Il venerdì di Repubblica 21-10-2011 – Louis Ferdinand Céline

[banner][banner][banner size=”300X250″][banner size=”120X600″]Su Il Venerdì di Repubblica del 21-10-2011 si parla di Louis-Ferdinand Céline.

Di sfuggita Curzio Maltese in “Così la destra stronca artisti e registi di diverso parere” ricorda che:

“Quand’ero un ragazzo, il movimento studentesco era pieno di imbecilli aspiranti commissari politici che cercavano d’istruire i «compagni» sui libri da leggere o non leggere. Sulla base di questo prontuario da militanti, Nietzsche era da considerarsi non solo «un fascio», ma un mediocre affabulatore. Era vietato non solo ascoltare Wagner, «proto nazista», ma anche divertirsi agli aforismi di Ennio Flaiano, bollato come anticomunista. Sostenere la tesi per cui si può essere di destra e allo stesso tempo rimanere grandi artisti era considerato argomento specioso, piccolo borghese e reazionario.

Nel mio liceo milanese fui sottoposto a un autentico processo politico per aver organizzato una lettura del Dottor Semmelweis di Louis-Ferdinand Céline, forse la più bella tesi di laurea (in medicina) mai scritta, ma gravata dalla colpa di portare la firma di un autore che avrebbe in seguito aderito al nazismo. Trent’anni dopo, il fanatismo imbecille si è trasferito a destra, a volte sulle gambe degli stessi uomini. Alcuni commissari politici di allora, invecchiati e riciclati, più uno stuolo di giovani allievi, spiegano ogni giorno sulla stampa di destra o sulle tv pubbliche che ogni romanzo, film, opera teatrale, architettura, il cui autore abbia espresso idee di sinistra, devono essere considerati il frutto dell’odiata egemonia culturale. Tanto più se gode di successo. Per questi poveri ometti, il Nobel a Dario Fo o l’Oscar a Roberto Benigni rappresentavano una prova del complotto universale dell’intellighenzia rossa. […] Nella popolarità dei regimi c’è anche questo tratto umano miserabile. La possibilità per i mediocri di sfogare le proprie frustrazioni, l’invidia per i talenti altrui, a partire da canoni di obbedienza politica, l’eterno fascino sugli imbecilli dell’Indice controriformista. (p.15)

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LE AVVENTURE DI CÉLINE RACCONTATE DAL SUO GATTO
UN FELINO DI DIMENSIONI ECCEZIONALI FU TESTIMONE E COMPAGNO DI VITA DELL’AUTORE DI VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE, SEGUENDOLO ATTRAVERSO LA ROVINA D’EUROPA, TRA GUERRA E NAZISMO. NEL 50° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DELLO SCRITTORE, UN ACCADEMICO DI FRANCIA RICOSTRUISCE LA STORIADEL TIGRATO
di Marco Cicala
Era un tigrato di dimensioni ovine. Ma capace di acrobazie alla Scaramouche. Un trovatello scaltro e goloso come un picaro – però scudiero ad altissima fedeltà. Si chiamava Bébert. A Montmartre visse una gioventù bohèmienne, tra il vagabondo e l’aristogatto, lungo le grondaie e i marciapiedi di Parigi. Frequentò star del cinema, romanzieri, drammaturghi. Durante la guerra sfuggì alle persecuzioni razziali. Sgusciò per la Germania carbonizzata e prossima all’Anno Zero – incrociando gerarchi in fuga, collaborazionisti allo sbando, tutto un demimonde di ex tribuni, giornalisti collusi, maitresse al seguito, parecchi bastardi e qualche povero cristo. Sempre appresso a Louis-Ferdinand Céline, lo scrittore – e dunque il padrone – più incomodo del Novecento.
A mezzo secolo dalla morte del Docteur Destouches (il vero nome di Céline, 1894-1961), in Francia rispuntano vecchie polemiche e fioccano nuove biografie. Ma torna in libreria anche Bébert – la singolarissima vita del gatto di Céline uscita nel 1976 da Grasset. L’ha scritta Frédéric Vitoux, critico, romanziere, pioniere negli studi célininiani, nonché titolare della poltrona numero 15 dell’Académie Française. Raccontare gli uomini illustri attraverso gli animali che ne accompagnarono l’esistenza è diventato un filone fortunato quanto, spesso, un po’ stucchevole. Però il libro di Vitoux dribbla le blandizie della moda. Perché è stato concepito in tempi non sospetti. E perché non resta intrappolato nel voyeurismo aneddotico. D’altronde, Bébert non è un comprimario qualunque nella traiettoria di Céline. Ma, in anni cruciali e tremendi, diventa per lo scrittore «modello, specchio, alter ego. Personaggio a pieno titolo degli ultimi romanzi. Lo vediamo apparire in Nord e Da un castello all’altro, fino a Rigodon» rammenta Vitoux, di passaggio a Roma. Bébert è il liquido di  contrasto che svela le violente incoerenze di Céline, che ne demistifica allucinazioni e paranoie: «Quando il gatto entra in scena, nella scrittura riaffiora un minimo di verità. Appena si allontana, tornano deliri e menzogne».

Era un randagio della regione parigina, poi raccolto dalla Protezione Animali e messo in vendita nel megastore La Samaritaine. Ad acquistarlo, nel 1935, è Robert Le Vigan, divo del cinema francese tra le due guerre (accanto a Jean Gabin in film quali Il porto delle nebbie o La bandera) e, in seguito, pimpante collaborazionista. Sorta di Osvaldo Valenti in salsa pétainista.

L’attore fece dono del gatto a Tinou, una figurante algerina conosciuta sul set, che sarebbe diventata sua moglie. Infelicemente. Nel giro di pochi anni la coppia smotta. E la Francia pure. I nazi sfondano. Si prendono tutto. Mettono su il governo-transgenico di Vichy. Morale: il tigrato si ritrova all’abbandono. «O almeno così credevo» sorride Frédéric Vitoux. «Quando il libro era in uscita, venni contattato da Tinou, l’ex di Le Vigan. Era furente. Siccome avevo scritto che trent’anni prima s’era sbarazzata del gatto, voleva trascinarmi in giustizia!». Non lo fece. Ma tanto basta per confermare che Bébert è di quelle bestie che catalizzano le passioni. Céline e sua moglie Lucette, insegnante di danza classica, lo adottano nel 1942. Abitano al numero 4 della rue Girardon, proprio di fronte al Moulin de la Galette. Con i coniugi Le Vigan sono vicini di casa e compagni di merende nella Parigi imbrunita dell’occupazione. Mezzo domestico, mezzo girovago, il gatto assiste agli allenamenti di Lucette in calzamaglia, passeggia coi padroni sui boulevard, riprende peso. Ma ancora una volta la pacchia dura poco.

Anno 1944: alla vigilia dello sbarco alleato in Normandia, per Céline si mette male. Tra minacce di vendetta, Parigi gli si stringe al collo come un cappio. Tecnicamente, lui non è mai stato un collaborazionista attivo, un galoppino a libro paga dei tedeschi – come più tardi gli verrà sputato in faccia da Jean-Paul Sartre. Però, negli anni Trenta, ha scritto brutali pamphlet razzisti che, nel clima da repulisti della Liberazione imminente, possono costargli caro: il carcere – alle brutte la fucilazione. Céline antisemita? Sì. Senza se e senza ma. «Antisemita per formazione, per discendenza piccolo-borghese» ricorda Vitoux. «Eppure nei romanzi non c’è traccia di ebrei stereotipati come, ad esempio, in Simenon o Mauriac». Del resto, reduce traumatizzato e pluridecorato della Grande Guerra, il dottor Destouches «detestava i tedeschi. Il suo ideale era l’Inghilterra». La Londra dei bassifondi promiscui e libertari esaltata in Guignol’s band.

Già, ma nel ‘44, queste son patetiche sottigliezze: letteratura. Il 17 giugno, intabarrati come Totò e Peppino, e con denari nascosti fra le cuciture, Céline e Lucette saltano su un treno alla Gare de l’Est. Destinazione: Germania. Il gatto è con loro. Chiuso in una sporta e munito di passaporto sanitario rilasciato dai veterinari della Wehrmacht all’Hotel Crillon. Esile protezione. Perché – ma nessuno lo sa ancora – al di là della frontiera, il Reich in rovina ha decretato la soluzione finale per tutti gli animali «non di razza e inabili alla riproduzione».

Ora, Bébert è un bastardo. E, dopo le scorribande libertine per Montmartre, è stato pure castrato. Quindi: un sans-papiers. A rimorchio di una coppia allo sbaraglio. «In realtà» precisa Vitoux, «Céline e Lucette non volevano rifugiarsi in Germania, ma da lì raggiungere la Danimarca dove avevano messo da parte dell’oro». Il transito durerà dieci mesi. Diventando quel viaggio allucinante che è fonte di deliri e poesia negli ultimi romanzi céliniani.

Louis-Ferdinand, Lucette, Bébert: il terzetto rimbalza, striscia, scappa da Baden-Baden a Berlino, da Lipsia ad Augusta. A Ulm, gatto e padroni assistono ai funerali di Rommel. Ad Hannover zigzagano sotto un’alluvione di bombe. Uno scoppio scaraventa lontano la borsa con dentro Bébert: il gatto ne esce allibito, ma incolume. Però il vero climax è a Sigmaringen, la cittadina del Baden-Wuttemberg dove i nazisti hanno stipato vertici e manutengoli della Francia filo-hitleriana. Oltre duemila persone. Da Pétain a Laval, passando per l’ideologo Doriot e giù tutti i gregari a seguire. Sigmaringen è la Salò del collaborazionismo. Céline la ritrae senza la ferocia sadiana di Pasolini «ma con toni infernali, grotteschi alla Bosch, o Bruegel». Perciò scrive: «Diresti un’operetta (…) città leccata, un po’ bomboniera, mezza-pistacchio (…) tutto in stile barocco-crucco». Una Götterdämmerung di paccottiglia. Di quel ridicolo, Destouches è cronista ma anche tassello. I gerarchi lo sfottono perché s’è presentato all’Apocalissi col gatto. Lui abbozza. Cura i malati di scabbia. Bébert è un cencio. Grufola a caccia di cibo. Gli sganciano rape. Vorrebbe i wurstel. Ma quelli se li pappano gli uomini.

A fine marzo ‘45, coniugi e tigrato approdano in Danimarca. Però Céline viene arrestato. Passa in prigione un anno e mezzo. In galera si ammala. A riflesso del padrone, anche il gatto sta male. Gli asportano un tumore. Se la cava. Come Céline. Che torna libero ma confinato – con moglie e felino – in una  baracca sul mar Baltico. Grazie a cavilli ed astuzie legali, lo scrittore rientra in Francia nel 1951. Assieme a un drappello fra cani e gatti. Si piazzano tutti nella villetta-eremo di Meudon – porte di Parigi. Dove Bébert muore l’anno dopo. D’un nuovo cancro, ma stavolta generalizzato. È una creatura sfinita, «a corto di respiro e di speranza, sdentato e inappetente». Ha 16 anni. Ha assistito al suicidio di un mondo. Scrive Céline: «È morto qui, dopo tanti di quegli incidenti, nascondigli, bivacchi, ceneri, tutta l’Europa…». Ma è morto «agile e aggraziato, impeccabile». D’altronde, fra le macerie della Storia aveva mantenuto una sola priorità: l’igiene. Nel mezzo della catastrofe si leccava, perché: la toilette, avant tout.

In Céline non c’è alcuna umanizzazione dell’animale. Bébert rimane sigillato nel mistero, «nell’irriducibile estraneità dei gatti» osserva Vitoux. Davanti ai grandiosi sproloqui dello scrittore, il tigrato rappresenta il silenzio, l’eleganza muta, l’antitesi del linguaggio. Per Destouches, che pure ne smitraglia a raffica, «le parole sono il massimo della miseria. Sono veicolo di malvagità e bugie. Solo il gatto è sincero. Non parla, dunque non mente».

Ciò detto, restano tutte da raccontare vita, reazioni, emozioni degli animali durante le guerre moderne. Nel mirabile Storia naturale della distruzione, W.G. Sebald riferisce degli elefanti in fiamme che, sotto il bombardamento dello zoo di Berlino, lanciano alti barriti e si squagliano tra ossa e frattaglie. Nel film Underground, Kusturica ha mostrato le scimmie e i pachidermi impazziti nel fuoco dello zoo di Belgrado. Ma quanto accaduto nel «bioparco» di Saddam, o ultimamente tra i leoni e gli ippopotami di Gheddafi, aspetta ancora una parola. Magari alla Céline. Che, nel ‘52, dedicava l’imperdibile Pantomima per  un’altra volta – appena ripubblicato da Einaudi – «Agli animali, ai malati, ai prigionieri».

MARCO CICALA