Luci nella notte, Yves Pagès

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Luci nella notte
Macchiato dai
pamphlet antisemiti a cui segue, Guignols
Band è stranamente il più cosmopolita e gioioso dei
romanzi celiniani.

Di Yves Pagès

TRADUZIONE
Stefano Fiorucci e Jeannine Renaux
Tra tutti I
romanzi di céline,
Guignol’s Band
sembra esser stato sfortunato: rinviato diverse volte nella sua
elaborazione, influenzato negativamente dalla scrittura dei pamphlet,
parzialmente pubblicato senza grande successo nel 1944, prima che un
seguito, vent’anni dopo, sia l’oggetto d’un secondo tomo
postumo – sotto un altro nome,
Le
Pont de Londres
. Si dovrà attendere
l’edizione curata da Henri Godard nella Pléiade, nel 1988, per
rimettere in luce questo parente povero delle opere celiniane che non
ha mai trovato il suo giusto posto tra i lettori, preso a tenaglia
tra il plateale inizio di
Voyage au
bout de la nuit
e l’ultimo soffio
della crepuscolare «trilogia tedesca». Anche
Mort
à crédit
– così biasimato alla
sua uscita nel 1936 e visto dall’autore come il suo più cocente
fallimento – è riemerso da allora in superficie e ha conosciuto
una vera consacrazione, ma non
Guignol’s
Band
, no di certo. E tuttavia, tutto
indica che quel progetto lì è quello che ha più a lungo
ossessionato Céline – per quasi venti anni – costandogli un
considerevole tempo di maturazione, e un’avanti-indietro nella
scrittura commisurata a una matrice romanzesca, che non cessa di
crescere, di ramificarsi, d’oltrepassare i suoi stessi limiti: fino
a quattro volumi previsti per portare a termine l’avventura,
invano.
Bassifondi
londinesi
Ma ridedichiamoci
al difetto originale di
Guignol’s
Band
, quel malinteso all’inizio che
spiega molte delle complicazioni successive. Alla fine degli anni
’20, mentre il
Voyage
è in pieno cantiere, l’autore prevede un breve intermezzo
londinese per l’ex-soldato Bardamu. Nulla di più logico, dato che
nel 1915 il ferito convalescente Destouches passa otto mesi a Londra,
all’ufficio passaporti del consolato francese prima d’imbarcarsi
per un anno in Camerun.
Céline sembra aver esitato a servirsi
di questo soggiorno – e soprattutto dei bassifondi notturni della
capitale Britannica che aveva frequentato allora – per aggiungere
uno scalo alla fuga in avanti del suo personaggio verso l’Africa,
poi a New York. Vi ha infine rinunciato, non senza giurarsi di
ritornarci: questo materiale vissuto fornirebbe un giorno materia
prima ad un romanzo a sé stante. Guignol’s Band è così
l’embrione bastardo del Voyage, o quantomeno il suo virgulto
troppo a lungo represso. C’è mancato poco, del resto, che servisse
da epilogo a Mort à crédit, anche se, pure lì, non
conveniva: fuori luogo, fuori tempo. Al di là di questi contrattempi
aneddotici, si profila una discordanza di fondo: l’incompatibilità
d’umore tra la fresca bohéme di cui Céline presentiva già la
tonalità «buffona» e la cupezza stupefacente del suo primo
romanzo. Resta da analizzare il curioso gioco di specchi tra Voyage
e Guignol’s Band attraverso i destini dei loro rispettivi
protagonisti. Il fanfarone Bardamu parta da una contraddizione
innata. Arruolato sotto la maschera
incoerente delle sue sparate «anarchiche», ne subisce presto le
conseguenze: la prova del fuoco e quella di una delusione definitiva.
Sempre scettico di fronte all’esca patriottica, al pantano
coloniale, alla meccanizzazione fordiana, alla miseria della
periferia, lo spirito critico sempre all’erta, ha rinunciato a ogni
idealismo. E se porta in sé le tracce d’una sensibilità
libertaria, è solo attraverso le attitudini residue d’una rivolta
senza speranza, quasi un sogno vuoto. Il giovane Ferdinand di
Guignol’s Band, lui, parte da una confessione più
direttamente autobiografica: «Io, ero solo un piccolo di umili
origini, figlio dei miei genitori, impiegati laboriosi, sottomessi,
gentili, molto servizievoli…» Se il suo arrivo a Londra scuote le
sue illusioni di gioventù, questo sconvolgimento non ha nulla di
disperato, al contrario, è il modo migliore di sbarazzarsi dei
pregiudizi familiari e del loro conformismo servile. Per caso nel
corso dei suoi incontri, non smetterà di «aprirsi gli occhi», di
rompere i legami con il sistema di valori gretti del suo ceto
d’origine. Alla fatale concatenazione delle disillusioni del Voyage
segue qui una dinamica liberatrice, uno slancio vitale
d’affrancamento esistenziale.
Così, appena sbarcato in Gran
Bretagna, Ferdinand si trova dei protettori poco raccomandabili: il
proprietario di pub Cascade e il pianista di bar Borokrom. Il primo è
lo zio di un «amico» di Ferdinand, il ribelle Raoul Farcy,
sospettato di automutilazione volontaria, che ha avuto l’audacia di
gridare «Morte alle carogne» di fronte al plotone d’esecuzione.
Allo stesso modo del suo defunto nipote, Cascade tiene un odio tenace
per i sergenti reclutatori e per i detective di Scotland Yard.
Trafficante in ogni genere, compreso quello sessuale, questo atipico
delinquente ama giustificare le sue attività illegali con un
discorso tinto da arguzie libertarie.Il
secondo, Borokrom, rifugiato bulgaro ed esperto di chimica, ha
esercitato la «propaganda di fatto» vent’anni prima: una serie di
leggendari attentati. Più anarchico che mai, ma d’un cinico
individualismo, ha messo in sordina le sue convinzioni esplosive
dietro i ritornelli di musicista ambulante. Ribelle senza fede né
legge – vale a dire senza utopia da proporre -, non ha ceduto
pertanto alla vertigine delle passioni tristi né a qualche asprezza
suicida.Contrariamente a Bardamu o a Robinson, ha saputo preservare
un gaio sapere della sfortuna, un’arte di sopravvivere in canzoni
al suo proprio disincanto. Con l’appoggio di tali mentori,
Ferdinand deve solo illudersi in eterno proscritto, come il comunardo
Jules Vallès. Di conseguenza, si capisce perché questo romanzo
d’iniziazione ai piaceri proibiti rovescia il senso del Voyage
riesumando un universo nel quale il capovolgimento dell’ordine
morale sarebbe in sintonia con un vero sviluppo personale. Ma questa
versione discordante, riservando un’uscita al di là «del termine
della notte», dovrà attendere più di un decennio prima d’aver
diritto i cittadinanza. E, di conseguenza, questa via differente del
pessimismo celiniano intervenendo in tutt’altro contesto ne
modificherà radicalmente la portata simbolica. Nel frattempo,
l’autore ha in effetti disertato il terreno del romanzo per
pubblicare quattro pamphlet di fila. Nel 1940, la sua folgorante
carriera di polemista antisemita conosce un tale successo che fa già
ombra al romanziere. Crudele dilemma quello d’esser diventato uno
dei portavoce del regime in vigore per uno che aveva resistito fino
al 1936 all’arruolamento dottrinario della sua penna. È a questo
incrocio dei destini letterari – tra autonomia preservata
dell’immaginario e scrittura «a messaaaggio»[sic] divenuta
mercenaria – che Céline riapre il cantiere di Guignol’s Band
per dedicarcisi completamente durante l’Occupazione. Ma di questa
Londra del 1915, non aveva potuto fare a meno di donarne già un
assaggio contrastato, tra disgusto e nostalgia, in Bagatelles pour
un massacre
: «Non è di oggi, a conti fatti, che li conosco, io,
i Semiti». Quando stavo nei docks a Londra, ne ho visti molti di
ebrei. Sgranocchiavamo dei topi tutti insieme, non erano giudei
bigiottieri, erano dei morti di fame terribili… erano piatti come
limande.Uscivano solo dai loro ghetti, da
latifondi lettoni, croati, valacchi, rumeni, dei poveri della
Bessarabia…”
«Persi nei
quattro Universi*»
[*Dal termine
cabalistico Olamot NdT]

 

Da una guerra all’altra, e dal pamphlet
al romanzo, quello che si allestisce ormai in Guignol’s Band è
il modo in cui l’arringa razzista cambia di forma una volta
trasferita nello spazio stesso del suo risentimento: questa Londra
cosmopolita, e più precisamente ancora questo quartiere dell’East
End che fu, tra il 1881 e il 1914, terra d’asilo per gli Ebrei in
fuga dai progrom dell’Europa centrale. Perché è esattamente in quel
ghetto lì che l’autore de L’École des cadavres ha scelto di
stabilire le figure sospette di Guignol’s Band, non per
continuarci in altre maniere, romanzesche, la satira assassina dei
«Semiti», ma per immergere Ferdinand in un bagno di giovinezza dei
sobborghi, all’unisono con l’euforia collettiva che le risse e
diverse delusioni non riescono ad oscurare. Nessuna vituperazione qui
contro i pericoli del meticciamento, ma un panorama dionisiaco della
«Miseria» che mescola «spaventati malviventi», «Furfanti d’ogni
tipo!» e «poveri diavoli dei quattro universi». Come se, duecento
anni dopo John Gay Céline attualizzase la sua Opéra des gueux,
seguendo in ciò l’esempio di Brecht che, dal 1928, aveva rimesso in
scena il Lumpenproletariat londinese nella sua Opéra de
quat’sous
. Ma, sulle scene del Grand Guignol celiniano, c’è una
corte di meteci che interpreta il ruolo dei banditi d’onore e dei
suonatori d’organo di Barbarie. Quanto alla banda musicale, tra il
jazz negro e trance indù, metaformizza il viso d’un popolo d’apolidi
con semplici maschere di carnevale. La forza ultima di Guignol’s
Band
si fonda su questo equivoco di finzione: trasporre i cliché
etnici del pamphlettario su un terreno d’avventure derazzializzate,
far passare Ferdinand dall’altra faccia della sua rabbia e rendere
l’antisemita mai pentito Céline estraneo alla sua xenofobia.