PIERRE DRIEU LA ROCHELLE – RACCONTO SEGRETO. Seguito da DIARIO 1944-1945 e da ESORDIO

PIERRE DRIEU LA ROCHELLE – RACCONTO SEGRETO. Seguito da DIARIO 1944-1945 e da ESORDIO
SE – Collana TESTI E DOCUMENTI n. 54 – I ed Gennaio 2005

TRADUZIONE: Alfredo Cattabiani

RACCONTO SEGRETO p. 11

Da ragazzo ho giurato a mese stesso di resta fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola. […]
I bambini conoscono i vecchi meglio degli adolescenti e degli adulti. Nell’ambiente familiare vivono con loro intimamente;li osservano e colgono gli effetti più umilianti della vecchiaia.[…]
Questa è la terribile caratteristica della vecchiaia: veniamo invasi da un sentimento di ottimismo indulgente che ci permette di accettare come un fatto naturale il progressivo intorpidimento del cuore e dei sensi, considerato in precedenza come un guasto mostruoso. […]
Allora concludevo il mio ragionamento dicendo che bisognava morire da giovani per non entrare nell’età in cui possono sorgere facilmente l’indulgenza e l’abbandono. Mi ero messo in testa che dovevo morire non oltre i cinquant’anni. (p. 15)

Soltanto più tardi maturarono nel mio animo altre considerazione che mi spinsero ad agire e a scegliere il suicidio. (p.17)

Io sono nato malinconico, selvatico. Prima ancora di essere colpito e ferito dagli uomini e di provare rimorso per averli colpiti, cercavo di sfuggirgli. Mi nascondevo negli angoli dell’appartamento o del giardino per rinchiudermi in me stesso e per gustare un sentimento furtivo e segreto. (p.18)
Un giorno mi resi conto che esisteva un atto dell’uomo chiamato suicidio. Mi ricordo benissimo che, ascoltando per caso una conversazione, scoprii che un uomo poteva <<darsi la morte>>. (pp.18-19)

Fuggire, quanto mi piaceva fuggire. Ero come un animaletto dei boschi, pulito e svelto, selvatico, molto scontroso, scoiattolo o donnola,che spariva al minimo rumore e che nessun uomo o nessuna donna sarebbe mai riuscito a catturare. (p. 20)

Il mio atto esprimeva l’idea del suicidio, gratuito, senza nessuna giustificazione. Quest’idea ritornò con frequenza anche in seguito, ma soltanto per adeguarsi alle circostanze. Mi ero impegnato nella vita e mi ero trovato difronte alle difficoltà, ai dolori, ai soprusi. Allora avevo pensato al suicidio. Ma non era più la stessa cosa, non erano più la forza, l’esuberanza, la curiosità a spingermi, ma piuttosto la debolezza e la stanchezza. E anche quello che pensavo di trovare al di là del suicidio era diverso. La rima volta mi ero immaginato l’ignoto, qualcosa di totalmente indeterminato, senza nome, inesprimibile. Ora invece era il nulla. (p. 22)

Non avevo forse conservato nei periodo di lucidità il gusto e il bisogno della solitudine? In vita mia non è trascorso neppure un giorno, anche il più ricco e il più felice per la presenza di un essere o di alcuni esseri, oppure per la mia adesione ricca ed esuberante al mondo e alle cose, in cui non abbia pensato alla solitudine, in cui non abbia voluto riservarle alcuni minuti, in qualsiasi luogo, in uno studio, in una cabina telefonica, in un bagno, in un corridoio, dove mi fermavo più di quanto fosse lecito a un animale sociale. Ebbene, ora l’ho capito, la solitudine è il cammino del suicidio o almeno il cammino della morte. Nella solitudine assoluta si prova un piacere unico, superiore a ogni altro, per il mondo e per la vita; è il solo modo per gustare sino in fondo un fiore, un albero, una nuvola, gli animali, gli uomini, anche quando passano lontano da noi, e le donne; ma è anche la china lungo la quale ci si perde. (p. 23)

Tra i sette e i vent’anni non ricordo di avere provato una simile tentazione. Senza alcun dubbio non si era presentata alcuna seria occasione: sì, ero già stato sorpreso, deluso, tormentato dalla vita, ma non ne ero stato ferito profondamente. […]
A vent’anni, per qualche giorno, avevo pensato seriamente di uccidermi dopo un esame fallito. (p. 24)

Vissi a lungo in uno stato d’animo disperato, e incomincia a sperimentare, ad assaporare quell’ebrezza che si prova lontano dagli uomini e che precede e facilita il suicidio.
La voglia di piantar tutto mi riprese all’inizio della guerra del 1914, e più precisamente l’anno successivo. (p.25)

[…]una sera mi accorsi che la guerra era ben diversa dall’immagine che si era costruita uno studente ingenuo imbottito di finzioni letterarie. Era molto noioso, non mi accadeva mai niente o quando avveniva qualcosa al di sopra di me, era come se non fosse accaduto nulla[…] (p.25)
In assenza di sguardi che mi definissero, io divenivo indefinibile a me stesso. Questo mi riportò di colpo alla mistica della solitudine, alla perdita di me nella solitudine, alla ricerca di ciò che nel mio intimo era diverso dall’io personale. Se ero perduto, perché non potevo perdermi ancora di più, sino in fondo? C’era soltanto un modo per guarire da questa perdita di me nel tutto e di me e del tutto nel nulla, ed era di perdermi in modo assoluto. (p. 26)

In seguito la voglia di uccidermi mi è tornata numerose altre volte. Non riesco a ricordarmele tutte. Ma allora non era ancora diventata una mania, un richiamo continuo come in questi ultimi anni. Questo richiamo era divenuto così ossessivo da trasformarsi in una specie di ritornello che canticchiavo tra i denti, con il quale lenivo il mio animo, sempre più affaticato e stanco, sempre più vivo nel suo nucleo più autentico, ma sfinito nella banalità quotidiana.
La più violenta tentazione di uccidermi mi rese durante una storia d’amore.[…]
In breve, andò così: una donna mi aveva lasciato. Era la prima volta che mi accadeva. […] Il solo particolare che ricordo di quell’avventura banale, ma che giocò un ruolo decisivo nel mio destino, è l’intuizione stupenda che ho avuto del nulla. (p.28)

In seguito ho deciso di darmi la morte ancora due o tre volte, a causa di umiliazioni molto infantili. La voglia del suicidio, ripetendosi, si era a poco a poco affievolita, era divenuta un qualcosa di banale. I nostri sentimenti non dovrebbero trasformarsi mai in abitudini, non dovrebbero mescolarsi con la parte più sordida della nostra esistenza, perché altrimenti diventano del tutto triviali.
Ho voluto uccidermi ancora una volta in seguito alla più violenta passione che ho conosciuto negli anni successivi. Non ero stato abbandonato, ma lo ero ogni sera. Quelle minime assenze della donna adultera che torna dal marito mi esasperavano, mi sconvolgevano. E poi, in fondo all’animo, sempre quella necessità di fuggire, di fuggire ciò che più si desidera, di ritrovarsi soli. (p. 29)

Negli ultimi due anni dell’occupazione tedesca vivevo in un’atmosfera incantata sempre più affascinante. Da molto tempo mi ero diviso dalla massa e da tutti coloro che pensano come la massa. […]
La mia solitudine spontanea diveniva un pretesto per mettermi fuori legge.[…]
Non erano più soltanto l’età, la malattia, l’usura, il mio antico progetto, ma la stessa società che dall’esterno mi spingeva alla fine.[…]
Mi misi a giocare con una raffinatezza estrema con il mio destino. Avrei facilmente potuto ritirarmi in tempo, smettere di scrivere, di manifestarmi pubblicamente, anche perché avevo intuito molto presto le mancanze e gli errori del nazismo, e quindi avrei avuto il diritto di dividermi dalla causa europea così mal difesa. (p. 30)
[…]nell’autunno del 1943 decisi di rientrare in patria e di uccidermi in tempo utile.
Volevo attendere l’ultimo momento e l’attesi. Ero perfettamente sicuro di me stesso, non ho mai avuto un istante di dubbio o di esitazione. Quella certezza era una fonte incessante di gioia, era l’espressione di una fede senza cedimenti. La mia anima viveva in pieno accordo con se stessa. In quel periodo, forse, il mio io era passato completamente nel sé. (p. 31)

Dandomi la morte non credevo assolutamente di contraddire l’idea dell’immortalità che ho sempre avuto viva in me. Anzi, ero attratto così violentemente dal suicidio proprio perché credevo nell’immortalità. Ero convinto che ciò che chiamiamo morte fosse semplicemente la soglia al di là della quale continua la vita o, almeno, qualcosa che ne è l’essenza.[…]
Ciò che io riconoscevo di spirituale in me stesso, di immortale, di inesauribile, era quanto superava la mia individualità. (p. 32)

Altre volte m’era accaduto di provare un senso d’angoscia […] quando sentivo con maggiore rigore che la vita non finisce mai, che la nascita non è stata un inizio e la morte non sarà una fine. Provavo allora un senso di stanchezza, di angoscia, all’infinito. […]
I buddisti vogliono distruggere la vita <<eterna>> perché è una perpetuazione della vita individuale. (p. 33)
Questa angoscia è scomparsa totalmente dal giorno in cui ho conosciuto e capito a fondo le idee indiane (e cinesi), la distinzione fra l’io e il sé, fra la vita e l’essenza di cui la vita è solamente la schiuma, fra l’essere e l’aldilà dell’essere, fra il divino e l’ineffabile, fra l’essere e il non essere, da una parte, e ciò che si trova al di là di questa antinomia. (pp. 33-34)

Quanto a me, ciò che maggiormente mi affascina in questo gesto è il suo compiersi nella solitudine. Io attribuisco alla solitudine ogni forma di virtù, che non sempre possiede; la confondo con il raccoglimento e la meditazione, con la delicatezza dei sentimenti e dell’intelligenza, con la severità personale temperata dall’ironia e con l’agilità della mente. (p. 37)

In quell’ultima giornata non sapevo più che fare. Ogni occupazione umana si dissolveva fra le mie dita. Tutto mi sembrava vano e già distrutto. Negli ultimi mesi questo sentimento dell’inutilità totale mi aveva invaso a poco a poco come l’effetto naturale della mia decisione, e da alcune settimane si era fatto sempre più forte e violento. In quell’ultimo giorno poi era acuto come la punta di uno spillo che sentivo deliziosamente pungermi il cuore. Le preoccupazioni e gli affanni erano svaniti uno dopo l’altro. […]

[…]perché, in fondo, la società esiste soltanto grazie alle donne e per le donne, sono le loro opere a riannodarla senza fine, ne sono le operaie e le regine, le guardiane accanite: senza di esse gli uomini, che sono angeli presi in trappola, sarebbero fuggiti in cielo da molto tempo. (p.39)

Oggi ho capito perfettamente che il mio desiderio di uccidermi significava che mi ero spinto ancora tropo poco sulla via del distacco, sebbene vi fossi entrato da alcuni anni. Sono anche disposto ad ammetter che il fastidio di un processo politico è stato una delle cause della mia decisione. […]
Vivevo una contraddizione violenta: mi lasciavo invadere dalle preoccupazioni del secolo, come non mi era mai successo durante tutta la mia esistenza liberare senza costrizioni, proprio quando sentivo un bisogno sempre più pressante di libertà. […]
Ma io non volevo pagare. Non volevo pagare nel 1944 il debito contratto nel 1940. avevo riconquistato a poco a poco, tra il 1942 e il 1943, la mia indipendenza, il mio distacco, la mia solitudine e quindi non potevo assolutamente accettare il ritorno di tutto quello che avevo deliberatamente superato con un progresso continuo. (p. 43)

E resta comunque il fatto che in altri tempi, quando non ero minacciato da nessuno e da niente, ho pensato di morir giovane, di sopravanzare la morte stessa. E fra le due paure, quella si essere ucciso e quella di morire, ho vinto quella di morire. (p. 46)

DIARIO
1944 – 1945 p. 47

11 OTTOBRE 1944

Non soltanto devo ricominciare a vivere, ma devo ricominciare il diario, anche se avevo giurato a me stesso di non riprenderlo più: almeno questo. Dal 1939 in avanti non ho mai smesso di scriverlo, ma le poche pagine che ho riletto non mi hanno convinto molto della sua utilità. E ora quest’abitudine sta diventando una mania.
Sento che sto riprendendo gusto alla vita, agli aspetti più crudi della vita. Mangio, bevo e dormo con la frenesia tipica dei vecchi, proprio quello che volevo evitare. Non volevo essere invaso, dopo i cinquant’anni, da questa forma d’avidità senile. Quando mi manca il tabacco, soffro più di prima.
Per alcuni giorni ho visto tutto realmente dall’esterno; ora invece sono tornato fra di loro, fra questi maledetti che mi hanno impedito di lasciarli. Non sopportano che qualcuno pianti in asso la compagnia.
Ho sempre scritto questi diari per pigrizia, per non fare qualcos’altro, delle opere compiute e ponderose. (p. 49)

15 ottobre 1944

Ciò che fu sconvolgente nell’esperienza del suicidio, fu l’assenza totale, al momento decisivo, di un’apertura verso l’aldilà. (p. 50)

17 ottobre 1944

Vorrei rientrare nella notte che non è la notte, nella notte senza stelle, nella notte senza dei, nella notte che non ha mai portato il giorno, che non ha mai sognato il giorno, che non ha mai prodotto il giorno, nella notte immobile, muta, intatta, nella notte che non è mai esistita e mai esisterà. Così sia. (p. 51)

Mi pare di non aver nessun legame con l’Occidente per quanto riguarda la filosofia e la religione. […]
No. Il mio solo legame con l’Occidente, un legame fortissimo, è quello artistico. (p. 52)

23 ottobre 1944

O morte, non ti dimentico. O vita più vera della vita. O cosa indicibile che è al di là della vita più vera della vita. Non più al di là, ma al di qua. Voglio raggiungere il nodo del mio essere. (p. 56)

Infine il mio nazionalismo era sempre accompagnato da un internazionalismo: dapprima la Società delle Nazioni, poi un’Europa che non fosse né russa né angolassone.
Ho sempre voluto avvicinare e fondere fra di loro istanze contraddittorie: nazione e Europa, socialismo e aristocrazia, libertà di pensiero e autorità, misticismo e anticlericalismo. […]
[…] ho voluto essere umano sino in fondo e prendermi la parte di merda che portano con sé le opinioni partigiane, i furori effimeri, le avversioni locali. Sì, ho voluto avere la merda fin sui piedi… Ma non più in alto. (p. 57)

La resistenza è il fascismo che non osa rivelare il suo vero nome e che non oserà mai farlo e che non oserà mai sviluppare il suo germe. Quindi la resistenza sarà una nata-morta, sarà schiacciata fra la democrazia risorgente e il comunismo. I suoi elementi, sempre segretamente separati, saranno respinti a destra e a sinistra. Allora la democrazia (il capitalismo) si troverà completamente nuda di fronte al comunismo, ma non oserà più divenire fascismo, o forse cercherà di farlo troppo tardi e sarà divorata dal comunismo. (p. 58)

12 novembre 1944

O credere nel mondo o credere in Dio. Uno esclude l’altro. È impossibile immaginare l’infinito che crea il finito: tutte le spiegazioni che se ne danno sono ridicole, compresa la concezione del Vedanta (Shankara). Anche il mondo inteso come sogno di Dio è impossibile. Come può il prefetto immaginare l’imperfetto? Eppure è la spiegazione meno assurda fra tutte. Ma l’infinito non ha bisogno del finito per concepire se stesso. (p. 60)

28 novembre 1944

[…] quanto appartiene all’ordine umano e dunque alla sfera del determinato per eccellenza, non riuscirà mai a staccarsi completamente dal mondo e che le evasioni verso l’indeterminato sono rarissime. Il piccolo numero degli eletti fra i calvinisti e i giansenisti corrisponde al piccolo numero dei bodhisattva fra i buddisti. (p. 61)

4 dicembre 1944

Paragono la dottrina cristiana della predestinazione al buddismo. La stessa rarità degli eletti, lo stesso mistero della grazia. Perché solo alcuni comprendono la via del Buddha? Perché solo alcuni hanno la rivelazione della Ruota? La grazia è del tutto simile al genio.
E il comunismo non può farci niente. Ciò che è ammirevole nel comunismo è che dopo la sua instaurazione gli uomini non potranno più lamentarsi per molto tempo, come invece hanno fatto dopo la nascita del cristianesimo e di altre religioni rivelate. Perfetta autocrazia, perfetta aristocrazia. (p. 63)

8 dicembre 1944

Una necessità profonda del socialismo integrale, cioè del comunismo, è il ritorno dell’umanità al totalitarismo totale. Tanto peggio se questa teocrazia ha la testa in basso. Se riuscirà a tornare sui propri piedi, l’umanità potrà riprendere dopo un lungo sonno la strada verso una nuova civiltà; è la sola possibilità per continuare a essere una forza creatrice. (p. 64)

20 dicembre 1944

Il cristianesimo e il comunismo hanno qualcosa in comune nel campo dei principi fondamentali: sono due realismi. Il comunista crede alla realtà della materia e del mondo, il cristiano crede a sua volta alla realtà della materia, ma anche a quella dell’anima e a quella di Dio. Per il cristiano esistono tre sostanze distinte, per il materialista comunista, che è monista, una sola. (p. 66)

Il marxismo sarebbe così l’espressione violenta ma giusta della morale evangelica (tanto ambigua). La realizzazione della felicità sulla terra diventerebbe la via attraverso la quale si attuerebbe la felicità celeste. […]
Il materialismo sarebbe in tal modo la realizzazione prima, secondo il processo dialettico, dello spiritualismo. (p. 67)

24 dicembre 1944

Non amo la vita in comune e gli uomini mi disgustano molto rapidamente o mi annoiano. (p. 67)

1 gennaio 1945

È tornata la tentazione, molto forte. […]
Non riesco più a interessarmi alle <<cose>>, alla <<gente>>, ai <<problemi>>.
Sto leggendo un vecchio manuale di psicopatia: maniaci, folli, malinconici, voi siete tutti miei fratelli. C’è una piccolissima differenza fra voi e noi; forse diranno che ero folle.
Eppure sono così calmo, così lucido.
C’è anche una questione d’onore: quando si è cominciata una cosa, è necessario portarla a termine, dice il samurai.
In altri momenti penso ai miei camerati in prigione. Nemmeno uno, dico uno, ha saputo dimostrare durante il processo un minimo di fierezza. (p. 69)

8 gennaio 1945

I poeti e i filosofi sono come schiavi al cospetto dei loro maestri, cioè i veri iniziati. Essendo malati spiritualmente, non possono fare altro che imitare e deformare, imitandolo, il pensiero dei loro maestri. (p. 69)
Dovrò scrivere sempre di meno e ben presto non scrivere più del tutto. La scrittura è contraria alla meditazione. La tua pigrizia spirituale nasce dal fatto che speri, scrivendo, di cogliere almeno una mezza rivelazione. (p. 70)

17 gennaio 1945

La politica m’interessa assai poco, giacché ritengo che il destino è ormai definitivamente deciso: la Russia sarà la padrona dell’Europa. Ne ha già conquistato più di metà. Avevo ragione di voler morire: ora sono convinto che il comunismo trionferà, ma sono troppo vecchio e sbandato per diventare comunista. E poi un residuo d’istinto classista m’incatena: soltanto l’azione riuscirebbe a liberarmene. In Occidente forse si manifesterà ancora una reazione anticomunista, ma avverrà troppo tardi. O forse non ci sarà neppure. Mi sarebbe piaciuto fare parte di questa confraternita di suicidi: a conti fatti, è una nobile confraternita. (p. 71)

20 gennaio 1945

A cinquant’anni il corpo diventa un impedimentum perché non è più vera fonte di piacere, ma conserva il ricordo del piacere: il mio peccato… (p. 73)

3 febbraio 1945

Ho voluto essere un uomo completo, non soltanto un topo di biblioteca, ma anche un uomo di spada, che assume certe proprie responsabilità, che riceve e dà colpi. Certo. Ma il mio desiderio nasceva sia dal coraggio che dalla vanità. Proverò sempre rimorso per non essere stato capace di incarnare in questi ultimi un personaggio che è rimasto senza interpreti: quello del dandy, dell’uomo rigorosamente non-conformista, che rifiuta tutte le sciocchezze del momento, da qualsiasi parte vengano, e professa con discrezione ma fermezza una sacrilega indifferenza. […]
Ciò che m’infastidisce nel comportamento del dandy, è il suo puritanesimo mascherato: noli me tangere. Astrarsi dalla vita, da ogni impegno, rifiutare le sbavature. Insomma preferisco essermi rivoltato nel fango insieme agli altri… Non fino in fondo però: vi sono cose che non ho mai detto, ragionamenti privi di senso che non mi hanno mai visitato. (p. 76)

Ho visto molto da vicino i tedeschi e li ho trovati tanto imbecilli quanto i francesi. Il conformismo della massa è lo stesso ovunque.
La cosa più buffa è che lo giudichiamo stupendo, questo conformismo, quando lo vediamo lontano da noi, nel tempo e nello spazio. Ad esempio fra i giapponesi e i cinesi. Il conformismo è lo stile di una civiltà. Ma, ed è questo il punto, il nostro stile è guasto come la nostra civiltà. […]
D’altronde è bene che la massa sia massa, altrimenti non potremmo più godere del contrasto. E ogni vero godimento raffinato sorge dal contrasto. (p. 77)

ESORDIO p. 81

Io sto per essere condannato, come molti altri, per qualcosa di molto contingente e transitorio, a cui nessuno domani avrà il coraggio di richiamarsi senza un moto di esitazione o di timore. Non mi considero colpevole; penso di avere agito come poteva e doveva agire un intellettuale e un uomo, un Francese e un Europeo. In questo momento non rendo conto a voi ma, secondo il mio rango, alla Francia, all’Europa, all’Uomo. (p. 84)

DISCORSO p. 85

Io avrei invece voluto mescolare i manifestanti del 6 febbraio con quelli del 9, i fascisti con i comunisti. Ho creduto di trovare questa fusione nel partito di Doriot, nel 1936. Finalmente la destra e la sinistra si incontravano. Ma sono stato deluso dallo pseudofascismo francese come altri lo sono stati dal Fronte Popolare. Un doppio fallimento che è servito solo al vecchio regime moribondo ma ancora astuto. Ecco che cosa volevo fare con Doriot e con i camerati del Parti Populaire Française: volevo costruire una Francia forte che si liberasse del Parlamento e dei gruppi di pressione, che fosse abbastanza potente da imporre all’Inghilterra un’alleanza basata sull’eguaglianza e sulla giustizia. (p. 86)

 Nel momento in cui riconosciamo di essere una potenza di seconda classe, a cui è necessaria una alleanza, resta un problema da risolvere: sapere cioè qual è l’alleanza migliore per la Francia e per l’Europa. (p. 87)
Questi furono i due fini a cui ho subordinato tutta la mia azione. Il sistema tedesco mi pareva migliore degli altri perché l’America, l’impero inglese e l’impero russo hanno troppi interessi fuori dell’Europa per occuparsi seriamente di essa. […] Si sarebbe presentata come un’intesa sotto l’egemonia della Germania. Ho accettato questa egemonia, come avevo accettato ai tempi di Ginevra quella anglo-francese per il bene dell’Europa. […] In base a queste idee generali ho accettato il principio della collaborazione. […] La collaborazione fra la Francia e la Germania doveva essere solo ed esclusivamente un aspetto di una più ampia collaborazione europea. Non si trattava solo della Francia ma di tutti gli altri paesi europei. Non era quindi un’alleanza particolare ma un elemento di un sistema più vasto. (p. 88)

PERORAZIONE p.84
Io ho agito consapevolmente, convinto di compiere il dovere proprio dell’intellettuale. L’intellettuale e l’artista non sono cittadini come gli altri. Hanno doveri maggiori degli altri.
Per questo motivo ho preso una decisione audace; ma nei periodi di confusione ogni persona si trova un po’ nella situazione dell’artista. Lo Stato non riesce ad offrire una collocazione sicura o fini sufficientemente elevati. È successo nel 1940. Il maresciallo Pétain ci offriva l’unità, ma ci offriva solo quella: era un’ombra senza contenuto.
Alcuni coraggiosi la rifiutarono andando o a Londra o a Parigi. Quelli di Londra sono stati più fortunati, anche se l’ultima parola non è ancora detta. Io andai a Parigi; insieme con altri decisi di superare i limiti del Nazionalismo, di sfidare l’opinione pubblica, di costituire una minoranza guardata con diffidenza, con esitazione, con dubbio, per essere maledetta nel momento in cui la fortuna ci ha volto le spalle a Stalingrado e a E1 Alamein.
La funzione degli intellettuali, o almeno di un certo tipo di intellettuali, è di andare al di là dell’avvenimento, di tentare cammini rischiosi, di percorrere tutte le strade possibili della storia.
Niente di grave se sbagliano. Hanno compiuto una missione necessaria, quella di andare dove non c’è nessuno. In avanti, indietro
o di fianco: non ha importanza. Basta che siano usciti dal gregge della massa. Il futuro è fatto con una materia diversa da quella attuale. Il futuro è fatto da ciò che ha visto la maggioranza e anche la minoranza.
Una nazione non è una voce unica, è un concerto. E necessario che vi sia una minoranza; noi siamo stati appunto quella. Abbiamo perduto, siamo stati dichiarati traditori: è più che giusto. Se foste stati sconfitti, sareste diventati voi i traditori.
E la Francia non sarebbe rimasta la Francia, ma l’Europa, l’Europa! Io sono un intellettuale la cui funzione è di rimanere sempre con la minoranza.
E poi siamo tutti delle minoranze. Non esiste una maggioranza in Francia. Quella del ‘40 si è disciolta in poco tempo, e la stessa cosa succederà alla vostra.
Minoranze:
La resistenza
I comunisti
La collaborazione
Sono fiero di essere stato un intellettuale della minoranza. Fra qualche tempo i giovani ci leggeranno per cogliere un suono diverso da quello comune. E questo suono, oggi debole, diverrà potente.
Non ho voluto essere un intellettuale che misura prudentemente le sue parole. Avrei potuto scrivere nella clandestinità (ci ho pensato) in zona libera, all’estero.
No, bisogna assumere le proprie responsabilità, entrare in gruppi impuri, ubbidire alla legge politica che consiste nell’accettare alleati spregevoli o odiosi. Non mi sono mai sporcato le mani, solo i piedi. Non ho fatto politica in questi gruppi. Ma vi sono entrato solo perché voi possiate giudicarmi oggi, per darvi la possibilità di esprimere un giudizio banale e comune. Quindi giudicatemi, come dite voi: siete voi i giudici e i giurati.
Mi sono messo nelle vostre mani sicuro di sfuggirvi, di superare questo istante contingente per ritrovare il mio posto nella storia.
Voi non mi sfuggirete, io non vi sfuggirò. Siate fedeli all’orgoglio della Resistenza come io sono fedele a quello della Collaborazione. Non barate come non baro io. Condannatemi a morte.
Nessuna mezza misura. Un tempo era facile pensare, ora è diventato nuovamente un’attività difficile. Non fatela ritornare facile.
Sì, sono un traditore. Sì, ho collaborato con il nemico. Ho offerto la mia intelligenza al nemico. Non è colpa mia se quel nemico non era intelligente.
Sì, non sono un patriota qualunque, un nazionalista con il paraocchi; sono un internazionalista.
Non sono solo un Francese, ma un Europeo. Anche voi lo siete, coscientemente o incoscientemente. Ma abbiamo giocato e io ho perduto.
Esigo la morte. (pp.84-85)

APPUNTI p. 95

IL SANGUE E L’INCHIOSTRO
Di Paul Renard. Traduzione: Roberto Rossi p. 101

NOTA BIOGRAFICA
Di Massimo Cescon p. 117

APPENDICE ICONOGRAFICA p. 123

drieu la rochelle, racconto segreto, diario 1944-1945, esordio, se, alfredo cattabiani,paul renard, roberto rossi, massimo cescon,

img_20170104_195725

img_20170104_195712