PIERRE DRIEU LA ROCHELLE – FUOCO FATUO seguito da ADDIO A GONZAGUE (RISTAMPA)

PIERRE DRIEU LA ROCHELLE – FUOCO FATUO seguito da ADDIO A GONZAGUE (RISTAMPA)
Collana TESTI E DOCUMENTI n.110 – II ed 2006

TRADUZIONE: Donatella Pini e Maria Pia Tosti Croce

In questa ristampa il lettore trova a fine volume una nota biografica e un’appendice iconografica (20 immagini in bianco e nero) aggiuntive…

FUOCO FATUO
TRADUZIONE di Donatella Pini p.9
Alain, trentenne depresso e drogato, passa la notte in compagnia della ricca americana Lydia, lontano dalla casa di cura presso la quale è ricoverato per via della tossicodipendenza. Il ragazzo non ha mai voluto lavorare, vivendo alle spalle di amici e donne. È ancora invaghito di Dorothy, la moglie lasciata, ma ora progetta il possibile matrimonio con la più ricca Lydia che, prima di ripartire per New York, gli lascia diecimila franchi. Lo invita ad andare con lei negli USA per sposarsi, ma Alain preferisce tornare alla casa di salute del dottor Barbinais…
Si stupiva ancora che una donna volesse sposarlo. Per anni era stato il suo sogno mettere le mani su una donna; avrebbe voluto dire denaro, sicurezza, la fine di tutte le difficoltà di fronte a cui rabbrividiva. Aveva avuto Dorothy, ma non era abbastanza ricca, e non era riuscito a trattenerla. Ce l’avrebbe fatta a trattenere questa? Ma era sua, almeno? (p.13)

Il tassì lo trasportò, sonnolento e intirizzito, alla casa di salute del dottor de la Barbinais. (p.18)
Di veri pazzi da Barbinais non ce ne sono e, dopo aver consumato una frugale colazione, Alain torna nella propria camera, maniacalmente ordinata e piena di oggetti cui, con la depressione, ha assegnato valori simbolici. Consapevole della decadenza della società, conscio del non poter fare a meno di soldi per poter evadere dalla realtà con la droga, decide di riposarsi prima di uscire la notte per andare a drogarsi per l’ultima fatale volta con i soldi ricevuti da Lydia…
Quel giorno Alain gettava su quanto lo circondava uno sguardo più supplichevole del solito: la partenza di Lydia lo turbava. Quella partenza veniva a raddoppiare e ad approfondire un’assenza, quella di Dorothy. Si sentiva sempre più accerchiato dalle circostanze che aveva lasciato disporsi attorno a lui. (p.26)
Alle quattro del pomeriggio il dottore lo sveglia per colloquiare e sincerarsi delle sue condizioni. Ritorna con la memoria alla noia che lo ha spinto a iniziare a drogarsi, all’incontro con Dorothy, finendo per far allontare il dottore che teme di perderlo come ricoverato, pronto a vestirsi per uscire…
Stava lì, col tabacco che gli ardeva tra le labbra, senza alcuna risorsa, né dentro né fuori di lui.
Allora si produsse la solita reazione. All’improvviso, alle pareti spoglie che racchiudevano la sua anima, dei rari feticci che le adornavano non vide più che quello che li riassumeva tutti: il denaro. Tirò fuori dal portafoglio l’assegno di Lydia, si sedette al tavolo e lo spiegò davanti a sé. S’immerse nella contemplazione di questo rettangolo di carta, carico di potere.
Alain, da quando, adolescente, aveva provato dei desideri, non pensava che al denaro. Ne era separato da un abisso quasi incolmabile scavato dalla sua pigrizia, dalla sua volontà segreta e ormai quasi immutabile di non cercare mai di procurarselo col lavoro. Ma questa fatale distanza era proprio ciò che affascinava il suo sguardo. Di denaro ne aveva sempre e non ne aveva mai. Sempre un po’, mai molto. Era una presenza fluida e furtiva che gli scivolava incessantemente tra le dita, ma che non assumeva mai consistenza. Da dove veniva? Tutti gliene avevano dato, amici, donne. (p.27)
E sapeva che la molla principale del suo credito, la sua giovinezza, era alla fine.
Infine, Lydia gli avrebbe dato ancora diecimila, ventimila, trentamila franchi?
Perché glieli desse, doveva partire per New York. Per partire non doveva ricominciare a drogarsi.
Ma quella stessa sera avrebbe ricominciato con la droga, perché aveva diecimila franchi.
Il denaro, che compendiava per lui l’universo, veniva a sua volta compendiato dalla droga. Il denaro, al di fuori dell’aspetto, sempre curato ma senza stravaganze, della stanza d’albergo, era la notte.
Ecco cosa significava l’assegno di Lydia posato sul tavolo. […]
A meno che non sia l’ultima dose con cui si liquida tutto e si va via. Ebbene, era tempo, i diecimila franchi, qualche notte ancora, le ultime. Verso le sei, quella sera stessa, sarebbe tornato a Parigi per tuffarsi nella notte definitiva. (p.28)
Vestitosi elegantemente e lentamente, Alain prende l’astuccio portasiringa e la pistola. Ha deciso di suicidarsi, spintovi da una misteriosa forza…
La prima volta che aveva preso la droga, lo aveva fatto senza alcuna ragione: una prostituta con cui andava a letto prendeva la cocaina; e l’anno dopo, un amico fumava l’oppio. C’era ricaduto sempre più spesso. Aveva le notti da riempire: era sempre solo, senza un’amante fissa. E anche l’alcool, che ben presto non gli era bastato più, lo aveva condotto alla droga. E frequentava sempre gli stessi gruppi di sfaccendati, che cominciano a drogarsi perché non fanno nulla e continuano perché hanno la possibilità di non far nulla.
Aveva scoperto l’eroina, che l’aveva stupito e sedotto. Aveva creduto veramente, per qualche tempo, al paradiso in terra. Ora questa illusione effimera lo faceva sorridere tristemente. (p.32)
Infine, soffriva fisicamente. Questa sofferenza era grande; ma se anche fosse stata minore, sarebbe comunque apparsa terribile a un essere le cui viltà davanti alla rudezza della vita cospiravano già da tempo per mantenerlo in questa specie di sicuro paradiso artificiale. Non c’era in lui alcuna risorsa che potesse difenderlo dal dolore. (p.33)
Non aveva più quella vivacità di spirito che, molto prima di cominciare con la droga, gli era nata insieme con le prime amarezze; e meno che mai quel fiorire di promettenti fantasticherie che, a sedici anni, gli aveva procurato una breve stagione di giovinezza.
Infine, durante un’estate in cui non aveva potuto far bagni, né rimanere a lungo all’aria aperta, aveva visto in piena luce le vere caratteristiche della vita dei drogati: una vita regolata, casalinga, pantofolaia. Una meschina esistenza da individui con una piccola rendita che, chiusi in casa, fuggono avventure e rischi. […]
Andò a prendere la pistola nella valigia, e l’appoggiò accanto alla siringa. L’una non poteva più fare a meno dell’altra.
Non era questo però che aveva desiderato durante la sua prima giovinezza.
A quel tempo, parlava di suicidarsi. Ma il delitto così vagheggiato era un atto volontario, libero; ora, una forza estranea e idiota aveva riacceso questo proposito violento e privo di qualsiasi pretesto, che forse era stato una esplosione di vitalità, e lo spingeva a viva forza per il monotono vicolo della malattia verso una morte tardiva. (p.40)
Guardandosi allo specchio vi vede riflessa unicamente un’immagine di morte… Dorothy e Lydia saranno di certo immerse in altri pensieri, mentre amici e genitori sono ormai assenti nella sua vita. Dorothy, di lei sì che si era innamorato, ma troppo tardi per cambiare vita e riuscire a trattenerla… Decide allora di telegrafarle seguendo il consiglio del dottore e, scrivendo, gli torna la voglia di vivere. Riesce perfino a scrivere tre pagine e, giunto alle sette, a non uscire per andare a drogarsi. L’amico Dubourg gli telefona infine per invitarlo a colazione l’indomani…
E nello specchio, si guardò alle spalle. Questa camera vuota, questa solitudine… Provò un brivido immenso che lo afferrò alle reni e al midollo, correndogli lungo la schiena dalla testa ai piedi come un fulmine di ghiaccio: la morte gli fu davanti in tutta la sua evidenza. Era la solitudine, se n’era servito come di un coltello per minacciare la vita, ed ora questo coltello si rivoltava e gli perforava le viscere. Più nessuno, più nessuna speranza. Un isolamento irrimediabile. (p.41)
Doveva dunque crepare solo, al culmine dei gelidi parossismi della droga. (p.42)
Doveva telegrafare. Ora che gli si presentava netta alla mente, non voleva più morire; non voleva distruggersi fibra a fibra. (p.45)
Alle undici e mezza dell’indomani eccolo trovare un passaggio per Parigi da due facchini. Alzatosi al mattino, svanita era in lui la voglia di vivere della sera precedente… Giunto in città e cambiato l’assegno, eccolo raggiungere in taxi la casa dell’amico, ex tossico e ora egittologo sposato e padre di due figlie…
Dopo il pranzo Dubourg affronta Alain, scorgendogli in volto la paura e cercando di tirargli su il morale al fine di scongiurare in lui probabili fenomeni suicidi… Ma il tentativo sembra vano…
Durante il pranzo, mentre chiacchierava, Dubourg aveva intuito l’intimo sentimento di Alain: la paura. Era dunque tanto in pericolo?
« Come va? ».
« Momenti atroci ».
« Ce la farai? ».
« E poi? Che cosa ci si sta a fare nella vita? ». (p.54)
I drogati sono i mistici di un’epoca materialistica che, non avendo più la forza di animare le cose e di sublimarle in simbolo, operano su di esse un procedimento inverso di riduzione e le consumano e le logorano fino a raggiungere in esse il nucleo del nulla. Essi sacrificano al simbolismo dell’ombra per controbattere il feticismo del sole, che detestano perché ferisce occhi già stanchi. (p.62)
Tristemente i due camminano lungo la Senna, l’un l’altro consapevoli di star insieme per l’ultima volta. Dal laido fotografo e mercante d’arte Falet si separano…
Pochi minuti dopo Alain e Dubourg camminavano a fianco a fianco tra la Senna e le Tuileries. Erano tristi e amareggiati.
Dubourg capiva che l’occasione per salvare Alain gli era sfuggita. […]
Attraverso il crollo di Alain, scorgeva la propria sconfitta.
Quanto ad Alain, sapeva di vedere Dubourg per l’ultima volta. Anche l’atteggiamento di Dubourg, tra gli altri motivi, gli dava ogni ragione per morire[…] (p.67)
Alain saluta Falet che è felice di rivederlo conscio della sua ricaduta nella tossicodipendenza. Arriva la bella e ricca Eva con la quale si spostano a casa dell’artista per drogarsi. Iniettatasi eroina, mentre Falet ed Eva fumano oppio, Alain è colto dal bisogno di muoversi, di fuggire e così se ne va con la scusa di dover telefonare, prima del suo tour finale…
Falet l’aveva visto entrare con un acuto presentimento, e non ebbe più alcun dubbio quando vide che restava; la commedia della disintossicazione era finita. Già un’altra volta Alain era scomparso, poi era tornato. Tornava per davvero.[…]
« Andiamo a casa mia, con Eva. Vuoi venire anche tu? » domandò tranquillamente Falet. (p.71)
Durante il breve tragitto, mentre gli altri due chiacchieravano a vanvera, Alain non pensava a nulla, o piuttosto pensava a tutto, ma vedeva tutti i suoi pensieri travolti da un vortice inestinguibile; ascoltava in se stesso la crescente rapidità della sua caduta, della sua fine. (p.72)
Non c’era che la droga, era inutile cercare di uscirne, il mondo era la droga.
Alain aprì l’armadio e prese una fiala, poi estrasse dalla tasca la siringa che si era portato dalla clinica del dottor de la Barbinais. Riempì la siringa d’eroina, si tirò su la manica e iniettò il liquido.
Restò per un attimo voltato di spalle, guardando il muro. Era fatta, non era stato difficile. Gli atti sono rapidi; la vita finisce presto; si arriva subito alla resa dei conti e all’irreparabile.
Già il suo passato recente gli sembrava incredibile. Aveva veramente sognato di disintossicarsi? Si era veramente rinchiuso in quelle mostruose case di salute? Aveva scritto un telegramma a Dorothy? Aveva stretto Lydia fra le braccia?
Si girò, ora poteva guardare Èva Canning: la bellezza, la vita, sono di gesso. Tutto era semplice, chiaro, tutto era finito. O piuttosto non c’era stato inizio, non ci sarebbe stata fine. Non c’era che questo momento, eterno. Non c’era nient’altro, assolutamente nient’altro. Ed era il nulla, folgorante. […]
Le onde si moltiplicavano e si frangevano l’una sull’altra: Alain non ritrovava la droga, perché non l’aveva mai lasciata. Era soltanto questo, ma era questo. Non c’era nulla di interessante, ma così era la vita. La droga non era che la vita, ma era la vita. L’intensità che si autodistrugge mostra che c’è soltanto l’identità del tutto nel tutto. Non c’è intelligenza perché non c’è assolutamente niente da capire, c’è soltanto la certezza.
“Suicidarsi? Non ce n’è bisogno, la vita e la morte coincidono. Dal punto di vista dell’eterno in cui io sono ora, in cui sono sempre stato, in cui sarò sempre. (p.73)
Aveva già voglia di andarsene, di andare altrove. Cominciava la notte. La notte, il movimento perpetuo. Bisognava spostarsi continuamente, andare da un luogo all’altro, non fermarsi da nessuna parte. Fuggire, fuggire. L’ebbrezza è il movimento. E tuttavia si resta immobili. (p.74)
Sentiva salirgli dentro una gran fretta. Quando la vitalità diminuisce, ciò che rimane si manifesta come febbre di consumarsi. (p.77)
Sceso in un bar degli Champs-Elysées, quello in cui ha iniziato a drogarsi anni prima, Alain telefona a Praline per prendere un appuntamento, ripartendo quindi in taxi e iniziando a sperperare quei suoi ultimi diecimila franchi di vita, sempre più alienato dal vacuo mondo che lo circonda…
Fuori c’erano gli Champs-Elysées, le pozze di luce, innumerevoli vetrine. E automobili, donne, ricchezze. Egli non aveva niente, aveva tutto. Il whisky e la droga si inseguivano e si accavallavano in onde ardenti e fredde, ma regolari. L’abitudine. In fondo, un ritmo tranquillo.
Tappe astratte: aveva ripreso un tassì e non guardava nulla, né a destra né a sinistra. Dalla città che si alzava e si abbassava a destra e a sinistra non gli giungevano che deboli invocazioni fuggevoli, qualche ricordo personale. Alain non aveva mai guardato il cielo, né la facciata delle case, né il selciato delle strade, le cose palpitanti; e non aveva neppure guardato un fiume o una foresta; viveva nelle stanze vuote della morale: “Il mondo è imperfetto, il mondo è cattivo. Io disapprovo; io condanno, io anniento il mondo”.
La sua famiglia credeva che avesse idee sovversive. Ma non aveva idee, ne era atrocemente privo: la sua mente era una povera carcassa spolpata dagli avvoltoi che piombano sulle grandi città vuote. Scese dal tassì. Pagò principescamente l’autista. Un biglietto, piccola fiamma tra le altre in quella consunzione totale. Doveva bruciare quei diecimila franchi in poche ore. (p.78)
Giunto a casa della oppiomane Praline, che tenta in tuti i modi di offrirgli della droga, Alain dà vita ad un’accesa discussione sulla droga e la disintossicazione con Urcel, mentre in stanza è presente anche Totote… Dopo un po’ eccolo lasciare anche la casa di Praline…
Alain raggiunge la casa di Cyrille Lavaux, sposato con l’incantevole Solange, che lo accoglie calorosamente facendolo restare per cena. Sempre più ubriaco, Alain si sente umiliato finendo per lasciare la casa dell’amico in fretta per poter porre fine alla propria vita…
Perché Alain si ostinava a vivere? Non ne aveva viste abbastanza? E se voleva uccidersi, quale ora migliore delle sette o delle otto di sera, quando tutti i desideri, liberati dal lavoro, si lanciano a tutta velocità per le strade e suscitano un turbine forsennato? Ma no, la vita è soltanto abitudine, e l’abitudine trattiene finché trattiene la vita. Come tutti i giorni della sua vita, Alain continuava il suo solito giro dalle cinque del pomeriggio alle due di notte. Ora doveva andare dai Lavaux. (p.93)
“Piaccio a tutti e a nessuno. Sono solo, molto solo. Dopo cena, me ne andrò.” (p.97)
Bevve. Anne e Maria si volgevano gentilmente verso di lui, ma all’improvviso era ubriaco. Ubriaco di vergogna.” (p.98)
« Non ho saputo prendermi cura di me stesso ma qualcuno, almeno una volta, avrebbe potuto occuparsi di me ».
Ecco, era questo che non aveva mai osato gridare agli uomini. Una supplica, era sempre meglio di niente. Una vera supplica può avere una grande forza.
« Andarsene senza aver toccato nulla. Non dico la bellezza, la bontà… con tutte le loro parole… ma qualcosa d’umano… insomma lei… lei conosce i miracoli… Tocchi il lebbroso ». (p.103)
Alle undici di notte si droga ancora in un bar di Montmartre, poi ne raggiunge un altro ancora dove trova e si accompagna al giovane Milou con il quale si sfoga esternando propositi suicidi… Dopo aver vagabondato per un po’ per le vie sempre più deserte di Parigi, su una panchina i due si salutano…
Si sarebbe ucciso l’indomnai, ma prima bisognava finire quella notte. (p.105)
Contro il mondo degli uomini e delle donne non c’è niente da dire, è un mondo di bruti. E se mi uccido, è perché come bruto sono un fallito. […]
Ma Alain, lì dov’era, non si rifugiava nella meditazione, e neppure sognava. Agiva, si bucava, si uccideva. La distruzione è l’altra faccia della fede nella vita; se un uomo che abbia superato i diciott’anni arriva ad uccidersi, significa che è dotato di un certo senso dell’azione.
suicidio è la risorsa degli uomini la cui capacità di reagire è stata corrosa dalla ruggine, la ruggine del quotidiano. Sono nati per l’azione, ma hanno ritardato l’azione; allora, l’azione si ritorce su di loro come un boomerang. Il suicidio è un atto, l’atto di coloro che non hanno saputo compierne altri.
È un atto di fede, come ogni atto. Fede nel prossimo, nell’esistenza del prossimo, nella realtà dei rapporti tra
il proprio io e quello degli altri.
“Io mi uccido perché voi non mi avete amato, perché io non vi ho amato. Mi uccido perché i rapporti tra noi erano allentati, per rinsaldarli. Lascerò su di voi una macchia indelebile. So bene che si vive più da morti che da vivi nel ricordo degli amici. Voi non pensate a me, ebbene, non potrete dimenticarmi mai più!”.
Alzò il braccio e lo punse. (p.106)
« Hai ragione, Milou, non ho mai amato gli altri, non sono riuscito ad amarli se non di lontano; è per questo, per poter prendere lo slancio necessario, che li ho sempre lasciati, o li ho spinti ad abbandonarmi ».
« Ma no, ti ho visto con le donne, e con ì tuoi amici più cari: sei pieno di piccole premure, sei assiduo ».
« Cerco di adeguarmi, ma non attacca… sì, vedi, non bisogna montarsi la testa, mi dispiace enormemente di essere solo, di non avere nessuno. Ma ho solo quello che mi merito. Non posso toccare, non posso prendere, e, in fondo, è più forte di me ». (p.109)
Ma egli aveva gli occhi fissi sul piccolo mondo che aveva lasciato ormai per sempre. Il suo pensiero vagava da Dubourg a Urcel, da Praline a Solange, e oltre, fino a Dorothy, a Lydia. Per lui, il mondo era solo una manciata di individui. Non aveva mai pensato che potesse esserci dell’altro. Non si sentiva legato a qualcosa di più vasto, l’universo. Ignorava le piante e le stelle: conosceva soltanto dei volti, e moriva, lontano da quei volti. (p.111)
Trascorsa la notte in albergo, alle undici si sveglia. Ha ancora dei soldi, ma non ha voglia di spenderli né di tentare un’overdose. Decide di leggere, poi la telefonata di Solange, da cui trae la convinzione di non poter essere amato da donna alcuna, lo spinge a suicidarsi sparandosi al petto con la pistola…
Dovrà proprio uccidersi. Ma sulla tavola ci sono ancora tutte quelle banconote da spendere. Ieri, tutto sommato, ha speso poco. Ne avrebbe ancora per diversi giorni, ma che fare? Dove andare? Chi vedere? Ebbene, c’è la droga. Ma è superata, è lenta, è insufficiente. Prenderne una dose enorme. (p.113)
La vita non andava abbastanza in fretta per me, io l’accelero. La corda si allentava, io la tendo. Sono un uomo. Sono padrone della mia pelle, lo dimostro”.
Ben puntellato, la nuca contro una pila di cuscini, i piedi contro la spalliera del letto, la schiena inarcata. Il petto in fuori, nudo, ben esposto. Il cuore, si sa dov’è.
Una pistola, è solida, è d’acciaio. È una cosa. Scontrarsi, finalmente, con le cose. (p.115)
ADDIO A GONZAGUE p.117
Uno scrittore ricorda l’amico suicida Gonzague, rivolgendoglisi con una lettera d’addio…
Sono molto felice che ti sia ucciso. È la prova che eri rimasto un uomo e che sapevi bene che morire è l’arma più potente che un uomo abbia.
Sei morto per niente, ma dopotutto la tua morte dimostra che gli uomini non possono fare nient’altro al mondo che morire, che se c’è qualcosa che giustifica il loro orgoglio e il sentimento che hanno della loro dignità – e tu l’avevi questo sentimento, tu che sei stato continuamente umiliato, offeso – è che sono sempre pronti a gettare la loro vita, a giocarla in un colpo per un’idea, un sentimento. C’è solo una cosa nella vita, la passione, e la passione si può esprimere soltanto con l’omicidio – degli altri e di se stessi. (pp.119-120)
Quelli che restano, quelli che non si uccidono, sono coloro che hanno talento, che credono nel loro talento. […]
L’amicizia. Inganno che da solo vale tutti gli altri. Tu non hai avuto l’occasione di mostrare tutta l’amicizia di cui eri capace. È un’occasione che non si ha mai nei nostri paesi e nel nostro tempo. Ma se l’occasione si fosse presentata? C’è da supporre che saresti morto per qualcuno o per qualcosa che disprezzavi, tu che disprezzavi tutto, che non hai mai voluto aiutare la vita. (p.124)

NOTA BIOGRAFICA
Di Massimo Cescon p. 127

APPENDICE ICONOGRAFICA p. 133

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