PRIMO LEVI – SE QUESTO È UN UOMO (OPERE I)

 

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PRIMO LEVI – SE QUESTO È UN UOMO (OPERE I)
EINAUDI, collana «L’Orsa», I ed. 1987, copia n°949 isbn: 8806599208
Le citazioni presenti in questa sintesi sono tratte dalla versione contenuta nel volume I delle Opere.
SE QUESTO È UN UOMO
SHEMÀ
Voi che vivete sicuri
 nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
 il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi:
ripetetela ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
10 gennaio 1946
PREFAZIONE p.3
Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. […] Perciò questo mio libro[…] non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. […] Esso è il prodotto di una concezione del mondo portate alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo. (p.3) […][Il libro] è nato già fin dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare agli «altri», di fare gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari; il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore.[…] Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato. PRIMO LEVI [1947] (p.4)
 IL VIAGGIO p.5
Il 13 dicembre Primo Levi viene catturato dalle Milizie fasciste. Faceva allora parte di una disorganizzata squadra partigiana aspirante affiliata a Giustizia e Libertà…
Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre, 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione. Non mi era stato facile scegliere la via della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affiliata a «Giustizia e Libertà». Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l’esperienza per procurarseli[…]Tre centurie della Milizia, partite in piena notte per sorprendere un’altra banda, di noi ben più potente e pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di neve nel nostro rifugio, e mi condussero a valle come persona sospetta. (pp.5-6)
Nel corso dell’interrogatorio si dichiara di razza ebraica e così viene inviato al centro di raccolta di Fossoli…
Negli interrogatori che seguirono, preferii dichiarare la mia condizione di «cittadino italiano di razza ebraica»,[…] Come ebreo, venni inviato a Fessoli, presso Modena, dove un vasto campo di internamento, già destinato ai prigionieri di guerra inglesi e americani, andava raccogliendo gli appartenenti alle numerose categorie di persone non gradite al neonato governo fascista repubblicano. (p.6)
In breve tempo il numero di ebrei internati sale ad oltre seicento. Ma ecco che l’arrivo di SS inizia a far temere il peggio. E così avviene. Il 21 febbraio lui e gli altri ebrei sono informati della partenza fissata per il giorno seguente. Ognuno vive tale momento a modo suo…
Al momento del mio arrivo, e cioè alla fine del gennaio 1944, gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta circa, ma entro poche settimane il loro numero giunse a oltre seicento.[…] L’arrivo di un piccolo reparto di SS tedesche avrebbe dovuto far dubitare anche gli ottimisti; si riuscì tuttavia a interpretare variamente questa novità, senza trarne la più ovvia delle conseguenze, in modo che, nonostante tutto, l’annuncio della deportazione trovò gli animi impreparati. (p.6)
Ma il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati. Soltanto una minoranza d i ingenui e di illusi si ostinò nella speranza: noi avevamo parlato a lungo coi profughi polacchi e croati, e sapevamo che cosa voleva dire partire.[…] E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, ed i cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare? (p.8)
Solo le donne della famiglia Gattegno, la notte della partenza, si dedicano al lutto…
Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato. (p.8)
Ed eccoli quindi caricati su una delle tristemente famose tradotte tedesche...
I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo cosi spesso sentito narrare. Proprio cosi, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro siamo noi. (p.9)
E poi il treno parte: destinazione Auschwitz. Del suo vagone, solo in quattro riusciranno a tornare a casa…
Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: che pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità. Gli sportelli erano stati chiusi subito, ma il treno non si mosse che a sera. Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra. Il treno viaggiava lentamente, con lunghe soste snervanti. […] Fra le quarantacinque persone del mio vagone, quattro soltanto hanno rivisto le loro case; e fu di gran lunga il vagone più fortunato. (p.10)
L’assillo peggiore, durante il viaggio, sono le notti rese insonni dalla mancanza di silenzio…
Meno tormentose erano per tutti la fame, la fatica e l’insonnia, rese meno penose dalla tensione dei nervi: ma le notti erano incubi senza fine. Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con dignità, e spesso non quelli che ti aspetteresti. Pochi sanno tacere, e rispettare il silenzio altrui. Il nostro sonno inquieto era interrotto sovente da liti rumorose e futili, da imprecazioni, da calci e pugni vibrati alla cieca come difesa contro qualche contatto molesto e inevitabile.(p.11)
Dopo cinque lunghi giorni ecco l’apertura delle portiere. Di fronte alle SS, incredibilmente imperturbabili nello svolgimento di un lavoro per loro ormai quotidiano, sono divisi in due gruppi: abili ed inabili… Primo si ritrova tra i primi e caricato su un autocarro alla volta del campo di lavoro Buna-Monowitz. Gli altri ai forni crematori di Birkenau…
Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. […] Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. […] italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni. Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa d i più apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. […] In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente.[…](pp.12-13)
Scomparvero cosi, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla. Emersero invece nella luce dei fanali due drappelli di strani individui. Camminavano inquadrati, per tre, con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato in avanti e le braccia rigide. In capo avevano un buffo berrettino, ed erano vestiti di una lunga palandrana a righe[…] (p.13) Domani anche noi saremmo diventati così. (p.14)
Senza sapere come, mi trovai caricato su di un autocarro con una trentia di altri; l’autocarro partì nella notte[…] (p.14)
SUL FONDO p.15
Dopo venti minuti di viaggio eccoli giunti a destinazione passando sotto l’insegna ARBEIT MACHT FREI affissa alla porta d’ingresso…
Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l’autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): ARBEI MACHT FREI, il lavoro rende liberi. […] (p.15)
L’impressione è subito di essere all’inferno, di sentirsi già morti…
Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere cosi, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a no n succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia. (p.15)
Dopo lunga attesa in una stanza vuota giunge un SS. Devono spogliarsi e sono poi rasati da quattro ebrei che parlano Yiddish. Da interprete funge un ebreo tedesco, Flesch… La morte è ormai una certezza per Primo…
Che facce goffe abbiamo senza capelli! I quattro parlano una lingua che non sembra di questo mondo, certo non è tedesco, io un poco il tedesco lo capisco. […] Ma ormai la mia idea è che tutto questo è una grande macchina per ridere di noi e vilipenderci, e poi è chiaro che ci uccidono, chi crede di vivere è pazzo, vuol dire che ci è cascato, io no, io ho capito che presto sarà finita, forse in questa stessa camera, quando si saranno annoiati di vederci nudi, ballare da un piede all’altro e provare ogni tanto a sederci sul pavimento, ma ci sono tre dita d’acqua fredda e non ci possiamo sedere. (p.17)
Flesch soffre doppiamente per la situazione… Dopo la notte al gelo nelle docce, l’indomani un altro internato gli spiega che sono a Monowitz. Ma alcune delle cose che racconta sono così incredibili da farlo sembrare pazzo. Poi sono vestiti, disinfettati e tatuati…
Questo Flesch, che si adatta molto a malincuore a tradurre in italiano frasi tedesche piene di gelo, e rifiuta di volgere in tedesco le nostre domande perché sa che è inutile, è un ebreo tedesco sulla cinquantina, che porta in viso la grossa cicatrice di una ferita riportata combattendo contro gli italiani sul Piave. È un uomo chiuso e taciturno, per il quale provo un istintivo rispetto perché sento che ha cominciato a soffrire prima di noi. […] Noi siamo a Monowitz, vicino ad Auschwitz, in Alta Slesia: una regione abitata promiscuamente da tedeschi e polacchi. Questo campo è un campo di lavoro, in tedesco si dice Arbeitslager; tutti i prigionieri (sono circa diecimila) lavorano ad una fabbrica di gomma che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna. Riceveremo scarpe e vestiti, no, non i nostri: altre scarpe, altri vestiti, come i suoi. […] Certo, ci sarà da lavorare, tutti qui devono lavorare […] (p.18)
Noi gli facciamo molte domande, lui qualche volta ride, risponde ad alcune e non ad altre, si vede bene che evita certi argomenti. Delle donne non parla: dice che stanno bene, che presto le rivedremo, ma non dice né come né dove. Invece ci racconta altro, cose strane e folli, forse anche lui si fa gioco di noi. Forse è matto: in Lager si diventa matti. Dice che tutte le domeniche ci sono concerti e partite di calcio. Dice che chi tira bene di boxe può diventare cuoco. Dice che chi lavora bene riceve buoni-premio con cui ci si può comprare tabacco e sapone. (p.19)
Ed eccoli poi fuori, allineati sul piazzale con gli altri. È in quel momento che Primo capisce di non esser più un uomo. Sono sul fondo e tutto gli è stato tolto…
Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili I e sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri i sera. Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di cosi non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare si che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che cosi sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre. Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo. (pp.20-21)
Sono un numero ora, quello tatuato sull’avambraccio sinistro…
Hàftlìng: ho imparato che io sono uno Hàftling. Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro. […] E per molti giorni, quando l’abitudine dei giorni liberi mi spinge a cercare l’ora sull’orologio a polso, mi appare invece ironicamente il mio nuovo nome, il numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l’epidermide. […] Ai vecchi del campo, il numero dice tutto: l’epoca di ingresso al campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di conseguenza la nazionalità. (p.21)
Per il resto della giornata stazionano nella camerata loro assegnata dove giunge un ragazzo che parla francese, appena uscito dall’infermeria, il quale gli dà qualche altra misera informazione…
Ed è questo il ritornello che da tutti ci sentiamo ripetere: non siete più a casa, questo non è un sanatorio, di qui non si esce che per il Camino (cosa vorrà dire? lo impareremo bene più tardi). (p.23)
Poi, la sera, ancora allineati in cortile per la conta dopo il rientro degli internati dal lavoro al ritmo di fanfara… Primo riesce a scambiare qualche parola con un sedicenne, Schlome…
Non ho più rivisto Schlome, ma non ho dimenticato il suo volto grave e mite di fanciullo, che mi ha accolto sulla soglia della casa dei morti. (p.25)
In breve apprende la topografia del Lager, le suddivisioni tra gli internati, le poche semplici ma fondamentali regole di sopravvivenza…
In mezzo al Lager è la piazza dell’Appello, vastissima, dove ci si raduna al mattino per costituire le squadre di lavoro, e alla sera per venire contati. Di fronte alla piazza dell’Appello c’è una aiuola dall’erba accuratamente rasa, dove si montano le forche quando occorre. Abbiamo ben presto imparato che gli ospiti del Lager sono distinti in tre categorie: i criminali, i politici e gli ebrei. Tutti sono vestiti a righe, sono tutti Hàftlinge, ma i criminali portano accanto al numero, cucito sulla giacca, un triangolo verde; i politici un triangolo rosso; gli ebrei, che costituiscono la grande maggioranza, portano la stella ebraica, rossa e gialla. Le SS ci sono si, ma poche, e fuori del campo, e si vedono relativamente di rado: i nostri padroni effettivi sono i triangoli verdi, i quali hanno mano libera su di noi, e inoltre fra le due altre categorie che si prestano ad assecondarli: i quali non sono pochi. Ed altro ancora abbiamo imparato, più o meno rapidamente, a seconda del carattere di ciascuno; a rispondere «Jawohl », a non fare mai domande, a fingere sempre di avere capito. Abbiamo appreso il valore degli alimenti; […] Abbiamo imparato che tutto serve; il fil di ferro, per legarsi le scarpe; gli stracci, per ricavarne pezze da piedi; la carta, per imbottirsi (abusivamente) la giacca contro il freddo. Abbiamo imparato che d’altronde tutto può venire rubato, anzi, viene automaticamente rubato non appena l’attenzione si rilassa; e per evitarlo abbiamo dovuto apprendere l’arte di dormire col capo su un fagotto fatto con la giacca, e contenente tutto il nostro avere, dalla gamella alle scarpe. (p.27)
Fondamentali le scarpe… Né si creda che le scarpe, nella vita del Lager, costituiscano un fattore d’importanza secondaria. La morte incomincia dalle scarpe: esse si sono rivelate, per la maggior parte di noi, veri arnesi di tortura, che dopo poche ore di marcia davano luogo a piaghe dolorose che fatalmente si infettavano. Chi ne è colpito, è costretto a camminare come se avesse una palla al piede (ecco il perché della strana andatura dell’esercito di larve che ogni sera rientra in parata); arriva ultimo dappertutto, e dappertutto riceve botte; non può scappare se lo inseguono; i suoi piedi si gonfiano, e pili si gonfiano, più l’attrito con il legno e la tela delle scarpe diventa insopportabile. Allora non resta che l’ospedale: ma entrare in ospedale con la diagnosi di «dicke Fùsse» (piedi gonfi) è estremamente pericoloso, perché è ben noto a tutti, ed alle SS in ispecie, che di questo male, qui, non si può guarire. E in tutto questo, non abbiamo ancora accennato al lavoro, il quale è a sua volta un groviglio di leggi, di tabù e di problemi. Tutti lavoriamo, tranne i malati (farsi riconoscere come malato comporta di per sé un imponente bagaglio di cognizioni e di esperienze). Tutte le mattine usciamo inquadrati dal campo alla Buna; tutte le sere, inquadrati, rientriamo. Per quanto concerne il lavoro, siamo suddivisi in circa duecento Kommandos, ognuno dei quali conta da quindici a centocinquanta uomini ed è comandato da un Kapo. (pp.28-29)
L’orario di lavoro è variabile con la stagione. Tutte le ore di luce sono ore lavorative: perciò si va da un orario minimo invernale (ore 8-12 e 12,30-16) a uno massimo estivo (ore 6,30-12 e 13-18). (p.30)
Sul futuro meglio non porsi questioni essendo già difficile la sopravvivenza presente…
Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il ritmo prestabilito, Ausrucken ed Einrucken, uscire e rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire o morire. … E fino a quando? Ma gli anziani ridono a questa domanda: a questa domanda si riconoscono i nuovi arrivati. (p.30)
Dopo quindici giorni dall’ingresso anche Primo è ormai “mutato”...
Dopo quindici giorni dall’ingresso, già ho la fame regolarmente, la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e siede in tutte le membra dei nostri corpi; già ho imparato a non lasciarmi derubare, e se anzi trovo in giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi possa appropriare senza pericolo di punizione, li intasco e li considero miei di pieno diritto. Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro. Avevamo deciso di trovarci, noi italiani, ogni domenica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, e più squallidi. Ed era cosi faticoso fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo. (p.31)
INIZIAZIONE p.32
Primo viene assegnato al Block 30. Anche se poi le suddivisioni contano poco, immersi come sono nella Babele del Lager…
La Confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiù; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra a volo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza nessuno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro 1 muri, come fanno le pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte. (p.32)
Lavarsi, gli insegna Steinlauf, evita di ridursi a bestia…
In questo luogo, lavarsi tutti i giorni nell’acqua torbida del lavandino immondo è praticamente inutile ai fini della pulizia e della salute; è invece importantissimo come sintomo di residua vitalità, e necessario come strumento di sopravvivenza morale. Devo confessarlo: dopo una sola settimana di prigionia, ! in me l’istinto della pulizia è sparito. (p.34)
Ma Steinlauf mi dà sulla voce. […] mi somministra una lezione in piena regola. […] Ma questo ne era il senso, non dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. (p.35)
KA-BE p.37
I giorni son tutti uguali e tutti nel lager son nemici o rivali…
I giorni si somigliano tutti, non è facile contarli. […] Intorno, tutto ci è nemico. Sopra di noi, si rincorrono le nuvole maligne, per separarci dal sole; da ogni parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva del filo spinato che ci segrega dal mondo. […] Tutti ci sono nemici o rivali. (p.36)
Primo prova però simpatia per un giovane, Null Achtzehn, ormai svuotato e lavoratore eccessivo. Spesso si ritrovano a lavorare insieme…
No, in verità, in questo mio compagno di oggi, aggiogato oggi con me sotto lo stesso carico, non sento un nemico né un rivale. È Null Achtzehn. Non si chiama altrimenti che cosi, Zero Diciotto, le ultime tre cifre del suo numero di matricola: come se ognuno si fosse reso conto che solo un uomo è degno di avere un nome, e che Null Achtzehn non è più un uomo. Credo che lui stesso abbia dimenticato il suo nome, certo si comporta come se cosi fosse. Quando parla, quando guarda, dà l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro[…] (p.37)
Non possiede la rudimentale astuzia dei cavalli da traino, che smettono di tirare un po’ prima di giungere all’esaurimento: ma tira o porta o spinge finché le forze glielo permettono, poi cede di schianto, senza una parola di avvertimento, senza sollevare dal suolo gli occhi tristi e opachi. Mi ricorda i cani da slitta dei libri di London, che faticano fino all’ultimo respiro e muoiono sulla pista. Ora, poiché noi tutti cerchiamo invece con ogni mezzo di sottrarci alla fatica, Null Achtzehn è quello che lavora più di tutti. Per questo, e perché è un compagno pericoloso, nessuno vuol lavorare con lui; e siccome d’altronde i nessuno vuol lavorare con me, perché sono debole e maldestro, così spesso accade che ci troviamo accoppiati. (p.38)
Un treno che passa fa sognare per un momento Primo, ma:
Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche. (p.39)
Poi Primo si ferisce al piede durante il trasporto di una sbarra di ghisa. La sera, aumentando il dolore, si reca quindi in infermeria, detta Ka-Ba…
Lo spigolo di ghisa mi ha colpito di taglio il dorso del piede sinistro. […] L’incidente è chiuso. Constato che, bene o male, mi posso reggere in piedi, l’osso non deve essere rotto. Non oso togliere la scarpa per paura di risvegliare il dolore, e anche perché so che poi il piede gonfierà e non potrò più rimetterla. (p.40)
Ka-Be è abbreviazione di Krankenbau, l’infermeria. Sono otto baracche, simili in tutto alle altre del campo, ma separate da un reticolato. Contengono permanentemente un decimo della popolazione del campo, ma pochi vi soggiornano più di due settimane e nessuno più di due mesi: entro questi termini siamo tenuti a morire o a guarire. Chi ha tendenza alla guarigione, in Ka-Be viene curato; chi ha tendenza ad aggravarsi, dal Ka-Be viene mandato alle camere a gas. Tutto questo perché noi, per nostra fortuna, apparteniamo alla categoria degli «ebrei economicamente utili». Al Ka-Be non sono mai stato, neppure all’Ambulatorio, e tutto qui è nuovo per me. (p.41)
Dopo l’ennesima fila in coda, viene dichiarato Arztovrmelder. Tornato in baracca Chajim gli spiega che l’indomani dovrà andare a visita…
Lascio le scarpe al deposito e ritiro lo scontrino relativo, dopo di che, scalzo e zoppicante, le mani impedite da tutte le povere mie cose che non posso lasciare da nessuna parte, sono ammesso all’interno e mi accodo a una nuova fila che fa capo alla sala delle visite. […] Arriva finalmente la mia volta: sono ammesso davanti al medico, l’infermiere mi toglie il termometro e mi annuncia: – Nummer 174 517, kein Fieber -. Per me non occorre una visita a fondo: sono immediatamente dichiarato Arztvormelder, che cosa voglia dire non so, non è certo questo il posto di domandare spiegazioni. Mi trovo espulso, ricupero le scarpe e ritorno in baracca. Chajim si felicita con me: ho una buona ferita, non pare pericolosa e mi garantisce un discreto periodo di riposo. Passerò la notte in baracca con gli altri, ma domani mattina, invece di andare al lavoro, mi debbo ripresentare ai medici per la visita definitiva: questo vuol dire Arztvormelder. Chajim è pratico di queste cose, e pensa che probabilmente domani verrò ammesso al Ka-Be. Chajim è il mio compagno di letto, ed io ho in lui una fiducia cieca. È un polacco, ebreo pio, studioso della Legge. Ha press’a poco la mia età, è di mestiere orologiaio, e qui in Buna fa il meccanico di precisione; è perciò fra i pochi che conservino la dignità e la sicurezza di sé che nascono dall’esercitare un’arte per cui si è preparati. (pp.42-43)
L’indomani, dopo la visita, è assegnato al blocco 23. Prova a chiedere informazioni a due polacchi presenti che però lo umiliano ulteriormente. Qualche ora dopo è assegnato alla cuccetta dieci…
Tutti sanno che i centosettanta-quattromila sono gli ebrei italiani: i ben noti ebrei italiani, arrivati due mesi fa, tutti avvocati, tutti dottori, erano più di cento e già non sono che quaranta, quelli che non sanno lavorare e si lasciano rubare il pane e prendono schiaffi dal mattino alla sera; i tedeschi li chiamano «zwei linke Hàn-de» (due mani sinistre), e perfino gli ebrei polacchi li disprezzano perché non sanno parlare yiddisch. (p.44)
Du Jude kaputt. Du schnell Krematorium fertig – (tu ebreo spacciato, tu presto crematorio, finito). (p.45) Qualche altra ora è passata prima che tutti i ricoverati venissero presi in forza, ricevessero la camicia e fosse compilata la loro scheda. Io, come al solito, sono stato l’ultimo; […] Finalmente anche per me si è aperta la porta, e ho potuto entrare nel dormitorio. […] Io sono stato assegnato alla cuccetta 10; miracolo! è vuota. (p.45)
In infermeria la vita è innegabilmente meno dura…
La vita del Ka-Be è vita di limbo. I disagi materiali sono relativamente pochi, a parte la fame e le sofferenze inerenti alle malattie. Non fa freddo, non si lavora, e, a meno di commettere qualche grave mancanza, non si viene percossi. (p.46)
E dal letto riflette il mattino dopo sull’infernale musica che ogni giorno accompagna i reclusi al lavoro e li accoglie al ritorno…
… E per la prima volta da che sono in campo, la sveglia mi coglie nel sonno profondo, e il risveglio è un ritorno dal nulla. Alla distribuzione del pane si sente lontano, fuori dalle finestre, nell’aria buia, la banda che incomincia a suonare: sono i compagni sani che escono inquadrati al lavoro. Dal Ka-Be la musica non si sente bene: arriva assiduo e monotono il martellare della grancassa e dei piatti, ma su questa trama le frasi musicali si disegnano solo a intervalli, col capriccio del vento. Noi ci guardiamo l’un l’altro dai nostri letti, perché tutti sentiamo che questa musica è infernale. (p.46)
Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente. Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è più volontà: ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione riflessa dei muscoli sfatti. (p.47)
I due vicini di cuccetta, l’olandese Walter e il polacco Schmulek, gli spiegano delle selezioni cui lui non vuol ancora credere. L’indomani però capisce tutto con l’esperienza diretta…
Cosi, «der Italeyner» non crede alle selezioni? Schmulek vorrebbe parlare tedesco ma parla yiddisch; lo capisco a stento, solo perché lui vuole farsi capire. Fa tacere Walter con un cenno, ci penserà lui a farmi persuaso: – Mostrami il tuo numero: tu sei il 174 517. Questa numerazione è incominciata diciotto mesi fa, e vale per Auschwitz e per i campi dipendenti. Noi siamo ora diecimila qui a Buna-Monowitz; forse trentamila fra Auschwitz e Birkenau. Wo sind die Andere? dove sono gli altri? – Forse trasferiti in altri campi…? – propongo io. Schmulek crolla il capo, si rivolge a Walter: Er will nix verstayen, – non vuole capire. (pp.48-49)
Ma era destino che presto mi inducessi a capire, e Schmulek stesso ne facesse le spese. A sera si è aperta la porta della baracca, una voce ha gridato – Achtung! -e ogni rumore si è spento e si è sentito un silenzio di piombo. Sono entrate due SS (uno dei due ha molti gradi, forse è un ufficiale?), si sentivano i loro passi nella baracca come se fosse vuota; hanno parlato col medico capo, questi ha mostrato loro un registro indicando qua e là. […] Ecco, ha posato lo sguardo su Schmulek; tira fuori il libretto, controlla il numero del letto e il numero del tatuaggio. Io vedo tutto bene, dall’alto: ha fatto una crocetta accanto al numero di Schmulek. Poi è passato oltre. Io guardo ora Schmulek, e dietro di lui ho visto gli occhi di Walter, e allora non ho fatto domande. Il giorno dopo, invece del solito gruppo di guariti, sono stati messi in uscita due gruppi distinti. I primi sono stati rasi e tosati e hanno fatto la doccia. I secondi sono usciti cosi, con le barbe lunghe e le medicazioni non rinnovate, senza doccia. Nessuno ha salutato questi ultimi, nessuno li ha incaricati di messaggi per i compagni sani. (pp.49-50)
Il non lavorare gli permette di avere il tempo per pensare e, di conseguenza, di tornare con la mente ai ricordi, unitamente alla salda convinzione di non poter ritornare mai vivi a casa…
Il Ka-Be è il Lager a meno del disagio fisico. Perciò, chi ancora ha seme di coscienza, vi riprende coscienza; perciò, nelle lunghissime giornate vuote, vi si parla di altro che di fame e di lavoro, e ci accade di considerare che cosa ci hanno fatti diventare, quanto ci è stato tolto, che cosa è questa vita. In questo Ka-Be, parentesi di relativa pace, abbiamo imparato che la nostra personalità è fragile, […] Quando si lavora, si soffre e non si ha tempo di pensare: le nostre case sono meno di un ricordo. (p.51)
Qui, lontani momentaneamente dalle bestemmie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo. […] Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo. (p.52)
LE NOSTRE NOTTI p.53
Dopo venti giorni, rimarginatasi la ferita, Primo viene dimesso dalla KA-BA…
Dopo venti giorni di Ka-Be, essendosi la mia ferita praticamente rimarginata, con mio vivo dispiacere sono stato messo in uscita. (p.53)
È assegnato, con sua gioia, al Block 45, quello del suo amico Alberto…
Ma l’uomo che esce dal Ka-Be, nudo e quasi sempre insufficientemente ristabilito, si sente proiettato nel buio e nel gelo dello spazio siderale. I pantaloni gli cascano di dosso, le scarpe gli fanno male, la camicia non ha bottoni. Cerca un contatto umano, e non trova che schiene voltate. E inerme e vulnerabile come un neonato, eppure al mattino dovrà marciare al lavoro. In queste condizioni mi trovo io quando l’infermiere, dopo i vari riti amministrativi prescritti, mi ha affidato alle cure del Blockaltester del Block 45. Ma subito un pensiero mi colma di gioia: ho avuto fortuna, questo è il Block di Alberto! Alberto è il mio migliore amico. Non ha che ventidue anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. Lo sostengono intelligenza e istinto: ragiona giusto, spesso non ragiona ed è ugualmente nel giusto. Intende tutto a volo: non sa che poco francese, e capisce quanto gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in italiano e a gesti, si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. « Sa» chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, a chi si deve resistere. Eppure (e per questa sua virtù oggi ancora la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo. Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte. (p.54)
Sogni ricorrenti son di raccontare e non esser creduti neanche dai propri cari e, ovviamente, di mangiare…
Qui c’è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del Kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola. (p.57) Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, e io, benché sveglio, sono tuttora pieno della sua angoscia: e allora mi ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l’ho già sognato, non una ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche di averlo già raccontato ad Alberto, e che lui mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni cosi costantemente, nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata? […] Si sentono i dormienti respirare e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare: anche questo è un sogno collettivo. E un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo. Non si vedono soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e concreti, se ne percepisce l’odore ricco e violento; qualcuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi una qualche circostanza, ogni volta diversa, fa si che l’atto non vada a compimento. (p.58)
E poi il terrore del momento della sveglia che, inesorabile, arriva ad ogni alba…
Cosi si trascinano le nostre notti. Il sogno di Tantalo e il sogno del racconto si inseriscono in un tessuto di immagini più indistinte: la sofferenza del giorno, composta di fame, percosse, freddo, fatica, paura e promiscuità, si volge di notte in incubi informi di inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle notti di febbre. Ci si sveglia a ogni istante, gelidi di terrore, con un sussulto di tutte le membra, sotto l’impressione di un ordine gridato da una voce piena di collera, in una lingua incompresa. […] ancora una volta percepiamo il nostro cervello mettersi in moto al di fuori del nostro volere; picchia e ronza, incapace di riposo, fabbrica fantasmi e segni terribili, e senza posa li disegna e li agita in nebbia grigia sullo schermo dei sogni. Ma per tutta la durata della notte, attraverso tutte le alternanze di sonno, di veglia e di incubo, vigila l’attesa e il terrore del momento della sveglia:[…] (p.60)
La parola straniera cade come un pietra sul fondo di tutti gli animi. «Alzarsi»: l’illusoria barriera delle coperte calde, l’esile corazza del sonno, la pur tormentosa evasione notturna, cadono a pezzi intorno a noi, e ci ritroviamo desti senza remissione, esposti all’offesa, atrocemente nudi e vulnerabili. Incomincia un giorno come ogni giorno, lungo a tal segno da non potersene ragionevolmente concepire la fine, tanto freddo, tanta fame, tanta fatica ce ne separano:[…](p.61)
Quando io ho rifatto la cuccia e mi sono vestito, scendo sul pavimento e mi infilo le scarpe. Allora mi si riaprono le piaghe dei piedi, e incomincia una nuova giornata. (p.62)
IL LAVORO p.63
Suo compagno di lavoro e di cuccetta è l’ebreo polacco Resnyk, ben più forte di lui. Nel trasportare traversine quello fa in modo di aiutarlo poi, spossato, Primo chiede di poter andare in bagno. Poi torna al lavoro fino alle dodici, ora del misero pasto e dell’agognato breve riposo…
UNA BUONA GIORNATA p.70
La primavera è l’unica momentanea meta che i reclusi si pongono. Un tiepido sole è così motivo di gioia…
La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera. Di altro, ora, non ci curiamo. Dietro a questa meta non c’è, ora, altra meta. [….] Oggi per la prima volta il sole è sorto vivo e nitido fuori dell’orizzonte di fango. E un sole polacco freddo bianco e lontano, e non riscalda che l’epidermide, ma quando si è sciolto dalle ultime brume un mormorio è corso sulla nostra moltitudine senza colore, e quando io pure ho sentito il tepore attraverso i panni, ho compreso come si possa adorare il sole. (p.70)
Verdi i prati, ma sempre e solamente grigia la Buna…
Per la prima volta ci siamo accorti che, ai due lati della strada, anche qui i prati sono verdi: perché, se non c’è sole, un prato è come se non fosse verde. La Buna no: la Buna è disperatamente ed essenzialmente opaca e grigia. Questo sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo è la negazione della bellezza. Le sue strade e i suoi edifici si chiamano come noi, con numeri o lettere, o con nomi disumani e sinistri. Dentro al suo recinto non cresce un filo d’erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è vivo se non macchine e schiavi: e più quelle di questi. (p.71)
Il freddo dell’inverno è lontano, ma fame e sete restano…
Oggi è una buona giornata. Ci guardiamo intorno, come ciechi che riacquistino la vista, e ci guardiamo l’un l’altro. Non ci eravamo mai visti al sole: qualcuno sorride. Se non fosse della fame! (p.72)
Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori dietro i maggiori, secondo una legge prospettica definita. Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere in campo. Ed è anche questa la ragione per cui cosi spesso, nella vita libera, si sente dire che l’uomo è incontentabile: mentre, piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto, si tratta di una sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità, per cui alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente disposte, si dà un solo nome, quello della causa maggiore; fino a che questa abbia eventualmente a venir meno, e allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che dietro ve n’è un’altra; e in realtà, una serie di altre. Perciò, non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame: e, ripetendo lo stesso errore, cosi oggi diciamo: « Se non fosse della fame!…» Ma come si potrebbe pensare di non aver fame? il Lager la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente[…](p.73)
Come è debole la nostra carne! Io mi rendo conto appieno di quanto siano vane queste fantasie di fame, ma non mi posso sottrarre alla legge comune, e mi danza davanti agli occhi la pasta asciutta che avevamo appena cucinata, Vanda, Luciana, Franco ed io, in Italia al campo di smistamento, quando ci è giunta a un tratto la notizia che all’indomani saremmo partiti per venire qui; […](p.74)
Ma oltre al sole ecco un’altra sorpresa: ben tre litri di zuppa aggiuntiva…
Ma non soltanto a causa del sole oggi è giorno di gioia: a mezzogiorno una sorpresa ci attende. Oltre al rancio normale del mattino, troviamo nella baracca una meravigliosa marmitta da cinquanta litri, di quelle della Cucina di Fabbrica, quasi piena. (p.75)
Per qualche ora, possiamo essere infelici alla maniera degli uomini liberi. (p.76)
AL DI QUA DEL BENE E DEL MALE p.76
È tempo di cambio di biancheria e nel campo gli scambi alla “borsa nera” si fanno febbrili…
Avevamo una incorreggibile tendenza a vedere in ogni avvenimento un simbolo e un segno. (p.77)
A condurre gli affari sono ovviamente gli ebrei di Salonicco…
Ciascuno nel suo angolo consueto, stazionano in Borsa i mercanti di professione; primi fra questi i greci, immobili e silenziosi come sfingi, accovacciati a terra dietro alle gamelle di zuppa densa, frutto del loro lavoro, delle loro combinazioni e della loro solidarietà nazionale. I greci sono ormai ridotti a pochissimi, ma hanno portato un contributo di prim’ordine alla fisionomia del campo, ed al gergo internazionale che vi circola. Tutti sanno che « caravana » è la gamella, e che «la comedera es buena» vuol dire che la zuppa è buona; il vocabolo che esprime l’idea generica di furto è «klepsi-klepsi», di evidente origine greca. Questi pochi superstiti della colonia ebraica di Salonicco, dal duplice linguaggio, spagnolo ed ellenico, e dalle molteplici attività, sono i depositari di una concreta, terrena, consapevole saggezza in cui confluiscono le tradizioni di tutte le civiltà mediterranee. Che questa saggezza si risolva in campo con la pratica sistematica e scientifica del furto e dell’assalto alle cariche, e con il monopolio della Borsa dei ba-, ratti, non deve far dimenticare che la loro ripugnanza dalla brutalità gratuita, la loro stupefacente coscienza del sussistere di una almeno potenziale dignità umana, facevano dei greci in Lager il nucleo nazionale più coerente, e, sotto f questi aspetti, più civile. (pp.79-80)
Ma gli scambi più redditizi sono quelli con i civili polacchi o di altre nazionalità esterni al campo…
Il traffico coi civili è un elemento caratteristico dell’Arbeitslager, e, come si è visto, ne determina la vita economica. (p.82)
Il traffico maggiore di merci ha luogo però nella KA-BE…
 In questa complessa rete di furti e controfurti, alimentati dalla sorda ostilità fra i comandi SS e le autorità civili della Buna, una funzione di prim’ordine è esplicata dal Ka-Be. Il Ka-Be è il luogo di minor resistenza, la valvola da cui più facilmente si possono evadere i regolamenti ed eludere la sorveglianza dei capi. Tutti sanno che sono gli infermieri stessi quelli che rilanciano sul mercato, a basso prezzo, gli indumenti e le scarpe dei morti, e dei selezionati che partono nudi per Birkenau; sono gli infermieri e i medici che esportano in Buna i sulfamidici di assegnazione, vendendoli ai civili contro generi alimentari. (p.85)
Insomma ecco il quadro del commercio nel campo:
In conclusione: il furto in Buna, punito dalla Direzione civile, è autorizzato e incoraggiato dalle SS; il furto in campo, represso severamente dalle SS, è considerato dai civili una normale operazione di scambio; il furto fra Hàftlinge viene generalmente punito, ma la punizione colpisce con uguale gravità il ladro e il derubato. Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere, che cosa potessero significare in Lager le nostre parole «bene» e «male», «giusto» e «ingiusto »; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato. (p.87)
I SOMMERSI E I SALVATI p.88
Il Lager è stato una gigantesca esperienza biologica e sociale, scrive Primo Levi, che giunge alla conclusione che esistono in esso due sole categorie di individui: i sommersi e i salvati…
Vorremmo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale. Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita. Noi non crediamo alla più ovvia e facile deduzione: che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto come si comporta quando ogni sovrastruttura civile sia tolta, e che lo «Hàftling » non sia dunque che l’uomo senza inibizioni. Noi pensiamo piuttosto che, quanto a questo, null’altro si può concludere, se non che di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio. Ci pare invece degno di attenzione questo fatto: viene in luce che esistono fra gli uomini due categorie particolarmente ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse. […] (pp.88-89) Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivenza è senza remissione, perché ognuno e disperatamente e ferocemente solo. (p.89) Nel Lager, dove l’uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti. Con gli adatti, con gli individui forti e astuti, i capi stessi mantengono volentieri contatti, talora quasi camerateschi, perché sperano di poterne trarre forse più tardi qualche utilità. Ma ai mussulmani, agli uomini in dissolvimento, non vale la pena di rivolgere la parola, poiché già si sa che si lamenterebbero, e racconterebbero quello che mangiavano a casa loro. […](p.90)
Il risultato di questo spietato processo di selezione naturale si sarebbe potuto leggere nelle statistiche del movimento dei Lager. Ad Auschwitz, nell’anno 1944, dei vecchi prigionieri ebrei (degli altri non diremo qui, ché altre erano le loro condizioni), «Ideine Nummer», piccoli numeri inferiori al centocinquantamila, poche centinaia sopravvivevano; nessuno di questi era un comune Hàftling, vegetante nei comuni Kommandos e pago della normale razione. Restavano solo i medici, i sarti, i ciabattini, i musicisti, i cuochi, i giovani attraenti omosessuali, gli amici o compaesani di qualche autorità del campo; inoltre individui particolarmente spietati, vigorosi e inumani, insediatisi (in seguito a investitura da parte del comando delle SS, che in tale scelta dimostravano di possedere una satanica conoscenza umana) nelle cariche di Kapo, di Blockàltester, o altre; e infine coloro che, pur senza rivestire particolari funzioni, per la loro astuzia ed energia fossero sempre riusciti a organizzare con successo, ottenendo cosi, oltre al vantaggio materiale e alla reputazione, anche indulgenza e stima da parte dei potenti del campo. Chi non sa diventare un Organisator, Kombinator, Prominent (truce eloquenza dei termini!) finisce in breve mussulmano. Una terza via esiste nella vita, dove è anzi la norma; non esiste in campo di concentramento. Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo.[…] La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro, i Musulmanner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere i una immane tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.(pp.90-91)
Spiega quindi le varie categorie di salvati…
La via maestra, come abbiamo accennato, è la Promi-nenz. «Prominenten» si chiamano i funzionari del campo, a partire dal direttore-Haftling (Lageràltester) ai Kapos, ai cuochi, agli infermieri, alle guardie notturne, fino agli scopini delle baracche e agli Scheissminister e Bademeister (sovraintendenti alle latrine e alle docce). […] I prominenti ebrei costituiscono un triste e notevole fenomeno umano. In loro convergono le sofferenze presenti, passate e ataviche, e la tradizione e l’educazione di ostilità verso lo straniero, per farne mostri di asocialità e di insensibilità. Essi sono il tipico prodotto della struttura del Lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. Costui sarà sottratto alla legge comune, e diverrà intangibile; sarà perciò tanto più odioso e odiato, quanto maggior potere gli sarà stato concesso. Quando gli venga affidato il comando di un manipolo di sventurati, con diritto di vita o di morte su di essi, sarà crudele e tirannico, perché capirà che se non lo fosse abbastanza, un altro, giudicato più idoneo, subentrerebbe al suo posto. (pp.92-93)
Sui prominenti non ebrei c’è meno da dire, benché fossero di gran lunga i più numerosi (nessuno Hàftling «ariano » era privo di una carica, sia pure modesta). Che siano stati stolidi e bestiali è naturale, a chi pensi che per lo più erano criminali comuni, scelti dalle carceri tedesche in visi a appunto del loro impiego come sovrintendenti nei campi per ebrei; e riteniamo che fosse questa una scelta ben accurata, perché ci rifiutiamo di credere che gli squallidi esemplari umani che noi vedemmo all’opera rappresentino un campione medio, non che dei tedeschi in genere, anche soltanto dei detenuti tedeschi in specie. E più difficile spiegarsi come in Auschwitz i prominenti politici tedeschi, polacchi e russi, rivaleggiassero in brutalità con i rei comuni. Ma è noto che in Germania la qualifica di reato politico si applicava anche ad atti quali il traffico clandestino, i rapporti illeciti con ebree, i furti a danno di funzionari del Partito. I politici «veri» vivevano e morivano in altri campi, dal nome ormai tristemente famoso, in condizioni notoriamente durissime, ma sotto molti aspetti diverse da quelle qui descritte. (pp.93-94)
Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni e di compromessi. Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi. (p.94)
Elias è stato sicuramente uno dei più idonei, per via della sua struttura psico-fisica, perfettamente adatto al luogo privo di leggi rappresentato dal Lager…
C’è del vero nelle tre supposizioni. Elias è sopravvissuto alla distruzione dal di fuori, perché è fisicamente indistruttibile; ha resistito all’annientamento dal di dentro, perché è demente. È dunque in primo luogo un superstite: è il pili adatto, l’esemplare umano piti idoneo a questo modo di vivere. Se Elias riacquisterà la libertà, si troverà confinato in margine del consorzio umano, in un carcere o in un manicomio. Ma qui, in Lager, non vi sono criminali né pazzi: non criminali, perché non v’è legge morale a cui contravvenire, non pazzi, perché siamo determinati, e ogni nostra azione è, a tempo e luogo, sensibilmente l’unica possibile. (p.100)
ESAME DI CHIMICA p.104
Nel Campo viene finalmente costituito un Kommando chimico, il n°98…
Il Kommando 98, detto Kommando Chimico, avrebbe dovuto essere un reparto di specialisti. Il giorno in cui fu dato l’annuncio ufficiale della sua costituzione, uno sparuto gruppo di quindici Hàftlinge si radunò intorno al nuovo Kapo, in piazza dell’Appello, nel grigiore dell’alba. (p.104)
È questa per Primo l’unica occasione di salvezza…
Benché noi ci pensiamo non più di qualche minuto al giorno, e anche allora in uno strano modo staccato ed esterno, noi sappiamo bene che finiremo in selezione. Io so che non sono della stoffa di quelli che resistono, sono troppo civile, penso ancora troppo, mi consumo al lavoro, i Ed ora so anche che mi salverò se diventerò Specialista, e [ diventerò Specialista se supererò un esame di chimica. (p.106)
Ed ecco, dopo tre giorni dalla formazione del Kommando, la chiamata per sostenere il temuto esame. Esaminatore è il dottor Pannwitz…
Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli, e siede formidabilmente dietro una complicata scrivania. Io, Hàftling 174 517, sto in piedi nel suo studio che è un vero studio, lucido pulito e ordinato, e mi pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi toccare. Quando ebbe finito di scrivere, alzò gli occhi e mi guardò. […] Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania. Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». E nel mio capo, come semi in una zucca vuota: «Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi. Nessuna comunicazione possibile. Sono specializzato in chimica mineraria. Sono specializzato in sintesi organiche. Sono specializzato… » (p.109)
– Mi sono laureato a Torino nel 1941, summa cum laude, – e, mentre lo dico, ho la precisa sensazione di non esser creduto, a dire il vero non ci credo io stesso, basta guardare le mie mani sporche e piagate, i pantaloni da forzato incrostati di fango. Eppure sono proprio io, il laureato di Torino, anzi, particolarmente in questo momento è impossibile dubitare della mia identità con lui, infatti il serbatoio dei ricordi di chimica organica, pur dopo la lunga inerzia, risponde alla richiesta con inaspettata docilità; e ancora, questa ebrietà lucida, questa esaltazione che mi sento calda per le vene come la riconosco, è la febbre degli esami, la mia febbre dei miei esami, quella spontanea mobilitazione di tutte le facoltà logiche e di tutte le nozioni che i miei compagni di scuola tanto mi invidiavano. L’esame sta andando bene. A mano a mano che me ne rendo conto, mi pare di crescere di statura. Ora mi chiede su quale argomento ho fatto la tesi di laurea. […] Qualcosa mi protegge. Le mie povere vecchie Misure di costanti dielettriche interessano particolarmente questo ariano biondo dalla esistenza sicura: mi chiede se so l’inglese, mi mostra il testo del Gattermann, e anche questo è assurdo e inverosimile, che quaggiù, dall’altra parte del filo spinato, esista un Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo in Italia, in quarto anno, a casa mia. (p.110)
Sembra sia andato bene, ma in Lager mai fare previsioni…
Pare che sia andata bene, ma sarebbe insensato farci conto. Conosco già abbastanza il Lager per sapere che non si devono mai fare previsioni, specie se ottimistiche. Quello che è certo, è che ho passato una giornata senza lavorare, e quindi stanotte avrò un po’ meno fame, e questo è un vantaggio concreto e acquisito. (p.112)
IL CANTO DI ULISSE p.112
Una mattina Primo deve accompagnare il giovane Jean a prelevare il rancio per il Kommando. Strada facendo il ragazzo gli esterna il desiderio di imparare l’italiano e così lui ne approfitta per citare la Divina Commedia di Dante. Ma, ahilui, i ricordi sono frammentari… Nonostante ciò quel ricordare gli consente di essere altrove, anche se per poco…
Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. (p.117)
I FATTI DELL’ESTATE p.119
Passano i mesi ma la vita nel Campo non cambia. Lontani i ricordi e poco interessanti per i reclusi perfino le notizie apparentemente positive provenienti dal fronte…
Nel mese di agosto 1944, noi, entrati cinque mesi prima, contavamo ormai fra gli anziani. […] Eravamo dei vecchi Hàftlinge: la nostra saggezza era il «non cercar di capire», non rappresentarsi il futuro, non tormentarsi sul come e sul quando tutto sarebbe finito: non porre e non porsi domande. (p.119)
Le notizie, apprese in cantiere, dello sbarco alleato in Normandia, dell’offensiva russa e del fallito attentato a Hitler, avevano sollevato ondate di speranza violente ma effimere. Ognuno sentiva, giorno per giorno, le forze fuggire, la volontà di vivere sciogliersi, la mente ottenebrarsi; e la Normandia e la Russia erano cosi lontane, e l’inverno cosi vicino; cosi concrete la fame e la desolazione, e cosi irreale tutto il resto, che non pareva possibile che veramente esistesse un mondo e un tempo, se non il nostro mondo di fango, e il nostro tempo sterile e stagnante a cui eravamo oramai incapaci di immaginare una fine. Per gli uomini vivi le unità del tempo hanno sempre un valore, il quale è tanto maggiore, quanto più elevate sono le risorse interne di chi le percorre; ma per noi, ore, giorni e mesi si riversavano torpidi dal futuro nel passato, sempre troppo lenti, materia vile e superflua di cui cercavamo di disfarci al più presto. Conchiuso il tempo in cui i giorni si inseguivano vivaci, preziosi e irreparabili, il futuro ci stava davanti grigio e inarticolato, come una barriera invincibile. Per noi, la storia si era fermata. (p.120)
Poi però i bombardamenti iniziano ad interessare i dintorni e il Campo stesso…
Ma nell’agosto ’44 incominciarono i bombardamenti sull’Alta Slesia, e si prolungarono, con pause e riprese irregolari, per tutta l’estate e l’autunno fino alla crisi definitiva. (p.120) Nella Buna imperversavano i civili tedeschi, nel furore dell’uomo sicuro che si desta da un lungo sogno di dominio, e vede la sua rovina e non la sa comprendere. Anche i Reichsdeutsche del Lager, politici compresi, nell’ora del pericolo risentirono il legame del sangue e del suolo. Il fatto nuovo riportò l’intrico degli odii e delle incomprensioni ai suoi termini elementari, e ridivise i due campi: i politici, insieme con i triangoli verdi e le SS vedevano, o credevano di vedere, in ognuno dei nostri visi, lo scherno della rivincita e la trista gioia della vendetta. Essi trovarono concordia in questo, e la loro ferocia raddoppiò. Nessun tedesco poteva ormai dimenticare che noi eravamo dall’altra parte: dalla parte dei terribili seminatori che solcavano il cielo tedesco da padroni, al di sopra di ogni sbarramento, e torcevano il ferro vivo delle loro opere, portando ogni giorno la strage fin dentro alle loro case, nelle case mai prima violate del popolo tedesco. (p.121)
Ma la maggior parte sopportò il nuovo pericolo e il nuovo disagio con immutata indifferenza: non era rassegnazione cosciente, ma il torpore opaco delle bestie domate con le percosse, a cui non dolgono più le percosse. […] Ad allarme finito, ritornavamo da ogni parte ai nostri posti, gregge muto innumerevole, assueto all’ira degli uomini e delle cose; e riprendevamo quel nostro lavoro di sempre, odiato come sempre, e inoltre ormai palesemente inutile e insensato. (p.122)
È in questo periodo che conosce Lorenzo, un operaio italiano che gli lascia sempre qualcosa da mangiare e gli spedisce addirittura delle lettere…
In questo mondo scosso ogni giorno più profondamente dai fremiti della fine vicina, fra nuovi terrori e speranze e intervalli di schiavitù esacerbata, mi accadde di incontrare Lorenzo. […] (p.122)
In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso. (p.123)
I civili polacchi, vedendoli docili e senz’anima, li hanno sempre ritenuti degni della loro sorte. Ma aver la fortuna di entrare in contatto con essi o con operai di altre nazionalità, era il massimo che a un recluso potesse accadere, soprattutto se disinteressati come Lorenzo con lui…
Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanne! fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per es sere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; civedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onorai e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa,; ci giudicano degni della nostra abiezione. (p.124)
Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo cosi piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi. I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvagie e stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Hàftlinge indifferenziati e schiavi, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna. Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo. (p.125)
OTTOBRE 1944 p.126
Un nuovo inverno giunge con l’inevitabile dose di sofferenze aggiuntive che esso porta con sé…
Con tutte le nostre forze abbiamo lottato perché l’inverno non venisse. Ci siamo aggrappati a tutte le ore tiepide, a ogni tramonto abbiamo cercato di trattenere il sole in i cielo ancora un poco, ma tutto è stato inutile. Ieri sera il sole si è coricato irrevocabilmente in un intrico di nebbia sporca, di ciminiere e di fili, e stamattina è inverno. Noi sappiamo che cosa vuol dire, perché eravamo qui l’inverno scorso, e gli altri lo impareranno presto. Vuol dire che, nel corso di questi mesi, dall’ottobre all’aprile, su dieci di noi, sette morranno. Chi non morrà, soffrirà minuto per minuto, per ogni giorno, per tutti i giorni: dal mattino avanti l’alba fino alla distribuzione della zuppa serale dovrà tenere costantemente i muscoli tesi, danzare da un piede all’altro, sbattersi le braccia sotto le ascelle per resistere al freddo. (p.126)
Considerando il tutto, è evidente che le parole assumano nel Lager un altro significato rispetto a quello che le si attribuisce nel mondo libero…
Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene. In quel modo con cui si vede finire una speranza, cosi stamattina è stato inverno. (p.127)
Ma inverno vuol dire anche qualcosa di peggio: selezioni…
Perché «inverno» vuol dire altro ancora. […] Le selezioni si sentono arrivare. «Selekcja»: la ibrida parola latina e polacca si sente una volta, due volte, molte volte, intercalata in discorsi stranieri; dapprima non la si individua, poi si impone all’attenzione, infine ci perseguita. (p.127)
Anche stavolta Primo ce la fa, chissà, forse per una svista ma ce la fa…Gli altri sono inviati a Birkenau il cui camino fuma senza sosta…
Su questa esigua base anch’io ho attraversato la grande selezione dell’ottobre 1944 con inconcepibile tranquillità. Ero tranquillo perché ero riuscito a mentirmi quanto era bastato. Il fatto che io non sia stato scelto è dipeso soprattutto dal caso e non dimostra che la mia fiducia fosse ben fondata. (p.129)
A Birkenau il camino del Crematorio fuma da dieci giorni. Deve essere fatto posto per un enorme trasporto in arrivo dal ghetto di Posen. […] Sembra che tutto vada come ogni giorno, il camino delle cucine fuma come di consueto, già si comincia la distribuzione della zuppa. Ma poi si è udita la campana, e allora si è capito che ci siamo. Perché questa campana suona sempre all’alba, e allora è la sveglia, ma quando suona a metà giornata vuol dire «Blocksperre», clausura in baracca, e questo avviene quando c’è selezione, perché nessuno vi si sottragga, e quando i selezionati partono per il gas, perché nessuno li veda partire. (p.130)
Qui, davanti alle due porte, sta l’arbitro del nostro destino, che è un sottufficiale delle SS. Ha a destra il Blockàltester, a sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum nel freddo dell’aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del dormitorio. La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a sua volta la scheda all’uomo alla sua destra o all’uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi.[…] Io confitto nel carnaio del Tagesraum ho sentito gradualmente allentarsi la pressione umana intorno a me, e in breve è stata la mia volta. Come tutti, sono passato con passo energico ed elastico, cercando di tenere la testa alta, il petto in fuori e i muscoli contratti e rilevati. Con la coda dell’occhio ho cercato di vedere alle mie spalle, e mi è parso che la mia scheda sia finita a destra. […] Prima ancora che la selezione sia terminata, tutti già sanno che la sinistra è stata effettivamente la «schlechte Seite», il lato infausto. (pp.131-132)
C’è chi, superata la selezione, insensatamente ringrazia Dio…
A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn. (pp.133-134) KRAUS p.135
Nel corso di una giornata di lavoro è uno dei nuovi arrivati, l’ungherese Kraus, al centro dei pensieri di Primo. Non ce la farà…
Pensa ancora… oh no, povero Kraus, non è ragionamento il suo, è solo la sua sciocca onestà di piccolo impiegato, se la è portata fin qui dentro, e ora gli pare che sia come fuori, dove lavorare è onesto e logico, e inoltre conveniente, perché, a quanto tutti dicono, quanto più uno lavora, tanto più guadagna e mangia. (p.136)
Che buon ragazzo doveva essere Kraus da borghese: non vivrà a lungo qui dentro, questo si vede al primo sguardo e si dimostra come un teorema. (p.139)
DIE DREI LEUTE VOM LABOR p.140
Un altro inverno da superare… Gli italiani son rimasti in ventuno, consapevoli che quello sarà in ogni caso il loro ultimo inverno, sia che il campo venga liberato sia che vengano uccisi o muoiano di malattie o stenti…
Eravamo novantasei quando siamo entrati, noi, gli italiani del convoglio centosettantaquattro-mila; ventinove soltanto fra noi hanno sopravvissuto fino all’ottobre, e di questi, otto sono andati in selezione. Ora siamo ventuno, e l’inverno è appena incominciato. Quanti fra noi giungeranno vivi al nuovo anno? Quanti alla primavera? (p.140)
Adesso basta, adesso è finito. È l’ultimo atto: l’inverno è incominciato, e con lui la nostra ultima battaglia. Non è più dato dubitare che non sia l’ultima. In qualunque momento del giorno ci accada di prestare ascolto alla voce dei nostri corpi, di interrogare le nostre membra, la risposta è una: le forze non ci basteranno. […]
Ma ecco che Pannwitz lo assegna assieme ad altri due al laboratorio! Potrà così passare un inverno precario si, ma migliore…
II Kapo dice: – Il Doktor Pannwitz ha comunicato all’Arbeitsdienst che tre Hàftlinge sono stati scelti per il Laboratorio. 169509, Brackier; 175633, Kandel; 174 517, Levi. Per un istante le orecchie mi ronzano e la Buna mi gira intorno. Siamo tre Levi nel Kommando 98, ma Hun-dert Vierundsiebzig Fùnf Hundert Siebzehn sono io, non c’è dubbio possibile. Io sono uno dei tre eletti. (p.142)
Siamo entrati in laboratorio timidi, sospettosi e disorientati come tre bestie selvagge che si addentrino in una grande città. […] In laboratorio la temperatura è meravigliosa: il termo metro segna 240. Noi pensiamo che ci possono anche mettere a lavare la vetreria, o a scopare il pavimento, o a trasportare le bombole di idrogeno, qualunque cosa pur di re| stare qui dentro, e il problema dell’inverno per noi sarà risolto. (p.144)
A quanto pare dunque, la sorte, battendo strade insospettate, ha fatto si’ che noi tre, oggetto di invidia per i diecimila condannati, non avremo quest’inverno né freddo né fame. […] Al primo vetro che romperò, al primo errore di misura, alla prima disattenzione, ritornerò a consumarmi nella neve e nel vento, fino a che sarò anch’io pronto per il Camino. E inoltre, chi può sapere che cosa accadrà quando i russi verranno? Perché i russi verranno. Il suolo trema notte e giorno sotto i nostri piedi; nel vuoto silenzio della Buna il fragore sommesso e sordo delle artiglierie risuona ormai ininterrotto. Si respira un’aria tesa, un’aria di risoluzione. I polacchi non lavorano più, i francesi camminano di nuovo a testa alta. Gli inglesi ci strizzano l’occhio, e ci salutano di nascosto con la «V» dell’indice e del medio; e non sempre di nascosto. Ma i tedeschi sono sordi e ciechi, chiusi in una corazza di ostinazione e di deliberata sconoscenza. Ancora una volta hanno fissato la data dell’inizio della produzione di gomma sintetica: sarà per il 1° febbraio 1945. Fabbricano rifugi e trincee, riparano i danni, costruiscono, combattono, comandano, organizzano e uccidono. Che altro potrebbero fare? Sono tedeschi: questo loro agire non è meditato e deliberato, ma segue dalla loro natura e dal destino che si sono scelti. Non potrebbero fare altrimenti: se si ferisce il corpo di un agonizzante, la ferita incomincia tuttavia a cicatrizzare, anche se l’intero corpo morrà fra un giorno. (pp.145-146)
Adesso, ogni mattina, alla divisione delle squadre, il Kapo chiama prima di tutti gli altri noi tre del Laboratorio, «die drei Leute vom Labor». In campo, alla sera e al mattino, nulla mi distingue dal gregge, ma di giorno, al lavoro, io sto al coperto e al caldo, e nessuno mi picchia; rubo e vendo sapone e benzina, senza serio rischio, e forse avrò un buono per le scarpe di cuoio. Inoltre, si può chiamare lavoro questo mio? Lavorare è spingere vagoni, portare travi, spaccare pietre, spalare terra, stringere con le mani nude il ribrezzo del ferro gelato. Io invece sto seduto tutto il giorno, ho un quaderno e una matita, e mi hanno perfino dato un libro per rinfrescarmi la memoria sui metodi analitici. […] Ma non appena, al mattino, io mi sottraggo alla rabbia del vento e varco la soglia del laboratorio, ecco al mio fianco la compagna di tutti i momenti di tregua, del Ka-Be e delle domeniche di riposo: la pena del ricordarsi, il vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo, che mi assalta come un cane all’istante in cui la coscienza esce dal buio. Allora prendo la matita e il quaderno, e scrivo quello che non saprei dire a nessuno. (p.146)
Qui è diverso. Di fronte alle ragazze del laboratorio, noi tre ci sentiamo sprofondare di vergogna e di imbarazzo. Noi sappiamo qual è il nostro aspetto: ci vediamo l’un l’altro, e talora ci accade di specchiarci in un vetro terso. Siamo ridicoli e ripugnanti. (p.147)
Queste ragazze cantano, come cantano tutte le ragazze di tutti i laboratori del mondo, e questo ci rende profondamente infelici. Discorrono fra loro: parlano del tesseramento, dei loro fidanzati, delle loro case, delle feste prossime… – Domenica vai a casa? Io no: è cosi scomodo viaggiare! – Io andrò a Natale. Due settimane soltanto, e poi sarà ancora Natale: non sembra vero, quest’anno è passato cosi presto! … Quest’anno è passato presto. L’anno scorso a quest’ora io ero un uomo libero: fuori legge ma libero, avevo un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. Pensavo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose e alle leggi che governano l’agire umano; e inoltre alle montagne, a cantare, all’amore, alla musica, alla poesia. Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi e positivi; l’avvenire mi stava davanti come una grande ricchezza. Della mia vita di allora non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono più abbastanza vivo per sapermi sopprimere. (p.148)
L’ULTIMO p.150
Lui e Alberto hanno trovato diversi modi per sgraffignare e barattare cose… Poi l’impiccagione di un ribelle di Birkenau la cui sorte lascia però i reclusi indifferenti...
Vorrei poter raccontare che di fra noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino, e non ci siamo scoperta la testa che quando il tedesco ce l’ha ordinato. La botola si è aperta, il corpo ha guizzato atroce; la banda ha ripreso a suonare, e noi, nuovamente ordinati in colonna, abbiamo sfilato davanti agli ultimi fremiti del morente. Ai piedi della forca, le SS ci guardano passare con occhi indifferenti: la loro opera è compiuta, e ben compiuta. I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi, l’ultimo pende ora sopra i nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono bastati. Possono venire i russi: non troveranno che noi domati, noi spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende. Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice. (p.155)
Alberto ed io siamo rientrati in baracca, e non abbiamo potuto guardarci in viso. Quell’uomo doveva essere duro, doveva essere di un altro metallo del nostro, se questa condizione, da cui noi siamo stati rotti, non ha potuto piegarlo. Perché, anche noi siamo rotti, vinti: anche se abbiamo saputo adattarci, anche se abbiamo finalmente imparato a trovare il nostro cibo e a reggere alla fatica e al freddo, anche se ritorneremo. Abbiamo issato la menaschka sulla cuccetta, abbiamo fatto la ripartizione, abbiamo soddisfatto la rabbia quotidiana della fame, e ora ci opprime la vergogna. (p.156)
STORIA DI DIECI GIORNI p.157
I russi sono ormai sempre più vicini… L’11 gennaio 1945 Primo si ammala di scarlattina finendo così nuovamente ricoverato in KA-BE, dove potrà però godere di un periodo di relativo riposo…
Già da molti mesi ormai si sentiva a intervalli il rombo dei cannoni russi, quando, l’11 gennaio 1945, mi ammalai di scarlattina e fui nuovamente ricoverato in Ka-Be.[…] Avevo febbre alta. Ebbi la fortuna di avere una cuccetta tutta per me; mi coricai con sollievo, sapevo di avere diritto a quaranta giorni di isolamento e quindi di riposo, e mi ritenevo abbastanza ben conservato da non dover temere le conseguenze della scarlattina da una parte, e le selezioni dall’altra. Grazie alla mia ormai lunga esperienza delle cose del campo, ero riuscito a portare con me le mie cose personali: una cintura di fili elettrici intrecciati; il cucchiaio-coltello; un ago con tre gugliate; cinque bottoni; e infine, diciotto pietrine per acciarino che avevo rubato in Laboratorio. (p.157)
Il quinto giorno il barbiere greco, Askenazi, lo informa che l’indomani tutto il campo sarebbe stato evacuato, malati gravi esclusi…
II quinto giorno venne il barbiere. Era un greco di Salonicco; parlava solo il bello spagnolo della sua gente, ma capiva qualche parola di tutte le lingue che si parlavano in campo. Si chiamava Askenazi, ed era in campo da quasi tre anni[…] (p.158)
Nel pomeriggio venne il medico greco. Disse che, anche fra i malati, tutti quelli che potevano camminare sarebbero stati forniti di scarpe e di abiti, e sarebbero partiti il giorno dopo, con i sani, per una marcia di venti chilometri. Gli altri sarebbero rimasti in Ka-Be, con personale di assistenza scelto fra i malati meno gravi. (pp.159-160)
E così avviene. Il Campo è evacuato e Primo e gli altri malati gravi abbandonati in infermeria…
A tarda notte venne ancora il medico greco, con un sacco sulle spalle e un passamontagna. Gettò sulla mia cuccetta un romanzo francese: – Tieni, leggi, italiano. Me lo renderai quando ci rivedremo -. Ancora oggi lo odio per questa sua frase. Sapeva che noi eravamo condannati. E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo «i due italiani», e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra-razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui parti e io rimasi. (p.161)
I rimasti sono circa ottocento contro i ventimila prossimi alla lunga marcia nella neve. È il 18 gennaio e per loro iniziano “i dieci giorni fuori del mondo e del tempo”…
Tutti i sani (tranne qualche ben consigliato che all’ultimo istante si spogliò e si cacciò in qualche cuccetta di infermeria) partirono nella notte sul 18 gennaio 1945. Dovevano essere circa ventimila, provenienti da vari campi. Nella quasi totalità, essi scomparvero durante la marcia di evacuazione: Alberto è fra questi. Qualcuno scriverà forse un giorno la loro storia. Noi restammo dunque nei nostri giacigli, soli con le nostre malattie, e con la nostra inerzia più forte della paura. Nell’interno della Ka-Be eravamo forse ottocento. Nella nostra camera eravamo rimasti undici, ciascuno in una cuccetta, tranne Charles e Arthur che dormivano insieme. Spento il ritmo della grande macchina del Lager, incominciarono per noi i dieci giorni fuori del mondo e del tempo. (p.162)
18 gennaio
La giornata trascorre senza incidenti fino alle 23 quando inizia un bombardamento che danneggia anche il Campo…
Verso mezzogiorno un maresciallo delle SS fece il giro delle baracche. Nominò in ognuna un capo-baracca scegliendolo fra i non ebrei rimasti, e dispose che fosse immediatamente fatto un elenco dei malati, distinti in ebrei e non ebrei. La cosa pareva chiara. Nessuno si stupì che i tedeschi conservassero fino all’ultimo il loro amore nazionale per le classificazioni, e, nessun ebreo pensò più seriamente di vivere fino al giorno successivo. […] Non vi erano orologi, ma dovevano essere le ventitré quando tutte le luci si spensero, anche quelle dei riflettori sulle torrette di guardia. Si vedevano lontano i fasci dei fotoelettrici. Fiori in cielo un grappolo di luci intense, che si mantennero immobili illuminando crudamente il terreno. Si sentiva il rombo degli apparecchi. Poi cominciò il bombardamento. Non era cosa nuova, scesi a terra, infilai i piedi nudi nelle scarpe e attesi. (pp.162-163)
Ma ecco un’esplosione vicina, e, prima di poter formulare un pensiero, una seconda e una terza da sfondare le orecchie. Si sentirono vetri rovinare, la baracca oscillò, cadde a terra il cucchiaio che tenevo infisso in una commessura della parete di legno. […] Dopo pochi minuti fu evidente che il campo era stato colpito. Due baracche bruciavano con violenza, altre due erano state polverizzate, ma erano tutte baracche vuote. […] I tedeschi non c’erano più. Le torrette erano vuote. (p.164)
Non si poteva dormire; un vetro era rotto e faceva molto freddo. Pensavo che avremmo dovuto cercare una stufa da installare, e procurarci carbone, legna e viveri. Sapevo che tutto questo era necessario, ma senza l’appoggio di qualcuno non avrei mai avuto l’energia di metterlo in atto. Ne parlai coi due francesi. (p.164)

19 gennaio

L’indomani Primo esce con due civili francesi, Arthur e Charles, in cerca di cibo, legna, carbone e di una stufa. Il Lager è in sfacelo e i rimasti all’esterno simili a vermi…

Uscimmo nel vento di una gelida giornata di nebbia, malamente avvolti in coperte. Quello che vedemmo non assomiglia a nessuno spettacolo che io abbia mai visto né sentito descrivere. II Lager, appena morto, appariva già decomposto. Niente più acqua ed elettricità: finestre e porte sfondate sbattevano nel vento, stridevano le lamiere sconnesse dei tetti, e le ceneri dell’incendio volavano alto e lontano. All’opera delle bombe si aggiungeva l’opera degli uomini: cenciosi, cadenti, scheletrici, i malati in grado di muoversi si trascinavano per ogni dove, come una invasione di vermi, sul terreno indurito dal gelo. (p.165)

 

Trovano una stufa che Primo deve trasportare in baracca. Ma ecco sopraggiungere un SS in motocicletta che però, per sua fortuna, tira dritto non curandosi di lui… La stufa funziona e gli altri malati decidono sorprendentemente di offrire a loro tre lavoratori del pane in segno di gratitudine. Gesto impossibile da compiersi fino al giorno prima…

 

Tra le macerie del Prominenzblock, Charles ed io trovammo finalmente quanto cercavamo: una pesante stufa di ghisa, con tubi ancora utilizzabili: Charles accorse con una carriola e caricammo; poi lasciò a me l’incarico di portarla in baracca e corse ai sacchi. […] Intanto io, reggendomi a stento, cercavo di manovrare del mio meglio la pesante carriola. Si udì un fremito di motore, ed ecco, una SS in motocicletta entrò nel campo. Come sempre, quando vedevamo i loro visi duri, mi sentii sommergere di terrore e di odio. Era troppo tardi per scomparire, e non volevo abbandonare la stufa. Il regolamento del Lager prescriveva di mettersi sull’attenti e di scoprirsi il capo. Io non avevo cappello ed ero impacciato dalla coperta. Mi allontanai qualche passo dalla carriola e feci una specie di goffo inchino. Il tedesco passò oltre senza vedermi, svoltò attorno a una baracca e se ne andò. Seppi più tardi quale pericolo avevo corso. Raggiunsi finalmente la soglia della nostra baracca, e sbarcai la stufa nelle mani di Charles. Ero senza fiato per lo sforzo, vedevo danzare grandi macchie nere. […] Quando fu riparata la finestra sfondata, e la stufa cominciò a diffondere calore, parve che in ognuno qualcosa si distendesse, e allora avvenne che Towarowski (un franco-polacco di ventitré anni, tifoso) propose agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di pane a noi tre che lavoravamo, e la cosa fu accettata. (p.166)
Soltanto un giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva: « mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino », e non lasciava posto per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto. Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe fissare a quel momento l’inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Hàftlinge siamo lentamente ridiventati uomini. (p.167)
In mezzo alla sterminata pianura piena di gelo e di guerra, nella cameretta buia pullulante di germi, ci sentivamo in pace con noi e col mondo. Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo tanto tempo, di avere finalmente fatto qualcosa di utile; forse come Dio dopo il primo giorno della creazione. (p.168)

20 gennaio

Fino al venti si continuano a veder passare Tedeschi in ritirata… Nella camerata intanto, grazie ad una batteria trovata da Primo, si accende anche la luce…

21 gennaio

Dal 21 cessa il passaggio di soldati in ritirata. La voglia è quella di abbandonarsi completamente ma, grazie alla collaborazione dei due francesi, la situazione può essere affrontata al meglio…

Invece finì. Coll’alba del 21 la pianura ci apparve deserta e rigida, bianca a perdita d’occhio sotto il volo dei corvi, mortalmente triste. Avrei quasi preferito vedere ancora qualcosa in movimento. Anche i civili polacchi erano scomparsi, appiattati chissà dove. Pareva che perfino il vento si fosse arrestato. Avrei desiderato una cosa soltanto: restare a letto sotto le coperte, abbandonarmi alla stanchezza totale di muscoli, nervi e volontà; aspettare che finisse, o che non finisse, era la stessa cosa, come un morto. Ma già Charles aveva acceso la stufa, l’uomo Charles alacre, fiducioso e amico, e mi chiamava al lavoro[…] (p.170)

22 gennaio

Un suo raid con Charles nel campo delle SS gli procura parecchio cibo e coperte, mentre la sera un attacco di dissenteria di Lakmaker genera disagio in camerata…

23 gennaio

Raid fruttuosi nei dintorni portano al ritrovamento di prezioso cibo (rape e patate). Ma è dal campo abbandonato dagli inglesi che alcuni malati meno gravi riescono a portar via lardo, margarina e vestiario. In cambio di candele prodotte artigianalmente da Primo, la camerata può avere cibo più sostanzioso a disposizione…

24 gennaio

Nonostante siano tecnicamente liberi, gli ex internati non riescono a gioire della situazione. Intorno c’è solo distruzione e morte…

Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l’immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il ritorno. Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e morte. Il mucchio di cadaveri, di fronte alla nostra finestra, rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate, la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati in grado di muoversi, o non avevano avuto l’energia di farlo, giacevano torpidi nelle cuccette, rigidi dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano. (pp.176-177)

25 gennaio

Sono ormai passati otto giorni e nulla di nuovo si prospetta. In camerata Somogyi inizia un delirio che durerà due giorni e che lo poterà a ripetere in continuazione «Jawohl»…

In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite. Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, cosi anche dell’attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i più fra noi erano troppo esausti perfino per attendere. A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. (p.179)

26 gennaio

Ormai ridotti a bestie, è questa la situazione di loro ex-reclusi. Arrivare a condividere il letto con cadaveri li ha infine condotti l’esperienza non umana del Lager…

L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. E uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’espperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. (p.180)

27 gennaio

Morto Somogyi, l’indomani, dopo la colazione, Primo e Charles vanno a portarne fuori il cadavere. Ed è in quel momento che i russi fanno l’ingresso nel campo…

L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sómogyi. (p.180)
I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sómogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia. Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto. Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sómogyi il solo che mori nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest’ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che, dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti qualche settimana più tardi, nell’infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno.

Avigliana-Torino, dicembre 1945 – gennaio 1947.