MANLIO SGALAMBRO – TEORIA DELLA CANZONE


MANLIO SGALAMBRO – TEORIA DELLA CANZONE
Con una nuova introduzione dell’autore
BOMPIANI – Collana PASSAGGIBOMPIANI – IV ed Novembre 2012

QUINDICI ANNI DOPO p.5

La canzone accompagna il tedio del vivere in un mondo sinistro, e per un momento lo fa fuori. (p.5)
Nella canzone sem­bra che si sia concentrata tutta la poesia possi­bile nel nostro tempo, come se essa vi esalasse l’ultimo – o almeno il penultimo respiro.
Manlio Sgalambro (p.6)

Le distinzioni tra musica leggera e no so­no cicatrici inferte dalla vita alla musica stessa. Quella che si chiama leggera porta nel nome il suo destino, come l’homme qui rit nella sua faccia. La ‘filosofia della musi­ca’ auspica una riflessione sulla musica leg­gera nello stesso momento che le nega un’essenza, senza di cui però non si ha ri­flessione. Si vuole che si rifletta su di essa per dire poi che su di essa non si può riflet­tere. (p.8)

La musica leggera sarebbe costruita con gli avanzi della musica. Un punto di vista sulla gnoseologia della musica leggera, vie­ne reso invece al livello di insulto. Come se il critico si dovesse solo lavare la bocca. La musica leggera, in particolare la canzone, temerebbe la teoria. Ciò che essa dispensa, è la fondata impressione di ignominia e vol­garità come confacentesi. Qui non si vuole scaricarla di questi attributi ma capire per­ché essa vuole essere proprio così. (p.9)
Dell’esistenza musicale, la canzone è il momento culminante. (p.11)

1
Teoria della canzone significa non che la canzone venga elevata a dignità dalla teoria, 1 ma che la canzone eleva a dignità la teoria che se ne fa carico. Il cambiamento di fun­zione della musica trova la sua determina­tezza, che un tempo individuò nella musica dodecafonica, nella musica rock. (p.11)

4
[…]
Musica di tutti i giorni? Così si potrebbe chiamare meglio la musica leggera. (p.13)

6
[…]
La canzone è dunque la più breve opera dello spirito eppure ne possiede tutta la so­lennità. In effetti, bisogna rimisurare la mi­sura del tempo. Anni o secoli sono una mi­sura non felice di altre età. Se riuscissimo a vivere di minuti, la nostra vita dilagherebbe, non se ne scorgerebbero così presto i limiti che ancora ci sgomentano tanto. Tenendoci per mano la canzone ci fa da guida, maestra dell’attimo, ispiratrice del fugace. Le tene­bre più fìtte si diradano, dove qualcuno canta.(p.16)

8
Ripensamento. La musica vocale è subuma­na. Essa riporta l’uomo alle sue origini ani­mali. Ma mentre fa ciò, mette pace tra essi. In realtà, si potrebbe dire pure: cantare è da sottuomini. Il superuomo non canta. (p.17)

13
Musica per nervi. La musica come fatto di nervi riflette questo mondo come un per­fetto doppio. Musica per nervi, questa è la musica che amiamo. La grandezza della musica ‘leggera’ è proprio qui. Il dibattito – tutto sommato parecchio stupido – se la musica dovesse colpire l’emozione o l’intel­letto viene troncato dal fatto che essa ha in­vece a che fare con i nervi scoperti dell’in­dividuo metropolitano che percorre la città come una tigre in gabbia. Le cose o le emo- ( zioni, vi producono suoni battendo su di es­si come sui nervi di budello delle chitarre quando vi battono il plettro o le dita nodo­se. Io voglio godere, dice il suo cliente. E ha tutto il nostro rispetto. La musica per canzoni è musica di piacere. Essa sfibra il suo amante a cui resta quell’energia, non
più di quella, per cui egli non ammazzerà il suo prossimo e per di più andrà buono buono a lavorare. Cosa si vuole di più? In un trattato di etica del nostro tempo la can­zone dovrebbe entrare di prepotenza come una fattispecie della più severa morale. (pp.19-20)

15
Praxis. La sfida non sorge dal confronto sdegnato tra arie, rondò, Lieder e canzo- nacce… Ma tra ciò che si pretende eterno e ciò che si sfascia la stessa sera. Mentre ab­branca i corpi e li spiaccica addosso l’uno all’altro fa una ‘società’ sopportabile da bruti urlanti. La canzone è praxis.(p.21)

18
[…]
Da che si sono inaridite le fonti dell’agire e ogni azione si muta nel più feroce inganno, nell’etica all’azione si sostituisce la parola. La voce umana alle gambe. (p.23)

19
[…]
Il cantante deve convincere delle sue tesi. Contrariamente al filosofo, però, lui può farlo senza argomenti. (p.24)

23
[…]
La musica è la risposta della nostra epoca al pessimismo più cu­po. (p.26)

24
[…]
L’uguaglianza musicale attua la giustizia per tutti: fa con­vivere musica per pochi e musica per molti, sinfonie e canzonette. Già la democrazia musicale elevò la musica da tavola a musica sans phrase. «Lieve rumore» dice Kant della musica da tavola «che deve mantenere un’atmosfera di generale allegria… senza che nessuno porti la minima attenzione alla sua composizione» (Critica del giudizio). Ma la responsabilità non è della musica. In realtà tutto si sposta sull’ascolto. È nel­l’ascolto che avviene la redenzione promes­sa dalla musica in un momento di follia. (p.27)

28
[…]
L’individualità è un peso, di­ce la musica, ascoltami, figliolo, liberatene. Sii noi stessi non te stesso. Vieni, il ‘noi’ ti aspetta a braccia aperte: «Music is your only friend» (When thè Music’s over). (p.30)

30
Testi di canzone. Nei testi di canzone sembra si sia concentrata tutta la poesia possibile nel nostro tempo, come se essa vi esalasse l’ultimo o il penultimo respiro. (p.31)
[…]
La canzone è la forma musicale dominante dell’epoca contemporanea. (p.32)

34
Piccolo e grande nulla. Le discoteche sono dei piccoli Nirvana dove il solenne fragore del rock fa assaporare il piccolo nulla al fi­glio di Siddharta. Non essere per un poco,
è tutto quello che si chiede. Dei piccoli ‘niente’ di cui la vita dell’individuo odierno ha bisogno per rinascere, e vivere un’altra settimana. Il grande Nulla, maestoso e be­nevolo, concede questi minuscoli strappi al­la sua integrità. Del resto, chi l’ha visto? Il piccolo nulla invece lo trovi sempre a por­tata di mano. (pp.34-35)

48
Il ‘comizio’ musicale (lo chiamano ‘concer­to’) raduna tutti coloro che in tempi peg­giori affollano i discorsi del leader politico.
Un tempo il claqueur oggi il fan costituisco­no il nerbo portante di questi luoghi. (p.43)

51
Dal Titanic. Cantare mentre si affonda.

52
Disco. Il disco è l’odierna musica dal vivo, mentre la musica dal vivo ripete, già morta,quella del disco da cui è nata. Chi vuole ascoltare musica dal vivo, ascolti dunque un disco.

53
Lo spirito della musica si incarna oggi nella canzone. La filosofia della musica che per­siste a spulciare opere, quartetti e sinfonie, si trova a malpartito o si rifugia nell’utopia. La musica della filosofia della musica è mu­sica utopica da Bloch a Adorno e dintorni. Musica che non c’è.

54
La musica perde i suoi pesi e si alleggerisce. Essa diventa leggera per disperazione. Si dimentica in tutto ciò un’analisi che ne enunci la specificità. La sociologia, e solo quella, sarebbe secondo i corifei della mu­sica ‘colta’ l’unica competente a parlarne. (pp.44-45)

57
Non è necessario essere poveri per soffrire, anche se i poveri soffrono divinamente me­glio. (Vedi le canzoni). (p.47)

59
Maniac depression. Il Lied romantico è pap­pa di fronte alla canzone. Questa è un graf­fio metafisico, una zampata che ti squarcia
il petto e tu continui a divertirti, ti agiti ma sai che sei nella melma. Lì si parla d’amore, di morte, si vagheggiano campagne, arance, limoni o, come Goethe dice seriamente, pa­tate. Malinconie, sospiri… Il Lied di Schu- mann è invece già canzone, nihilismo com­piuto. La canzone, prima di tutto, è consa­pevolezza al quadrato. Essa non tratta il do­lore in quanto sofferto, ma il dolore senza sofferenza. H dolore immarcescibile, leviga­to, freddo, puro marmo. Senza le truffe dell’amore e della morte. (p.48)

61
Cosmologia e musica. Rispetto all’uomo oc­cidentale il sistema solare è ormai in agonia. Non perché si sono superati i cinque o die­ci miliardi di anni che separano dalla morte del sole, ma perché il sistema del sapere l’ha inquadrato nella propria esperienza. Essa è ormai esperienza possibile.(p.49)
In altre i parole non c’è niente da fare. L’uomo ocu­lare, il fellah delle scienze, la schiuma della cosiddetta cultura occidentale, ha ‘creduto’,
nella sua storia, a Dio, pur essendone sepa­rato da quella che, sempre in termini di tempo, s’è chiamata eternità. E l’ha creduto nel ‘presente’. Ma lo stesso uomo ride se gli prospettano l’agire della possibilità della fi­ne del sistema solare sul presente. Egli non scorge nella contemporaneità una categoria reale. Si tratta in effetti di questo: tu sei in­chiodato dalla contemporaneità e i miliardi di anni sono foglie secche. Davanti alla con­temporaneità, scorrono come secondi. Ep­pure l’uomo odierno, l’uomo dico, colui che adegua l’idea, essendo uomo non un con­cetto biologico e non abbracciando in toto la specie che così si presenta, l’uomo odier­no, dicevo, non può intendersi che in rap­porto a questo ‘lontanissimo’ futuro che pur tuttavia è qui. Egli è chiamato a com­piere il movimento della contemporaneità senza di che si lega ai ritmi della natura co­me un contadino egiziano e non ai fatti ‘co­smici’. Non essendo più Vobjectum di fondo né la natura né la storia ma il ‘cosmo’, il ri­ferimento alle grandi dimensioni temporali richiederà un adattamento simile a quello che fu già necessario per aver a che fare con piccolissime dimensioni di tempo quali i ‘secoli’ che lo separavano da Alessandro o da Cesare. Senza un lavoro di ‘addomesti­camento’ i ‘secoli’ avrebbero sconvolto chi vi si rapportava come oggi lo sconvolgono le distanze temporali cosmiche. Poiché vi­viamo in un universo dominato dal secondo principio della termodinamica, noi dobbia­mo entrare in rapporto con dimensioni temporali di nove zeri. Siamo costretti ad annettere alla nostra esperienza la morte termica. Ma dal momento che essa entra nella dimensione dell’esperienza possibile, noi siamo legati da un vivissimo sentimento di contemporaneità che ci impedisce di oc­cultarne la presenza.
(pp.49-51)
Tuttavia la domanda fonda- mentale ‘perché si canta?’ (fondamentale non meno di quella ‘perché l’essere e non il nulla?’) resta senza risposta. Perché a un certo punto nella civiltà occidentale è ap­parsa la canzone e le città mondiali risuona­no di musica?
In realtà essa incarna il ‘nulla’ degli avi schopenhaueriani traducendolo nella parola magica ‘divertimento’. Valsons, sautons, pol- kons…: divertiamoci sino a crepare.(p.52)

63
[…]
Il nero divertimento della musica appartiene all’età del grande pessi­mismo che avvolge le cose con un manto scuro e tuttavia consente di spassarcela. La canzone fa di questi scherzi. Tutto a un tratto l’ascolti e ti puoi ritrovare monaco in un convento del Tibet o mercenario nel centro dell’Africa. Oppure la tua anima si rallegra talmente che domani non ti am­mazzi… Cos’è accaduto? Niente, qualcuno cantava in un piano bar. (p.53)

64
Adorno si chiede chi alleggerisce la musica leggera e risponde, nessuno. Egli ha preso sul serio la ‘leggerezza’ che presso di lui di­venta appunto seria. La musica leggera mette in risalto, nello stesso momento che la scatena, la necessità del divertimento co­me condanna. Le cose vanno tanto male che abbiamo bisogno della musica leggera: ciò caso mai direbbe questa sventata se fos­se interpellata direttamente. (pp.53-54)

66
Il cantante è la guida autorizzata di questa età alessandrina. L’ermeneuta princeps che conduce per mano attraversando, tra suono e voce, l’inferno della contemporaneità. Egli comanda ai segni. La sua voce dolce e soffusa, o ruggente e animale, distrae per un momento il Grande Guardiano e fa fug­gire i prigionieri. Mentre egli canta, tace an­che la morte. (p.54)

68
Quella musica che viene collegata al ‘consumismo’ per diffamarla, prima di tutto si do­vrebbe definire: musica che risponde ai morsi del bisogno. (p.55)

69

Il consumo è consumazione. Questa brucia, tramite il mazzetto di fieno delle merci, le fonti stesse dell’esistenza. Ma andiamo per ordine. Milioni di oggetti incatenano i no­stri desideri che prima erano il desiderio di una donna, di un asilo per la notte, di un’al­ba, del cibo e di poco altro. Oggi si consu­ma senza desiderare.
L’industrialismo ha ‘realizzato’ il platoni­smo. Il mondo delle Idee è stato preso in carico dall’industria che riproduce le Idee come ‘cose’ in milioni di esemplari. Ciò che un giorno fu Idea, in un mondo celeste ma esangue, troneggia oggi nei lussuosi negozi, nei grandi mercati a cui si rivolge estasiato il platonico odierno, l’uomo consumatore. Ma ciò che egli consuma va al di là delle sue stesse intenzioni. Egli consuma la civiltà di cui sotto sotto ne ha basta. Si afferma dunque un ethos del consumo e un’etica conseguente. All’interno del pessimismo mondiale il consumismo non è che una for­ma di quell’«annullamento» che predicava­no i padri. La musica con cui, a quel che sembra, questa civiltà tramonterà accompa­gnata da canti e gozzoviglie, è al presente la sola delle arti che riesce a raggiungere praticamente tutti. (pp.56-57)

71
[…]
l ri­tornello dunque è la morale dell’eterno ri­torno. La sua morale, voglio dire, è il picco­lo ritorno. (p.59)

72
Pietre che rotolano (1). Voglio esaminare questo ‘moi haissable’ che spesso si sbatte in faccia proprio a chi lo ‘odia’. Analizziamo quest’odio, diamogli spazio. Dunque. L’odiosità e il disprezzo per il ‘mio’ io mi conducono all’opposto di me. Io mi costrin­go ad amare ciò che non amerei mai se lo seguissi. La mia ‘filosofia’, credo di averlo detto, è quella di un altro. Le mie fedi, il senso delle mie evidenze, non mi apparten­gono. Miserabile sorte, io non sono io e l’al­tro non è me. (p.59)

75

Breve invito a rinviare il suicidio. Il rischio del suicidio è immanente. Esso è ancora le­gato a condizioni di vita indegne, alle cau­salità più disparate. Sociologi e psicologi negano che esso sia un fatto della morale, la risposta dell’uomo libero. Lo riducono scioccamente a una stupida coazione. E vantano la morte ‘naturale’. L’orrore della morte naturale! Come se si potesse morire ‘naturalmente’… Ancora oggi dunque il sui­cidio è legato all’infelicità e altre miserie. A Allorquando queste dilagano oltre la guardia dell’autoconservazione, l’individuo si li­bera dal fardello con un semplice gesto. Un giorno, lo speriamo, esso sarà invece l’unica morte. E tutti morremo così, prevenendo l’orrenda morte naturale. La morte naturale resterà solo come pena inflitta per atroci delitti. Ad essa saranno condannati i più ef­ferati assassini. (pp.61-62)

78
Canzone come teoria. La canzone come teo­ria è un occhio puntato su questo secolo. Diremmo che è la teoria di questo secolo la cui ‘brevità’ è stata già teorizzata. Se è così,
la brevità della canzone riesce a inseguirlo e raggiungerlo. Essa di brevità se ne intende. Ma la canzone non è la pappa del cuore. Senza di te non posso vivere, eccetera. Nel suo intimo è fredda come la vera demenza. Ma questo, non è un secolo ‘caldo’. Gelo è il nostro nome. Il tema del secolo è la mor­te dello Spirito. Di questo ci si accorgerà più tardi. Farlo fuori questo stupido Spiri­to! Nirvana o sonnolenza, questo il proble­ma! Comunque le opere dello spirito sovra­no, i capolavori del genio, i poemi, le gran­di liriche si dissolveranno, e voilà! Ossa e cenere. La canzone come teoria ci ammae­stra. Poche note e qualche parola. La can­zone è un frammento post-socratico. (pp.64-65)