INDRO MONTANELLI – NELLA MIA LUNGA E TORMENTATA ESISTENZA, LETTERE DA UNA VITA

INDRO MONTANELLI – NELLA MIA LUNGA E TORMENTATA ESISENZA, LETTERE DA UNA VITA
RIZZOLI – I ed Ottobre 2012

A cura di Paolo di Paolo Di Paolo

*** Libro acquistato usato presso libreria Libraccio di Viale Vittorio Veneto di Milano. Nel segnalibro la dedica di una donna, Letizia, a tale Mario, datata il 31 ottobre 2012. ***montanelli

COME UN LIBRO DI STORIA
Di Paolo Di Paolo p.5

CRONOLOGIA p.19

NELLA MIA LUNGA E TORMENTATA ESISTENZA p.23

I – I DOLORI DEL GIOVANE INDRO 1929 – 1936 p.25

“I FISCHI MI FANNO PAURA” p.29

Di fare il cronista o il correttore di bozze non ne ho voglia; e, d’altra parte, i lavori più seri e sostanziali non sono pane per i miei denti: a buttarmi nell’intricato labirinto della vita giornalistica, ora, con la cultura, l’esperienza e la scaltrezza che ho — o, meglio, che non ho —, farei come colui che, non sapendo nuotare, si vuol gettare in alto mare: qualcuno dice che, per l’occasione, s’improvviserebbe nuotatore — ma io penso, invece, che andrebbe a fondo.
E così preferisco aspettare e maturarmi in silenzio, prima di comparire alla ribalta: perché i fischi mi fanno paura. (p.30)

Con tutto ciò non deve credere che io mi abbandoni completamente nell’inazione: se il giornalismo non è, per ora, la mia strada, è certo, però, la mia mèta; e per potervi, un giorno, riuscire, compio già da ora un paziente tirocinio di prova e di riprova. E mi arrabatto, giorno per giorno, a scrivere e buttar giù, sforzandomi sempre a dire molto e a parlare poco. Servirà se non altro, a farmi uno stile sobrio e proporzionato.(p.31)

L’ULTIMO TENTATIVO ARTISTICO p.39

Se vuoi che ti racconti di me stesso, è presto detto: faccio poco o nulla, mi convinco sempre più che quello che mi è successo (ma cosa, perdio?) è irrimediabile e l’unica soluzione possibile è quella di trovare il coraggio per una rinunzia definitiva e integrale. Ho la convinzione di sapermi giudicare con una freddezza e un’impersonalità tali da consentirmi la più lucida imparzialità: io sono un individuo fisicamente intatto, psichicamente tarato in maniera inguaribile. Tutto ciò che mi riguarda non è guasto, è guasto il mio modo di vederlo e l’apprezzamento che ne faccio. Un’illusione, insomma; ma un illusione invincibile che mi spinge a rilevare di tutte le cose soltanto gli elementi più tragici e dolorosi. I medici continuano a dire che il mio è un caso di malattia immaginaria: se sapessero come questa intelligente scoperta è sciupata dall’idiota sorriso con cui l’accompagnano! (p.39)

UNA SOLITUDINE SENZA SCAMPO p.46

Quanto alla mia vita di qui, non si può raccontare: I disagi fìsici non ce ne sono, malattie nemmeno; ma è una vita che tempra il morale, perché ti condanna a una solitudine senza scampo – e le inevitabili crisi e i rimpianti e le debolezze devi masticarle e superarle da solo perché questa è la legge d’Africa: essere uomini rispetto ai bianchi ed essere dèi rispetto ai negri. Quindi serietà, equilibrio, nessuna crisi di rabbia, energia nel comando, giustizia e severità nelle punizioni che sono continue. Dei negri non ho ancora opinioni: sono così diversi da noi. Temono il f bianco e sono guerrieri per istinto.(p.47)

“L’Italia siamo noi” p.49

Muoiono, ad ogni modo, con «L’Universale» e con «Cantiere», gli unici due giornali intelligenti e vitali di questa palude radicalmente tragica ch’è la stampa italiana. E per lo meno strano che in un momento che si vuole riservato solo all’azione si lasci la parola a chi non agisce: l’Italia, per il momento, siamo noi – e per noi intendo: i reduci dell’altra guerra, gli squadristi e i volontari d’Africa. Non c’è un solo uomo, all’«Universale», che non abbia almeno uno di questi requisiti (salvo Bianchieri); e ad ogni modo è da riflettere che il nostro è l’unico gruppo che ha dato una quasi totalità di volontari, quattro dei quali – direttore in testa — già partiti. E dobbiamo ora rassegnarci a lasciarci «interpretare» da Malgeri o da Amicucci. Ti giuro che preferiremmo il silenzio.
Quanto a me, la mia vita è facilmente traducibile. Ti dirò solo che sto magnificamente bene e che c’è una cosa sola che mi pesa: questo preludio, troppo lungo, di pace. Di come si vedon le cose di quaggiù, ti dirò che, appollaiato da oltre due mesi su una roccia, non vedo che la conca di Saganeiti, il sole, le stelle e il Duce. Il resto non mi arriva e poco, d’altronde, me ne curo. Ci prepariamo e tanto basta.
Ai miei occhi la vittoria non appare neanche discutibile. Quanto al numero di vite umane ch’essa costerà, il problema mi sembra assolutamente secondario. Personalmente non ho intenzione di rimetterci né la pelle né i coglioni, ma non risparmierò né l’una né l’altra.(p.50)

“È una passeggiata” p.51

Abbiamo davanti un nemico che non fa che futtire e una popolazione che non fa che applaudire. È una passeggiata, sia pure un po’ scomoda. (p.52)

II – “ENTRARE A FAR PARTE DEL “CORRIERE” M’INCANTA”
1936-1942 p.57

Ho una tal malinconia addosso, Maggie cara, e un tal , bisogno di te. E una tal paura, anche, di te. Mi domando i se ti sono arrivate tutte le mie lettere, almeno l’ultima.
Vorrei proibirti di desiderare che io non esista. Tu devi desiderarlo, qualche volta, perché qualche volta desidero ! anch’io che tu non esista. Poi mi domando cosa farei, in tal caso, e non so rispondermi. Ma forse tu sapresti cosa fare senza di me. Forse. Non ne sono sicuro. […]

Non ho desiderio di te; ho bisogno di te. Questi giorni uguali, nemmeno il lavoro, quale lavoro, mi dà piacere. Dopo le tue lettere (ancora me le rileggo), so che cosa mi aspetta a Milano e non mi lascerei più ingannare stavolta dalle tue parole ostili. Ho il rimorso, il peso, di tutto quello che non ti ho detto per lo stupido timore di essere il solo a sentirlo. (p.66)

III – GALEOTTO, NUMERO DI MATRICOLA 2054
1944-1945 p.83

IV – VIAGGI, LIBRI, AMICI, AMORI
1948-1957 p.119

TRE LETTERE D’AMORE AL GIORNO p.124

Ma anche questa rottura m’è costata l’ira di Dio, e probabilmente non ci sarei arrivato, se non fossi nelle condizioni in cui sono: cioè in quelle di un malato che deve assolutamente disintossicarsi.
Ora, caro Gaetano, i malati bisogna trattarli con un certo riguardo; mentre tu mi hai frustato e hai invogliato Colette a frustarmi. Non posso dubitare, e non ho mai dubitato infatti, delle tue intenzioni. Ma il risultato, vedi, è questo: che ora debbo ritirarmi per chissà quanti mesi dal consorzio civile a leccarmi le ferite, di cui la rottura con Colette è la più grave e dolorosa, perché io — è inutile che me lo nasconda – ne sono innamorato come un pollastro e non me la leverò mai più, come si suol dire, dal sangue. (p.126)

[…]e intanto spero che anche il ricordo e il rimpianto di Colette, piano piano, sbiadiscano. (p.127)

L’OLIO DI MILANO p.137

I milanesi mi lascino insultare dai romani, i quali hanno il diritto di farlo perché ho dichiarato – e lo confermo — che il passaggio da Milano a Roma del primato morale è stato una catastrofe nazionale. Oggi più che mai son convinto che l’industriale e l’artigiano milanesi sono molto meglio dell’impiegato e del portinaio romani. Oggi più che mai sono convinto che la letteratura, il teatro e il cinematografo, se incubassero a Milano, invece che a Roma, sarebbero non dico più geniali, ma certo più sociali. Oggi più che mai sono convinto che, con lo spostamento al Sud dei suoi poli di attrazione, l’Italia ha accentuato il suo carattere dialettale che è poi quello che fa del nostro paese, invece che una nazione, un accolita di villaggi, più o meno pittoresca, ma friabile. (p.143)

IL PERICOLO DEL COMUNISMO IN ITALIA p.148

Ci sono due modi di affrontare il problema del comunismo in Italia: sulla lunga distanza, e su quella breve. Sulla lunga distanza, noi potremmo confidare sugli effetti di quelle sostanziali riforme che tendono al livellamento delle classi. Se lo Stato nel nostro paese funzionasse, se i privati pagassero le tasse, se i carabinieri arrestassero coloro che non le pagano, se la magistratura li condannasse, se il governo avesse dei bravi tecnici cui affidare l’operazione… Se tutti questi se si realizzassero, in venti anni potremmo debellare il comunismo. Ma questi se sono irrealizzabili, e d’altra parte noi non abbiamo un margine di venti anni. Abbiamo, al massimo, quello di due. Quindi il problema va affrontato sulla breve distanza.
Su questa breve distanza, noi non possiamo sognare di fondare un nuovo partito. Esso farebbe soltanto della concorrenza ai partiti anticomunisti già esistenti e non risolverebbe niente. Possiamo soltanto cercar di rafforzare quello che alla meglio ancora ci difende: la Democrazia Cristiana. Ma non bisogna farsi illusioni. E un partito impopolare, dilaniato da lotte interne, costituito da uomini che hanno il senso della parrocchia, ma non dello Stato. Esso perde terreno ogni giorno, mentre ogni giorno i socialcomunisti avanzano. Poniamoci il caso pratico: se alle prossime elezioni un fronte popolare comunque costituito raggiungesse la maggioranza. Scelba cosa farebbe? Consegnerebbe il potere, e sarebbe la fine. Qualunque altro capo democristiano, al suo posto, farebbe altrettanto. Ma debbo aggiungere qualcosa di più: qualunque uomo di governo, oggi, anche non democristiano, si arrenderebbe per totale impossibilità di compiere un colpo di Stato. Gli mancherebbe tutto, per osarlo: la polizia e l’esercito sono inquinati di comunismo; i carabinieri, senza il Re, hanno perso Ogni mordente; la magistratura è vile. E in tutto il paese non c’è una forza capace di appoggiare l’azione di un uomo risoluto.(pp.152-153)
Nessuna pregiudiziale di provenienza politica: il passato non c’interessa. Ogni gruppo dovrebbe, come prima cosa, fare il censimento nella propria circoscrizione non solo dei comunisti e degli anticomunisti; ma, fra i secondi, degli elementi fidati e di quelli infidi. Capi e gregari debbono essere tutti personae gratae ai Carabinieri, con cui s’impongono”In rapporti di strettissima collaborazione e di cui dovrebbero, f nel momento supremo, diventare la truppa di rincalzo. Infetti il movimento sarebbe destinato a entrare in azione (azione armata) solo il giorno in cui, elettoralmente, la battaglia fosse definitivamente persa. E questo perché noi intendiamo puntellare la democrazia fino al giorno in cui f essa abbia una possibilità di sopravvivenza. Solo dinanzi al suo cadavere, tenteremmo d’impadronirci dell’eredità per sottrarla ai comunisti: o aiutando un colpo di Stato, se si troverà un uomo, fra quelli attualmente al potere, disposto a tentarlo; o facendolo per conto nostro: pronti, in quest’ultimo caso, a scatenare la guerra civile con tutte | le sue inevitabili conseguenze, allo scopo fondamentale e basilare d’inchiodare l’Italia nell’Alleanza Atlantica.
Dopo lunga discussione, i miei ascoltatori hanno riconosciuto che, allo stato attuale delle cose, questo è l’unico serio programma d’azione che possa essere tentato. Ma solo a un patto: che l’America lo approvi, e non solo platonicamente: cioè che sia pronta a aiutarlo non col denaro, ma con le sue armi, la sua aviazione e la sua flotta. (p.155)

Cioè credo soltanto a quei soliti trecentomila italiani cui spetta un comando che, essendo trecentomila soli, non possono esercitare democraticamente. Essi possono vincere ancora una volta e, con un gesto di forza (ma tutta la nostra storia nazionale è un seguito di gesti di forza), mantenere l’Italia nell’orbita della civiltà occidentale. Se l’America vuole. Se invece non vuole perché ha ancora fiducia nel regime democratico e nella sua capacità di difendersi dal comunismo… Bene, in questo caso, cara Signora, stracci questa lettera e finga di non averla mai ricevuta. Ma mi dia, La prego, un «visto» per gli Stati Uniti, dove conto di andare a ritirarmi. Credo di meritarlo.
Ora debbo metterla al corrente anche di un’altra iniziativa, che ho preso indipendentemente da quella di cui Le ho parlato sinora. L’esperienza e il fatto di esser nato nello stesso villaggio in cui nacque Machiavelli fanno di me un tenace pessimista. Per cui mi son sentito tenuto a prevedere l’eventualità peggiore: e cioè che non solo alle prossime elezioni un fronte popolare abbia il sopravvento, ma anche che il piano insurrezionale che Le ho esposto fallisca, o per debolezza propria o per carenza di aiuto americano.
In tal caso mi sembra che l’America dovrebbe almeno approntare una Formosa per concentrarvi le forze destinate a una riscossa che in Italia sarebbe più facile, o meno difficile, che in Cina. Parlo della Sicilia, naturalmente. In quest’isola che, comunque, non avrà mai una maggioranza comunista, c’è un governo regionale in mano ad anticomunisti, sia pur deboli e irresoluti. (pp.156-157)

COSA SONO GLI ITALIANI D’AMERICA p.185

L’Italia stessa soffre ancora di questa distonia fra Nord e Sud, particolarmente grave in un paese di configurazione geografica, longilinea come quello nostro. La distanza fra Milano e Agrigento non è astronomica, ma è pur sempre sproporzionata alla vastità del territorio misurata in chilometri quadrati. Tutto ciò che è iniziativa privata, cioè industria, agricoltura, commercio, ricchezza è monopolio del Nord, tutto ciò che è burocrazia e soprattutto polizia è monopolio del Sud. È questo che crea il paradosso di una delle società più attive e intraprendenti qual è appunto quella dell’Italia settentrionale amministrata da uno Stato meridionale, che sotto alcuni punti di vista ricorda quello egiziano di Fàruk.
Quando gli americani imposero agl’immigrati italiani due diversi passaporti per distinguere quelli del Nord da quelli del Sud, trasgredirono certo a un principio di giustizia assoluta, che non accetta simili discriminazioni, ma da un punto di vista pratico avevano perfettamente ragione. Perché quelli del Nord si mostrarono eccellenti immigranti, e infatti, invece di fermarsi nelle grandi città dell’Est, si gettarono a colonizzare il West, affrontandone le sterminate campagne. In ritardo sulla «Conquista» yera e propria, ebbero tuttavia il tempo di contribuire a solidificarla. Costruirono, non specularono. I grandi vigneti della California sono opera loro, anche se portano nomi francesi.
Quelli del Sud rimasero a New York e a Chicago, e non hanno fatto molto onore al nome del paese da cui provenivano. Forse Ì giornalisti e il cinematografo americani hanno esagerato un po’ il loro contributo alla malavita ma questo contributo c’è stato, e ti assicuro anche che ancora oggi, in questa città, un italiano trova qualche difficoltà a farsi accogliere con fiducia.(pp.187-188)

V – L’ARGENTERIA DI FAMIGLIA
1962 – 1 973 p.207

I NOSTRI INTELLETTUALI CONFORMISTI E CORTIGIANI p.217

Quasi tutti gli strumenti di cultura e di promozione culturale sono in mano ai comunisti o ai loro fiancheggiatori: per esempio, le facoltà di Lettere e di Architettura di tutte le nostre università sono loro feudo. Chi è dunque l’anticonformista? Chi entra a far parte di queste mafie, che nessuna legge e nessuna polizia perseguitano, e con cui
pubblici poteri non fanno che patteggiare, o chi se ne tiene di fuori? (p.222)

La Resistenza è stata un ennesimo documento della secolare propensione degl’italiani a guerreggiarsi fra loro, ciascuno in nome di un padrone straniero. Senza i tedeschi, non ci sarebbe stata la Repubblica di Salò. E senza gli alleati, e specialmente i russi, non ci sarebbe stata la Resistenza. Tanto è vero che, a differenza dei partigiani olandesi, norvegesi eccetera, tutti imiti da un comune ideale di libertà e d’indipendenza nazionale, quelli italiani erano divisi: ogni partito aveva i suoi che spesso si combattevano tra loro in nome d’ideologie d’importazione. I comunisti avevano perfino adottato degli strani inni rosseggiami. Ed era la solita Italia delle fazioni, di cui i miei sei avversari sono i degni esponenti.(pp.222-223)

“L’unico di cui si parlerà fra cento anni” p.236

Buzzati scriveva tutto a penna con una calligrafia infantile e chiarissima corredando il suo compitino con piccoli disegni altrettanto infantili. (p.236)

VI – “SO BENISSIMO DI NON ESSERE UN GRAN DIRETTORE”
1973 – 1995 p.249

VII – TRA UN SECOLO E L’ALTRO
1995 – 2001 p.323

L’ELISIR DI GIOVINEZZA p.326

Forse qualcosa debbo anche alla mia inappetenza, che ogni tanto sconfina nell’anoressia. Non bevo alcol perché non mi piace, ma qualche sigaretta continuo a fumarla, e le otto o dieci ore di lavoro non mi stancano.
Mi stancano solo le vacanze, ed infatti me ne prendo pochissime. (p.326)

“MI SPAVENTA LA SFIDUCIA NEL DOMANI” p.329

«Mi spaventa la sfiducia mi domani»
«Ho appena finito di leggere il terzo volume della sua Storia d’Italia che chiude con il crollo di Roma antica. Lei non crede, venendo ai giorni nostri, che ci siano tutte le premesse perché la storia si ripeta? Calo demografico, svalutazione del cattolicesimo, una religione arrogante e potente all orizzonte: l’IsIam, pronta a prenderne ilposto, immigrazione incontenibile e selvaggia, caduta dei valori, corruzione e incompetenza dello Stato, ecc. La prego vivamente di darmi una risposta.
Il fatto è che la cosa mi angoscia e avere una sua opinione mi sarebbe di grande conforto.»
Giancarlo Dionigi
La sua angoscia è anche la mia e, credo, di tutte le persone consapevoli perché i segni di una crisi epocale ci sono tutti. Qualcuno già la previde una settantina di anni fa: Oswald Spengler, l’autore di quel Tramonto dell’Occidente che le consiglio di leggere. Se lo trova. Spengler non è tra i favoriti del pensiero storico contemporaneo che lo accusa di essere stato un precursore del nazismo. Il quale forse si abbeverò un poco alla sua fonte, ma non lo ebbe mai tra i suoi adepti, che lui guardò sempre con malcelato disprezzo e di cui rifiutò gli adescamenti. Anche Spengler stabilì qualche parallelo tra la crisi di oggi e quella dell’impero Romano, ma sottolineando che quest’ultima, più che un crollo, fu un cambio della guardia tra l’elemento latino e quello germanico che, pur nella sua primitività, ammirava la civiltà romana e, lungi dal distruggerla, voleva inserirvisi e diventarne l’erede: cosa che sia pure fra sangue e rovine poi avvenne, il che già Tacito aveva previsto. Oggi è in prospettiva ben altro: l’Islam non vuole affatto ereditare la civiltà dell’Occidente, vuole distruggerla. E l’Occidente si presenta a questo confronto diviso,
indebolito dal consumismo e contando unicamente sulla propria superiorità tecnologica, cioè su una superiorità che i popoli islamici possono annullare perché nulla è di più facile importazione e assimilazione della tecnologia.
Si dice che perfino Gheddafì possieda l’arma atomica: il petrolio gli dà i mezzi per arruolare tecnici e scienziati in grado di fornirgliela. Mentre in Estremo Oriente maree di uomini fino ad ieri legati ad una economia agro-artigianale e quindi bisognosi dei nostri prodotti e dei nostri capitali, li stanno rimpiazzando con quelli propri, e i loro laboratori e Università sfornano tecnici che fanno concorrenza ai nostri e spesso li battono. Ma il nemico per noi più insidioso non viene da fuori. Viene da dentro, cioè dal fatto che noi non siamo più sicuri dei valori su cui si basa la nostra civiltà e ne costituisce la superiorità. Il calo demografico non mi spaventa. Mussolini diceva che «il numero è potenza», ma diceva una scempiaggine. Ciò che mi spaventa sono i motivi di questo calo: l’edonismo, il consumismo, e soprattutto la sfiducia nel domani: tutte cose di cui anche io e lei, caro Dionigi, siamo partecipi, anche se lo siamo con angoscia, che è l’angoscia dell’ineluttabile. Come vede, se cercava conforto, ha sbagliato la porta a cui bussare. Domani mi pentirò di averle detto tutto questo: spero che non lo dia da leggere ai suoi figli. Purtroppo, io non riesco a dire che ciò che penso: una malattia che mi ha già procurato parecchi dispiaceri, ma contro cui non c’è farmaco che valga. (pp.329-330)

“UN ARRUFFIO DI PECORE INDISCIPLINATE” p.346

[…]l’Italia è un Paese fatto magari non di grandi, ma di piccoli mariuoli, che naturalmente sono portati ad ammirare un mariuolo meglio riuscito di loro, e quindi il più degno di rappresentarli sia all’interno che all’estero. Ma la cosa non mi entusiasma, e sarei contento di sentirle dire che non entusiasma nemmeno lei. Per essere almeno in due. C’è però un punto del suo discorso sul quale vorrei cercare di fare un po’ di chiarezza perché su di esso mi pare che si basi il nostro contenzioso, se tale è. Lei attribuisce la disinvoltura italiana nei confronti delle cosiddette «regole» e l’abilità nell’evaderle o aggirarle al loro individualismo. E qui si sbaglia. Noi ci consideriamo individualisti per il fatto che non rispettiamo il semaforo ai crocicchi delle strade, perché nelle code agli sportelli riusciamo con mille espedienti a passare prima di chi stava davanti a noi, insomma a prevaricare sugli altri anche a costo di grandi o piccoli falsi, di grandi o piccole corruzioni, insomma di qualcuno di quegli imbrogli che noi chiamiamo «furberie». Ma questo, caro Cozzi, non è individualismo. (p.347)

IL MIO ATTEGGIAMENTO VERSO IL DENARO p.348

Non esistono domande impertinenti: esistono, semmai, risposte imbarazzate. Questa, tuttavia, non sarà tra quelle. Se parlo raramente di denaro è perché l’argomento m’interessa poco. Mi incuriosisce, invece, quel che ci fanno gli uomini. Ma di questo, anche nella «stanza», abbiamo parlato spesso. Non intendo però sfuggire alla sua curiosità—anche se, in pratica, le ho già risposto. I soldi m’interessano perché, giusto o sbagliato che sia, rappresentano il combustibile e il lubrificante della storia umana (non l’unico, per fortuna). Quelli che girano nelle mie tasche mi sono abbastanza indifferenti. Quest’atteggiamento, lo so bene, non è una prova di saggezza: è un lusso. Per essere superiori al denaro, infatti, bisogna averne. E io ne ho quanto basta; anzi, di più. Scriveva Rousseau: «Il denaro che si possiede è uno strumento di libertà; quello che si insegue è uno strumento di schiavitù». Ecco, diciamo che mi considero libero. Molti dei miei conoscenti preferiscono un altro aggettivo: svagato. Alcuni sostengono che non mi faccio pagare abbastanza per le cose che faccio, e non escludo che abbiano ragione: se penso che sono uscito dal «Giornale» che ho fondato e diretto per vent’anni con meno di cento milioni di liquidazione, devo ammettere di essere un cattivo amministratore di me stesso. Ma le dirò, cara signora: posso permettermi tutto quello che voglio, e non voglio molto. Mi preme lasciarmi alle spalle un nome pulito, piuttosto che un enorme conto corrente. Badi bene: è possibile combinare una cosa e l’altra. Si vede, però, che non era la mia vocazione. (pp.348-349)

“NELL’ITALIA DEI FRANTI NON C’È POSTO PER GARRONE” p.351

Sì, i denigratori di Cuore hanno perfettamente ragione a considerarlo un libro antiquato e inattuale. Ma sai perché? Perché antiquati e inattuali sono i valori ch’esso esalta: l’amor di Patria, il coraggio, il sacrificio, il dovere, il disinteresse, la generosità. Valori che De Amicis incarnò in un ragazzo-modello di nome Garrone, mettendogli controluce, per farli meglio risaltare, Franti, che incarnava i loro opposti: il cinismo, Farrivismo, l’astuzia spregiudicata, la cupidigia di denaro e di potere. (p.352)

Che saranno anche roba da antiquariato. Ma a me, cosa vuoi che ti dica, il Coraggio, il Sacrifìcio, il Dovere, il Disinteresse, la Generosità piacciono, tanto che mi | viene fatto di scriverli con la maiuscola. (pp.352-353)

EUTANASIA: LE DIFFICOLTÀ DA SUPERARE p.362

Anch’io, eutanasista convinto, sono altrettanto convinto che la volontà dell’infermo non basta. Lo dico per esperienza personale. Avendo sofferto di crisi depressive — che sono di vario tipo, ma un tratto lo hanno tutte in comune: la disperazione, cioè la perdita di ogni speranza – sono stato varie volte sfiorato, e più che sfiorato, dalla tentazione del suicidio. In questo caso è giusto che i medici curanti ne neghino i mezzi. Diversa è la condizione di chi si trovi ridotto ad una sofferenza senz’altra prospettiva che la morte e che lo costringa a un’agonia aggravata da una condizione di totale dipendenza dagli altri incompatibile con ogni senso di dignità e di pudore (sissignori, anche il pudore ha le sue esigenze, cui non tutte le persone sono disposte a rinunziare). (p.363)

“INUTILE PREOCCUPARSI DI COSA LASCIARE AI POSTERI” p.367

Io forse sarò ricordato, quando avrò preso congedo da questo mondo, da qualcuno dei miei lettori, non certamente dai loro figli. So di avere scritto sull’acqua. Ma ciò non mi ha impedito di continuare a scrivere, impegnandomi tutto in quello che scrivo. (p.367)

Ecco l’unica gioia che ci è consentita, come promesso dall’unica scuola di pensiero di cui valga la pena seguire i precetti: lo stoicismo. Esso non ci prospetta nulla, né in questa vita né nell’altra. Non ci dice che le nostre virtù saranno compensate (per esempio, dalla Gloria), e i nostri vizi puniti. Essa non ci offre altra consolazione che quella del Dovere compiuto, anche se da tutti gli altri misconosciuto e magari castigato come una colpa. […]
Perché si preoccupa tanto di non lasciare, di sé; nessuna impronta? Nessuno di noi, in questo mondo dell’effimero, ne lascerà. (p.368)

I DESTINATARI p.373

LE FONTI p.383

INDICE DEI NOMI p.397

INDICE p.407

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