Da una nausea all’altra, di Maxime Rovere

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Da una nausea all’altraDi Maxime Rovere

Traduzione di

Stefano Fiorucci e Jeannine Renaux

Dei rapporti tra Sartre e Céline, la posterità letteraria potrebbe considerarne un solo aspetto : quello di un odio feroce dichiaratosi dal 1945, che portò Céline a dare alla letteratura uno dei suoi testi più divertenti, « (À l’agité du bocal) ». Ma ci sono molti altri modi di confrontare gli scrittori. Se i loro attacchi reciproci sono stati così sanguinosi, è forse, fra l’altro, perché condividono un certo modo di detestare, legato a una esperienza che vissero e di cui testimoniarono ciascuno a suo modo: la nausea.

E a Jean-Pierre Richard che spetta il merito d’aver saputo, nel 1980, scoprire e descrivere superbamente, in un libro che porta questo nome, la « nausea di Céline ». La nausea, per Céline, non ha niente a che vedere con il silenzio ostinato, e ancor meno con l’assurdità fisica delle cose palpabili sviscerate dal filosofo. Mentre Sartre dava al suo « disgusto d’esistere » una dimensione metafisica, Céline ha immediatamente posto nel piano sensoriale degli eventi. È così che si riflette nel Voyage un’impressione indelebile lasciata dalla carneficina della guerra, che sta in un’atroce rivelazione : la carne, viva, umana, è solo carne [da macello]. Ci si riduce in un batter d’occhio e niente la può fermare. Questa deliquescenza primordiale, che si può vedere grondare da un romanzo all’altro, trascina con sé tutto l’universo celiniano. In definitiva, non si tratta solamente d’una realtà umana. È il mondo intero che si rivela mancare di riguardo. Dalla sconfitta allo sfogo, dallo sbracato al diarroico, Céline attribuisce alla frase celebre d’Eraclito (« ta panta rei », tutto scorre) una variante ora atroce, ora comica, che si perde come i fiumi nell’oceano dell’irrisorio.

E tuttavia, come per Sartre, la nausea è per Céline l’esperienza d’una verità – quella d’una materia che sfugge alle categorie. Sartre, filosofo, può ancora rassicurarsi d’un concetto: lo chiamerà il niente, ciò sarà sufficiente per farne qualcosa. Su queste basi, la Nausea, dotata d’una maesta di cui testimonia la maiuscola, avrà il ruolo d’una parure, mascherando la nudità angosciata del narratore. Céline, lui, non si preoccupa molto di riafferrare la materia per metterla in forma. Al contrario, i suoi testi non cesseranno mai di costruirsi in piena deliquescenza, in una logorrea che costituisce di per sé un’innovazione formale. Così, per farsi testimone fedele della propria nausea, Céline non dispone di nessuna soluzione, se non d’accettare a sua volta di putrefare, trasudare, sputare. In questo senso, la sua scrittura è una maniera di tradire l’apparente fissità delle forme, per accettare di avviare lo scambio – ad ogni modo irrimediabile – tra il « dentro » del sentire e il fuori del testo, del lettore, dell’Altro.

Disgustose osmosi

Non si può dire che Céline volga dedichi i suoi romanzi al fatalismo. Due risposte possibili al marasma generale emergente, che permettono di comprendere quello che proietta lo scrittore simultaneamente alla retroguardia dei conservatori e all’avanguardia degli anarchici della parola.

Perché, insomma, preso in un universo che è solo un ampio stramazzo, che possiamo fare? La prima risposta è politica: ogni società s’intende come uno sforzo di arginamento. Ma, agli occhi di Céline, questo sforzo prende un aspetto allo stesso tempo necessario e ostile, a volte vincolante fino all’assurdo. In questa prima prospettiva, il più ragionevole sembra ancora, per lui, d’essere « definitivamente vile ». Almeno è la morale che il Voyage traccia, per provvista, sperando che, in mancanza di meglio, possa almeno portare la calma all’autore.

Ma questa scelta, o non scelta, si rivelò un errore. Nell’atmosfera degli anni ’40, il malessere di Céline dimora e si aggrava. Si riversa allora nei pamphlets, dove, come mostra Jean-Pierre Richard, « alla scandalosa diarrea dell’essere il linguaggio risponde con il suo motteggio, la propria logorrea ». Curiosamente, è in questo momento critico che Céline percepisce una seconda risposta alla nausea. E questa risposta è letteraria. La sola soluzione a questo scorrere è di orchestrarlo in un ritmo : Céline a fiorb di pelle scopre all’improvviso l’incanto di una « piccola musica » (l’espressione compare in… Les Beaux Draps).

La lettura di Jean-Pierre Richard dà così al motivo musicale, divenuto luogo comune degli studi celiniani, un rilievo nuovo. Noi associamo volentieri la musica a una sonorità leggera, pura, soffio d’aria appena materiale. In Céline, è l’inverso: bisogna percepire in questo ritmo la cadenza agitata della deliquescenza del mondo. Per descriverla, Jean-Pierre Richard ha saputo inventare, a sua volta, ammirevoli formule – alla rinfusa, « la complicità degli involucri », « la poesia miserabile del margine », « le disgustose osmosi della liquidità », « l’onda accettata dell’esistenza », « la totalità dell’anarchia terrestre » – che riattivano questa sorgente fangosa della quale la scrittura di Céline ha trasformato in oro.