROPEI p.33

I – L’UOMO MATURO E IL GIOVANE p.35

Colto il momento giusto, l’uomo maturo si mise a guardare il giovane fissandolo. ­

–Si – disse il giovane – vi ringrazio di aver trovato un po’ di tempo per ascoltarmi. Ma ciò che vi dirò è condiviso da molti altri: è una cosa molto importante. Ecco, sono un borghese. I genitori mi hanno dato una certa educazione. In liceo m’hanno insegnato ben poco: conosco i limiti della mia cultura. Ad ogni modo ho riflettuto a lungo sul mio corpo e, avendolo messo alla prova ed esercitato, sono riuscito a dominarlo. Ho letto un po’ di Nietzsche e di Marx. I miei genitori sono ora senza soldi o quasi. E io non riesco a trovare un lavoro. Sono disoccupato.

-Si ne ho visti tanti come voi – sospirò stancamente l’uomo maturo.

-Sono un borghese, ma odio il capitalismo che non mi nutre e che ha rovinato i miei genitori. Detesto i grandi quotidiani, le banche, i trusts finanziari, tutto ciò che in questo paese ha in mano le leve effettive del potere senza averne purtroppo la responsabilità.

-Certamente – disse l’uomo maturo sollevando un po’ il capo. A questo punto bisogna dire che l’uomo maturo era deputato e “indipendente” di sinistra.

– Detesto anche la democrazia – continuò il giovane più lentamente – detesto il parlamento, i marchesi patrioti ed affaristi, i deputati avvocati, il partito radicale con i suoi comitati massoni e il suo Senato di vecchi sadici, il partito socialista e la sua segreta ammirazione per tutto ciò che i suoi saggi retori denunciano con voce roboante. E il capitalismo si difende utilizzando questa gente. (pp.35-36)

– Ah, c’è un “però”. Sì, lo so già, adesso mi direte che parlamento e democrazia sono due cose diverse. Volete salvare la democrazia. Ebbene, no, se si fa fuori il parlamento, finisce anche la democrazia. D’altronde, pur difendendo segretamente la democrazia, voi sperate di tenere semichiusa la porta del Parlamento. Lèon Blum è più conseguente di voi; difende nello stesso tempo la democrazia e il parlamento, come se fosse una cosa da nulla… E poi sapete meglio di me qual è il nucleo della politica del XX secolo: concepire il gemellaggio del gran capitalismo con la democrazia, di questi due compari che fanno finta di litigare, ma segretamente vanno d’accordo. Se si è capaci di sentire tutto ciò, si è già pronti ad agire.

–Sì, sì, ma, scusate, siete comunista? (p.36)

– No, è qui il punto- mormorò il giovane con una falsa modestia e una strana gioia nello sguardo.

– Io non sono né agli ordini di Mosca né a quelli del Vaticano. E poi, è gente… non lo so, ma con i comunisti non riesco a trovarmi a mio agio. Quando vado a un grande raduno comunista, mi sembra di essere in una chiesuola. Hanno un gergo, il loro gergo marxista, materialista che è vecchio di almeno mezzo secolo. E ripetono sempre la stessa cosa, una cosa vera in fin dei conti, ma che diventa falsa a forza di ripeterla, sempre nello stesso modo, senza sfumature. Si accontentano di aver ragione a parole e non nei fatti concreti.

– Voi parlate degli intellettuali, ma c’è anche il popolo, no? – osservò il deputato di sinistra con una voce un po’ commossa.

– Sì, ci sono due tipi di comunisti, i borghesi e gli operai; i secondi sono persone che vogliono mangiare ed essere degli uomini come gli altri. Ma appena vanno a una riunione comunista, cominciano a imitare i borghesi.

Il deputato scrollò il capo con tristezza: – Ma allora, se non siete comunista, che cosa siete? Siete forse…

Il giovane esclamò… – Ma sì probabilmente sono un fascista. Anzi, lo sono sicuro. Il 6 febbraio ho capito di essere un fascista (1). E so bene che significa. Significa voler fare il socialismo senza gridare ai quattro venti che si vuol fare, ma facendolo senza un programma astratto realizzando di giorno in giorno qualcosa. Essere fascista significa capire che l’unica cosa da realizzare è il socialismo, che bisogna eliminare gli attuali capi dell’economia, irresponsabili politicamente, e sostituirli con capi che facciano nello stesso tempo le due cose e ne siano responsabili… (p.37)

IL SOCIALISMO E IL FASCISMO p.38

D’altra parte, nel Fascismo la forza morale si basa anche su un altro fatto essenziale nella nostra civiltà delle grandi metropoli: sul Socialismo che ha fatto proprio. Lo si voglia o no, nel Fasci­smo di Berlino si è trasferita gran parte della genuinità del sin­dacalismo dell’anteguerra e la maggior parte dell’energia morale che si trovava nel marxismo dell’Europa occidentale e centrale nei primi anni di questo secolo. […]

E d’altronde sorprendente notare che questa interpretazione viene negata nello stesso tempo da certi uomini di destra che si uniscono al Fascismo per i peggiori motivi e dagli uomini della più vecchia sinistra liberale o libertaria, camuffati da socialisti o da comunisti (non parlo qui dei comunisti di Mosca, che invece comprendono molto bene il Fascismo e giustamente si guardano dal sottovalutarlo), gli uni e gli altri sorpresi dalla novità politica, incapaci di guardare in faccia la realtà storica, pronti semplice- mente alla negazione pura e semplice. (p.38)

Lascio agli pseudo-rivoluzionari la vergogna di considerarmi un paradossale; ma io sostengo che la mia fiducia nel Socialismo nasce dallo spettacolo che offrono oggi i paesi fascisti.(p.39)

Due movimenti, che sembravano irrimediabilmente ostili per una mente di fine ottocento, si avvi­cinano e si aiutano a vicenda: Socialismo e Nazionalismo.
Marx aveva dimenticato che esisteva non solo il materialismo delle forze di produzione ma anche un altro, quello della geogra­fia. Alla base del nazionalismo c’è un materialismo che, come ci hanno insegnato questi ultimi anni, non ha ancora finito di produrre i suoi effetti: il materialismo del clima che ha foggia­to le patrie e che non ha ancora finito di foggiarle. Il relativo internazionalismo della Francia e dell’Inghilterra, da lungo tem­po unificate e sature di nazionalismo, è di molto in anticipo sul processo di unificazione dell’Italia, della Germania, delle nazioni slave, della Russia. Ma per il momento è inutilizzabile.
Quindi dobbiamo lucidamente constatare che dall’Europa orien­tale a quella occidentale, dal sud-est al nord-est, i nazionalismi sono riusciti in quest’ultimo lustro a vincere le forze di espansio­ne internazionalista, cioè il grande capitalismo e il Socialismo della II internazionale. I grandi capitalisti internazionali delle banche e dei trusts hanno dovuto cedere di fronte al nazionalismo dei piccoli borghesi francesi, come ha dovuto fare il Socialismo di fronte alle masse di operai e di impiegati dominati dalle ban­che e dai trusts. Ma si è prodotta una controreazione inattesa: le patrie fasciste sono costrette, per mantenersi in vita, a fare del Socialismo dietro le loro dogane. Ne devono fare molto e ne do­vranno fare ancora di più in seguito.
Non è certo il Socialismo che desideravano fino a ieri i socialisti. Sono pronto ad ammetterlo. Ma anche il Socialismo di Stalin non è quello che sognavano questi intellettuali. (p.40)
I comunisti e anche i nostri buoni socialisti che, malgrado il loro riformismo parlamentare immobilista, sono molto esigenti nei confronti degli altri, negano queste mie osservazioni. Ma esse sono facilmente verificabili. Ormai è passato il tempo in cui il capitalista guardava il Fascismo con un sorriso di compiacimento considerandolo un poliziotto e un tutore dell’ordine insperato. Oggi il capitalismo sa di essere colpito in due modi differenti: in primo luogo per gli effetti inattesi del suo sviluppo interno (sa infatti che la forza del sistema, la concorrenza, è ormai distrutta e con essa la pretesa liberale con cui si mascherava); in secondo luogo per l’invasione via via maggiore di questa nuova forza che è nata, il Fascismo, il quale sfrutta contro di esso l’enorme de­bolezza nata dalla progressiva distruzione della concorrenza e dal sorgere di monopoli sempre più vasti. Il capitalismo è diventato una forza greve, inerte, conservatrice. E un organismo che ha solo più riflessi di autodifesa, ma non più di attacco. Le stesse energie di difesa si rivoltano in ultima istanza contro di esso, perché giungono a consegnarlo a una forza estranea e infondo nemica. Il capitalismo sfinito ha bisogno dello Stato per risollevarsi: quindi si dà anima e corpo allo Stato fasci­sta. Il meccanismo interno del capitalismo conduce dritto alla sua statalizzazione. (p.41)

Fini comunitari, fini limitati, fini spirituali.
In Russia la sostituzione dell’individuale con il collettivo negli impulsi del comportamento umano non pare, a prima vista, aver portato un cambiamento spirituale. Ma la Russia è la Russia e l’Europa è l’Europa. La Russia non aveva un materialismo: deve conquistarselo. Per lei il culto della macchina è una fede neces­saria, il lirismo più conveniente al suo attuale sforzo. Essa ha iniettato i suoi tesori spirituali in una mistica della materia. A noi tutto ciò pare eccessivo, smisurato, perché in Europa siamo saturi di materia, di materiale, di materialismo. La costruzione socialista assume da noi un aspetto completamente differente: un aspetto di consolidamento, di conservazione, di restaurazione dello spirituale. Il Socialismo si è inserito nell’edificio capitalista senza rove­sciarlo. In Russia invece è stata distrutta la fragile impalcatura capitalista, appoggiata all’edificio medioevale dello zarismo: la distruzione è stata minima. In Europa non è possibile rovesciare un edificio complesso, ricco, che ha radici c ramificazioni su tutti i piani e in ogni classe. Bisogna invece rinforzare la costruzione, arricchirla, modularla secondo un ritmo nuovo. Questo è il concetto centrale del Fascismo. Chi è che non coglie in esso la dottrina dello stesso Socialismo riformista? Il Fascismo è un Socialismo riformista, ma un Socialismo riformista che, a parer mio, ha maggior ricchezza ed energia di quello dei vecchi partiti classici.(p.42)
Da Socialisme fasciste, 1934

IL NOSTRO CORAGGIO E LE VOSTRE IDEE CHIARE p.43

Oggi ci accorgiamo, alla luce delle rivoluzioni che hanno sconvolto e temprato tutti i popoli del continente, salvo all’incirca il nostro, che il coraggio fisico è la base e la garanzia di ogni rivoluzione. Una gio­ventù non può sentire uno slancio rivoluzionario se non ha il senso del coraggio fisico.[…]
Parlo soprattutto del coraggio che ci vuole per sopportare la fame e la sete, il freddo e il caldo, la sporcizia, l’insonnia, la troppa inerzia o la troppa fatica. In questo senso le fatiche di una guerra assomiglia­no in un modo impressionante a quelle di una rivoluzione. (p.43)

La lutte des jeunes, 1934

IL MITO DEL PROLETARIATO p.44

In questa nuova situazione noi ci accorgiamo che la prospettiva marxista di una futura rivoluzione diviene di giorno in giorno più irreale in quanto stiamo assistendo a un polverizzarsi e a un moltiplicarsi delle classi sociali.
Basta osservare l’attuale situazione sociale in Europa; essa è, dopo novantanni, molto diversa da quella che aveva immaginato Marx ili e che i suoi discepoli più impenitenti continuano ad aspettare. Certo, nelle grandi città vi è ancora una grande massa di coloro che fanno un lavoro manuale. Ma fra le due masse c’è oggi una zona di passaggio diffusa dappertutto, ineguale, fluttuante, sottile, dove è impossibile cogliere le differenze. Ad esempio, quand’è che l’operaio diventa piccolo-borghese? Come operaio qualifica­to o come caporeparto, o come artigiano più o meno indipenden­te, oppure come impiegato, o infine come piccolo commerciante? In quale momento di questa mutazione il piccolo-borghese perde la sua pelle di operaio? E quante sono le persone che subiscono questi mutamenti? (pp.44-45)

In provincia, in campagna, diventa ancora più difficile cogliere le differenze fra l’operaio, il piccolo-bor­ghese e il contadino. D’altronde sulla parola borghesia grava un malinteso. Marx la confonde con il capitalismo. Ma il termine capitalismo non riesce assolutamente a definire questa massa fluttuante e complessa.(p.45)

L’operaio va in fabbrica e ritorna, così come il borghese va al suo ufficio e ne ritorna. Va al caffè e al cinema come il borghese; ha una famiglia o vive in una casa curata da una donna. Vita rego­lare senza scosse. Quegli elementi della vita operaia: che a prima vista vengono gabellati come una scuola di coraggio, non sono, a osservarli più attentamente, determinanti. L’operaio ha una vita economica più instabile? Ha una vita fisica più dura? Ma quanti sono in definitiva i borghesi che hanno una vita economica vera­mente stabile? Le comodità in cui vive la borghesia sono costantemente minac­ciate dal crollo economico. Quanto alla fatica del lavoro, bisogna tener presente che essa varia secondo i compiti del singolo ope­raio. L’automatismo intanto cerca sempre più di trasformare l’o­peraio in un uomo seduto ed inerte come il borghese. E dall’altro lato lo sport restituisce al borghese la forza fisica. Tutte queste considerazioni ci fanno dubitare del principio mar­xista in base al quale vi è una classe più adatta e preparata delle altre, per il suo modo di vivere, a compiere la rivoluzione e quin­di ad essere potenzialmente vittoriosa. Oggi più che mai la lotta di classe a senso unico è diventata im­possibile per la molteplicità indefinita delle classi. È d’altronde difficile definire come classi – cioè come gruppi omogenei, auto­nomi, costanti nel tempo – i gruppi indefiniti e sfumati che on­deggiano senza tregua fra tre grandi masse oscure e senza limiti. In questo debole caos il proletariato non riuscirà mai a formare un vero partito di classe. Questo partito sarà sempre impotente perché, se sarà troppo esigente nel reclutamento, rimarrà troppo piccolo; se esagererà in senso contrario, cesserà di esistere.(p.46)

Da Socialisme Fasciste, 1934

II – EQUILIBRIO DEL CORPO E DELL’ANIMA NEL MEDIO EVO p.47

Nei più antichi testi che abbiamo potuto leggere finora, ve­diamo che l’antichità greca – come le altre dieci civiltà antiche che conosciamo — ha lodato il corpo; ma senza insistervi, per­ché allora la forza e la bellezza erano qualcosa di naturale.[…]
Poi l’antichità comincia a fare quelle distinzioni che conosciamo e che le saranno fatali. Isola il corpo sotto una falsa luce estetica. Una luce splendida per un attimo; ma la prima conseguenza è che il corpo e l’anima si dividono. E facile cogliere questo movimento centrifugo in Platone.(p.46)
Il Medio Evo è stata una magnifica epoca colma di giovinezza. Questa giovinezza ha trionfato non solo nei costumi, ma nelle arti, nella poesia, nella filosofia, nella religione. Essendo un’epoca giovane, è un’epoca colma di forza fisica. Fino al secolo XVI il corpo si espande spontaneamente. E un’epoca di splendore fisico, splendore che non ha nulla da invidiare all’Anti­chità primitiva, né nelle azioni né nella loro rappresentazione. Tuttavia l’uomo del Medio Evo ha già perduto molta vivacità e molta asprezza. Non è più un primitivo. (p.48)

Allora tutti gli uomini dovevano resistere al freddo e al caldo, alla fame e alla sete, agli assedi, agli incendi, alle inondazioni, alle epidemie, ai massacri, alla tortura. Le condizioni di vita era­no difficili sia per i poveri che per i ricchi. Ognuno era sottoposto a continue prove fisiche. Non sempre, logicamente, le malattie e le guerre selezionavano i più robusti. Quando esaminiamo i monumenti che ci restano di quell’epo­ca, scopriamo una stupenda espressione di forza e di allegria nei corpi. La si può cogliere nell’architettura, nella scultura, nelle miniature, nella poesia e nella filosofia religiosa. Quei castelli e quelle cattedrali non possono essere state costruite da gente debole e triste. Nell’armonia delle cattedrali c’è nello stesso tempo una ragione naturale e un’audacia, che non può es­sere attribuita solo a una fede soprannaturale, ma a una fiducia nella vita, a una gioia di vivere, a un’affermazione, esuberante dell’attimo, dell’hic et nunc. (p.49)

Tutta quell’umanità, cantava, grondava di canti e di musiche. E il tempo era misurato da grandi feste collettive dove si mesco­lavano generosamente il tragico e il comico […].

[…] – Questa gioia di avere un corpo, di avere un’anima nel cor­po, di nutrire l’uno con l’altro vicendevolmente, questa gioia di esistere si manifestava apertamente e pienamente non contro il cristianesimo, ma attraverso e grazie al cristianesimo. (p.51)
Sviluppando il suo spirito l’uomo ha sacrificato a poco a poco il suo corpo; ma lo spirito si è nutrito finora del corpo, o di quel poco che ne restava. Quando il corpo è entrato in agonia, lo spi­rito ha cominciato a dare segni di pericolo. Questi segni hanno pesato sul destino delle nostre generazioni. Il secolo XX sotterrerà la inutile dottrina del progresso; se sarà un secolo di rinascita, potrà farlo allegramente. L’Europa è legata al Medio Evo come l’uomo maturo lo è alla giovinezza. Tutta la forza che le rimane deriva da esso. L’Europa deve riannodare i legami con le sue vere origini e con le cause del suo genio più autentico. Sono stati i secoli razionalisti, seguiti al Medio Evo, a dimenticare il corpo e a distruggerlo, arrecando un grave danno allo spirito. (pp.52-53)

Da Notes pour comprendre le siècle, 1940

RINASCITA DELL’UOMO EUROPEO p.54

Un certo pensiero della fine del secolo diciannovesimo e dell’ini­zio del ventesimo aveva preparato per gli europei gli strumenti di una rinascita quale non si era mai più vista da molti secoli, di una rivoluzione cosi completa da compiere un angolo di 360 gradi […]. […] – Era nato un uomo nuovo, che reagiva contro la vita cittadi­na, che dominava la città e la campagna, che restituiva all’anima e al corpo i valori della forza, del coraggio, della conquista; che voleva essere messo alla prova, avere tutte le esperienze, creare un’unità fra il sentimento, il pensiero e l’azione. Questo uso della ragione, al di là dei limiti del razionalismo e del romanticismo, doveva inevitabilmente sfociare nell’ordine politico per cercarvi la sua logica conclusione.
Fra la Russia, l’Italia e la Germania comparve quest’uomo che non si sperdeva nel dedalo delle vecchie dottrine del secolo dician­novesimo o che, volendo viverle nella loro essenza più autentica, le aveva frantumate conservandone solo gli elementi ancora utilizzabi­li.(p.54)
È apparso infine l’uomo nuovo in tutta la sua evidenza in Ger­mania e in Italia. In Russia ci appare invece mutilato e compro­messo, perche i
barbari, che sono dei primitivi influenzati e cor­rotti dalla decadenza che li circonda, cercano, come cani senza padrone, il cibo nelle pattumiere e quindi devono digerire gli avanzi peggiori […].[…] – L’uomo nuovo parte dal corpo, sa che il corpo è l’articolazio­ne dell’anima la quale non può esprimersi, spiegarsi in tutta la sua ampiezza, trovare una base consistente se non nel corpo. Non c’è nulla di più spirituale che questo riconoscimento del corpo. L’ani­ma, che cerca e chiede la salvezza, si salva ritrovandosi nel corpo.(p.55)

Nel corpo restituito a se stesso i valori dell’anima ricomincia­vano a circolare generosamente. Erano il coraggio, lo spirito di decisione e di creazione. Non c’è pensiero senza azione. Non si pensa se non nella misura in cui si trasforma il pensiero in azione, lo si mette alla prova, lo si adatta, gli si assicura una base più solida per salire ancora più in alto. (p.56)

Il Fascismo e l’hitlerismo superano il Socialismo e il Nazionali­smo come annientano il Capitalismo e il Liberalesimo. L’azio­ne spezza questi sistemi separati, queste morfologie particola­ri: ciò non significa che non le analizzi e non ne riesprima gli elementi ancora utili. L’azione spezza le vecchie serie di Idee, libera ogni idea e nello stesso tempo rompe e disperde i gruppi d’uomini che mantenevano in vita quelle ideologie rigide.

Il totalitarismo offre la possibilità di una restaurazione fisica e spirituale dell’uomo del secolo ventesimo, dell’uomo che esige la propria integrità e che l’impone nell’ambito delle condizioni sociali insufficienti che ha trovato.
Per rispettare il nuovo giovane operaio nel corpo, che e stato restaurato dallo sport, dall’allenamento atletico e militare, biso­gna rispettarne l’anima. Quindi è necessario riordinare il mecca­nismo del profitto capitalistico. In tal modo lo sport e l’atletismo rendono concrete le preoccupazioni del Socialismo. Ma il futuri­smo e il niccianesimo distruggono il Socialismo astratto di Marx e sviluppano il problema tenendo conto della realtà.
La condizione umana non soffre solo a causa del capitalismo, ma anche dal suo incontro con il nazionalismo. L’uomo viene stroncato e sfinito nelle fabbriche e negli uffici non solo dall’a­buso del guadagno, ma anche dall’ingiusta ripartizione delle ma­terie prime e del lavoro fra le varie nazioni. Qui il totalitarismo si scontra con il nazionalismo; ma, con la classica tecnica del superamento, si servirà del nazionalismo contro il nazionalismo.[…]
Il Socialismo tedesco distrugge attraverso la guerra la struttura dei capitalismi nazionali. (pp.56-57)

Il Socialismo tedesco, basandosi sul razzismo, si fonda su un principio che gli permette di correggere lo squilibrio che crea e di ristabilire su una base valida lo sviluppo futuro della rivoluzione. In Europa il razzismo è l’arianesimo. Ma tutti gli elementi etnici europei sono ariani a differenza degli Ebrei, dei meticci semiti o negroidi. Da questo punto di vista il germanesimo non è altro che la punta più avanzata dell’europeismo. (p.58)

L’uomo nuovo ha riunito quelle virtù che da lungo tempo si erano gravemente divise e spesso contrapposte le une alle altre: lo stile dell’atleta e del monaco, del soldato e dell’attivista. Un monaco, o un santo, è un atleta che trasferisce in un’al­tra sfera gli sforzi e i meriti dell’atleta o dell’eroe. Quindi non esistono atleti veri che non siano in potenza dei monaci. Il monaco e l’atleta, il santo e l’eroe si ritrovano nel soldato. Tutto ciò acquista un profondo significato umano a patto di non assumere la direzione ideologica dell’uomo impegnato politica- mente. Ma ormai nessun uomo politico può dare una pienezza alla sua direzione terrestre se non la eleva a un’altezza metafisica. Tutto ciò sta attuandosi, nei limiti e nelle possibilità del nostro tempo, nel tipo dell’uomo fascista o hitleriano che si realizza nel­la struttura del partito, dello Stato, del popolo totalitario. Totalitario. Tutti i grandi movimenti della storia europea, la Chiesa, la massoneria, le monarchie, le aristocrazie, le demo­crazie, i movimenti puritani e giacobini, socialisti, comunisti o anarchici, hanno cercato di diventare e di essere totali. La rivoluzione, che sta avvenendo in Europa, è totale perché è la rivoluzione dei corpi, la restaurazione dei valori nati dal cor­po, legati al corpo, e nello stesso tempo è la rivoluzione dell’a­nima che si scopre di nuovo, ritrova tutti i suoi valori attraverso i valori del corpo. Coraggio, pazienza, sacrificio, forza, durezza, risoluzione, decisione non sono forse le virtù del corpo come quelle dell’anima? Il corpo è lo strumento attraverso cui l’anima può diventare, più grande, può riconoscersi, cogliersi, realizzarsi. In ultima istanza, noi non crediamo nè al corpo né all’anima: nè al corpo che è semplicemente il sostegno dell’anima, ne all’ anima che ha bisogno del corpo per personalizzare la sua esi­stenza; al di là delle categorie spirituali del corpo e dell’anima noi cogliamo l’essere …

Da Notes pour comprendre le siècle, 1940

III – L’AVVENIMENTO p.61

Dobbiamo capire che l’epoca delle patrie completamen­te autonome e sovrane sta finendo. L’abbozzo della Società delle Nazioni era uscito dal bagno di sangue del 1918. Ieri, negli ultimi giorni prima della sconfitta, la Francia pensava seriamente alla possibilità di unirsi all’Inghilter­ra. Oggi si trova in mille modi legata e confusa con la Germania. Domani… Domani ognuno capirà, qualsiasi speranza o sogno possa nutrire, che la Francia, come ogni altro paese europeo, come l’Inghilterra insulare, come la Germania, non riuscirà più a trovare quell’integrità statale, quell’autonomia della personalità nazionale che è parsa negli ultimi secoli di nazionalismo la condizione essenziale per La vita dei popoli. In questo senso non ci saranno né vinti né vincitori. O, meglio, ci sarà una sola vincitrice: l’Europa. L’Europa non può vivere senza patrie e, certamente, morirebbe se osasse distruggerle, perché sono i suoi organi essenziali; ma le patrie non possono più vivere senza l’Europa. (p.61)

In questo periodo una patria non può vivere sul proprio territorio; ha bisogno del territorio degli altri, del territorio di tutto un continen­te, di tutte le miniere, di tutte le fabbriche e anche di tutti gli ingegni. Sono sorte nel mondo alcune grandi forze che hanno unificato

o stanno unificando i continenti. L’Europa deve fare lo stesso; al­trimenti si dissolverà in una nube di polvere che svanirà dopo aver turbinato ai piedi delle montagne […].

[…] Europa, guarda quei grandi imperi che si sono formati, trema e cingi i tuoi reni. C’è l’impero russo, che si estende sull’Europa e sull’Asia con i suoi 150 milioni di abitanti; c’è l’impero ameri­cano con i suoi 130 milioni; c’è l’impero giapponese con i suoi 90 milioni, che sta creando un territorio di isole e di terre continentali. Caratteristica di questi imperi è che abbracciano tutti i climi della terra, ciascuno dei quali è oggi indispensabile all’uomo moderno per soddisfare tutte le necessità della vita ricca che ha scelto. La Russia regna sulla tundra polare, sulla pianura ucraina, adatta per la coltivazione del grano e sulla vallata turkestana semitropicale, dove cresce il cotone. L’America si estende dal polo all’equatore. Il Giappone sta cercando sbocchi in tutte le latitudini possibili. Gli inglesi avevano intuito prima ancora degli altri l’importanza di questi sistemi geografici e avevano creato un impero attraver­so la loro potenza marittima e commerciale. Gli uomini moderni non possono vivere sulle sole risorse del cli­ma natio. Non vivono più di solo pane, di un po’ di carne, di alcuni legumi di un po’ di tela e di lana, di un po’ di legno e di ferro. Essendo più numerosi, hanno bisogno di petrolio, di molto ferro, di caffè e di cioccolato. Quindi ogni popolo europeo ha bisogno di tutta l’Europa e di tutta l’Africa. Parlare in questo modo non significa accettare uno stupido materialismo storico: significa semplicemente dire che l’uomo riferisce a un dato momento una cosa piuttosto di un’altra. Il tempo delle patrie è finito proprio a causa del nuovo gusto per il petrolio e per il caffè e anche a causa del gusto per più ampie visioni sociali e politiche. Ma il nostro Francese medio non capisce ancora. Vuole il suo caffè e il Socialismo, ma non vor­rebbe pagarne il relativo prezzo morale, che consiste nella rinuncia all’isolamento nazionale.

L’eguaglianza non è mai appartenuta a questo mondo: la vita stessa sorge dall’ineguaglianza. L’intelligenza del più forte è la sola giustizia conosciuta. Il più forte ha scelto di essere forte, il più debole ha scelto di essere debole. Quest’ultimo può concedersi la consolazione di parlare di giustizia e di intelligenza rivelando le virtù proprie del debole, le virtù che vengono suscitate nel debole dalla giustizia del più forte.

Articolo, apparso nella Nouvelle Revue Franqaise nel giugno 1941, poi raccolto ne Le franqais d’Europe.

EGEMONIA, FEDERAZIONE, GERARCHIA p.65

Non c’è patria senza orgoglio, non c’è orgoglio senza ambizione. Al diavolo una patria che non voglia essere un impero! Se la mia patria fosse solo un pezzo di terra, potrei ancora amarla? No. Op­pure, se la amassi, rinuncerei alla parte più autentica di me stesso. Perché in me c’è l’io e ciò che vuole essere più che l’io. (p.65)

Adesso dobbiamo sapere quale tra queste egemonie sia possibile, quindi conveniente e fruttuosa.

Il che significa chiedere a ciascuno di noi se preferisce un’Eu­ropa conquistata e diretta dalla Russia o dall’America oppure i’ dalla Germania. La scelta deriva da un’antecedente scelta ide­ologica fra Fascismo, Liberalesimo e Comunismo.

Ma si pone anche un’altra domanda. Qual é oggi il vero peso delle ideologie? Hanno ancora valore? Non sono state forse colpite indistintamente da alcuni fatti generali che hanno in­fluenzato ogni cosa e ogni persona? E le ideologie contempo­ranee non appartengono ormai al passato? (p.66)

E che cosa rimane del vecchio mito marxista in Unione Sovie­tica? 1 primi rivoluzionari russi non avevano certo fatto la ri­voluzione per giungere all’attuale dura gerarchia militare, a un | autoritarismo diretto da una ragione di Stato puramente politica.[…]

Nel relativo indebolimento delle ideologie, si vede che il seguace di ciascuna obbedisce a preferenze e a tendenze vaghe, difficili da definirsi, in cui le abitudini politiche di ieri cedono il passo a poco a poco a oscuri richiami del futuro. (p.67)

Ma, se esaminiamo seriamente gli Stati Uniti, ci accorgiamo che non hanno nessuna possibilità di svolgere questo ruolo. Essi stessi sono in crisi da più di dieci anni. Stanno mutando l’impostazione della loro vita, il principio spiri­tuale, le basi sociali e razziali, l’orientamento politico. In primo luogo sono immersi in una grave crisi razziale. Fino a pochi anni orsono l’elemento anglosassone o per lo meno nordico sembrava preponderante e influiva sui costumi, sulllarte, sulla religione, sugli affari. Una piccola élite, che discendeva dai primi emigrati e gravitava intorno alla Nuova Inghilterra e agli Stati del Sud e dell’Est, dirigeva gli affari politici. Aveva cognomi inglesi, irlandesi e olandesi. Ma oggi, dopo una maturazione che è durata parecchi decenni, è cambiato tutto. La mancanza di un controllo dell’emigrazione nel XIX secolo e all’inizio del XX ha provocato parecchie conseguenze. Sotto la vecchia struttura, che se ne andava a pezzi, è apparso a poco a poco un immenso caos, che la Bibbia considera come emana­zione dell’Inferno. Tutte le razze d’Europa, d’Africa e d’Asia si sono ammassate alla rinfusa e non riescono più a trovare un principio coordinatore e dominatore abbastanza forte. Milioni di uomini non sanno più donde vengono e non sanno ancora dove sono. L’America non riesce ad uccidere i ricordi originari; il suo potere di esorcismo, di psicanalisi e di trasfigurazione si è rivelato sempre più debole via via che doveva offrire uno sforzo più potente. Non solo il mondo economico, ma anche quello politico, lettera­rio, artistico, spirituale riflettono questo immenso stato di disor­dine. Non esiste più il vecchio spirito americano, cioè lo spirito anglosassone, e il nuovo spirito è solo un torrente oscuro, limaccioso che conduce allo spirito di domani. Ciò che oggi chiamia­mo lo spirito americano è solo una disfunzione enigmatica, una convulsione misteriosa […]. (p.68)

Passiamo alla Russia. Noi pensiamo che, prescindendo dalla Germania, la Russia ab­bia maggiori possibilità di vittoria dell’America e soprattutto abbia maggiori possibilità di fare l’Europa e di mantenere il suo ordine in Europa. In primo luogo la Russia appartiene all’Europa. Non si sa esat­tamente dove finisca l’Europa e dove cominci l’Asia. L’Eurasia non è un’astrattezza geografica. Quindi possiamo facilmente im­maginare la Russia conquistare l’Europa e rimanerci. Poi la Russia è tutto quel che non è più l’Inghilterra, che non è ancora l’America. La Russia è un impero coloniale con tutti i ca­ratteri di debolezza e di dissociazione che esso comporta; ma ha al centro un grande popolo dominatore, il popolo russo, compo­sto da ottanta milioni di abitanti e molto più omogeneo di quello americano che si presenta come un raggruppamento informe di emigrati.(p.69)

Se, per motivi che sembrano sempre più ipoteti­ci, la potenza tedesca si disintegrasse, siamo certi che la Russia ne utilizzerebbe i resti molto meglio dell’America.

In un’Europa distrutta dalla sconfitta della Germania e dell’Italia, dopo la caduta della Francia e del l’Inghilterra, la Russia, a causa della vicinanza con l’Europa, con la sua massa vitale, con l’esercito e con la dottrina riuscirebbe prima o poi, ma senza dubbio molto presto, ad attrarre a sé i popoli orfani più facilmente degli Stati Uniti. Ma che cosa diventerebbe la federazione europea sotto l’egemo­nia russa? E ci sarebbe poi una vera e propria egemonia? Oppure sarebbe un dispotismo paragonabile a un’annessione pura e semplice, radicale e totale? La dottrina e il sistema comunista esigono la seconda soluzione […] .Allora la sola speranza è la Germania? Solo la Germania può assumere una funzione egemonica in Eu­ropa. È al centro dell’Europa, ha una popolazione doppia di qua­lunque nazione europea, è omogenea, possiede e può difendere dei punti strategici importanti, ma soprattutto ha grandissime ca­pacità organizzative, sia su un piano materiale che spirituale, riu­nite nelle stesse mani. Infine è il più grande proletariato d’Europa ] che possiede la più elastica e la più efficace dottrina moderata, a metà cammino fra capitalismo e Socialismo; è la vera soluzione del problemi di oggi e di domani…

Articolo apparso in Idées nel Novembre 1942.

BILANCIO p.71

Sono diventato fascista perché ho misurato i progressi della deca­denza in Europa. Ho visto nel Fascismo il solo strumento capace di frenare e di contenere questa decadenza; inoltre, non avendo più fiducia nelle risorse politiche della Francia e dellTnghilterra e rifiutando l’intrusione nel nostro continente degli imperi stra­nieri della Russia e dell’America, ho visto l’unica salvezza nel genio di Hitler e del Nazionalsocialismo. D’altronde questo atteggiamento mi costa. Affidare agli altri la nostra salvezza è il segno di un’estrema miseria umana sia per i popoli che per gli individui. Ma la realtà è questa, Francesi. Al di sopra del gregge, che pensa solo a ciò che mangia oppure a ciò che non mangia, gli uomini impegnati vedono una salvezza per la Francia in una o nell’altra potenza straniera. Gli uni attendono tutto dai Russi, gli altri dagli Americani, gli altri ancora dai Tedeschi. Ma che cosa si dà al mendicante sfaticato? L’elemosina. Avremmo dovuto salvarci da soli con il lavoro, la disciplina, l’unità. Il governo di Vichy ha cercato di farlo, ma ha fallito. Per alcuni motivi politici chiari ormai da molti anni, lo pseudo-fa­scismo cattolico è fallito in Francia come è fallito in Austria e, altrove; e conoscerà sicuramente altre sconfitte in quei paesi do­ve si trova al riparo di qualche grande potenza. Fare di tutto per evitare una soluzione non è di certo una soluzione. Non perdoneremo mai agli uomini di Vichy – cattolici mascherati, democratici travestiti – di aver sciupato l’ultima possibilità della Francia di riprendersi e di risollevarsi conservando a qua­lunque prezzo la sua unità interna. Era possibile, ma bisognava compiere la chiara rivoluzione del Socialismo virile, bisognava stabilire la regola di ferro del partito unico. Pochissimi Francesi sono disposti ad applicare un rimedio spartano, il solo che possa sortire qualche effetto. Pochissimi Francesi vogliono qualcosa di chiaro, eccetto i comunisti e al­cuni gruppi di fascisti divisi fra la collaborazione con gli Ameri­cani, dove sono vittime dei democratici, e la collaborazione con i Tedeschi. In ogni caso il Nazionalsocialismo mi è parso e mi pare, benché abbia perso due anni preziosi per la rivoluzione socialista europea, l’ultima diga di qualche libertà in Europa, di quella poca libertà che può essere salvata dalla calata dei Russi e dalle distruzioni irreparabili provocate da un conflitto finale fra America e Russia. Per me Hitler è la realizzazione del Socialismo compiuta con il male minore. Il male è ancora enorme se lo paragoniamo alle nostre vecchie usanze, ai vecchi modi di fare e di pensare; d’altronde è certo che chi lotta continuamente contro la violenza proveniente dall’Est deve per forza adottare la stessa violenza. Lenin ha cominciato prima di Hitler e di Mussolini. Se per caso la Germania si stancasse di difendere da sola l’Europa contro i colpi congiunti dell’Occidente e dell’Oriente, nell’attimo in cui le armate sovietiche fossero per entrare a Berlino, l’intel­lettuale tremante nel suo appartamento di’ Parigi o della provincia potrebbe guardare per un’ultima volta questa rivista; così, più tardi potrebbe ricordare che nel ‘41 e nel ‘42 vi è stato un ultimo sprazzo di luce in qualche angolo della terra francese.

Articolo pubblicato sulla N.R.F. Les frangais d’Europe nel gennaio 1943

IV – GLI ERRORI DELLA GERMANIA p.73

Quali sono state le ragioni del fallimento della politica nazionalso­cialista? La causa più immediata è da ricercarsi nei caratteri assunti fin dagli inizi dalla rivoluzione hitleriana. Questa rivoluzione non fu spinta alle ultime conseguenze in nessun campo. E vero, sia i fascisti che i nazionalsocialisti non si proponevano di spazzar via tutto come i bolscevichi, volevano evitare quelle ingenti distruzioni di beni e di vite causate da un rivolgimento totale: pensavano anzi di utilizzare molti elementi della società precedente nella nuova. Ma l’inflessione conservatrice ha pesato troppo rispetto a quella innovatrice. La ri­voluzione nazionalsocialista ha utilizzato troppi uomini del vecchio regime nelle nuove strutture economiche e militari: ha risparmiate in misura esagerata il personale del regime capitalista e della Reichswehr. Questo duplice errore è venuto alla luce il 30 Giugno 1934. In quel momento Hitler avrebbe potuto colpire una volta per tutte anche il deviazionismo di destra. Non avendolo fatto, o meglio, avendolo fatto solo in parte, è acca­duto che con lo scoppio della guerra sono venute alla luce le conse­guenze incorreggibili di questa politica. L’animo esacerbato e amareggiato di Drieu gli impedisce di comprendere che Hitler non poteva disfarsi di un corpo altamente specializzato come gli ufficiali della Reichswehr, ai quali la Germania dovette le sue formidabili prestazioni in guerra. (p.73)

Essa si è dimostrata incapace di trasformare una guerra di conquista in una guerra rivoluzionaria.

Dapprima ha evitato al massimo la violenza, per conquistare i consensi dell’opinione pubblica europea; ma ha finito col rag­giungere il risultato opposto e ha visto la maggior parte degli europei assumere un atteggiamento ostile perché non avevano ricevuto dal vincitore nessuna riforma positiva. Una politica te­desca che avesse voluto esser veramente innovatrice avrebbe do­vuto compiere le seguenti riforme:
Avrebbe dovuto evitare ogni atteggiamento che potesse anche lontanamente ricordare la vecchia politica delle conquiste mi­litari, delle vittorie diplomatiche, delle annessioni economiche. Non avrebbe dovuto togliere le bandiere nazionali e proibire gli inni; avrebbe dovuto evitare le sfilate e le parate militari. Avrebbe dovuto rispettare dappertutto le autonomie nazionali dal punto di vista amministrativo e politico, non avrebbe dovuto compiere annessioni, come quella della Boemia, dell’Alsazia, dei diparti­menti francesi del Nord, della Polonia. Non avrebbe dovuto re­quisire le società anonime, i macchinari industriali, i fondi delle banche, le fabbriche e le ditte private. Invece, avrebbe dovuto liberare i prigionieri, servirsi di ple­bisciti per fare direttamente la pace coi popoli, avrebbe dovuto abolire i dazi doganali e creare una unione doganale europea. (pp.74)

Queste prime realizzazioni potevano essere, come abbiamo det­to, i plebisciti e i referendum da tenersi, fin dall’Autunno del ‘40 in Francia, Belgio, Olanda, Norvegia e Danimarca.

Hitler, doveva chiedere ai popoli, scavalcando i governi: «Volete fare la pace col popolo tedesco o continuare la guerra? Volete darci la vostra fiducia? Oppure ce la rifiutate? » secondo progetto da attuarsi doveva essere un’unione dogana­le con ogni nazione occidentale e la convocazione a Strasburgo per esempio d’una nuova «società delle nazioni» europea. Non c’è dubbio che – sulla base di plebisciti indotti nel 1940 – i popoli belga, olandese e francese avrebbero votato per la pace. Ma cosa sarebbe avvenuto una volta che l’esercito tede­sco fosse rientrato dentro le sue frontiere? L’Europa occidentale non sarebbe rimasta totalmente sguarnita di fronte alla minaccia di uno sbarco anglo-americano? (pp.74-75)

Bisognava creare in ogni paese un partito nazionalsocialista e confederarli tutti in un’internazionale nazionalsocialista europea con sede a Strasburgo o a Bruxelles. I tentativi norvegesi e olandesi dei Quislings sono falliti perché non erano inquadrati in un vasto disegno europeo … La Germania nazionalsocialista ha cercato di evitare all’inizio la violenza nel territorio dei paesi occupati. Eppure solo la violen­za avrebbe potuto dare un significato alla sopraffazione milita­re e diplomatica dovuta alle sue conquiste. E solo una violenza esercitata prontamente fin dall’inizio avrebbe potuto risparmiare quelle altre violenze che poi si dovettero commettere più tardi, in forma odiosa e repressiva, come tarda e poliziesca reazione alle agitazioni fomentate dal nemico. (p.75)

Il Nazionalsocialismo ha rispettato in modo sciocco e superficia­le le sovranità nazionali, pur minandole sotto sotto coi consueti strumenti militari, diplomatici e finanziari. […]

L’hitlerismo ha sbagliato a rispettare le vecchie aristocrazie monarchiche e clericali, le vecchie caste mas­soniche che ora non gli sono certo né riconoscenti né fedeli.(p.76)

Pare che Hitler, dopo alcuni slanci, alcuni sprazzi di genialità che l’hanno momentaneamente e parzialmente opposto alla Weh­rmacht fino al 1942, si sia alla fine rassegnato, umiliato e definiti­vamente sottomesso al cattivo genio di questa Wehrmacht, istitu­zione vecchia, rinsecchita e che trascinerà nella sua catastrofe tutti residui del conservatorismo monarchico e aristocratico europeo1. Così dal fallimento d’una guerra è nato il fallimento d’una rivolu­zione economica, sociale e politica. Ogni fallimento si lega con gli altri. Non si può affermare che Hitler si sia piegato a una semplice strategia difensiva. Nonostante l’opposizione della Wehrmacht, egli passò ancora all’offensiva nel Luglio del ‘43 con la grande batta­glia corazzata di Kursk; e poi nel Dicembre del ‘44 nelle Ardenne; e ancora nel Gennaio e nel Marzo del ‘45 in Ungheria! (p.78)

ESORDIO p.79

Tuttavia, voglio parlare di una esperienza collettiva e che, malgra­do le differenti provenienze, impostazioni, sollecitazioni, i diversi temperamenti e fini, giustifica il suo nome più che sufficientemente: la collaborazione. Voglio parlare di questo fatto perché dall’Agosto del 1944 in poi nessuno ha potuto più parlarne con un minimo di sincerità, di uma­nità e di esattezza. I Francesi si sono accontentati della diffamazione superficiale e della calunnia più volgare. E, per rendere la polemica ancora più superficiale, gli accusatori hanno denunciato alla pub­blica opinione sui giornali, nei comizi e nei tribunali, salvo qualche protagonista leggendario, solo comparse senza voce, rappresentanti mediocri oppure pronti ad ammettere la loro colpevolezza. Natural­mente hanno ammesso la colpa: era tutto ciò che si chiedeva loro. Ecco perché sono venuto qui. Io non mi considero colpevole. In primo luogo non riconosco la vostra giustizia. I giudici e i giurati sono stati scelti in modo da escludere ogni garanzia di obbiettivi­tà e di giustizia. Avrei preferito la corte marziale, sarebbe stata più sincera, meno ipocrita. Inoltre né il procedimento istruttorio né il processo sono stati condotti secondo quelle norme che dovrebbero essere la base della vostra dottrina della libertà. (p.79)

Io sto per essere condannato, come molti altri, per qualcosa di mol­to contingente e transitorio, a cui nessuno domani avrà il coraggio di richiamarsi senza un moto di esitazione o di timore. Non mi considero colpevole; penso di avere agito come poteva e doveva agire un intellettuale e un uomo, un Francese e un Europeo. In questo momento non rendo conto a voi ma, secondo il mio rango, alla Francia, all’Europa, all’Uomo. (p.80)

Io avrei invece voluto mescolare i manife­stanti del 6 febbraio con quelli del 9, i fascisti con i comunisti. Ho creduto di trovare questa fusione nel partito di Doriot, nel 1936. Finalmente la destra e la sinistra si incontravano. Ma sono stato deluso dallo pseudofascismo francese come altri lo sono stati dal Fronte Popolare. Un doppio fallimento che è servito solo al vecchio regime moribondo ma ancora astuto. Ecco che cosa volevo fare con Doriot e con i camerati del Parti Po- pulaire Frangaise: volevo costruire una Francia forte che si liberasse del Parlamento e dei gruppi di pressione, che fosse abbastanza po­tente da imporre all’Inghilterra un’alleanza basata sull’eguaglianza e sulla giustizia.(pp.80-81)

 Nel momento in cui riconosciamo di essere una potenza di seconda classe, a cui è necessaria una alleanza, resta un problema da risolve­re: sapere cioè qual é l’alleanza migliore per la Francia e per l’Euro­pa. Questi furono i due fini a cui ho subordinato tutta la mia azione. Il sistema tedesco mi pareva migliore degli altri perché l’Ameri­ca, l’impero inglese e l’impero russo hanno troppi interessi fuori dell’Europa per occuparsi seriamente di essa. […] Si sarebbe presentata come un’intesa sotto l’egemonia della Germania. Ho accettato questa egemonia, come avevo accettato ai tempi di Ginevra quella anglo-francese per il bene dell’Europa. […] In base a queste idee generali ho accettato il principio della col­laborazione. […] La collaborazione fra la Francia e la Germania doveva essere solo ed esclusivamente un aspetto di una più ampia collabora­zione europea. Non si trattava solo della Francia ma di tutti gli altri paesi europei. Non era quindi un’alleanza particolare ma un elemento di un sistema più vasto. (pp.82-83)

PERORAZIONE p.84

Io ho agito consapevolmente, convinto di compiere il dovere pro­prio dell’intellettuale. L’intellettuale e l’artista non sono cittadini come gli altri. Hanno doveri maggiori degli altri.

Per questo motivo ho preso una decisione audace; ma nei pe­riodi di confusione ogni persona si trova un po’ nella situazione dell’artista. Lo Stato non riesce ad offrire una collocazione sicura o fini sufficientemente elevati. È successo nel 1940. Il maresciallo Pétain ci offriva l’unità, ma ci offriva solo quella: era un’ombra senza contenuto.

Alcuni coraggiosi la rifiutarono andando o a Londra o a Parigi. Quelli di Londra sono stati più fortunati, anche se l’ultima parola non è ancora detta. Io andai a Parigi; insieme con altri decisi di su­perare i limiti del Nazionalismo, di sfidare l’opinione pubblica, di costituire una minoranza guardata con diffidenza, con esitazione, con dubbio, per essere maledetta nel momento in cui la fortuna ci ha volto le spalle a Stalingrado e a E1 Alamein.

La funzione degli intellettuali, o almeno di un certo tipo di intel­lettuali, è di andare al di là dell’avvenimento, di tentare cammini rischiosi, di percorrere tutte le strade possibili della storia.

Niente di grave se sbagliano. Hanno compiuto una missione ne­cessaria, quella di andare dove non c’è nessuno. In avanti, indietro

o di fianco: non ha importanza. Basta che siano usciti dal gregge della massa. Il futuro è fatto con una materia diversa da quella attuale. Il futuro è fatto da ciò che ha visto la maggioranza e anche la minoranza.

Una nazione non è una voce unica, è un concerto. E necessario che vi sia una minoranza; noi siamo stati appunto quella. Abbiamo perduto, siamo stati dichiarati traditori: è più che giusto. Se foste stati sconfitti, sareste diventati voi i traditori.

E la Francia non sarebbe rimasta la Francia, ma l’Europa, l’Europa! Io sono un intellettuale la cui funzione è di rimanere sempre con la minoranza.

E poi siamo tutti delle minoranze. Non esiste una maggioranza in Francia. Quella del ‘40 si è disciolta in poco tempo, e la stessa cosa succederà alla vostra.

Minoranze:

La resistenza

I comunisti

La collaborazione

Sono fiero di essere stato un intellettuale della minoranza. Fra qual­che tempo i giovani ci leggeranno per cogliere un suono diverso da quello comune. E questo suono, oggi debole, diverrà potente.

Non ho voluto essere un intellettuale che misura prudentemente le sue parole. Avrei potuto scrivere nella clandestinità (ci ho pensato) in zona libera, all’estero.

No, bisogna assumere le proprie responsabilità, entrare in gruppi impuri, ubbidire alla legge politica che consiste nell’accettare alleati spregevoli o odiosi. Non mi sono mai sporcato le mani, solo i piedi. Non ho fatto politica in questi gruppi. Ma vi sono entrato solo per­ché voi possiate giudicarmi oggi, per darvi la possibilità di esprime­re un giudizio banale e comune. Quindi giudicatemi, come dite voi: siete voi i giudici e i giurati.

Mi sono messo nelle vostre mani sicuro di sfuggirvi, di superare questo istante contingente per ritrovare il mio posto nella storia.

Voi non mi sfuggirete, io non vi sfuggirò. Siate fedeli all’orgoglio della Resistenza come io sono fedele a quello della Collaborazione. Non barate come non baro io. Condannatemi a morte.

Nessuna mezza misura. Un tempo era facile pensare, ora è diventa­to nuovamente un’attività difficile. Non fatela ritornare facile.

Sì, sono un traditore. Sì, ho collaborato con il nemico. Ho offerto la mia intelligenza al nemico. Non è colpa mia se quel nemico non era intelligente.

Sì, non sono un patriota qualunque, un nazionalista con il para­occhi; sono un internazionalista.

Non sono solo un Francese, ma un Europeo. Anche voi lo siete, coscientemente o incoscientemente. Ma abbiamo giocato e io ho perduto.

Esigo la morte. (pp.84-85)