HERMAN MELLVILLE – POESIE DI GUERRA E DI MARE

HERMAN MELLVILLE – POESIE DI GUERRA E DI MARE
MONDADORI – Collana OSCAR CLASSICI MONDADORI n. 322 – I ed 1995

SCELTA E TRADUZIONE: Roberto Mussapi
INTRODUZIONE. MELVILLE NOSTRO CONTEMPORANEON
Di Antonio Porta p. 5

NOTA DEL TRADUTTORE p. 17

PRESENTIMENTI
[MISGIVINGS, 1860)

Quando vedo le nubi atre dell’oceano addensarsi
sulle colline dell’interno e stendersi infuriando
nel bruno del tardo autunno, e la valle
fradicia rabbrividire d’orrore
e il campanile precipitare di schianto sulla città
allora penso ai cupi mali della mia terra
la tempesta che esplode dal deserto del tempo
sulla speranza più luminosa del mondo avvinta
al crimine più orrendo dell’uomo.
Adesso il lato oscuro della natura si staglia
e l’ottimismo sgomento si è dissolto
nemmeno per un bambino ha misteri il cupo ciglio
di quella montagna nera, solitaria.
I torrenti precipitano dalle gole urlando
e nuove tempeste si addensano dietro alla tempesta presente:
l’abete trema e si scuote nella trave
la quercia nella chiglia che solca. (p. 21)

APATIA ED ENTUSIASMO
[APATHY AND ENTHUSIASM, 1860-1861)

I

Quel novembre freddo, vischioso
nel bianco inverno morto e il terrore
muto di stupore nel cielo come in un lenzuolo
di piombo. “Tutto è perduto” e il grido
recava il grido degli eventi come schianti
di tuono in una massa di ghiaccio, nel gelo
implacabile, uno sull’altro attraversavano
l’orrore del silenzio. E il braccio
paralizzato nell’angoscia del cuore
e quel grande vuoto; la morte.
Mentre la madre gridava a ogni fratello
“Non separarti così, salvati almeno dall’odio”
e sopra il fuoco, sulla pietra la crepa
si dilatava senza sosta. Poi le occhiate
tra le Parche, poi ovunque il dubbio:
e la pazienza nel buio attendeva pietrificata
l’esecuzione. (p. 31)

II
Così disperando morì l’inverno
e le fiacche settimane della quaresima
i fiumi verificati dal gelo ruppero i ghiacci
e la tomba della fede si aprì in una ferita.
Il popolo si levò quando nasceva l’erba
e dopo Pasqua si riscosse dallo sconforto. […]
[…]
ma i vecchi preveggendo piansero i giorni
perduti per sempre: e ricordavano
il proverbio della foresta
l’antico detto degli Irochesi:
“Dolore a ogni barba grigia
quando i giovani indiani conducono la guerra”. (p. 33)

LA BATTAGLIA PER IL MISSISSIPPI
[THE BATTLE FOR THE MISSISSIPPI, Aprile 1862] (p. 39)

Pregano, e dopo la vittoria la preghiera
è adatta a uomini che piangono i loro morti trucidati.
I vivi taglieranno gli ormeggi e salperanno
ma l’ancora scura della morte custodisce segreti abissi.
Pure la gloria devia il suo strale di raggi
lontano attraverso l’abisso indisturbato.
Ci devono essere altre più nobili parole per coloro
che in questo nobilmente hanno dato la vita. (p. 43)

IL TETTO
[A NIGHT PIECE, LUGLIO 1863] p. 45

Non c’è sonno, l’afa satura l’aria
e agguanta il cervello, una dura oppressione come
accade alle tigri bronzee, nelle ombre tormentate
quando il sangue si irrita e si contrae, feroce.
Sotto le stelle si stende il deserto dei tetti
vuoto come una Libia, e tutto è muto, muto.
Eppure, da lontano, una spuma di suoni indistinti
si frange, confusa, l’ateo urlo della rivolta.
Là, dove Sirio ardente tramonta nell’arsura
funesto rosseggia l’incendio doloso, laggiù…
La città è rosa dai suoi topi, vinta dai topi
delle navi, delle banchine. Ogni incanto civile
ogni parola religiosa che ancora univano i cuori
in devoto sgomento – uniti dalla paura, sottomessi
a un senso più forte dell’istinto animale –
come in un sogno si dissolvono
e l’uomo ritorna all’istinto primario
respinge nella natura la storia trascorsa.
Viva il rimbombo dei tamburi basso e sordo, ottuso
e morto, e l’erpice pesante che fa vibrare le mura,
mentre arriva il saggio Dracone, nel rullo di mezzanotte
della nera artiglieria, arriva, anche se è tardi,
nella parola che conferma la fede di Calvino
e le ciniche tirannidi dei re onesti: viene
e non tratta e la città, redenta
ringrazia, e nella gratitudine non pensa
alla lurida macchia impressa nelle fede repubblicana
che ti dice che l’uomo è buono per natura
anzi il Romano della natura, mai da frustare (pp. 45-47)

IL LAGO
[THE LAKE. PONTOOSUC]

Tutto muore… e non solo
gli alberi elevati e gli uomini e l’erba
anche le forme lucenti dei poeti, passano
e le imprese solenni si sgretolano
anche la verità stessa decade e, guarda,
dalle sue ceneri amare cresce e menzogna e pena.

Tutto muore…

L’uomo che opera muore, e poi la sua opera
e come di questi pini di cui seguo le tombe
statua e scultore cadono a pezzi
in ogni amaranto si annida un verme
anche le stelle, dicono i Caldei, scompaiono
dal firmamento, e le Ande e gli Appalachi rivelano
la rovina, prima che Adamo cadesse,
e la natura oggi appare come muschio
sulle rovine della natura dei tempi trascorsi. (pp. 73-75)

Chi piange per questa morte di tutto?
Estate e inverno, gioia e dolore
e ogni cosa ovunque nel regno di Dio
finisce e tra poco inizierà di nuovo,
declina e cresce, cresce e declina,
ancora e con violenza
finisce, finisce, sempre, e inizia di nuovo
finisce, finisce sempre, eternamente si ripete! (p. 77)

IL FALCO DELLA NAVE DA GUERRA
[THE MAN-OF-WAR-HAWK]

Quel falco nero
della nave da guerra
che rotea nella luce
sopra la vela più alta, bianca
della nave nera
come una nuvola annerita dal sole
noi che voliamo basso, schiavi della gravità
abbiamo ali per ascendere alla sua altezza?
Nessuna freccia lo può raggiungere, nemmeno
il pensiero accendere alla quiete
suprema nel cerchio del suo regno. (p. 83)

LA MONTAGNA DI GHIACCIO. UN SOGNO
[THE BERG. A DREAM] p. 97

Ho visto una nave dall’aspetto guerriero
coi vessilli al vento con le vele spiegate
trascinata come da pazzia e basta
sfrecciate contro un iceberg immobile
e non lo scosse, anche se già la nave esaltata si inabissava.
Il cozzo precipitò grandine di immensi cubi di ghiaccio
cupi a tonnellate sfondarono la tolda:
ma quella sola valanga fu tutto
nulla si mosse, solo il relitto che colava a picco.
Dagli speroni dalle pallide creste
nemmeno l’albero più sottile e fragile nemmeno
un prisma precipitò nel deserto delle gole di verde cristallo
le stalattiti nelle grotte nelle miniere non ebbero
una sola vibrazione quando la nave attonita colò a picco,
non un fremito scosse i gabbiani che in una bianca nuvola
ruotavano lontani attorno a un picco dai fianchi nevosi
ma neppure gli uccelli più vicini che sfioravano i banchi
bassi di ghiaccio e le rive di cristallo ebbero un brivido.
Dall’urto nessun trasalimento scosse il blocco
delle orride guglie ala base
le torri minate delle onde restarono immobili
mentre il mare sovrastava nel gelido strapiombo.
Le foche viscide sonnecchianti sugli scogli scivolosi
non sgusciarono via, mai, quando agli orli più alti
rovesciata da pura inerzia la nave sussultante
s’inabissò nel vuoto nulla.
Montagna inanimata pensai, così gelida e vasta
annuvolata dalla tua umidità esiziale
che esali ancora il tuo fiato stillante e alla deriva
ti compi sciogliendoti, nata per la morte,
anche se immensa e fragorosa sei come un marinaio goffo e idiota
ti muovi lenta e quelli che in te s’imbattono
si pentono e si inabissano a sondare il tuo precipizio nel fondo
ma non turbano la molle sonnolenza del lumacone vischioso
mollemente sdraiato lungo la morta
indifferenza delle tue mura. (pp. 97-99)

CIOTTOLI
[PEBBLES]

IV
Sull’oceano dove riparano le flotte
schierate per la battaglia l’uomo,
che sofferente infligge, salpa sulla sofferenza.

V

Implacabile io, il vecchio implacabile mare:
implacabile più che mai quando più sorrido sereno
lieto, non appagato, da migliaia di naufragi in me. (p. 103)