DANIEL PENNAC – L’AMICO SCRITTORE. CONVERSAZIONE CON FABIO GAMBARO

DANIEL PENNAC – L’AMICO SCRITTORE. CONVERSAZIONE CON FABIO GAMBARO
FELTRINELLI – Collana VARIA – I ed Febbraio 2015
Disegni di Daniel Pennac

UN PENNAC (IL MIO) DALLA A ALLA Z. QUASI UNA PREFAZIONE
Di Fabio Gambaro p. 9

I – UN ROMANZIERE PER AMICO. p. 23

Sono uno scrittore e come tale sono percepito, quando incontro i miei lettori. Eppure non riesco a definirmi e a vivermi come uno scrittore. È strano: so benissimo di esserlo, ma non mi sento tale, come invece immagino accada a molti miei colleghi.[…]
Il lavoro di scrittore non è più nobile di altri.
Ma la scrittura è un mestiere?
Per me non lo è. È piuttosto un modo d’essere che mi rende più frequentabile, perché, se non potessi scrivere, sarei frustrato e molto più insopportabile. La necessità di scrivere è presente in me come un appetito biologico, una fame da saziare, ma anche come un tentativo di liberarmi di me stesso[…] (p. 25)
La scrittura mi fa bene: quando scrivo sfuggo all’angoscia. (p. 26)
L’amicizia nasce da una fiducia reciproca che però non deve essere connivenza morale: non sono disposto infatti a perdonare tutto agli amici, perché altrimenti la relazione acquisterebbe modalità di tipo mafioso. (p. 28)
Così, quando qualcuno si congratula con me per uno dei miei libri, cerco sempre di tenere distinto lo scrittore dalla persona che sono. Anche perché, al di fuori dell’atto di scrittura, smetto immediatamente di sentirmi uno scrittore[…] (p. 30)
il lettore legge sempre per se stesso, non per noi scrittori. Nella letteratura cerca se stesso, non colui che scrive. Di conseguenza, il giudizio che esprime sui nostri libri ci riguarda solo relativamente. Se il lettore ci apprezza, è soprattutto in funzione di quello che pensa di trovare di sé in ciò che abbiamo scritto, e la sua ammirazione può anche nascere da palesi errori d’interpretazione. (p. 31)
2 – I DIRITTI DELLO SCRITTORE p. 32
Se per il lettore il primo diritto è quello di non leggere, per un autore viene innanzitutto il diritto di non scrivere.[…]
Ma se non si ha l’assoluta necessità interiore di scrivere, è meglio aspettare, rimandare, e perfino rinunciare. (p. 34)
In realtà il bovarismo è pericoloso sia per il lettore che per lo scrittore. Quest’ultimo infatti, proiettandosi troppo in un personaggio, corre il rischio dell’autobiografismo e del narcisismo. (p. 35)
Ma Benjamin Malaussène non sei un po’ tu?
No, Benjamin è veramente l’incarnazione dell’idea del capri espiatorio.[…]
Insomma, nonostante nei miei personaggi si possano trovare alcune mie convinzioni e alcune mie esperienze, la mia identità di scrittore si realizza innanzitutto nella scrittura, non nei personaggi né nel ruolo sociale. […]
Non voglio che il mio ruolo pubblico di scrittore interferisca nella mia vita privata. (p. 36)
La vera saggezza nella scrittura è fare sempre ciò di cui si ha voglia, indipendentemente dalla critica, dal pubblico e dagli editori. (p. 43)
3 – UN BAMBINO IN GIRO PER IL MONDO p. 46
Probabilmente era un uomo timido, che nella vita quotidiana non esprimeva mai direttamente i suoi sentimenti, utilizzando piuttosto l’umorismo e il gioco. (p. 47)

4 – PRIMA DI MALAUSSÈNE p. 51
L’insegnamento è stata una scelta deliberata?
Assolutamente no. Sono diventato professore un po’ per caso, perché avevo bisogno di lavorare e quella era la via più rapida. Inoltre volevo scrivere, la cosa mi era chiara, ma non volevo fare il giornalista, perché non mi consideravo sufficientemente spontaneo e veloce nella scrittura per poter produrre al ritmo imposto da un quotidiano o da un settimanale. Scrivo molto lentamente, ho bisogno di molto tempo. Così, mi sono avvicinato alla scuola pensando alle lunghe vacanze dei professori che avrei riservato alla scrittura. All’inizio, dunque, l’insegnamento mi è apparso come un ripiego, poi però è diventato un aspetto essenziale della mia vita. Anche perché, il giorno in cui sono entrato in classe per la prima volta, li ho avuto un vero e proprio colpo di fulmine per la scuola: fin dal primo quarto d’ora, ho capito che quello era il lavoro per me, il lavoro che mi piaceva fare. (p. 53)
Proprio questo passato da somaro può spiegare il mio forte attaccamento alla scuola come professore[…]. (p. 54)
Che le mie storie sono invenzioni nutrite dalla mia esperienza. Io infatti mi impedisco di trasgredire l’intimità familiare. Non c’è nulla nei miei romanzi che da vicino o da lontano renda conto della mia vita privata; è evidente però che il mio mondo interiore come pure le mie esperienze nutrono di continuo le mie pagine, ma sempre in maniera traslata, senza cadere nella stretta autobiografia. (p. 56)
Non ho bisogno di un’altra attività, ho bisogno di persone che mi stiano a fianco, dato che non ho la sindrome della torre d’avorio. Il contatto umano è fondamentale per me. Se dovessi scegliere tra la scrittura e le persone che mi sono care, la scelta sarebbe immediata: opterei evidentemente per queste ultime. Non sacrificherei mai le persone alla scrittura. Scrivere non è tutto, i rapporti umani vengono prima. (p. 57)
A me però piaceva molto leggere, quindi, durante le ore pomeridiane riservate ai compiti, scrivevo le storie che non potevo leggere. La scrittura diventava la prosecuzione della lettura con altri mezzi. L’unico momento in cui potevo dedicarmi alla lettura in santa pace era la sera, quando nella camerata veniva spenta la luce: allora, con una torcia elettrica, mi mettevo a leggere sotto le coperte. (p. 58)
Per fortuna, la scoperta del realismo magico sudamericano suonava come un invito alla libertà creativa, una sorta di autorizzazione a procedere in qualunque direzione, compresa quella fantastica, purché fosse salvaguardata la relazione con i lettori. La lezione di Marquez consentiva di ribellarsi alla glaciazione strutturalista e al bisogno di produrre senso a tutti costi. Fu così che iniziai a scrivere storie per bambini. (p. 60)
5 – GIALLI, FAVOLE E CAPRI ESPIATORI p. 65
Céline ha detto molte stupidaggini a proposito di molte cose, ma in materia di letteratura ha sostenuto una cosa giusta: nel romanzo non vi è nulla di più volgare di un’idea. E un’affermazione evidentemente provocatoria e paradossale, il cui senso però ribadisce giustamente che la volgarità in letteratura è esattamente la pretesa d’imporre le proprie idee, disprezzando la specificità romanzesca. (p. 67)
In ogni caso, per quanto riguarda i miei romanzi, al cui interno non manca certo la dimensione sociologica, l’impressione della contaminazione con il mondo delle favole e del fumetto credo che nasca proprio dall’utilizzazione sistematica della metafora. (p. 68)
Secondo Girard, la regola fondamentale che consente la coesione del gruppo è proprio quella del capro espiatorio su cui si scarica l’aggressività di tutti. (p. 71)
6 – DA BELLEVILLE ALL’EUROPA p. 77
Il che pone il problema della responsabilità degli elettori, che si affidano alle canaglie perché pensano di poterne trarre vantaggio. (p. 81)
Da un governo di destra, conservatore per natura, non ci si attende il cambiamento, mentre da uno di sinistra sì: la delusione e lo sconforto favoriscono così l’adesione alle soluzioni populiste. (p. 82)
Abbiamo costruito un’Europa economica senza costruire l’Europa culturale che avrebbe dovuto esserne al base. E soprattutto non abbiamo riflettuto sul significato dell’identità comune. (p. 85)
7 – LA MIA FAMIGLIA È UNA TRIBÙ p. 89
In questi tempi di crisi la tribù Malaussène rappresenta un antidoto al pessimismo?
Benché non nutra grandi speranze sull’avvenire della specie umana, sono però convinto che esista in noi una sorta di ottimismo che ci spinge a resistere anche quando siamo perfettamente lucidi riguardo al terribile contesto in cui viviamo. […]
Gli amici li si aiuta e basta, perché altrimenti li si imprigiona in un sistema di scambio ricattatorio. Ecco, la famiglia Malaussène riflette questa idea dell’amicizia. (p. 90)
Siamo passati da un estremo all’altro: da un mondo dicotomico a un mondo dominato- dall’ossimoro, dove tutto coesiste, anche gli opposti, come se niente fosse. A causa della profusione di oggetti e stimoli, viviamo in una situazione confusa che sviluppa e magnifica un individualismo che-non deve più posizionarsi rispetto a nulla. Esattamente come all’epoca ero allergico all’imperativo dicotomico, oggi lo sono al dominio dell’ossimoro. Sono entrambe posizioni riduttive e semplicistiche. Io preferisco le posizioni intermedie, perché sono per la complessità, specie in un mondo in continuo movimento.
Qual è l’alternativa ai precetti ideologici?
In politica ‘come in letteratura, ho sempre creduto solo alle azioni e ai comportamenti. Giudico le persone per come agiscono, non per le loro dichiarazioni di principio. (p. 93)
C’è poi l’eterna questione della violenza: io però non credo che la televisione provochi la violenza mi sembra piuttosto che la estetizzi, rendendola accettabile. Così, giorno dopo giorno, ci abituiamo a essa e la integriamo nel nostro universo come un fatto naturale. Siamo come anestetizzati. Intendiamoci, internet e la televisione possono proporre opere piacevoli e stimolanti, ma quando vengono usati in maniera dissennata, per esempio per parcheggiare i figli, allora diventano pericolosi, perché finiscono per sostituirsi alle relazioni tra le persone.

Sei preoccupato dai progressi della realtà virtuale e dalle manipolazioni che questa rende possibili?
Sì, ma prima ancora di arrivare a certi eccessi, per me è proprio il passaggio dall’homo faber all’homo televisivus che è preoccupante. […]
La televisione, le televendite, il telelavoro e così via producono un uomo sempre più isolato e immobile. […]
Una società dove il virtuale prenderà il posto del reale. (p. 96)
Forse la sola differenza è che la solitudine della televisione è più ipnotica e passiva, mentre quella della lettura è più attiva e riflessiva. (p. 98)
8 – L’AMORE È SEMPRE UN ROMANZO D’AMORE p. 99
La maturità consiste nella capacità di perdonare: perdonare i propri figli e perdonare i propri genitori per non essere stati perfetti. Ma anche perdonare se stessi per aver erroneamente idealizzato i genitori. Molti dei nostri problemi di adulti nascono da questa incapacità. (p. 105)
Per me però, a parte le derive a cui facevo cenno prima, non è certo l’eredità del ’68 a mettere in pericolo la famiglia, ma piuttosto il consumismo sfrenato che spesso sostituisce le relazioni affettive. I genitori hanno trasformato i figli in consumatori oppure hanno permesso che lo diventassero. Per quanto riguarda l’alimentazione, l’abbigliamento, i trasporti, la cultura o l’informazione, i figli sono oggi consumatori a tutti gli effetti. Esattamente come i genitori. Nelle famiglie il consumo è diventato un sostituto dell’amore, un prodotto di scambio per ottenere qualcosa. Ma lo scambio per definizione è privo d’amore, che invece è sempre disinteressato. (p. 106)
Crastaing è un uomo di potere, pieno di conoscenze ma sempre distante dal mondo e dalle persone. Vede la realtà in modo astratto, attraverso le teorie; si corazza dietro la cultura, non si espone mai, non si mette mai in gioco. Insomma, Crastaing rappresenta un tipo di insegnante che è sempre esistito. Un uomo simile è il prodotto della cultura, dei principi educativi, dello spirito di casta, dei dispositivi mentali, dell’abitudine al comando di chi è stato programmato per esercitare freddamente il potere, senza scrupoli e senza incertezze, diventando però un paralitico del sentimento, incapace di lasciarsi andare al fantastico della vita. (p. 108)

9 – STORIE DI AMACHE E DITTATORI p. 109
Non sono un cinefilo, e non potrei mai diventarlo perché non ho memoria: dimentico tutto, libri, film, paesaggi, quadri. (p. 115)

10 – DIRE, FARE, NARRARE, METAFORE E IRONIE p. 117
Leggendo i tuoi romanzi, si resta affascinati dalle avventure rocambolesche dei personaggi e dalle trame assai complesse in cui non mancano mai sorprese e colpi di scena. Il meccanismo narrativo funziona sempre alla perfezione grazie alle architetture delle storie abilmente costruite. Puoi spiegare come lavori e come nascono le tue opere?
I miei romanzi nascono sempre da una lunga elaborazione, che passa attraverso una necessaria fase orale: come ho già accennato, per costruire una storia ho sempre bisogno di raccontarla a qualcuno, a mia moglie o a un amico. A furia di ripeterlo, l’intreccio a poco a poco si arricchisce, si precisa e si definisce, tanto che alla fine ho in testa tutto lo sviluppo della vicenda, le sue diverse fasi, la sequenza degli avvenimenti. Inizio a scrivere solo quando tutto il piano della storia è rigorosamente definito, in modo che la scrittura sia completamente libera da ogni preoccupazione tematica: non dovendo inventare più nulla dal punto di vista della trama, essa deve solo creare se stessa. Quando scrivo, insomma, cerco di avere solo preoccupazioni stilistiche. Naturalmente poi la struttura predeterminata non impedisce le digressioni, come i monologhi dei personaggi che nascono in fase di stesura del testo. (p. 118)
La mia scrittura è polimorfa, perché diffido dello stile piatto e semplicemente denotativo, che non aiuta né il racconto né le idee. Ma cerco anche di allontanarmi dalla prosa francese di derivazione proustiana, lambiccata e complessa.[…]
[…]mi tengo lontano dal classicismo, dando libero corso alla mia esuberanza linguistica. (p. 122)
11 – IL PUNTO DI VISTA DEL MORTO p. 125
La critica avviene sempre attraverso i personaggi che incarnano questo o quel principio, questo o quel comportamento riprovevole dal mio punto di vista. Non bisogna illudersi, il bene e il male esistono. Il male si manifesta in mille modi nella nostra società, attraverso la prevaricazione del più forte sul più debole, la violenza delle istituzioni e cli chi nasconde il manganello sotto il mantello della legge. Personalmente, mi attengo a una definizione essenziale del male: fa il male colui per il quale il fine giustifica i mezzi, qualunque sia la natura di questo fine. Non appena si accetta l’utilizzo di uno strumento infame per raggiungere un fine ideale, si è comunque nel torto, si è corrotti perché si è scelto di usare mezzi ingiusti. E non c’è niente di peggio di un ideale che si corrompe utilizzando metodi che lo contraddicono. (p. 126)
Il politico eletto non rappresenta più i suoi elettori ma agisce alloro posto, una volta era un rappresentante degli elettori di fronte al potere, oggi è il potere stesso. (p. 127)
In questo senso non credo nella letteratura impegnata. In compensò, sono convinto che nei romanzi si trasmetta sempre una visione del mondo, proponendo un insieme, di comportamenti che inevitabilmente sono anche politici. I miei romanzi non sono neutrali, come invece pretendono di essere certi romanzi intimisti, sentimentali e autobiografici. (pp. 127-128)
I miei romanzi esprimono una visione del mondo che è la mia, altri ne trasmetteranno altre. […]
Per esempio, dal punto di vista estetico-letterario i risultati di Céline restano sublimi, soprattutto nel Viaggio al termine della notte e in Morte a credito, benché come individuo lui mi sia sempre sembrato un imbecille un po’ sinistro, impressione peraltro confermata dalla sua corrispondenza. (p. 128)
Ma dal punto di vista del messaggio, lo ripeto, non sono uno scrittore impegnato, non voglio trasmettere messaggi o educare chicchessia, anche se certo dai miei libri traspare una sensibilità progressista. (p. 130)
Ma quando un problema t’indigna o ti rivolta, ritieni che debba essere affrontato in maniera metaforica e letteraria nei tuoi libri, o invece in maniera diretta con il tuo intervento in prima persona come cittadino?
Non ho la mania delle petizioni, preferisco evitare l’inflazione presenzialista di certi intellettuali. Ogni tanto comunque firmo anch’io, quando si tratta di argomenti che mi stanno particolarmente a cuore. Certo, potrei anche militare in qualche movimento, ma non lo faccio. In compenso, però, nella vita quotidiana cerco di essere coerente con i miei principi, per esempio contrastando ogni forma di razzismo in cui mi capita d’imbattermi. (p. 132)
Nondimeno, sono convinto che dal substrato culturale, più ancora che dai singoli libri, nascano le coscienze. E l’insieme delle letture, oltre che delle esperienze, a creare a poco a poco quell’humus culturale a partire dal quale si formano le coscienze, che evidentemente possono poi contribuire a cambiare il mondo.
Per te cosa vuoi dire cambiare il mondo?
Innanzitutto, provare a cambiare i miei comportamenti, facendo in modo che i miei atti privati siano sempre più coerenti con i principi che difendo. (p. 135)

12 – NEL PALAZZO DELLA LETTERATURA p. 139

Tu oggi ti senti espressione della cultura francese?
Non so se i miei libri siano rappresentativi della cultura francese, ma è certo che mi sento impregnato di questa cultura, che per me è rappresentata soprattutto dalla lingua. Quando scrivo, mi sento francese dalla testa ai piedi. Ho una vera e propria passione per la lingua francese, motivo per cui mi sento vicino a scrittori come La Fontaine, La Bruyère, Molière, Proust o Céline, tutti molto radicati nella lingua, anche se naturalmente ciascuno a modo suo e con effetti diversi., Quando leggo Céline, per esempio, quasi mi passa la voglia di scrivere, perché la sua, scrittura impressionante sfrutta ed esaurisce tutta l’energia della lingua, rendendo quasi impossibile un’altra scrittura. La lettura di Proust invece è un invito a scrivere, perché le sue frasi complesse ed elaborate sembrano non concludersi mai, invitando chi legge a proseguire il lavoro. La scrittura di Céline è come l’assenzio o l’etere, una droga che rende ubriachi e quindi incapaci di scrivere; quella di Proust invece è come un ottimo Bordeaux, il cui profumo resta a lungo in bocca: la sua frase possiede un aroma che non finisce mai. (p. 140)
Prima hai ricordato quanto siano stati importanti per te i giallisti americani. Anche i narratori francesi hanno contato nel tuo lavoro di scrittore?
Solo quelli che hanno lavorato sulla lingua, come Raymond Queneau o Romain Gary. Altrimenti, come ho detto, i miei grandi amori letterari sono stati i romanzi russi e inglesi dell’Ottocento, che ho letto anche per spirito di contraddizione pedagogica nei confronti dei miei insegnanti. All’epoca, preferivo Dostoevskij a Balzac, Dickens a Zola: il risultato è che oggi conosco poco e male i grandi romanzieri della tradizione francese ottocentesca. Stendhal per esempio non mi piace, ma in Francia dire una cosa del genere è quasi un crimine. Naturalmente poi ci sono le eccezioni,’ come A ritroso di Huysmans, che fu una vera folgorazione. A ripensarci,’ mi rendo conto che le opere che mi hanno maggiormente colpito, indipendentemente dalla nazionalità dei loro autori, sono proprio i romanzi della non azione, del non desiderio, della rinuncia: Bartleby di Melville, Oblomov di Goncarov, Il libro dell’inquietudine di ‘Pessoa, Viaggio al termine della notte di Céline. Non so perché mi abbiano tanto impressionato, dato che nessuno dei loro protagonisti mi assomiglia: a me infatti i desideri non mancano, eppure questa letteratura mi ha sempre affascinato. (p. 141)
Nel paesaggio letterario contemporaneo vedi emergere qualche tendenza particolare?
Vedo la moda dell’autofinzione e dell’autobiografismo, di cui ho parlato prima. Negli ultimi vent’anni, con il venir meno degli ideali collettivi, si è diffusa una letteratura ultraindividualista, il cui unico scopo è parlare della vita dell’autore. E una letteratura autoreferenziale e chiusa in se stessa, che forse è effettivamente espressione di una crisi. (p. 145)
13 – LEGGERE È UN ATTO DI LIBERTÀ p. 147
Innanzitutto, che la lettura deve essere un piacere più che un dovere. Parlare di dovere non ha senso, come pure non ha senso dire che è meglio non leggere piuttosto che leggere testi inutili o superficiali: si tratta di un’idea tipica di una società dove tutto deve rendere immediatamente. (p. 149)
Se vogliamo riconquistare alla lettura chi ne ha paura, non possiamo presentargli tale attività come obbligatoria, normativa e produttrice di risultati immediati. Chiunque deve essere libero di non leggere o di leggere ciò che gli pare, indipendentemente da ogni giudizio di valore sui testi che ha scelto. (p. 150)
Per quanto riguarda la grande accusata, la televisione (e più in generale il mondo di internet e delle immagini), non credo che si debba demonizzare: la televisione non uccide la lettura. Naturalmente gli eccessi sono sempre pericolosi, ma la lettura e l’universo dell’immagine possono benissimo coesistere. La televisione non è responsabile di tutto. Spesso però i genitori obbligano i figli a leggere, mentre loro passano le serate davanti al televisore.
Poi si stupiscono se ai figli non piace leggere!
Nelle famiglie in cui i genitori amano la lettura ma senza imporla ai figli, anche questi spesso leggono. La lettura è un comportamento che si può trasmettere: ai bambini infatti noi non trasmettiamo valori, ma comportamenti. (p. 151)
Crescendo, quello che prima ci sembrava un mattone, può rivelarsi una nuvola. (p. 152)
[…]quando leggiamo, mandiamo al diavolo tutti. La lettura è dunque un atto sovversivo, e al contempo una tregua che dichiariamo unilateralmente nell’incessante battaglia della vita quotidiana. Una tregua che ci consente di sfuggire alle contingenze di cui siamo prigionieri e di ritrovarci per qualche ora in un altro mondo. (p. 153)
In moltissime famiglia si straparla di libri ma nessuno legge mai una riga. […]
Sostenere che sia meglio non leggere piuttosto che leggere un’opera di scarso valore letterario è una follia. (p. 155)
È meglio proporre libri più semplici e superficiali, che però possono diventare un’efficace via d’accesso a opere più letterarie[…].
A volte basta un solo libro per amare uno scrittore per sempre. (p. 156)
Quando un libro mi piace, infatti, non è perché rappresenta un’idea, una poetica o un capitolo di storia letteraria, ma perché ho la sensazione di aver incontrato una personalità familiare.[…]
Ma sono soprattutto le persone che ci vogliono bene quelle che ci aiutano di più: i consigli dei parenti, degli amici o degli amanti ci fanno scoprire i libri più belli. Quando amiamo qualcuno, gli consigliamo sempre i libri che ci sono piaciuti di più; motivo per cui, per leggere bene, bisogna scegliere bene le persone di cui ci si innamora! (p. 157)
I non lettori radicali sono veramente pochi, e spesso per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la lettura stessa. Poi naturalmente c’è anche l’eccesso opposto, quello dei lettori che leggono di tutto e di continuo per creare una barriera tra loro e la vita: usano al bulimia di lettura come una muraglia che li protegge dalle minacce del mondo reale. (pp. 157-158)
Per la lettura è la stessa cosa: dire “non ho il tempo di leggere” è una frase insensata. Posso dire che non ne ho bisogno, che non mi piace o che non ne ho voglia, ma dire che non ho tempo è ridicolo. E solo una scusa per coprire la non voglia di leggere, che naturalmente è una non voglia legittima. Nessuno è obbligato ad aver voglia di leggere, ma i non lettori pensano sempre di doversi scusare. Il che è assurdo. (p. 158)
14 – IL COMPIUTER E LA TARTARUGA p. 161
[…] aprire una libreria è una vera follia, ma questa follia è l’amore per il libro. Fare il libraio oggi è quasi un apostolato: conosco librai che non guadagnano praticamente nulla, ma che hanno librerie magnifiche, e altri che agiscono come se gestissero una biblioteca personale aperta al pubblico o che addirittura rimborsano i libri che non sono piaciuti ai loro clienti.[…]
Il libraio è come il professore: vende quello che è. Se è bravo, dinamico, aperto e competente avrà tanti clienti felici di entrare nel suo negozio. (p. 163)
Alcune persone della mia generazione contrappongono all’ebook la sensualità del libro, il contatto con la carta, il profumo dell’inchiostro e della colla. Sono caratteristiche reali, ma probabilmente noi siamo sensibili a tutto ciò solo perché abbiamo sempre. maneggiato libri di carta. Immagino che i giovani stiano sviluppando nuove sensibilità legate alla brillantezza dello schermo, alla dimensione tattile e più in generale a una sensualità figlia dell’estetica delle nuove tecnologie. (p. 164)
Tra la carta e il computer c’è però una differenza importante: il foglio bianco è uno specchio che rimanda a noi stessi, mentre lo schermo è un baratro profondo in cui ci si inabissa. (p. 165)
Per i lettori professionisti e per i cosiddetti lettori forti, le nuove tecnologie diventeranno utili strumenti per letture ancora più approfondite. Costoro potranno sfruttare gli ebook a vantaggio della loro erudizione; per verificare l’esattezza delle loro intuizioni e per guadagnare tempo. La dematerializzazione del libro offrirà loro prospettive straordinarie. Insomma, come per qualsiasi altro strumento tecnico, anche per il libro elettronico i risultati dipenderanno da chi lo utilizzerà e come. Personalmente non posso dire molto, perché finora ho sempre letto solo libri di carta, ma chissà, forse in futuro anch’io passerò al libro elettronico. (p. 166)
15 – TRISTEZZE SCOLASTICHE p. 167
In seguito la paura tipica dell’ultimo della classe mi ha accompagnato anche nella vita adulta, e in particolare nell’attività di scrittore. Se durante tutta l’infanzia ti senti ripetere che non vali nulla, da adulto avrai sempre paura di non essere all’altezza. (p. 169)

Tu alla fine però sei finito a fare l’insegnante. Com’è stato ritrovarsi dall’altra parte della barricata? Nelle mie classi c’erano allievi che aveva parecchi problemi scolastici, e alcuni di loro persino problemi giudiziari. Ho capito immediatamente che quegli adolescenti irrequieti erano schiacciati dallo stesso senso di sconfitta che avevo conosciuto io. Nei loro confronti non sentivo empatia, semplicemente riconoscevo in loro quello che avevo provato io: la paura intellettuale, la paura di non rispondere correttamente alle domande poste dagli adulti. E sapevo che tutti i somari soffrono, perché il somaro felice non esiste, è un’immagine idealizzata. Quando si ha una pessima immagine di se stessi, inevitabilmente si soffre: la sofferenza provoca vergogna, la vergogna si trasforma in risentimento, il risentimento finisce per rivolgersi contro il contesto che l’ha fatto nascere, producendo conflittualità, tensioni e violenze contro se stessi e contro gli altri. (pp. 170-171)
Interrogando un ragazzino terrorizzato, si finisce solo per terrorizzarlo ancora di più, relegandolo alla fine nella categoria degli incapaci di apprendere. Al contrario, mi sono sempre rivolto ai miei studenti, anche ai peggiori, cercando di sottrarli alla loro condizione di emarginati e provando a trasmettere loro un po’ di sicurezza. (p. 173)
Occorre sempre battersi contro il fatalismo?
Certo. Nessuno è condannato a restare per sempre il somaro di turno. […]
Parlando dei problemi della scuola, tu hai spesso ricordato la condizione dei giovani prigionieri della società dei consumi…
Il consumismo è la maggiore difficoltà con cui si scontra il sistema scolastico. La società dei consumi bombarda gli individui fin da bambini di proposte allettanti. Nei giovani stimola desideri che questi scambiano per bisogni fondamentali e che spesso vengono immediatamente appagati dai genitori. E gravissimo che i giovani sia considerati dalla società esclusivamente come potenziali clienti, la cui identità è definita dai beni di consumo e dall’ostentazione delle marche. (p. 174)
16 – PAROLE IN SCENA p. 177
Inoltre, Bartleby fa parte di quella famiglia dei “non desideranti” a cui mi sono sempre sentito vicino e di cui fanno parte il Meursault di Camus come il Bardamu di Céline: sono personaggi che esprimono una rinuncia radicale, figlia di un misticismo senza dio.
Perché ti affascinano così tanto?
Forse perché anch’io provo la tentazione di sottrarmi alla commedia del mondo che mi sta attorno; è una tentazione che non metto in pratica, ma che mi affascina sul piano letterario. (pp. 181)
Come sempre in me agiscono due tendenze opposte: la vitalità naturale che mi spinge verso gli altri contrapposta al bisogno di solitudine e di isolamento. (p. 183)

17 – IL CORPO SCRITTO p. 187
Non a caso non credo alla psicanalisi e invece sono un adepto degli psicofarmaci che risolvono il sintomo. Per inciso, la psicanalisi e il comunismo sono i due grandi malintesi del XX secolo, ma per motivi opposti. Il comunismo è una teoria legittima e giustificabile, i comunisti però hanno fallito, dato che nella realtà concreta la nozione di potere ha finito per annullare gli elementi positivi della teoria. Per la psicanalisi avviene il contrario: è discutibile e debole sul piano teorico, ma è certo che gli psicanalisti esistono e fanno del bene alle persone. (pp. 188-189)
Viviamo nel regno del corpo trionfante, che però è sempre un corpo sognato, idealizzato e trasformato in un’immagine da consumare: come tutto, anche il corpo è un bene di consumo. (p. 189)
Nasciamo e moriamo soli, indipendentemente dalle qualità degli amori che abbiamo vissuto, della famiglia che abbiamo costruito, degli amici che abbiamo frequentato: la nascita e la morte sono due momenti dei solitudine indiscutibili, in cui nessuno può nulla per noi. (p. 192)

19 – IL RITORNO DI MALAUSSÈNE p. 211

20 – UN FINALE IN TRENTASETTE DOMANDE p. 217
Un mestiere che avresti voluto fare, se non fossi stato scrittore?
Il medico. Céline diceva che l’uomo è cattivo, e quando è malato lo è ancor di più, motivo per cui bisogna curarlo.
La tua droga preferita?
Il silenzio. (p. 218)
Un atteggiamento che detesti?
L’ostentazione. […]
Il tuo principale difetto?
La malinconia, perché produce interminabili momenti di paralisi mentale. […]
Il tuo più grande dolore?
La perdita delle persone amate.
Il peccato che t’ispira la maggior indulgenza?
L’avarizia, perché nell’avaro c’è sempre una complessità nascosta. (p. 219)