IL “MEIN KAMPF” DI ADOLF HITLER Le radici della barbarie nazista (Kaos Edizioni)

 

Carico di mistificazioni, falsificazioni, esagerazioni, ampolloso, ripetitivo, con parti comiche e assurde, il Mein Kampf contiene a grandi linee la politica che sarà poi messa in atto con coerenza dal 1934 in poi…

IL “MEIN KAMPF” DI ADOLF HITLER
Le radici della barbarie nazista

A cura di Giorgio Galli
KAOS EDIZIONI, Ottobre 2002,

PREMESSA p.5

HITLER E IL NAZISMO
CRONOLOGIA p.7

IL MEIN KAMPF SECONDO GLI STORICI p.33

IL MEIN KAMPF IN ITALIA p.43

INTRODUZIONE p.45

RIMOZIONI E MISTIFICAZIONI p.47

UNA CHIAVE DI LETTURA p.59

IL MEIN KAMPF DI ADOLF HITLER p.71

VOLUME PRIMO: RESOCONTO

I – NELLA CASA PATERNA p.73

Nato a Branau sull’Inn, Hitler auspica l’unificazione di Austria e Germania, due stati tedeschi ingiustamente separati. Tipica tesi del pangermanismo…

Oggi mi appare provvidenziale e fortunata la circostanza che il destino mi abbia assegnato, come luogo di nascita, proprio Braunau sull’Inn. Questa cittadina sorge infatti sulla frontiera dei due Stati tedeschi, la cui riunione sembra, perlomeno a noi giovani, un compito fondamentale, da realizzare a qualunque costo ‘. […]
Il popolo tedesco non ha alcun diritto morale di perseguire una politica coloniale, finché non riesca a riunire tutti i suoi figli in un unico Stato. (p.73)

Descrive i genitori mitizzando il padre così come il proprio spirito adolescenziale (presunto talento oratorio)…

[…]i miei genitori: mio padre, un integerrimo impiegato dello Stato, mia madre casalinga e dedita a noi bambini in modo amoroso equanime. (pp.74-75)
Il destino di un impiegato delle dogane austriache in quel tempo implica- va molti trasferimenti. Poco tempo dopo, infatti, mio padre si trasferì a Linz, dove finalmente andò in pensione. (p.75)
Credo però che allora il talento oratorio andasse formandosi in discussioni più o meno accese con i miei compagni. Nel frattempo ero diventato un piccolo capobanda, che a scuola imparava presto e bene, ma che per il resto era assai riottoso. (p.75)

Dopo una breve e fugace tentazione per la professione ecclesiastica, Adolf si avvia al pangermanesimo dopo la lettura di libri di argomento militare e, in particolare, di due volumi sulla quella franco-tedesca (1870-1871).

Infatti, quell’alterna tentazione per la professione ecclesiastica si perse assai presto, per fare posto a speranze più corrispondenti al mio temperamento. Frugando nella biblioteca paterna mi ero imbattuto in parecchi libri di materia militare, e tra gli altri sulla edizione popolare della guerra franco-tedesca del 1870-71. Si trattava di due volumi di una rivista illustrata di quegli anni, che divennero la mia lettura preferita. (p.76)

Il padre lo vorrebbe, come lui, impiegato, ma il giovane Hitler non vuole aspirando, dai dodici anni, alla pittura…

Eppure le cose dovevano svolgersi altrimenti. Per la prima volta nella mia vita, e benché avessi solo undici anni, fui indotto a oppormi. Per quanto deciso e ostinato il genitore potesse essere nell’attuazione dei suoi piani, altrettanto ostinato e scontroso era suo figlio nel rifiuto di un’idea che condivideva poco o niente. Io non volevo diventare impiegato. Né persuasioni né minacce riuscirono a attenuare la mia resistenza. Non volevo diventare impiegato, mai e poi mai. Tutti i tentativi di suscitare in me simpatia o gusto per quella carriera, attraverso i racconti della esemplare carriera paterna, ottenevano l’effetto contrario. Provavo fastidio, e sbadigliavo all’idea di dovermi chiudere in un ufficio, legato a un orario, di non essere padrone del mio tempo, anzi di dover forzare il senso della mia vita dentro scartoffie da smaltire. […]
La situazione precipitò quando al piano di mio padre ne contrapposi uno mio. Avevo 12 anni. Come la cosa avvenne, oggi non lo ricordo; ma un bel giorno capii chiaramente che volevo diventare pittore. Il mio talento per il disegno era fuori discussione; era anzi questo il motivo per cui mio padre mi mandava alla scuola tecnica. (p.77)

All’Istituto Tecnico Adolf impara solo quel che vuole per convincere il padre a lasciargli realizzare il suo sogno…

Infatti speravo che quando mio padre si fosse accorto della mia mancanza di progresso negli studi, egli avrebbe dovuto di buona o di mala voglia lasciarmi realizzare il mio sogno.
Non so se questo calcolo fosse giusto. Di sicuro, non restava che il mio evidente insuccesso a scuola. Imparavo solo quello che mi interessava, o ciò che a mio parere avrebbe potuto servirmi per la mia carriera di pittore. […] I miei migliori successi li avevo in geografia e in storia – erano queste le due materie predilette, nelle quali primeggiavo su tutti Scompagni.
Se oggi, a distanza”ai tanti anni, esamino i risultati di allora, ci leggo due fatti fondamentali – Primo: divenni nazionalista. Secondo: imparai a capire il significato della storia. (p.78)

Si fa nazionalista, “tedesco-nazionale”…

In poco tempo mi ero fatto “tedesco-nazionale”; il che, però, non corrisponde più ai concetti odierni. (p.80)

Il professore di storia, Leopold Potsch, lo fa appassionare alla materia…

L’arte del leggere, come dell’imparare, è anche qui ricordare l’essenziale e dimenticare il contingente. […]
Questo maestro ha fatto della storia la mia materia prediletta. Certo, forse suo malgrado, egli fece di me anche un giovane rivoluzionario. (p.81)

Deluso sempre più dalla “slavizzazione” dell’Austria, queste le sue conclusioni:

Qui mi basta affermare come già negli anni giovanili io fossi giunto a una conclusione che non mi abbandonò più, anzi, che mi si radicò sempre più profonda: che cioè la sicurezza del germanesimo presupponeva la distruzione dell’Austria, che il sentimento non si identifica per nulla col patriottismo dinastico, e che soprattutto la casa arciducale asburgica rappresentava la sventura della Nazione tedesca.
Già allora io avevo tratto le conseguenze da simile consapevolezza: fervido amore per la mia Patria austro-tedesca, profondo odio per lo Stato austriaco. Questo modo di pensare storicamente, che la scuola aveva creato in me, non mi ha più abbandonato. La storia del mondo fu sempre per me l’inesauribile sorgente per capire il tempo presente, cioè la politica. (p.83)

Sono anni in cui sviluppa ulteriormente la sua passione per l’opera di Wagner…

La mia esaltazione giovanile per il maestro di Bayreuth non conobbe limiti. Fui sempre attratto dalle sue opere[…] (p.83)
A tredici anni resta orfano del padre. Lascia l’Istituto Tecnico per frequentare l’Accademia di Belle Arti ma, due anni più tardi, muore anche lei…
Ormai orfano, Adolf si reca a Vienna…

Con una valigia piena di vestiti e di biancheria, con un’indomita volontà nel cuore partii per Vienna. (p.86)

II – ANNI DI STUDIO E DI DOLORE A VIENNA

Pensa di aver facilmente ottenuto l’ammissione all’Accademia, ma è invece bocciato…

Quando morì mia madre, il destino aveva in un certo senso già preso la sua decisione. Già durante gli ultimi mesi della sua malattia, io ero andato a Vienna a sostenervi gli esami di ammissione a quella Accademia. Armato di un grosso rotolo di disegni, mi ero accinto al gran viaggio convinto di poter sostenere l’esame facilmente, quasi giocando. Alla scuola tecnica io ero di gran lunga il miglior disegnatore della mia classe, e da allora la mia abilità si era enormemente perfezionata, talché ne andavo orgoglioso e speravo nel meglio.
Una sola ombra sul quadro: i l mio talento pittorico sembrava sorpassato da quello per il disegno, specialmente per ciò che riguardava l’architettura. […]
Adesso mi trovavo per la seconda volta in quella bella città, e aspettavo con forte impazienza il risultato del mio esame. Ero talmente convinto del successo, che la bocciatura mi colpì come un fulmine a ciel sereno. […]

Realizza che la sua vocazione è ora l’Architettura ma, privo dei titoli richiesti per l’ammissione, non può frequentarne i corsi…

Ma in pochi giorni|intuii che la mia vocazione era appunto l’architettura. Certo, questa nuova via era molto difficile, poiché proprio quello che per ripicca avevo trascurato alla scuola tecnica, adesso si rendeva necessario.
L’ammissione nella scuola di Architettura presupponeva la licenza della sezione architettonica della scuola tecnica; ma l’ammissione in questa esigeva a sua volta la licenza di scuola media. Tutto ciò mi mancava completamente. A colpo d’occhio, il compimento del mio bel sogno artistico non era dunque più possibile. (p.87)

Si rafforza nello spirito, lottando contro la fame e svolgendo umili mestieri, imbattendosi poi per la prima volta nei pericoli rappresentati dal marxismo e dal semitismo…

È proprio questo che io devo a quel tempo: l’esser diventato forte, il saper essere duro. E ancora di più ringrazio i l bisogno, perché mi strappò dalla vacuità di un’esistenza tranquilla, dalle braccia della mamma, e fece della nera indigenza la mia nuova madre, gettandomi nel mondo della povertà, della miseria, e mettendomi a contatto delle cose per le quali più tardi avrei dovuto lottare…
A quel tempo gli occhi mi si aprirono su due pericoli che fino ad allora non avevo conosciuto nemmeno di nome, e di cui a ogni modo non capivo la spaventosa importanza per l’esistenza del popolo tedesco: marxismo e semitismo.
Vienna, la città, che a molti sembra l’ideale della gioia innocente, la residenza di gente felice, rappresenta per me il ricordo vivente del tempo più triste della mia vita. Ancora oggi questa città risveglia in me soltanto pensieri cupi. Il suo solo nome evoca, per me, cinque anni di miseria e di desolazione. Cinque anni durante i quali, dovetti guadagnarmi il pane come operaio avventizio e più tardi come misero pittore: un pane scarso, che non bastava mai a sfamarmi. A quel tempo la fame fu la mia fedele compagna che non mi abbandonò mai, che divise con me ogni cosa. (pp.87-88)

Legge e studia molto…

Eppure, proprio in quegli anni, ho imparato più cose che mai prima di allora. Oltre all’architettura, oltre a qualche serata all’Opera, pagata con una economia all’osso, la mia unica gioia erano i libri. In quel periodo lessi enormemente, e anche profondamente. Il tempo libero dal lavoro lo passavo studiando. E in pochi anni raccolsi il capitale di scienza di cui vivo tuttora. Ma c’è di più. In quel tempo si formò in me una visione del mondo e della vita che è diventata il granitico fondamento della mia odierna attività.(p.88)

Si libera dei limiti imposti dall’educazione piccolo-borghese…

Le amicizie della mia gioventù venivano dalla cerchia della piccola borghesia, cioè da un mondo che non ha quasi rapporti con il lavoratore manuale. Per quanto bizzarra la cosa possa apparire a prima vista, sta di fatto che l’abisso tra quella classe, tutt’altro che economicamente prospera, e i l lavoratore manuale, è molto più profondo di quanto si creda. La causa di tale inimicizia sta nella paura di una categoria sociale, la quale da troppo poco tempo si è elevata sopra il livello proletario, di ricascarci o di essere ancora considerata come tale. […]
La dura e dolorosa lotta per l’esistenza uccide ogni pietà per la miseria di coloro che son rimasti in basso. Da questo punto di vista, il destino mi fu clemente, in quanto mi obbligò a rituffarmi nel mondo della povertà e dell’incertezza, che mio padre aveva invece abbandonato nel corso della sua carriera, e mi tolse i paraocchi della gretta educazione piccolo-borghese. Adesso finalmente imparai a conoscere gli uomini, a distinguere la sostanza intima dalle mere apparenze o dalle brutali esteriorità. (p.88)

E Vienna gli si rivela perfettamente adatta allo studio del “problema sociale”…

Già alla svolta del secolo Vienna apparteneva a una categoria di città socialmente sfavorevole. Ricchezza abbagliante e ripugnante povertà si davano il cambio bruscamente. […]
Però Vienna non era soltanto la centrale politica e spirituale della vecchia monarchia danubiana, ma anche la capitale economica. Di fronte alla massa di ufficiali superiori, di impiegati dello Stato, di artisti e di scienziati, si ergeva una massa ancora più grande di operai; a fronte della ricchezza dell’aristocrazia e del commercio, c’era una spaventosa miseria. Davanti ai palazzi del Ring sfilavano migliaia di disoccupati, e sotto a questa via trionfale della vecchia Austria si accovacciavano nella penombra e nel fango delle fogne i senza tetto. (p.89)

Lo fece al meglio, sperimentando su di sé la miseria…

Trovare lavoro è difficile e così la precarietà diviene abituale. Abbrutito, l’uomo perde il senso dell’economia, sperperando, quando lavora, tutto quello che guadagna…

Anch’io, nella grande città, fui talmente bistrattato dalla vita che potei sperimentare gli effetti di quel destino, saggiarli spiritualmente. E notai anche un’altra cosa: quel rapido passare da lavoro a disoccupazione e vice- versa, come il continuo alternarsi delle entrate e delle uscite, alla lunga distrugge il sentimento del risparmio,come anche l’intelligenza per una saggia economia domestica. 11 corpo lentamente si abitua a consumare molto nei tempi grassi e a sopportare la fame nei magri. Anzi, la fame distrugge qualsiasi desiderio di una ragionevole economia da farsi in tempi migliori, in quanto essa, come una fata morgana, dischiude agli occhi del misero immagini di vita grassa, e ingigantisce tali sogni fino a creare una tale esasperazione che ne nasce quasi la morbosa decisione di non ammettere più mortificazioni non appena ritornino guadagno e buone paghe. Da ciò segue il fatto che appena un disoccupato ritrova lavoro, egli dimentica ogni saggia economia e vive alla giornata, sciupando l’intero guadagno. (p.91)

Alcolismo e abitazioni fatiscenti completano il quadro…

La faccenda si fa più grave se l’uomo, fin dal principio, segue la sua strada, e la donna, proprio per amore dei figli, cerca di opporvisi. Ecco allora litigi e percosse; quanto più il marito si allontana dalla moglie, tanto più si avvicina all’alcol. Eccolo ubriaco ogni sabato; in un bisogno istintivo di conservazione per sé e per i suoi bambini, la moglie cerca di carpirgli, quasi sempre lungo la strada dalla fabbrica all’osteria, qualche quattrino.[…]
Ancora più desolate erano allora le abitazioni degli operai. La miseria delle case dei manovali viennesi era assolutamente orrenda. Ancora oggi provo ribrezzo quando penso a quelle spelonche, ai dormitori, alle case popolari, a quel bieco quadro di miseria, vizio e sporcizia. (p.92)
[…] anche nella vita umana non si tratta di abbellire artificiosamente il male esistente (il che, dati gli uomini, è impossibile in novantanove casi su cento), quanto di preparare binari
più sicuri per un progresso futuro. Già durante la mia lotta per la vita, nel tempo di Vienna, avevo chiaramente capito che l’attività sociale non deve vedere il suo compito in ridicole e inutili assistenze sociali, quanto nell’eliminazione dei mali fondamentali dell’organizzazione della nostra vita economica e culturale, i quali conducono alla rovina dei singoli, possono condurre.[…]
Io non so quale cosa, a quel tempo, mi ripugnasse di più: se la miseria economica dei miei compagni di allora, la rozzezza dei costumi, o il bassissimo livello della cultura del loro spirito. (p.94)

Mancano amor patrio, educazione e cura dei figli…

Già a sei anni quei poveri bambini pensano cose che in genere un adulto sente soltanto con ribrezzo. Avvelenato moralmente, malnutrito, la povera testolina piena di pidocchi, è in questo modo che il giovanissimo cittadino arriva alla scuola. Ed è una gran fortuna se impara a leggere e scrivere, tra continue punizioni e sgridate. Naturalmente non è il caso di pensare che egli possa studiare a casa. Già i genitori, di fronte ai ragazzi, parlan dei maestri della scuola in modo irriferibile, e sono piuttosto disposti a scaricare ingiurie e bestemmie sui loro figlioli piuttosto che prenderli sulle ginocchia per far loro ripetere le lezioni. Quanto poi a quello che quei ragazzi ascoltano in casa, non si tratta certo di cose che possano contribuire ad aumentare il rispetto per la società in cui vivono. […] Quando poi quei ragazzi hanno 14 anni e vengono dimessi dalla scuola, è difficile dire che cosa sia più grande in loro: se l’incredibile ignoranza, ove si tratti di conoscenze tecniche e di capacità, oppure la sguaiata impertinenza del loro atteggiamento, unita a un’immoralità da far rizzare i capelli in testa alla persona più placida. (p.95)
Dal tredicenne si sviluppa un quindicenne sprezzante di ogni autorità. AH’infuori della sporcizia e della vergogna, quel giovanotto non ha conosciuto nulla che possa stimolarlo a santi entusiasmi! (p.96)

Solo l’amor patrio può risollevare le sorti della nazione ormai in decadenza…

Perciò imparai allora una cosa a cui non avevo ancora pensato: la questione della “nazionalizzazione ” di un popolo è anzitutto un creazione di sani rapporti sociali quale base delle possibilità educative dei singoli. Perché solo colui che attraverso l’educazione e la scuola impara a conoscere la grandezza spirituale, economica e soprattutto politica della sua Patria, può e saprà anche conquistare quell’intimo orgoglio di essere un membro di un simile popolo. Io non posso lottare solo per ciò che amo, posso amare solo ciò che stimo, e posso stimare solo ciò che perlomeno conosco. (p.96)

1909-1910. Si guadagna da vivere come disegnatore e acquarellista e così, grazie al maggior tempo libero, può dedicare più tempo allo studio e alla riflessione…

Negli anni 1909 e 1910 era anche mutata la mia situazione, in quanto non ero più costretto a guadagnarmi il pane come avventizio. Lavoravo già per conto mio come disegnatore e acquerellista. (p.96)
Dipingevo per guadagnarmi il pane, e studiavo per la mia gioia. In questo modo mi fu anche possibile aggiungere alla mia esperienza pratica del problema sociale il necessario completamente teorico. Studiavo pressoché tutto ciò che potevo trovare nei libri, e per il resto mi sprofondavo nei miei pensieri. Certo, il mio ambiente doveva considerarmi un eccentrico. (p.97)

Apre finalmente gli occhi su marxismo e socialdemocrazia…

In tal modo, all’età di 17 anni, la parola marxismo mi era quasi sconosciuta, mentre socialdemocrazia e socialismo mi parevano concetti onesti e leciti. E anche in questo caso ci volle una manata del destino, perché riuscissi ad aprire gli occhi di fronte a quell’inaudita frode ai danni del popolo.[…] della vita. E ciò che sarebbe soltanto capitato forse dopo decenni, mi capitò invece nel corso di pochi mesi: la rivelazione che sotto l’orpello dell’amore per il prossimo e della virtù sociale si nascondeva una orrenda pestilenza dalla quale era urgente liberare l’umanità, ché in caso contrario i l mondo si sarebbe forse liberato degli uomini… (pp.99-100)

I miei compagni rinnegavano ogni cosa: la Nazione, che era un’invenzione del capitalismo (quante volte in seguito ho dovuto sentire questa parola!); la Patria, strumento della borghesia per lo sfruttamento della classe operaia; l’autorità della legge, il mezzo per schiacciare il proletariato; la scuola, istituto creato per addomesticare gli schiavi; la religione, mezzo per instupidire il popolo destinato allo sfruttamento; la morale, segno di una stupida remissività da pecore… Non c’era niente che non venisse ugualmente trascinato nel fango. (pp.100-101)

Leggendo la stampa socialista può avere un quadro esaustivo sulle vere posizioni politiche della sinistra e pensare di potervisi contrapporre con un’ideologia altrettanto forte…

Lungo la strada vidi in un’edicola l'”Arbeiter Zeimng” l’organo centrale della socialdemocrazia austriaca. […]
Assai meglio che dalla letteratura teorica, dalla lettura quotidiana della stampa social-democratica potei imparare a conoscere l’essenza profonda del pensiero socialista.[…]
Se si apponga alla socialdemocrazia una dottrina più vera, ma affermata con identica brutalità, quest’ultima vincerà, sia pure dopo lunga lotta. (p.102)

E ancora…

Allo stesso modo imparai a conoscere quale sia l’importanza del terrore fisico nei confronti del singolo come della massa. Anche qui è necessario un calcolo preciso degli effetti psicologici. Il terrore nelle fabbriche, nei concentramenti operai, nelle assemblee e nelle manifestazioni di massa, sarà sempre accompagnato dal successo, se non vi si oppone un identico terrore. (p.103)

L’ottusità della borghesia è la principale causa del successo della Socialdemocrazia…

Milioni di operai erano, nel loro intimo, almeno in partenza, certamente nemici del partito social-democratico, ma questa loro resistenza veniva infranta dal modo assurdo col quale la borghesia prendeva posizione di fronte a qualsiasi loro rivendicazione. La ripulsa ottusa di ogni riforma o miglioramento delle condizioni degli operai, dei regolamenti per prevenire infortuni sul lavoro, della proibizione del lavoro infantile come anche della difesa della donna almeno nei mesi in cui porta in grembo un futuro cittadino, contribuiva a spingere le massse nella rete della social-democrazia; la quale sapeva invece sfruttare abilmente tutte queste circostanze. La nostra borghesia politica non riuscirà mai a rimediare a tutti i suoi peccati. Mentre resisteva a tutti i tentativi volti a eliminare le ingiustizie sociali, essa seminava odio e apparentemente giustificava le affermazioni dei nemici del popolo, cioè che soltanto la social-democrazia rappresentasse gli interessi del proletariato. La borghesia creò così sul campo la giustificazione morale dell’esistenza di fatto dei sindacati, cioè dell’organizzazione che forniva al partito le sue riserve di masse.(p.104)

E così poco a poco muta anche la sua opinione riguardo il Sindacato…

A vent’anni avevo imparato a distinguere tra il sindacato considerato come mezzo di difesa dei diritti generali del lavoratore e della conquista di migliori condizioni di vita, dal sindacato considerato come strumento del partito per la lotta di classe. (p.104)
Il singolo operaio non è mai in grado di potersi opporre alla volontà dei grandi industriali, giacché qui non si tratta della vittoria di un diritto più alto, ma di una questione di forza. Se non fosse così, lo stesso sentimento del diritto dovrebbe determinare i termini del conflitto, anzi a tale conflitto non si arriverebbe mai. No, quando lo sfruttamento anti-sociale e indecoroso degli uomini li spinge alla resistenza, questa lotta, finché non ci siano degli organi legali creati per eliminare tale inconveniente, non potrà avere successo se non per mezzo della forza. È perciò evidente che alla singola persona e alla forza coalizzata dei datori di lavoro si può opporre giustamente la massa operaia concentrata anch’essa quasi in un corpo solo, se non si voglia fin dal principio rinunciare a ogni speranza di vittoria. (p.105)
Nella misura in cui la borghesia politica non capì o non volle capire l’importanza dell’organizzazione sindacale, e vi si oppose, si avvantaggiò la social-democrazia. Essa si creò perciò un solido fondamento, sul quale poggia la sua ultima difesa nelle ore critiche. […] La social-democrazia non si propose mai di mantenere quei movimenti collettivi nei binari dei loro compiti fondamentali. No, essa non la pensava così! In pochi decenni, sotto la sua abile condotta, lo strumento di difesa dei diritti umani si tramutò in strumento di distruzione dell’economia nazionale. In tal modo, gli stessi interessi degli operai non furono tenuti in nessun conto. […]
Già durante la svolta del secolo, il movimento sindacale aveva cessato di servire ai suoi scopi originari.Di anno in anno esso era precipitato nell’ambito della politica socialista, per essere impiegato solo come ariete nella lotta di classe. Gli spettava pertanto il compito di portare alla distruzione, mediante ripetuti colpi, il corpo economico della Nazione, per potere così più facilmente rovesciare anche l’edificio statale, dopo averne minato le fondamenta economiche. (p.106)

Studia quindi la dottrina socialdemocratica… E, parlando del socialismo, eccolo dare il là a considerazioni sull’ebraismo…

Fu così che imparai a conoscere quell’amica dell’umanità. Nel corso degli anni la mia conoscenza si approfondì e si allargò, ma non dovetti mai sostanzialmente mutarla. Quanto più mi procacciavo una buona visione della sostanza del socialismo, tanto più crebbe in me il desiderio di conoscerne anche la dottrina. A questo scopo la letteratura ufficiale del partito mi serviva ben poco. Essa, per quanto riguarda i problemi economici, è falsata nelle affermazioni e nelle argomentazioni; mentre per ciò che riguarda gli scopi politici è bugiarda.[…] A ogni modo, mentre io pesavo la insufficienza teorica del socialismo con la realtà delle sue manifestazioni pratiche, mi feci un quadro sempre più chiaro della sua volontà profonda. In tali ore mi visitavano tristi presentimenti e grandi paure. Vedevo davanti ai miei occhi una dottrina che era fatta di egoismo e odio; ciò che, secondo una legge matematica, porta alla vittoria ma al tempo stesso distrugge l’umanità. […] Soltanto la conoscenza del giudaismo offre la chiave per capire le finalità nascoste, cioè quelle vere, del socialismo. (p.107)
Per me è difficile, oggi, dire quando la parola ebreo mi guidò per la prima volta a una particolare serie di congetture. Non ricordo affatto di aver mai udito nella casa paterna tale parola. […] Fu solo verso i 15 anni che m’imbattei spesso nella parola ebreo, e queasi sempre in relazione a discorsi politici. Me ne spesso veniva nella un senso parola di ebreo, leggera e ripulsa, quasi sempre né potevo in relazione evitare un sentimento di fastidio, ogniqualvolta si parlava davanti a me di questioni confessionali. Né a quel tempo consideravo altrimenti il problema giudaico.
A Linz c’erano pochi ebrei. Nel corso dei secoli il loro aspetto si era europeizzato, si era fatto umano; li consideravo perfino come dei tedeschi. L’ingenuità di una simile opinione non mi appariva chiara, poiché fino ad allora io vedevo la loro diversità appunto solo nella loro diversa confessione. E il patto che essi fossero stati perseguitati a cagione di essa, come credevo, faceva sì che provassi fastidio di fronte a espressioni offensive nei loro riguardi.
Non sapevo nulla dell’esistenza di un programmatico movimento antisemita. (p.108)
È dunque a Vienna che “incappai nel problema giudaico” (p.108)

Sulla stampa lo infastidiscono peraltro gli articoli favorevoli all’imperatore e alla Francia, quelli antitedeschi. Ma iniziando a leggere il quotidiano antisemita Volksblatt, ha modo di conoscere meglio Karl Lueger e il partito Cristiano Sociale, ben presto suoi idoli…
Muta anche la sua posizione nei confronti dell’ebraismo, fino a diventare un acceso sostenitore dell’antisemitismo…

Comunque sia, vi imparai a conoscere lentamente l’uomo e il movimento che determinava in quel tempo il destino di Vienna: il dottor Karl Lueger e il partito cristiano-sociale.
Quando arrivai a Vienna ero ostile a entrambi: l’uomo e il movimento erano, ai miei occhi, reazionari. Ma il mio consueto senso di giustizia mi costrinse gradualmente a mutare il mio giudizio, nella misura in cui ebbi l’opportunità di conoscerli meglio; e lentamente quel giudizio più equo si mutò in grandissima ammirazione. Oggi vedo in quell’uomo il più grande borgomastro tedesco di tutti i tempi. Ma quanti altri pregiudizi furono travolti da una simile evoluzione del mio primitivo concetto del movimento cristiano-sociale! La più grave di tali evoluzioni fu il cambiamento che naturalmente subirono, nel corso del tempo, le mie idee a proposito dell’antisemitismo. Esso mi costò i più duri conflitti interiori; e fu solo dopo una lunga lotta tra ragione e sentimento che vinse in me il partito della ragione. Due anni più tardi anche il sentimento seguì la ragione, per diventarne da allora il guardiano più fedele. (pp.110-111)

Comincia a notarne le differenze “esteriori” e a far conoscenza del sionismo…

Al tempo di quella lotta tra la mia educazione sentimentale e la fredda ragione, la mia pratica esperienza delle strade di Vienna mi rese servizi indicibili. Era venuto il momento in cui non mi aggiravo più come un cieco nella grande città, ma guardavo con occhi aperti non soltanto i palazzi, ma anche gli uomini.[…]
Come sempre in casi del genere, cercai di chiarirmi quel dubbio mediante la lettura. Comperai per pochi centesimi i primi opuscoli antisemiti della mia vita. Ma tutti partivano dal presupposto che il lettore fosse già in un certo senso aggiornato sul problema semita, E il loro tono era tale che mi tornavano i vecchi dubbi, per la mediocrità e la banalità delle argomentazioni. E ritornavo al punto di partenza, per settimane, a volte per mesi.
La faccenda mi sembrava così enorme, le accuse così smisurate che, tormentato dalla paura di commettere un’ingiustizia, tornavo pavido e indeciso. Certo, non dubitavo più che non si trattasse di tedeschi di religione speciale, ma di un popolo a sé stante, perché da quando avevo comincio a occuparmi di quel problema e, a guardare gli ebrei con occhi più attento, anche Vienna mi era apparsa in una nuova luce.
Dovunque io andassi, non vedevo che ebrei, e quanti più ne vedevo, tanto più essi si distinguevano-dagli altri mortali. Specialmente il centro della città e i quartieri a nord del canale brulicavano di un popolo che già nell’ aspetto esteriore non aveva alcun contatto con quello tedesco.
Ma se anche ne avessi dubitato ancora, quel dubbio mi fu poi tolto dalla posizione che aveva assunto una parte degli ebrei viennesi. Una grande corrente, abbastanza importante a Vienna, affermava con decisione il carattere razziale degli ebrei: il sionismo. (pp.111-112)

Passa all’odio, riprendendo le tesi di Lueger…
Occupano tutti i posti e controllano industrie, cultura, prostituzione. Sono marxisti, cosmopoliti e antinazionalisti, a capo del socialismo. Sono le statistiche a metterlo di fronte all’onnipresenza degli ebrei nel campo artistico-culturale e nella stampa…

Cominciai allora a esaminare attentamente i nomi di tutti i produttori di simili sottoprodotti laidi della vita artistica. Il risultato fu sempre più pernicioso per il mio atteggiamento passato nei riguardi degli ebrei. E anche se il mio sentimento vi si fosse ribellato,la ragione non poteva non trarne le logiche conseguenze. Il fatto che nove decimi di tutte le sconcezze letterarie, delle banalità artistiche e delle scemenze teatrali fosse da addebitare a quel popolo, che rappresentava solo la centesima parte degli abitanti del Paese, non era più opinabile; era precisamente così. Allora cominciai a esaminare da quel punto di vista anche la mia amata stampa “cosmopolita”. E quanto più calavo la sonda, tanto più l’oggetto della mia ammirazione di un tempo si disfaceva a vista d’occhio. Il suo stile mi diventava sempre più insopportabile, il contenuto piatto e ambiguo, l’oggettività mi si rivelava fasulla: e gli autori erano tutti ebrei. Tante cose che prima avevo appena intravisto, ora mi tornavano davanti con grande evidenza; e altre, che già mi avevano dato da pensare, adesso imparavo a capirle. (pp.113-114)
Quando individuai per la prima volta nell’ebreo il dirigente, al tempo stesso freddo e svergognato, di tutto il traffico vizioso della grande città, mi corse come un brivido lungo la schiena. (p.114)
Da allora in poi non evitai più lo studio del problema semita, anzi ne andai in cerca, e come mi abituai lentamente a cercare l’ebreo in tutte le direzione della vita culturale e artistica, nei suoi vari aspetti, così finii col trovarlo in una posizione dove meno me lo sarei aspettato. Quando cioè riconobbi l’ebreo anche nei capi del socialismo, mi cadde l’ultima benda dagli occhi. E”così terminò in me quel lunghissimo travaglio interiore. (p.115)
Cominciai così a vedere che la stampa socialista era diretta quasi esclusivamente da ebrei: ma non davo uria speciale importanza a questo fatto, dato che la stessa situazione si ripeteva anche per gli altri giornali. Una sola cosa, piuttosto, era lampante: non c’era foglio a cui partecipassero gli ebrei, che potesse essere definito nazionale nel senso che la mia educazione e il mio modo di vedere davano a quella parola.
Quando mi ero deciso a leggere i vari prodotti della stampa marxista, e mentre l’avversione per essi cresceva smisurata, avevo cercato di conoscere meglio i fabbricanti di tali laidezze. Erano tutti, a partire dall’editore, ebrei. Cominciai a raccogliere tutti gli opuscoli socialisti che mi fu possibile, esaminai i nomi dei loro autori: ebrei. Notai i nomi di quasi tutti i capi: anche costoro appartenevano per la maggior parte al popolo eletto, si trattasse di membri del Parlamento o di segretari di sindacati, di agitatori di piazza o di presidenti delle organizzazioni. Dappertutto e sempre, lo stesso quadro. (p.116)
Quante volte restai di stucco! Né sapevo che cosa ammirare di più: se la loro abilità dialettica, o la loro arte nella menzogna. Al punto che cominciai gradualmente a odiarli. Tutto ciò ebbe però un lato positivo: nella misura dell’evidenza con la quale mi si rivelarono i teorici o i propagandisti del socialismo, crebbe in me l’amore per il mio popolo. (p.117)
Da placido cosmopolita, ero diventato un fanatico antisemita. (p.118)
La dottrina semita del marxismo rifiuta il principio aristocratico della natura, e pone al posto dell’eterno diritto della forza e della potenza il numero, col suo peso morto. Essa rinnega nell’uomo il valore della persona, mette in dubbio l’importanza del popolo e della razza, togliendo così all’umanità le premesse della sua conservazione e della sua cultura. (p.119)

III – CONSIDERAZIONI GENERALI E POLITICHE DEL MIO PERIODO VIENNESE p.119

Bisognerebbe dedicarsi alla politica solamente dopo i trentanni, dopo essersi formati una solida e stabile visione e conoscenza del mondo…

Mi sono convinto che l’uomo, salvo particolarissimi casi, non deve occuparsi apertamente di politica prima di avere trent’anni. Non lo deve fare perché, prima di quella età, si forma in lui solo una base generale, dalla quale egli poi esamina i concreti problemi politici e stabilisce definitivamente i suoi rapporti con essi. E solo dopo avere raggiunto una simile visione basilare del mondo, e la solidità del proprio modo di considerare i diversi problemi quotidiani, che l’uomo, ormai interiormente maturo, potrà partecipare alla direzione politica della collettività. (p119)
Anche il trentenne, naturalmente, avrà molto altro «da imparare, nel corso della sua vita, ma sarà solo un completamento del quadro nel quale gli si presenta l’ormai acquisita visione della vita. Il suo imparare non sarà un disimparare, ma un aggiungere[…] (p.120)

All’epoca, in mezzo a tanti “parlamentari parassiti” (p.120), l’unico politico degno di nota era Lueger, unitamente alla minoranza Pangermanista…

È stato il federalismo, afferma Hitler, a rovinare l’Impero Austriaco…

Il concetto di una organizzazione federale dell’impero, invece, doveva fallire; per la mancanza di una cellula statale che irradiasse una grande forza. (p.122)

Senza una lingua, educazione, tradizioni comuni e uno stato accentratore è impossibile mantenere un impero multietnico…

A voler condurre risolutamente la lotta per la conservazione dello Stato, non restava che perfezionare al massimo una centralizzazione statale ostinata e spietata. In questo caso la premessa più importante doveva essere l’imposizione di un’unica lingua di Stato, che avrebbe accentuato formalmente la solidarietà delle parti. E avrebbe al tempo stesso offerto all’Amministrazione il suo migliore mezzo tecnico, senza il quale uno Stato unitario non può vivere. E solo così si sarebbe potuto creare, mediante l’insegnamento e le scuole, una unitaria mentalità statale. […]
Ben diverso, invece, il caso di un Impero che non è composto di razze uguali, e che è tenuto insieme non dal sangue comune ma da un unico pugno. La debolezza della direzione non conduce in questo caso al letargo dello Stato, ma al risveglio di tutti gli istinti singoli che già son presenti secondo il sangue, ma che non avevano potuto esprimersi nei tempi di forte volontà centralizzatrice. Solo mediante secoli di educazione comune, di tradizione comune, di interessi comuni, un tale pericolo può essere neutralizzato. (pp.123-124)
La più tragica colpa della casa d’Asburgo è stata forse quella di non averlo capito. Uno solo di essi tenne in pugno l’avvenire del suo Impero, poi anche quella fiaccola si spense.
Giuseppe II, imperatore romano della Nazione tedesca, si accorse con spavento come la sua casa, respinta fin quasi al limite estremo dell’Impero, avrebbe finito per scomparire nel vortice di una babilonia di popoli, se non gli fosse riuscito di rimediare all’ultimo momento alle negligenze dei padri. […]
Quando poi i primi segni rivoluzionari di una nuova epoca lampeggiarono nel cielo d’Europa, anche l’Austria cominciò lentamente a bruciare. Ma in essa quell’incendio non fu provocato da situazioni sociali o politiche; piuttosto da istinti di origine nazionale. La rivoluzione del 1848 fu dappertutto una lotta di classe, in Austria invece fu l’inizio del conflitto di razze.[…]
Con la creazione di una rappresentanza parlamentare senza aver prima definita una lingua comune, si diede l’avvio al precipitare del predominio dei tedeschi nella monarchia. Ma da questo momento anche lo Stato fu perduto. Tutto ciò che ne seguì non fu che la decadenza storica di un Impero. (p.124)

Ed eccolo toccare un altro tema caro ai partiti volkish: l’Antiparlamentarismo. Parlmento che, in mano ai socialisti e ai borghesi, non può che essere antitedesco…

Già questo fatto era preoccupante, dato che a causa della posizione ambigua dei socialisti, ne veniva che costoro assumessero un atteggiamento contrario alla germanità, per non perdere i loro seguaci i quali appartenevano alle altre nazionalità. Fin da allora il socialismo non poteva essere considerato come un partito tedesco. Poi, con l’introduzione del suffragio universale, la maggioranza tedesca cessò anche in base alle cifre. Non c’era più alcun ostacolo alla stedeschizzazione dello Stato.
L’istinto di conservazione nazionale mi faceva amare assai poco una rappresentanza popolare dove la germanità veniva, anziché rappresentata, tradita. […]
Con queste idee penetrai por la prima volta nei sacri locali. (p.126)

In un anno di frequentazione comprese l’inutilità di una tale istituzione…

Quel primo giorno bastò per offrirmi materia di riflessione e per molte settimane. Il contenuto spirituale delle cose che venivano dette era a un livello davvero deprimente, e ciò nella misura in cui si potevano capire quei discorsi; perché alcuni deputati non parlavano tedesco, bensì nella loro lingua slava, o meglio nel loro dialetto. Avevo finalmente l’opportunità di sentire con le mie orecchie ciò che fino ad allora avevo appreso solo dai giornali. Ecco una massa quasi selvaggia, gesticolante, urlante in una grande confusione di lingue, e sopra di loro un povero vecchio che si sforzava col sudore della fronte di salvare la dignità della Camera mediante il suono di un campanello. Non potei fare a meno di ridere.
Qualche settimana più tardi tornai nuovamente in Parlamento. Lo spettacolo, stavolta, era completamente diverso, irriconoscibile. L’aula era vuota. Ci si dormiva. Alcuni deputati stavano ai loro posti, sbadigliavano, uno di loro parlava. Era in funzione un vicepresidente della Camera, e guardava nell’aula evidentemente annoiato.
Si levarono in me, allora, le prime preoccupazioni. Perciò, non appena mi era possibile, tornavo in Parlamento, a contemplare in silenzio quello spettacolo. Ascoltavo i discorsi fin dove potevo capirli, scrutavo le facce più o meno intelligenti degli eletti della Nazione, e cominciai a formarmi una mia opinione. Un anno di una simile pacata osservazione mi bastò per cambiare completamente la mia originaria opinione nei riguardi di quell’istituto. Nel mio intimo presi sempre più posizione contro la deformazione che quel pensiero aveva assunto in Austria. No, non potevo riconoscervi un vero Parlamento. Fino ad allora avevo creduto che la disgrazia del Parlamento austriaco consistesse nella mancanza di una maggioranza tedesca, adesso mi accorgevo che la sua maledizione stava proprio nella sua stessa essenza. (p.127)
Se il Parlamento non valeva niente, neanche gli Asburgo valevano molto di più.[…]
Ciò che mi fece riflettere maggiormente fu l’evidente mancanza di responsabilità dei singoli. Il Parlamento prende una decisione le cui conseguenze possono essere spaventevoli: nessuno ne porta la responsabilità, nessuno può essere chiamato a risponderne. (p.128)
Dal momento che il principio parlamentare della maggioranza rifiuta l’autorità della persona e la sostituisce col numero del gregge, esso pecca nei confronti del pensiero fondamentale aristocratico della natura, dove naturalmente il concetto di nobiltà non è davvero impersonato dalle odierne classi dirigenti del nostro periodo di decadenza. (p.129)
È sempre di gran consolazione, per un’assemblea, sapere che il suo Capo sta al suo stesso livello; in questo modo ogni rappresentante ha il piacere di lasciare balenare a tratti anche la sua intelligenza – e poi, se Tizio può essere il Capo, non lo può diventare anche Caio? Nel suo intimo, la vera scoperta della democrazia corrisponde a una caratteristica che è diventata in questi ultimi tempi un’autentica vergogna: la vigliaccheria di una gran parte dei cosiddetti capi. Quale sollievo, potersi nascondere dietro le redingote dei membri della maggioranza ogniqualvolta c’è da prendere una decisione di qualche importanza!
Si osservi solo in quale maniera questi politicanti elemosinano l’approvazione della maggioranza, per assicurarsi così i complici e scaricare su di essi la loro responsabilità. In ciò sta la causa principale del fatto che la carriera politica è sempre più malvista e odiata dagli uomini di fegato, mentre i deboli – e chi non sa assumersi la responsabilità delle proprie azioni, ma cerca copertura presso altri, è un vigliacco – ne vengono attirati. Ma quando i dirigenti di una Nazione son fatti da simili miserabili, il fatto non potrà non vendicarsi in qualche modo. Non si avrà più il coraggio di prendere decisioni
energiche, si preferirà sottomettersi a ogni umiliazione piuttosto che assumere un atteggiamento deciso; e non ci sarà più nessuno pronto a giocare la sua persona e la sua testa per realizzare una decisione coraggiosa. (p.130)
Ne segue quindi un progressivo impoverimento dei ceti dirigenti. Quale ne sia la conseguenza per la Nazione e per lo Stato, è cosa chiarissima per tutti coloro che non appartengono a quella razza di dirigenti. (p.131)
È sempre di gran consolazione, per un’assemblea, sapere che il suo Capo sta al suo stesso livello; in questo modo ogni rappresentante ha il piacere di lasciare balenare a tratti anche la sua intelligenza – e poi, se Tizio può essere il Capo, non lo può diventare anche Caio? Nel suo intimo, la vera scoperta della democrazia corrisponde a una caratteristica che è diventata in questi ultimi tempi un’autentica vergogna: la vigliaccheria di una gran parte dei cosiddetti capi. Quale sollievo, potersi nascondere dietro le redingote dei membri della maggioranza ogniqualvolta c’è da prendere una decisione di qualche importanza![…] (p.132)
Costoro rappresentano dunque, in pratica, i l governo; perché anche se eleggono un ministero che conduce in apparenza gli affari dello Stato, esso è tale solo esteriormente. In realtà, i cosiddetti governi non possono fare un passo senza essersi procacciati in precedenza l’assenso dell’assemblea, né possono mai essere resi responsabili giacché la decisione conclusiva non spetta a loro in quanto tali, ma alla maggioranza della Camera. Essi non fanno che eseguire la volontà delle maggioranze occasionali. […]
Essi precipitano perciò dall’alta posizione di un vero governo, per mutarsi in mendicanti della incostante maggioranza. Il loro compito essenziale consiste nell’assicurarsi di volta in volta o il favore della maggioranza, o nel riuscire a coalizzarne abilmente una nuova più favorevole. (p.133)
superiori è realmente istintiva. E più facile che un cammello passi dalla cruna dell’ago, che un grande uomo venga scoperto da un’elezione. La storia ci insegna che chi sopravanza i l livello medio dell’umanità, in genere si affaccia da solo all’orizzonte. Ed ecco invece che cinquecento uomini di caratura più che mediocre, devono decidere dei fatti più importanti della Nazione, formare governi che a loro volta devono procacciarsi il favore dell’assemblea – in realtà la politica vien dunque fatta da quei cinquecento. E in realtà la politica ne risente, quasi sempre. (p.133)
L’istituzione parlamentare è perciò utile e gradita soltanto ai più ipocriti filibustieri, proprio a coloro che non amano la luce del giorno; mentre sarà odiata da ogni persona retta, onesta, capace di personale responsabilità. Ecco perché questo tipo di democrazia è diventato lo strumento di quella razza che a causa dei suoi veri scopi sfugge la luce del sole, adesso e sempre. Soltanto l’ebreo può lodare un’istituzione che è sudicia e falsa come lui. A ciò si contrappone la sincera democrazia tedesca della libera scelta del Capo il quale assume la piena responsabilità di tutte le sue azioni. Qui non c’è la singola votazione sui vari problemi, ma solo la scelta di un uomo il quale deve poi rispondere delle sue decisioni con la sua sostanza e con la sua vita. […]
A questo risultato ero arrivato dopo una consuetudine col Parlamento di Vienna, che durò due anni. Non ci tornai più. (p.135)
Dal tentativo di sradicare con tutti i mezzi il germanesimo della vecchia monarchia, nacque come risposta i l movimento pangermanista austriaco. (p.136)
L’esempio dell’Austria sta a dimostrare come sia facile a una tirannia ammantarsi di legalità. I poteri costituiti si appoggiavano allora su un Parlamento ostile ai tedeschi, per mezzo delle sue maggioranze non tedesche, e su una dinastia anch’essa anti-tedesca. Tutta l’autorità dello Stato si concentrava in questi due fattori. (p.138)
Nel 1888 un collaboratore di Schonerer, Karl Lueger, lasciò il movimento e fondò il Partito cristiano-sociale. (p.139)

Fa sue le posizioni del pangermanista Schonerer e di Lueger… Si dedica quindi a una digressione sul movimento pangermanista e su quello cristiano-sociale…

Comincio ora le mie considerazioni studiando i due uomini che sono i fondatori e i capi di quei due partiti: Georg von Schonerer e il dottor Karl Lueger. (pp.140-141)
Ma la mia simpatia si rivolse dapprima al pangermanista Schonerer, per poi solo più tardi portarsi verso i l capo cristiano-sociale. A confrontare le loro reciproche capacità, il primo mi sembrò di gran lunga il miglior pensatore di problemi di principio. Meglio di qualsiasi altro, egli riconobbe chiaramente e giustamente i l fatale tramonto dello Stato asburgico. Se nel Reich i suoi avvertimenti nei confronti degli Asburgo fossero stati meglio capiti, forse la disgrazia di una guerra della Germania contro tutta l’Europa non sarebbe mai capitata. Ma quanto più Schonerer capiva i problemi secondo la loro intima essenza, tanto più si sbagliava nel riconoscere gli uomini. In ciò invece consisteva la forza del dottor Lueger. (p.142)

Analizza quindi le cause del fallimento dei due partiti…

Lo studio delle cause del fallimento di quei due partiti è infinitamente prezioso per il nostro tempo. […]
La catastrofe del movimento pangermanista austriaco ha, ai miei occhi, tre cause. In primo luogo l’imprecisa visione dell’importanza che problema sociale per un partito nuovo e essenzialmente rivoluzionario. Schonerer si rivolgeva in primo luogo alle classi borghesi, quindi i l risultato non poteva essere che mediocre o addomesticato. […] Non fosse che per realizzare la possibilità di una lotta veramente seria, il movimento pangermanista avrebbe dovuto rivolgersi in primo luogo alle grandi masse. […]
La partecipazione a un movimento di molti elementi di borghesia moderata pregiudicherà l’impostazione di un partito, e quindi esso perderà qualsiasi probabilità di guadagnarsi notevoli forze tolte al popolo. Perciò tale movimento non uscirà da uno stadio di continue critiche e pettegolezzi. (p.143)
Fu ciò che capitò al movimento pangermanista, proprio perché non vide il suo scopo fondamentale nel fare proseliti presso le grandi masse. Esso diventò borghese, perbene, moderatamente radicale. Da questo errore nacque subito dopo la seconda causa del suo rapido tramonto.[…]
In questo modo quel movimento s’imbattè in un problema di grande importanza teorica: volendo distruggere il Parlamento, conveniva entrarvi per minarlo dall’interno? O era meglio condurre la lotta dall’esterno, e contro di esso? Ci si entrò, e se ne uscì battuti. Certo, ci si doveva entrare. […]
Il movimento pangermanista non comprendeva le grandi masse, non gli restava perciò che entrare in Parlamento.[…]
L’assemblea del Parlamento non è perciò i l foro che mette in comunicazione col maggior numero di ascoltatori, per questo sono più utili le grandi adunate popolari. Qui si trovano migliaia di persone che sono venute soltanto per ascoltare ciò che l’oratore ha da dire, mentre nella sala delle sedute della Camera ci sono un centinaio di presenti, accorsi per riscuoterla diaria, ma non certo per farsi illuminare dalla saggezza dell’uno o dell’altro collega. (pp.144-145)
Il peggio poi era questo. Il movimento pangermanista poteva puntare al successo solo se avesse capito dal primo giorno che non si trattava di formare un nuovo partito, quanto di proclamare una nuova visione del mondo. Solo questa avrebbe potuto far scaturire la forza intima che avrebbe permesso di vincere la titanica lotta. Ma a questo scopo possono servire come capi soltanto le personalità migliori e più coraggiose. (p.145)
Nella misura in cui il movimento pangermanista si vendette al Parlamento, esso contò nelle sue fila dei parlamentari, anziché dei capi e dei combattenti. Esso precipitò pertanto al livello di uno dei tanti partiti di oggi, e perse l’energia necessaria ad andare incontro al suo destino con l’ostinazione dei martiri. Invece di combattere, imparò a parlare e a trattare.[…]
Il destino dei popoli è messo in moto soltanto da una tempesta di ardenti passioni, e svegliare le passioni è facoltà esclusiva di chi le porta nel cuore. Solo la passione dà al predestinato le parole che come un maglio spalancano la porta che conduce al cuore del popolo. (p.146)
Un movimento che si proponga ambiziosissime mete deve stare molto attento a non perdere il contatto col popolo. […]
Nella misura in cui il movimento pangermanista, attraverso la sua metamorfosi parlamentare, trasportò il peso della sua attività dal popolo al Parlamento, esso perdette l’avvenire e guadagnò solo i mediocri successi del momento. Esso scelse la lotta più facile, così divenne immeritevole della vittoria finale. (p.147)
Con lo studio del movimento pangermanista e della sua lotta contro Roma, io giunsi allora, e specialmente più tardi, alla seguente convinzione: la debole comprensione di questo movimento dell’importanza del problema sociale gli costò l’appoggio dell’attiva e pugnace massa popolare; l’ingresso in Parlamento gli tolse quel potente slancio iniziale e lo gravò di tutta la debolezza propria di quella istituzione; la lotta contro la Chiesa cattolica lo rese malvisto in molti ambienti medi e piccoli e gli tolse l’appoggio di una infinità dei migliori elementi che facevano parte della Nazione. (p.152)
L’arte di un vero condottiero popolare è sempre consistita nel non dividere l’attenzione della Nazione, ma nel concentrarla su un unico nemico.
Quanto più unitaria è l’impostazione della volontà di lotta di un popolo, tanto più grande si fa la sua forza attrattiva e più potente la sua forza d’urto. Fa parte della genialità di un condottiero, far apparire gli avversari, anche i più disparati, come appartenenti a un’unica categoria, poiché l’individuazione di più nemici porta facilmente la gente malcerta e debole a dubitare della giustezza del proprio diritto. Se la massa, sempre ondeggiante, si trova in lotta contro molti nemici, entrerà subito in campo quella “oggettività” di cui si è detto, e nascerà la domanda se tutti gli altri abbiano davvero torto, se proprio solo al nostro movimento o al nostro popolo appartenga la verità. E con questo subentra la prima paralisi della propria forza.
Perciò anche una molteplicità di nemici interni deve sempre essere riunita sotto un indice comune, in modo che la massa dei propri aderenti creda di essere condotta contro un solo nemico. Ciò rinforza la fede nel proprio diritto e stimola la rabbia contro chi ci attacca. (p.153)

I Cristiano-Sociali…

Ben diversamente stavano le cose presso i l partito concorrente, il cristiano-sociale. La strada per cui s’era incamminato era scaltra e giusta, ma gli mancava la chiara visione della mèta.
Per tutti gli aspetti in cui il movimento pangermanista mancò, era invece giusta e precisa l’impostazione del partito cristiano-sociale. Esso aveva la necessaria comprensione dell’importanza della massa e sapeva assicurarsene almeno una parte con la pubblica accentuazione del suo carattere sociale, fin dal primo giorno. Proponendosi di guadagnare il favore dei ceti medi e piccoli e degli artigiani, esso ottenne una massa di seguaci fedeli, resistenti e capaci di sacrifici. Evitò qualsiasi lotta contro le istituzioni ecclesiastiche e ottenne così l’appoggio di quella potentissima organizzazione che è la Chiesa. Esso aveva pertanto un solo grande avversario, e riconobbe il valore di una propaganda in grande stile, fu un abile nell’agire sugli istinti della gran massa dei suoi aderenti. Se poi non gli riuscì di raggiungere la salvezza dell’Austria, ciò è da attribuirsi alla sua imprecisione nei riguardi della mèta e a due difetti della sua tattica. L’antisemitismo del nuovo movimento poggiava non tanto su una concezione razzista quanto su un concetto religioso. (p.154)

Conoscendone i limiti, evita quindi di aderire a uno dei due movimenti…

Io invece cercai di individuare le cause profonde del fallimento del primo movimento e della cattiva riuscita del secondo, e arrivai all’assoluta convinzione che, anche a prescindere dalla impossibilità di realizzare in Austria un rafforzamento dello Stato, gli errori nei due partiti erano i seguenti. Il movimento pangermanista aveva ragione, in quanto poneva tutta la sua attenzione di principio sul rinnovamento tedesco, ma fu incapace di scegliere la strada giusta. Esso era nazionalista, ma non abbastanza sociale per guadagnarsi il favore delle masse. Il suo antisemitismo però poggiava su un esatto riconoscimento dell’importanza del problema delle razze e non su considerazioni religiose. La sua lotta contro una determinata confessione era invece errata, tatticamente e nel merito.
Il movimento cristiano-sociale non aveva un’idea chiara delle mète di una rinascita tedesca, ma aveva trovato con intelligenza e fortuna la sua strada.
Esso capiva l’importanza dei problemi sociali, ma errò nella sua lotta contro il giudaismo, e non ebbe nessuna intuizione sulla forza del pensiero nazionale.
Se quel movimento avesse saputo aggiungere alla sua intelligente conoscenza delle masse anche una giusta comprensione dei problemi razziali, e se fosse stato nel frattempo nazionalista; o se per converso il movimento pangermanista avesse completato il suo giusto riconoscimento dello scopo dell’antisemitismo e dell’importanza del problema nazionale con l’abilità pratica dei cristiano-sociali, e della loro impostazione nei riguardi del socialismo, ne sarebbe nato nei due casi quel movimento che già allora appariva ai miei occhi come l’unico destinato a dirigere con successo i destini tedeschi. Il fatto che questo movimento non potesse realizzarsi dipendeva però, in gran parte, dall’essenza stessa dello Stato austriaco.
Siccome nessun altro partito realizzava in un certo senso le mie convinzioni, in seguito non potei decidermi a entrare in una delle organizzazioni esistenti, e meno ancora a lottare per essa. Già allora io consideravo i movimenti politici del tempo errati nella loro totalità e incapaci di creare la rinascita nazionale del popolo tedesco secondo un’ampiezza che non fosse semplicemente esteriore. Al tempo stesso cresceva sempre più la mia avversione per lo Stato asburgico. (p.156)
Quel conglomerato di razze che era il quadro della capitale, quella miscela di boemi, polacchi, ungheresi, ruteni, serbi e croati mi diventava sempre più odiosa, e soprattutto quei funghi che prosperano in tutte le crepe dell’umanità: ebrei – sempre ebrei. La grande capitale mi appariva come l’incarnazione dell’incesto. La lingua della mia infanzia era il dialetto che si parla anche nella bassa Baviera; non mi riuscì di dimenticarla né di imparare il gergo viennese. Quanto più durava la mia permanenza a Vienna, tanto più aumentava il mio odio contro quel coacervo di popoli stranieri che corrode- va l’antica città tedesca. E il pensiero che un tale Stato potesse ancora man-
tenersi molti anni, mi sembrava appunto ridicolo. (p.157)

IV – MONACO p.158

Stufo di Vienna, Hitler si reca in Germania, a Monaco…

Arrivai a Monaco nella primavera del 1912. […]
A ogni modo questo periodo di prima della guerra è il più felice della mia vita. Se anche i miei guadagni erano modesti, io non vivevo per poter dipingere, ma dipingevo per assicurarmi il sostentamento e per permettermi nuovi studi. (p.158)

Digressione sui quattro metodi per evitare la fame tra la popolazione…

1) Limitazione delle nascite, contraria però al principio di selezione naturale. Metodo errato dunque, che porta solamente all’indebolimento di una razza…

In questo caso il problema doveva porsi così: in quale modo ci si deve raffigurare la vita della Nazione tedesca in un prossimo futuro, e come si potranno dare al suo sviluppo le necessarie fondamenta e la necessaria sicurezza, nel quadro dei complessivi rapporti di forza dell’Europa?
A ben guardare tali premesse di una attività estera della diplomazia tedesca, bisognava arrivare a questa conclusione: la Germania registra un aumento annuo di circa 900 mila anime; la difficoltà di nutrire questo esercito di nuovi cittadini ingigantisce di anno in anno e culminerà con una catastrofe, se non si troveranno in tempo i mezzi per evitare il pericolo della fame.
C’erano quattro vie per sfuggire a questa conclusione: 1) Si poteva, secondo il modello francese, limitare artificialmente l’aumento delle nascite e della sovrappopolazione.
In tempi di grande miseria, o quando siano sfavorevoli i rapporti climatici o i raccolti, già la natura è solita limitare l’aumento della popolazione in certi Paesi o in certe razze, e lo fa in modo saggio quanto spietato. Essa non limita la capacità creativa, ma la conservazione delle creature, in quanto le espone a disagi e a privazioni che mandano a morte i meno forti e i meno sani. Coloro che hanno potuto resistere ai colpi dell’esistenza ne escono provati, duri e adatti a procreare di nuovo, in modo che continui come prima il gioco della selezione. Nella misura in cui la natura procede così brutalmente contro i singoli e li richiama nel suo seno quando non sono abbastanza forti da resistere alle tempeste della vita, essa mantiene la razza e la specie sempre più gagliarde, e le rende capaci delle più alte azioni. In questo modo la diminuzione del numero rappresenta un irrobustimento dei singoli, e quindi, in ultima analisi, un rafforzamento della specie. (p.161)
Le cose sono diverse quando è l’uomo che predispone la limitazione dei neonati. La selezione non è più naturale, ma umana. L’uomo pretende di saperne di più della crudele regina di ogni saggezza. Egli non limita la conservazione dei nati, quanto la loro procreazione. Ciò gli sembra più umano e più giustificato, proprio perché egli considera se stesso, e non la razza. Ma anche le conseguenze ne risultano capovolte. Mentre la natura, lasciando la procreazione libera, espone le creature alle prove più gravi, e da un soprannumero seleziona i migliori, i più validi per la vita, e fa di costoro i portatori della specie, l’uomo invece limita la procreazione, e poi fa di tutto perché la creatura una volta nata sia conservata a ogni costo. Questa correzione della volontà divina gli sembra naturalmente tanto savia quanto umana; e bellamente si rallegra di avere gabbato la natura e corretto le sue manchevolezze. Ma che in realtà egli abbia ridotto il numero e in compenso diminuito anche il valore dei singoli, questo quello scimmiottatore del Padreterno non vuol sentirselo dire. Infatti, quando la procreazione come tale è stata limitata e la cifra delle nascite diminuita, la naturale lotta per l’esistenza, che lascia in vita soltanto i migliori, è sostituita da un naturale bisogno di salvare a ogni costo anche i più deboli e i più malati, e in questo modo si formano delle cellule per una procreazione che diventerà tanto più debole quanto più durerà questa misconoscenza della natura e della sua volontà. (p.162)
Una razza più forte caccerà la più debole, poiché la lotta per l’esistenza spezza sempre anche i ridicoli impacci di una cosiddetta umanità, per dare luogo all’umanità della natura che distrugge i deboli per far posto ai forti. Chi voglia dunque assicurare l’esistenza del popolo tedesco mediante la limitazione delle nascite, lo deruba del suo avvenire. (p.163)

2)Colonizzazione interna e aumento della produttività agricola. Non può avere lunga durata…

2) Un secondo modo è quello che udiamo spesso proposto e lodato: la colonizzazione interna. È una proposta che da molti è avanzata in buona fede, ma dai più è mal compresa, così essa produce più danni di quanto si possa immaginare.
Certo, la produttività di un terreno può essere aumentata fino a un certo limite; ma appunto fino a un certo limite, non indefinitamente. Per un certo tempo dunque si potrà bilanciare, senza temere la fame, l’aumento del popolo tedesco per mezzo dell’aumento della produttività della nostra terra. (p.164)
Se un popolo si limita alla colonizzazione interna, mentre altre razze si assicurano le smisurate estensioni della terra, esso sarà obbligato a procedere alla limitazione delle nascite in un tempo in cui gli altri continuano ad aumentare. […]
[…]le migliori razze culturali, più scrupolose, dovrebbero limitare il loro progresso a causa del limitato territorio, mentre quelle meno raffinate e più brutali sono ancora in grado di procreare poiché si sanno procacciare i necessari territori. In altre parole: il mondo un bel giorno cadrà in potere di una umanità di minor cultura, ma di maggiore energia. (p.164)
Non si potrà mai proclamare con sufficiente forza che ogni colonizzazione interna non può servire ad altro che a eliminare inconvenienti sociali, a strappare il nostro territorio alla speculazione; ma non basterà mai ad assicurare l’avvenire della Nazione senza la conquista di nuovi territori. Se ci comporteremo diversamente, arriveremo in breve non solo all’estremità del nostro territorio, ma anche all’estremità della nostra forza.
E infine va aggiunto: la limitazione a un determinato, esiguo territorio, implicita nella colonizzazione interna, come anche la limitazione delle nascite che vi si collega, porta la Nazione che vi si dedichi a una situazione militare sfavorevole. (p.165)

3)Colonizzazione esterna e 4) industrializzazione per le esportazioni. Fu scelta la quarta via, quando la terza sarebbe stata invece la migliore…

Restavano ancora due mezzi per assicurare i l pane alla popolazione in aumento: 3) si potevano conquistare nuovi territori per inviarvi i milioni di abitanti che aumentavano ogni anno e mantenere così la Nazione sul fondamento di potersi nutrire da sé; oppure si passava a: 4) creare un’industria e un commercio che lavorasse per gli stranieri, in modo da poter vivere dei guadagni di quel lavoro. Dunque, una politica territoriale, oppure una politica coloniale e commerciale. Queste due strade vennero articolatamente esaminate e studiate, finché ci si decise per l’ultima. La migliore, naturalmente, sarebbe stata la prima.
La conquista di territori per dislocarvi i l soprannumero della popolazione offre molti più vantaggi, specie se si considera non i l tempo presente, ma l’avvenire. La possibilità di conservare così una sana popolazione agricola quale base di tutta la Nazione non può mai essere abbastanza lodata. Molti dei nostri mali odierni sono conseguenza del rapporto errato tra città e campagna. Una forte popolazione di piccoli e medi contadini è sempre stata la migliore difesa contro tutti i mali sociali che oggi ci opprimono. (pp.165-166)
Certo, una simile politica territoriale non può trovare il suo sbocco nel Camerun, ma solo in Europa. Bisogna avere il coraggio di affermare fredda- mente e serenamente che non fu certo nelle intenzioni del cielo di dare a un popolo un territorio cinquanta volte più grande che a un altro. In questo caso, i limiti del diritto eterno non possono essere determinati da frontiere politiche. Se nel mondo c’è davvero posto per la vita di tutti, ci sarà anche per noi il territorio necessario alla nostra esistenza nazionale.
È chiaro che la cosa non si svolgerà pacificamente. Subentra, con tutti i suoi effetti, lo stimolo della conservazione, e ciò che si rifiuta al diritto, occorre che se lo procacci il pugno. (p.166)

La Germania avrebbe dovuto acquisire nuovo territorio in Europa, conquistare spazio vitale ad est ai danni dell’URSS, alleandosi con l’Inghilterra…

Per la Germania, le premesse per realizzare una sana politica territoriale consistevano esclusivamente nell’acquisizione di nuovo territorio europeo.
Se si volevano territori in Europa, ciò non poteva avvenire che a spese della Russia, perciò il nuovo Reich avrebbe dovuto riprendere la marcia degli antichi cavalieri dell’Ordine per aprire con la spada la strada all’aratro, e dare così alla Nazione il suo pane quotidiano.
Per una simile politica c’era in Europa un solo alleato: l’Inghilterra. Solo avendo le spalle protette dall’Inghilterra era possibile iniziare una nuova spinta germanica, il cui diritto non sarebbe stato inferiore al diritto dei nostri antenati: nessuno dei nostri pacifisti rifiuta infatti di mangiare il pane della Germania orientale, sebbene il primo aratro in quella direzione sia stato la spada. E per guadagnarsi l’approvazione inglese, non bisognava badare a nessun sacrificio: occorreva rinunciare a colonie e al predominio sul mare, evitare la concorrenza all’industria britannica.
Solo alcune chiare impostazioni ci potevano condurre a quella meta: rinuncia al commercio mondiale e alle colonie, rinuncia a una flotta da guerra tedesca. Concentrazione di tutta la potenza dello Stato su un esercito territoriale. Il risultato sarebbe forse stato una momentanea limitazione, ma ne sarebbe nato, certamente, un grande, potente avvenire. (p.167)

In quest’ottica folle dunque la triplice alleanza con Austria e Italia…

Certo, l’alleanza con l’Austria in questo caso era assurda. Quella mummia di Stato, infatti, non si era alleata alla Germania per combattere una guerra, bensì allo scopo di mantenere una pace eterna che sarebbe servita alla monarchia per un lento e scaltro sradicamento del germanesimo all’interno del suo Stato.[…]
A ogni modo, non si sarebbe dovuto assistere passivamente, anno dopo anno, alla cacciata del germanesimo, proprio perché i l significato dell’alleanza austriaca avrebbe dovuto essere esclusivamente in funzione della conservazione dei suoi elementi tedeschi. Ma nessuno si accinse a marciare lungo questa strada.
Niente era più temuto, allora, della guerra che incombeva: per trovarsi poi costretti a combatterla nell’ora più sfavorevole. Si era voluto deviare il destino, e ne fummo invece raggiunti. Si sognava la conservazione della Pace mondiale, e si piombò in piena guerra. (p.168)
La parola d’ordine della politica estera tedesca da tempo non diceva più: conservazione della Nazione tedesca a tutti i costi, ma: conservazione della pace mondiale con tutti i mezzi. E oggi tutti sappiamo come la cosa riuscì! Ci tornerò sopra, in dettaglio. (p.169)

Se invece si voleva dar vita a un impero coloniale bisognava allearsi con la Russia in chiave antinglese…

Se una politica territoriale europea era possibile solo contro la Russia e con l’alleanza inglese, una politica coloniale e mondiale era invece pensabile solo contro l’Inghilterra e con l’alleanza della Russia. Ma in questo caso bisognava trarne spregiudicatamente le conseguenze – e anzitutto lasciar perdere l’Austria. Da qualsiasi punto di vista la si consideri, l’alleanza con l’Austria era già alla fine del secolo una solenne pazzia. (p.169)

Inizia ad esporre il suo concetto di Stato…

Lo Stato, invece, non ha proprio niente a che vedere con determinate teorie economiche, o con determinati sviluppi commerciali. Esso non è un’associazione di contraenti economici, in uno spazio vitale determinato per perseguire scopi economici, ma è piuttosto l’organizzazione di una comunità di esseri fisicamente e spiritualmente solidali, per rendere possibile la conservazione della specie e il raggiungimento dei suoi scopi di esistenza, prestabiliti dalla Provvidenza. In questo solo sta lo scopo e il significato di uno Stato. L’economia è solo uno dei tanti mezzi che servono al raggiungimento di quella meta. Ma non è mai la causa o lo scopo di uno Stato, a meno che esso non poggi già dall’inizio su fondamenta errate perché non naturali. Solo così sorge la teoria che uno Stato, in quanto tale, possa non avere come premessa neppure un determinato limite territoriale. Questo sarà necessario solo ai popoli che si vogliano autarchicamente garantire il sostentamento della specie, che cioè sono pronti a ingaggiare con i propri mezzi la lotta per l’esistenza.
I popoli che si insinuano come i fuchi nel resto dell’umanità per farla lavorare con pretesti di ogni genere, possono certo formare degli Stati all’infuori di ogni concetto fondamentale di frontiera. Ciò è stato fatto, per esempio, dal popolo sotto la cui parassitaria azione soffre oggi tutta l’umanità onesta: gli ebrei. Lo Stato ebreo non fu mai limitato territorialmente, ma sterminato in quanto a spazio, e determinato invece in quanto a razza. Perciò questo popolo rappresenta sempre uno Stato inframmezzato agli altri Stati. E fu certo un trucco geniale quello di battezzare simile Stato come religione per procurargli così la tolleranza che l’Ariano è sempre disposto a concedere alle confessioni religiose. In realtà, la religione mosaica non è che una dottrina di conservazione della razza ebraica, e abbraccia perciò tutte le aree sociologiche, politiche ed economiche che vi possono contribuire.
L’istinto della conservazione della specie è la esiziale causa che induce gli uomini a formare delle comunità. In questo senso, lo Stato è un organismo di popolo e non un’organizzazione economica. […]
Il sacrificio dell’esistenza personale è indispensabile per preservare la razza. Perciò la premessa essenziale per formare e mantenere uno Stato è la presenza di un sentimento di solidarietà basato su un’essenza uguale e su un’eguale specie, e sulla volontà di contribuirvi con tutti i mezzi. Presso i popoli stanziali su un proprio territorio, ciò contribuisce alla formazione di virtù eroiche; presso i popoli parassiti, invece, si prolunga in maligna ipocrisia e in crudeltà sorniona, ove tali caratteristiche non si possano già reperire quali premesse delle loro diverse configurazioni statali. (p.174)

Inizia a studiare più approfonditamente il marxismo e il giudaismo…

Nello stesso tempo confrontai con più rigore il marxismo e il giudaismo. […]
Già negli anni 1913 e ’14 cominciai a esprimere in diversi circoli, che oggi appoggiano fedelmente il movimento nazionalsocialista, la mia convinzione che il problema dell’avvenire della Nazione tedesca era appunto la distruzione del marxismo.
E vidi nell’infelice politica d’alleanza soltanto uno degli effetti del lavorio di disgregazione di quella dottrina. (p.177)

V – LA GUERRA MONDIALE p.177

Mai stato pacifista, ammirava i boeri e parteggiava per i giapponesi (in chiave antirussa)…

Già da ragazzo non ero un pacifista, e tutti i tentativi in simile direzione non servivano proprio a nulla. Divampò allora la guerra boera. Spiavo ogni giorno i giornali, inghiottivo telegrammi e corrispondenze; e ero felice se non altro di essere almeno lontano testimone di una simile lotta di eroi. La guerra russo-giapponese mi trovò già maturato, e quindi più attento. Stavolta avevo preso posizione su considerazioni più nazionali, e stavo dalla parte dei giapponesi. Nella sconfitta dei russi vedevo la sconfitta dello slavismo austriaco. (pp.178-179)

È un crescendo di conflitti sfociati poi inevitabilmente nella guerra. La Germania sarà trascinata nella sconfitta dall’ostinazione a rimanere alleata al decadente impero austriaco slavizzato…

Finalmente il primo lampo trafisse l’atmosfera: la tempesta scoppiò e al tuono celeste si unì il rombo dell’artiglieria della guerra mondiale. Quando la notizia dell’assassinio dell’arciduca Ferdinando giunse a Monaco (io mi trovavo in casa, e ne ebbi solo vaga notizia), temetti subito che le pallottole provenissero da rivoltelle di studenti tedeschi, decisi a liberare il popolo tedesco da questo suo grande nemico, cui rinfacciavano la sua politica filoslava. Quali ne sarebbero state le conseguenze, era facile prevedere: una nuova ondata di persecuzioni, facilmente giustificabili di fronte al mondo. Quando finalmente appresi i nomi di presunti attentatori, e constatai che erano serbi, mi sentii agghiacciare da un sottile orrore di fronte a tale vendetta del destino imperscrutabile. Il più grande amico degli slavi era caduto sotto le pallottole di un fanatico slavo! (p.179)

La guerra non era più evitabile, essa poteva al massimo essere procrastinata di qualche anno. […]
No, chi non voleva questa guerra doveva almeno avere il coraggio di trarne le conseguenze. E esse significavano l’abbandono dell’Austria. Anche in questo caso la guerra sarebbe venuta, ma non più una guerra di tutti contro di noi, bensì sottoforma di una dissoluzione della monarchia asburgica. Già da decenni il socialismo conduceva un’orrenda campagna di odio contro la Russia, mentre il Zentrum, per motivi religiosi, era portato a considerare lo Stato austriaco come il punto focale della politica tedesca. Adesso bisognava sopportare le conseguenze di tale errore. Quanto succedeva doveva succedere, e non era in alcun modo evitabile. La colpa del governo tedesco consisteva dunque nel fatto che, per mantenere la pace, lasciava passare l’ora più favorevole della guerra; e intanto si avviluppava sempre più nell’alleanza austriaca fino a diventare la vittima di una coalizione mondiale che a quel tentativo di mantenere la pace contrapponeva la determinazione alla guerra. […]
Anche a me le ore di allora appaiono come una liberazione dalle fastidiose impressioni della mia giovinezza. Né mi vergogno di dire ancora oggi che, soverchiato da quel tempestoso entusiasmo, mi sono inginocchiato e ho ringraziato il cielo di avermi concesso la gioia di vivere in un’epoca simile. […]
Appena la notizia dell’attentato raggiunse Monaco, due pensieri mi balenarono nel cervello: primo, che la guerra era ormai inevitabile; secondo, che lo Stato austriaco era costretto a tener fede alla sua alleanza. Io avevo sempre temuto che la Germania potesse trovarsi un bel giorno coinvolta in un conflitto proprio a causa della sua alleanza, e senza che l’Austria riuscisse, per motivi di politica interna, a trovare la forza di schierarsi col suo alleato. (p.181)

Si arruola quindi volontario per la Germania…

Il vecchio Stato doveva combattere, volente o nolente. Anche la mia posizione personale nei riguardi del conflitto mi sembrava chiara e semplice: ai miei occhi non era l’Austria a combattere per ottenere una soddisfazione dai serbi, ma era la stessa Germania che combatteva per la propria esistenza, la sua libertà e il proprio avvenire. Era per l’opera di Bismarck che le toccava di battersi ancora. […]
Già da ragazzo e da giovanotto avevo provato spesso il desiderio di poter dimostrare almeno una volta con i fatti che il mio entusiasmo nazionale non era una parola vuota. […]
Avevo cantato così spesso «Deutschland uber alles», che mi sembrava finalmente una vera grazia il potermi presentare come testimone davanti al giudizio di Dio, e dimostrargli l’autenticità del mio sentimento patrio. […]
Non volevo combattere per lo stato asburgico, mentre ero pronto a morire per il mio popolo e per il Reich che lo impersonava.
Il 3 agosto avanzai un’istanza urgente a Sua Maestà il re Luigi III, con la preghiera di permettermi di arruolarmi in un reggimento bavarese. Certo, la Cancelleria Reale aveva molto da fare in quei giorni; tanto più grande fu la mia gioia quando il giorno dopo ottenni la risposta alla mia istanza. Quando ebbi aperto con mani tremanti la lettera e vi ebbi letto l’accoglimento della mia domanda, e l’ordine di presentarmi a un reggimento bavarese, il mio giubilo e la mia riconoscenza non conobbero limiti. Pochi giorni dopo indossavo già l’uniforme, che mi sarei tolto quasi sei anni dopo. (p.182)
Mi passano davanti agli occhi, come se fosse ieri, immagini e immagini, mi rivedo in uniforme nella cerchia dei miei cari camerati, uscire per la prima volta di caserma completamente equipaggiato, fare gli esercizi…; finché giunse finalmente il giorno della partenza. Una sola preoccupazione mi tormentava allora, come tormentava tantissimi altri: non saremmo giunti al fronte troppo tardi? Solo questa paura non mi lasciava trovar pace. E in questo modo ogni giubilo per una nuova vittoria conteneva una goccia d’amaro, dato che con ogni vittoria sembrava aumentare il pericolo del nostro ritardo.
E così giunse finalmente il giorno in cui lasciammo Monaco per andare incontro al nostro dovere.[…]
Così passò un anno dopo l’altro; ma al posto della guerra romantica era subentrato l’orrore. L’esaltazione cedeva gradualmente, e il giubilo iniziale era soverchiato dalla paura della morte. Venne un momento in cui ciascuno dovette combattere tra l’istinto di conservazione e i moniti del dovere. (p.183)
Già nell’inverno dal ‘ 15 al’ 16 questa lotta si era decisa in me. La volontà aveva vinto. Se durante i primi giorni potevo andare all’attacco con giubilo e con spensieratezza, adesso mi sentivo tranquillo e deciso, ed era quello che contava. Solo adesso il destino poteva mandarci le prove estreme senza che i nervi cedessero o il senno naufragasse. (pp.183-184)

Eroico fu l’esercito, vigliacchi la stampa e il marxismo. Marxismo che, non represso, si impegnò nei suoi progetti rivoluzionari…

Solo ora si poteva giudicare il nostro esercito. Ora, dopo due, tre anni durante i quali noi venivamo scaraventati da una battaglia nell’altra, sempre combattendo contro una superiorità numerica o di armi, soffrendo la fame, sopportando privazioni di ogni specie; solo ora era giunto il tempo di giudicare l’esercito. Quand’anche passino mille anni, non si potrà mai parlare di eroismo senza ricordare l’esercito tedesco della guerra mondiale. Dal velo del passato uscirà sempre la fronte di ferro degli elmetti d’acciaio, che non ondeggiano né piegano e portano l’impronta dell’immortalità. E finché vivranno dei tedeschi, essi ricorderanno che si tratta di figli del loro popolo. Allora ero un soldato, e non volevo fare politica. Non era neanche il caso. Ancora oggi sono convinto che l’ultimo piantone ha reso più servigi alla Patria del migliore dei parlamentari. Non ho mai odiato questi chiacchieroni come in quel tempo in cui, se un ragazzo di fegato aveva qualche cosa da dire, lo gridava in faccia al nemico, o comunque lasciava la sua oratoria a casa e compiva in silenzio il suo dovere. Certo, odiavo tutti quei politicanti, e se la cosa fosse dipesa da me, ne avrei fatto un battaglione di zappatori; così avrebbero potuto sfogarsi in chiacchiere a seconda del loro desiderio, senza seccare la gente per bene o magari danneggiarla. Non volevo dunque sapere niente di politica, ma non potevo fare a meno di prendere posizione nei confronti di certi fenomeni che interessavano tutta la Nazione, specialmente noi soldati. C’erano due cose che m’infastidivano e che consideravo specialmente pericolose.
Già dopo le prime notizie di vittoria, una certa stampa aveva cominciato a versare qualche goccia di amaro sull’esaltazione generale. (p.184)
Il marxismo, il cui ultimo scopo è e rimane la dissoluzione di tutti gli Stati nazionali non semiti, si era dovuto accorgere con grande spavento come nel luglio 1914 la massa operaia tedesca si fosse liberata dal suo incantesimo e si ponesse di ora in ora a disposizione della Patria. In pochi giorni, tutti i vapori esalati da quell’infame truffa del popolo erano come soffiati via; e i dirigenti ebrei erano rimasti soli e abbandonati, come se non fosse rimasta neppure una traccia del morbo iniettato per sessantanni nelle masse tedesche. Fu certo un brutto momento per gli ingannatori del proletariato tedesco. Ma appena se ne accorsero, tentarono un altro imbroglio, e seguirono spudoratamente il movimento nazionale.
Era dunque giunto il momento di procedere contro questa banda di imbroglioni e di avvelenatori del popolo. Si sarebbe dovuto far loro un rapido processo, senza alcun riguardo verso possibili pianti o proteste. Nell’agosto 1914 la frottola della solidarietà internazionale era scomparsa, come per un colpo di bacchetta magica, dai cervelli degli operai tedeschi; al suo posto, poche settimane dopo, le granate americane rovesciarono sugli elmetti delle colonne in marcia le benedizioni della fratellanza mondiale. Ora che l’operaio tedesco aveva ritrovato la strada verso il suo popolo, sarebbe stato preciso dovere di un governo responsabile sradicare spietatamente gli avvelenatori dell’anima popolare. Mentre i migliori cadevano al fronte, si sarebbe dovuto perlomeno distruggere in casa gli insetti immondi; invece, Sua Maestà l’imperatore tese la mano agli antichi delinquenti e permise così a tali astutissimi criminali di riprendersi, di ritrovare forze. La vipera potè continuare la sua opera, fattasi più prudente di prima ma più pericolosa. Mentre gli onesti sognavano la pace civile, gli spergiuri organizzavano la rivoluzione.
Che ci si fosse potuti decidere a una simile indecorosa mezza misura mi manteneva in uno stato continuo di scontentezza; ma non avrei creduto possibile, allora, che la fine ne sarebbe sopraggiunta così spaventosa. Che cosa si sarebbe dovuto fare? Ficcare subito in prigione i capi del movimento, processarli e liberarne la Nazione. Si sarebbe dovuto azionare tutta la potenza militare per sradicare quella peste. Sciogliere i partiti, costringerli definitivamente a ragione; come oggi la Repubblica ha il coraggio di sciogliere dei partiti, tanto più lo si sarebbe potuto fare allora, con molti più mezzi e motivi. […]
L’uso della forza, senza la premessa di una fondamentale concezione dello spirito, non può mai condurre alla distruzione di un’idea né della sua diffusione, se non sotto forma di un totale sradicamento del suo ultimo aderente e perfino della distruzione del suo ricordo. (pp.185-186)

Solo con la forza e una nuova dottrina si potrà sradicare il Marxismo…

Sta di fatto che quasi tutti i tentativi di eliminare con la forza e senza un fondamento spirituale una dottrina e la sua influenza organizzativa, portano a insuccessi e spesso terminano nel contrario di ciò che ci si era prefissi, per i seguenti motivi.
La prima premessa per una simile lotta ingaggiata con le armi della nuda violenza è l’ostinazione. Ciò significa che la possibilità del successo sta in una durevole e assidua applicazione dei metodi di sopraffazione di una dottrina. Non appena sorgano esitazioni o scrupoli, non soltanto la dottrina riprenderà vita, ma trarrà dalla persecuzione un nuovo valore, e si troverà in grado di acquisire nuovi aderenti proprio in virtù dei danni sofferti, mentre i vecchi le saranno devoti con maggior decisione e più profondo odio, e perfino coloro che si erano rintanati torneranno a essa dopo che il pericolo si sarà allontanato. La premessa del successo consiste tutta nell’applicazione sistematica e durevole della violenza, ma questa ostinazione non può essere che il risultato di una precisa piattaforma spirituale. Ogni potere che manchi di fondamenta morali si fa esitante e incerto: è privo di quella stabilità che riposa solo in una visione fanatica del mondo. E sarà solo la conflagrazione di energie momentanee o la brutale decisione di un singolo, sottomessa pertanto al cambiamento delle persone, alle loro fluttuazioni e dubbi.
E bisogna aggiungere ancora questo. Ogni visione del mondo, sia essa religiosa o politica – spesso è difficile segnare il confine – combatte non tanto per la distruzione delle idee avverse, quanto per la realizzazione delle proprie. Con ciò la sua lotta non è difesa, ma attacco. […]
E bisogna aggiungere ancora questo. Ogni visione del mondo, sia essa religiosa o politica – spesso è difficile segnare il confine – combatte non tanto per la distruzione delle idee avverse, quanto per la realizzazione delle proprie. Con ciò la sua lotta non è difesa, ma attacco. […]
La lotta contro una potenza spirituale coi mezzi della forza, sarà sempre una difesa finché la spada non diventi portatrice e annunziatrice di una nuova dottrina spirituale. (p.187)
Ma stavano forse diversamente, le circostanze durante la guerra mondiale o al suo inizio? Disgraziatamente no. Quanto più a quei tempi mi occupavo col pensiero di un necessario cambiamento dell’atteggiamento dei governi nei riguardi del socialismo, tanto più dovetti constatare la mancanza di un efficace sostituto di tale dottrina. […]

Matura dunque il pensiero di dedicarsi alla politica al termine della guerra…

I partiti borghesi, come essi stessi si definiscono, non saranno mai più in grado di convogliare nel loro campo le masse proletarie, giacché sono due mondi che si oppongono, separati in parte naturalmente e in parte artificialmente, e i cui rapporti reciproci non possono essere che battaglia. La vittoria spetterà al più giovane – e questo dovrebbe essere il marxismo. Una lotta contro il socialismo era dunque possibile nel 1914; quanto a lungo però avrebbe potuto durare tale vittoria è difficile dire, proprio per la mancanza di un qualsiasi suo pratico surrogato. C’era qui una grave lacuna. Questa opinione si era impadronita di me fin da prima della guerra, e non m’ero perciò deciso a entrare in uno dei partiti del tempo. Nel corso degli eventi bellici fui ulteriormente rafforzato in questa opinione dalla evidente impossibilità di poter intraprendere con decisione la lotta contro i l socialismo proprio per la mancanza di un movimento che avrebbe dovuto essere qualcosa di più di un partito parlamentare. Parlavo spesso di queste cose ai miei camerati, apertamente. E fu allora che nacquero in me i primi pensieri di occuparmi più tardi, in modo pratico, di politica. In questo c’era lo spunto che mi indusse a dichiarare spesso ai miei amici che dopo la guerra avevo intenzione di agire come oratore, insieme al mio mestiere. E credo che questa mia intenzione fosse, già allora, molto seria. (p.189)

VI – PROPAGANDA DI GUERRA p.189

Digressione sulla propaganda…

Al fronte si rese conto ancor di più di quale enorme potere possa scaturire dalla propaganda…

Nel corso del mio meticoloso studio di tutti i vari avvenimenti politici, l’attività della propaganda mi aveva sempre fortemente interessato. Vedevo in essa uno strumento che le organizzazioni marxiste adoperavano con maestria, e che sapevano applicare con successo. Imparai ben presto a capire che l’uso scientifico della propaganda è una vera arte, la quale manca completamente ai partiti borghesi. Solo il movimento cristiano-sociale, soprattutto ai tempi di Lueger, seppe raggiungere in questo campo una certa abilità, e le dovette così molti dei suoi successi.
Ma a quali immani risultati può portare una buona propaganda, solo la guerra me lo insegnò. Disgraziatamente, anche qui la cosa andava studiata presso la parte avversa, perché la nostra propaganda fu sempre più che mediocre. Ma fu proprio il completo fallimento di un qualsiasi dispiegamento di propaganda da parte tedesca, che balzava brutalmente all’occhio di ogni soldato, a spingermi a occuparmi più intensamente di questo problema.
In guerra, il tempo per pensare non mancava. L’insegnamento pratico però mi venne dal nemico, ahimè, fin troppo eccellente. Quello che da noi si trascurava, lo riprendeva invece genialmente i l nemico con inaudita abilità e magnifico calcolo. Ho imparato molto dalla propaganda di guerra nemica. (p.189)
Noi in realtà avevamo una propaganda? Bisogna disgraziatamente rispondere: no. Tutto ciò che era stato fatto in questo senso era del tutto insufficiente, errato fin dalla partenza; non serviva a nulla, anche se non ci arrecava danno. Insufficiente nella forma, psicologicamente falsa nel contenuto: questo il bilancio di un attento esame della propaganda di guerra tedesca.[…]
Il popolo tedesco combatteva per una sua esistenza umana. Lo scopo della propaganda di guerra doveva essere di sostenerlo in questa lotta e di aiutarlo a raggiungere la vittoria. (p.190)
Una seconda domanda di importanza essenziale era la seguente: a chi si deve rivolgere la propaganda? Ai ceti intellettuali o alle masse meno educate? La propaganda deve rivolgersi soltanto alle masse. […]
Allo stesso modo stanno le cose in tutto ciò che noi chiamiamo oggi propaganda. Il compito della propaganda non sta nell’educazione scientifica dei singoli, quanto piuttosto in un rinvio della massa a determinati fatti o avvenimenti o necessità, la cui importanza solo così viene manifestata al pubblico. L’arte della propaganda si rivolge esclusivamente a far nascere una generale convinzione della realtà di un fatto, della inevitabilità di un avvenimento, della giustezza di qualcosa di fatale. E dato che essa non è necessità in se stessa – né può esserlo, ché il suo compito consiste, come per il manifesto, nell’attirare l’attenzione della massa, e non nell’istruire coloro che già sanno o ancora cercano istruzione e conoscenza – così i suoi effetti devono sempre essere rivolti al sentimento, e solo limitatamente alla ragione. (p.191)
La propaganda deve essere popolare, il suo livello spirituale deve essere commisurato alla capacità ricettiva dei più piccoli tra coloro cui ci si rivolge. Perciò il suo livello spirituale deve essere posto tanto più in basso, quanto più grande sia la massa di gente su cui vuole agire. Se si tratti poi, come nel caso della propaganda bellica, di attrarre tutto un popolo nel suo cerchio di influenze, la prudenza di evitare qualsiasi presupposto spiritualmente troppo elevato non sarà mai abbastanza grande. […]
L’arte della propaganda consiste proprio in questo: che essa trovi la via dell’attenzione e del cuore delle grandi masse, in quanto ne comprende il mondo sentimentale e rappresentativo. […]
La ricettività della grande massa è molto limitata, la sua intelligenza mediocre, e grande la sua smemoratezza. Da ciò deriva che una propaganda efficace deve limitarsi a pochissimi punti, punti che deve poi ribadire, continuamente finché anche i più tapini siano capaci di raffigurarsi, mediante quelle parole implacabilmente ripetute, i concetti che si voleva restassero loro impressi. (p.192)
Fu fondamentalmente sbagliato valutare i l problema della colpa della guerra nell’ottica che non fosse responsabile soltanto la Germania dello scoppio della catastrofe; bisognava invece caricare questa colpa esclusivamente sulle spalle dell’avversario, anche se le cose in realtà non fossero andate così. Quale fu la conseguenza di questa impostazione ambigua?
Le grandi masse non sono fatte di diplomatici o di giuristi, e neppure di gente ragionevole, ma sono come i bambini, indecisi e dubbiosi. Nella misura in cui la propria propaganda conceda anche l’ombra di un diritto alla parte avversa, il dubbio nei riguardi del proprio diritto è già nato. La massa non è in grado di distinguere dove finisce l’ingiustizia altrui e comincia la propria. Essa diventa invece insicura e diffidente, specialmente se il nemico non commette lo stesso errore ma getta, per conto suo, tutta la colpa sull’avversario. Non è allora chiaro che un popolo finirà col credere alla propaganda nemica, la quale procede più decisa e unitaria, e non alla propria? (p.193)
Il popolo, nella sua maggioranza, è eminentemente femmineo; i suoi pensieri e le sue azioni sono determinate non tanto da sobrie considerazioni, quanto da una sensibilità emotiva. E questa sensibilità non è affatto complicata, essa è semplice ed elementare. Non vi sono in essa differenziazioni sottili, ma gioca sempre tra due poli, uno negativo e uno positivo, amore o odio, diritto o ingiustizia, verità o bugia. […]
Allo stesso modo una propaganda, per geniale che sia nei suoi elementi, non condurrà a un successo sicuro sé essa non accentuerà sempre lo stesso tema fondamentale. Bisogna limitarsi a poche cose, ma queste vanno ripetute continuamente. L’ostinazione è, anche qui come quasi sempre nel mondo, la più importante premessa del successo.(p.194)
Le variazioni della propaganda non devono mai cambiarne il contenuto profondo, ma devono contribuire anch’esse a mettere in luce lo stesso tema. (p.195)

VII – LA RIVOLUZIONE p.196

A poco a poco la propaganda antitedesca fa breccia…

Da noi la propaganda nemica cominciò nel 1915, nel 1916 si fece sempre più intensa, finché all’inizio del 1918 si era gonfiata come un’immane marea. E adesso si cominciava a vederne gli effetti. […]
Che cosa succedeva invece da noi? Niente, o qualcosa che era peggio di niente. In quel periodo ero preso da rabbia o indignazione, quando mi toccava leggere i nostri giornali, e mi si affacciava agli occhi la demoralizzazione psicologica delle masse, che vi veniva compiuta giornalmente. E spesso mi tormentava il pensiero che se la Provvidenza mi avesse posto nei panni di simili inetti o criminali dirigenti del nostro servizio di propaganda, la lotta contro il fato si sarebbe forse svolta in modo assai diverso. In quei mesi sentii per la prima volta tutta l’ingiustizia del fato che mi teneva al fronte, in un posto dove una pallottola sparata da un negro qualunque poteva uccidermi in ogni momento, mentre avrei potuto rendere ben altri servigi alla Patria se messo in un’altra situazione. E già allora ero abbastanza presuntuoso da credere che il successo mi avrebbe arriso. Ma ero un anonimo qualunque, un numero in mezzo a 8 milioni di soldati. Dunque molto meglio tacere e fare silenziosamente il mio dovere, nel posto che mi era destinato. (pp.196-197)
Durante l’estate del 1915 ci capitarono in mano i primi volantini di propaganda del nemico.[…]
Simile propaganda cominciò ad avere i suoi primi effetti già nel 1915. Uno stato d’animo antiprussiano si sviluppò nell’esercito, senza che dall’alto si intraprendesse un solo passo per neutralizzarlo sul nascere.[…]
La propaganda nemica cominciò dunque a ottenere dei veri successi in questa direzione già nell’anno 1916. (p.197)
Nel 1916, dunque, cominciarono a profilarsi diversi fenomeni preoccupanti. Al fronte si cominciava a mormorare e a protestare, perché si era scontenti di tante cose, e spesso con ragione. Mentre il fronte pativa la fame e sopportava infinite privazioni, mentre i loro cari erano rimasti a casa in miseria, c’erano in altre zone del Paese sovrabbondanza e dissipazione. Perfino al fronte non tutto era in ordine, in questo senso. Perciò si poteva notare un senso latente di crisi, che era però pur sempre un fenomeno intimo. (p.198)

Il 7 ottobre 1916 rimane ferito. In ospedale si rende conto di quanto tragica sia la situazione…

Un anno giusto dalla mia partenza entrai nell’ospedale di Beelitz, vicino a Berlino. Che cambiamento! Dal fango della battaglia della Somme ai candidi lettucci di questo mirabile edificio! Non avevamo neanche il coraggio di stenderci a nostro agio. Poi, pian piano, riuscimmo a abituarci a questo nuovo mondo. Ma disgraziatamente, questo nuovo mondo era proprio nuovo in un altro senso. Lo stato d’animo del fronte non pareva giungere fin qui. E fu qui che mi toccò udire per la prima volta ciò che al fronte era ancora sconosciuto: il vanto della propria vigliaccheria. Se là fuori si sentiva talvolta mormorare e borbottare, ciò non era mai un invito a contravvenire al dovere; o peggio, una glorificazione dei fifoni. No! Il fifone era sempre considerato come un fifone e nient’altro, e il disprezzo che lo colpiva era ancora generale, come l’ammirazione che si rivolgeva ai soldati coraggiosi. All’ospedale la situazione era quasi capovolta: certi mascalzoni senza coscienza tenevano dei discorsi e cercavano con tutti i mezzi di ridicolizzare il bravo soldato e di vantare bellamente il fifone. […]
Quando fui di nuovo in grado di camminare, ottenni il permesso di andare a Berlino. Dovunque, era evidente la grande penuria. La città gigantesca pativa la fame, il malcontento era enorme. In molti quartieri frequentati dai soldati, il tono delle conversazioni assomigliava a quello dell’ospedale. E sembrava che i disfattisti cercassero a bella posta questi locali, per spargervi le loro idee. Ma la situazione era ancora peggiore a Monaco. Quando fui dimesso dall’ospedale e mandato al deposito, credetti di non riconoscere più la città. Scontento, livore e proteste dovunque si andasse! […]
Ma anche a prescindere da tutto ciò, lo stato d’animo generale era infelicissimo; imboscarsi era considerato come una prova di superiore intelligenza, mentre la fedele resistenza al fronte era il segno di stupidità e credulità. (p.199)

Ebrei disfattisti, disertori, burocrati e capitalisti invece in salvo nelle retrovie…

Quasi tutti gli scritturali erano ebrei; ogni ebreo era scritturale. Io mi stupii davanti a questa massa di soldati del popolo eletto, e non potevo fare a meno di confrontarli con lo scarso numero di rappresentanti che avevano al fronte. Ancora peggiore era la situazione nell’ambito dell’economia. Qui il popolo ebreo era diventato indispensabile: il ragno cominciava a succhiare il sangue del popolo da tutti i pori. Attraverso le società di guerra, essi avevano trovato il mezzo di liquidare poco a poco la libera economia nazionale. Essi proclamavano la necessità di una assoluta centralizzazione; e così, nell’anno 1916-17, quasi tutta la produzione era passata sotto il controllo della
finanza ebraica.
Contro chi, invece, si rivolgeva l’odio del popolo? Proprio in quei tempi io vedevo approssimarsi con spavento un fato che, se non fosse stato evitato per tempo, doveva condurci alla catastrofe. Mentre l’ebreo rubava a tutta la Nazione e la sottometteva alla sua signoria, l’odio del popolino veniva deviato contro i prussiani. E come al fronte, anche qui a casa non si faceva nulla per neutralizzare questa propaganda velenosa. Sembrava che nessuno immaginasse che la catastrofe della Prussia non avrebbe certo avvantaggiato la situazione della Baviera, ma che anzi la caduta dell’una avrebbe trascinato nel precipizio anche l’altra.
Questo fatto mi suscitava un’infinita pena. Non potevo vedervi che una genialissima mossa degli ebrei, i quali riuscivano così a distogliere l’attenzione da sé, dirigendola verso altri. Mentre i bavaresi e i prussiani litigavano, essi ne minavano il terreno sotto i piedi; mentre i bavaresi protestavano contro i prussiani, l’ebreo preparava la rivoluzione e abbatteva la Baviera e la Prussia in un colpo solo. Soffrivo all’idea di quella sciagurata discordia tra i diversi gruppi tedeschi, e fui contento di poter tornare al fronte, per il quale mi ero messo in nota subito dopo il mio arrivo a Monaco.
All’inizio del marzo 1917 ero di nuovo presso il mio reggimento. (p.200)
L’Intesa vedeva sfuggire la vittoria finale. A Londra e a Parigi, un consiglio di guerra ne seguiva un altro. Perfino la propaganda nemica era visibilmente imbarazzata: le riusciva sempre più difficile dimostrare l’impossibilità di una vittoria tedesca.
Lo stesso stato d’animo premeva sul fronte, dove regnava uno strano silenzio. L’impertinenza di quei signori era improvvisamente cessata: sembrava che ai loro occhi si alzasse una luce misteriosa. Anche la loro posizione nei riguardi dei soldati tedeschi era mutata. Se finora il soldato tedesco gli era apparso come un pazzo destinato alla sconfitta, adesso non poteva non vedere in lui il maglio che aveva distrutto la potenza russa. […]
Perciò si temeva l’incipiente primavera. Se non si era riusciti fin lì a spezzare l’esercito tedesco, di cui solo una parte aveva potuto schierarsi sul fronte occidentale, come si poteva parlare di vittoria, adesso che tutta la forza di quello Stato di eroi si disponeva all’attacco contro l’occidente? (p.202)
Il mondo ammutolì. Poi, come liberata da un incantesimo, la propaganda nemica si precipitò in lizza, proprio all’ultimo istante. Si era trovato all’ultimo momento i l mezzo per risollevare la fiducia dei soldati alleati e per rafforzare l’idea della probabilità della vittoria; per trasformare la preoccupazione dell’imminente battaglia in decisa fiducia. Adesso si poteva di nuovo iniettare nei reggimenti che aspettavano l’attacco tedesco la convinzione, nell’attesa della più grande battaglia di tutti i tempi, che non la violenza dell’attacco tedesco avrebbe deciso la guerra, ma la saldezza della difesa. I tedeschi potevano ottenere vittorie quante volevano; nella loro Patria, però, la
rivoluzione era alle porte.
Questa fu la fede che i giornali inglesi, francesi e americani cominciarono a spargere nei cuori dei loro lettori, mentre una propaganda mirabilmente abile ridiede morale alle truppe del fronte. La Germania davanti alla rivoluzione! La vittoria degli alleati inevitabile! Tale fu la migliore medicina per rimettere in piedi gli esitanti poilus e tommies. Così si potevan rimettere in azione fucili e mitragliatrici, mentre al posto del panico e dello spavento tornò una volontà di difesa piena di speranza. Questo fu il risultato dello sciopero delle munizioni. Esso rafforzò la fiducia nella vittoria dei popoli
nemici e neutralizzò la paralisi del fronte alleato – migliaia di soldati tedeschi ci lasciarono la vita. Naturalmente, gli ideatori di questo colpo infame erano coloro i quali ambivano a occupare i più alti posti in una Germania rivoluzionata. (p.203)
Non era certo col grido «Viva il suffragio universale e segreto» che i giovani reggimenti erano partiti per le Fiandre, verso la morte, ma col grido «La Germania sopra tutto nel mondo». Una differenza di una certa importanza, evidentemente; ma coloro che strillavano per il suffragio erano poi gente che non era mai stata nella trincea per mezzo della quale, adesso, voleva ottenere la loro vittoria politica. […]
Prendere atto dei loro desideri voleva dire sacrificare gli interessi del popolo lavoratore per un piccolo numero di canaglie; realizzare quei desideri voleva dire rinunciare alla Germania. (p.204)
Nei mesi di agosto e di settembre i segni della disgregazione aumentarono rapidamente, malgrado la capacità offensiva nemica non fosse da paragonare alla rabbia delle nostre lotte difensive degli anni passati. […]
Nel luglio del ’17 calcammo per la seconda volta quel suolo che ci era diventato sacro. Vi riposavano infatti i nostri migliori compagni, ancora quasi ragazzi, che con sguardo limpido si erano precipitati incontro alla morte per l’amatissima Patria! Noi anziani, che avevamo partecipato a quelle lotte col reggimento, ritornavamo profondamente commossi in quei luoghi, altari di un giuramento di obbedienza e di fedeltà fino alla morte. Ora ci toccava difendere strenuamente il terreno che il reggimento aveva conquistato tre anni prima.
Con un fuoco tambureggiante che durò tre settimane, gli inglesi prepararono la loro grande offensiva delle Fiandre. E sembrò che gli spiriti dei morti fossero resuscitati; i l reggimento si aggrappò al fango delle trincee, addentò uno per uno le buche e i crateri, non piegò, non ondeggiò, e come la prima volta diminuì di numero, divenne esiguo; finché i l 31 luglio 1917 iniziò l’attacco inglese. Nei primi giorni di agosto ci dettero il cambio. Il reggimento si era ridotto a poche compagnie, che venivano via quasi barcollando infangate fino ai capelli, più spettri che uomini. Ma se si eccettua qualche centinaio di metri di buche di granate, gli inglesi non avevano guadagnato che la morte.
Adesso, nell’autunno del 1918, noi stavamo per la terza volta su quel terreno di attacco del 1914. La cittadina dei nostri riposi di allora, Comines, era diventata un campo di battaglia. Certo se i l terreno era rimasto lo stesso, i soldati erano mutati; la truppa, oggi, faceva politica. Il veleno dell’interno si era levato virulento anche al fronte. Le nuove reclute mancarono completa-mente – si capisce, venivano dall’interno.
Nella notte dal 13 al 14 ottobre un attacco di gas inglesi partì dal fronte meridionale di Ypres; venire usato un tipo “croce gialla”, i cui effetti ci era- riconosciuti, nel senso che non li avevamo ancora provati sul nostro corpo. Io dovetti sperimentarli quella stessa notte. La sera del 13 ottobre noi eravamo capitati, sull’alto di una collina a sud di Wervik, nel mezzo di un fuoco tambureggiante e di granate a gas che durò molte ore, proseguì per tutta la notte. Verso mezzanotte parecchi compagni ci abbandonarono, molti per sempre. Verso mattina un dolore acuto si impossessò di me, di quarto d’ora in quarto d’ora più atroce; e verso le sette, barcollando, cogli occhi bruciati, dovetti tornarmene indietro, portando con me l’ultimo marchio della guerra. (p.205)
Fu così che giunsi all’ospedale di Pasewalk, in Pomerania; e fu là che mi toccò vedere la rivoluzione. C’era già da tempo nell’aria qualcosa di impreciso ma di fastidioso. Si raccontava che nelle successive settimane la cosa sarebbe scoppiata – non riuscivo a capire di cosa si trattasse.[…]
In novembre la tensione generale aumentò ancora. E poi un bel giorno, improvvisamente e inaspettatamente, subentrò la sventura. […]
Negli ultimi tempi la mia salute era migliorata. Il lancinante dolore delle orbite cominciò ad attenuarsi, e lentamente riuscivo a distinguere di nuovo gli oggetti. Potevo sperare di migliorare, al punto di poter intraprendere più tardi una professione; non potevo però sperare di poter disegnare ancora. A ogni modo la mia salute migliorava, quando la cosa orrenda si realizzò. La mia prima speranza fu che si trattasse solo di un movimento più o meno locale. Cercai di rafforzare in questa convinzione qualche mio compagno. Specialmente i miei compatrioti bavaresi vi erano più sensibili. Lo stato d’animo era tutto meno che rivoluzionario. Né riuscivo a immaginare che anche a Monaco quella follia potesse avere seguito. La fedeltà verso la dinastia bavarese mi pareva più solida della volontà di qualche ebreo. Perciò ero convinto si trattasse solo di una sommossa della Marina, che sarebbe stata soffocata in pochi giorni. Poi vennero i giorni seguenti, e con essi la più orrenda certezza della mia vita. Le voci si facevano sempre più deprimenti. Ciò che io avevo creduto un moto locale era proprio una rivoluzione generale. Nello stesso tempo giungevano le più vergognose notizie dal fronte. Si voleva capitolare. Il 10 novembre arrivò all’ospedale il pastore per rivolgerci una breve allocuzione, e così sapemmo tutto. Anch’io, molto eccitato, ero presente al suo discorso. Quel vecchio e dignitoso signore sembrò tremare in tutto il corpo, comunicandoci che la dinastia degli Hohenzollern non portava più la corona imperiale tedesca, che la Patria era diventata una repubblica e che bisognava pregare Iddio di non toglierci le sue benedizioni, di non abbandonare il suo popolo nei giorni venturi. (p.206)
Come poi quel vecchio signore cercò di continuare, di dirci che bisognava ormai cessare la guerra, che avendo perso la guerra ed essendo alla mercè del vincitore ci attendevano tempi bui, che l’armistizio aveva dovuto essere accettato confidando nella generosità dei nostri nemici, io non riuscii più a moderarmi. Mi era impossibile restare lì ancora. Mentre davanti ai miei occhi scesero di nuovo le tenebre, me ne tornai barcollando verso la camerata, mi buttai sul mio letto e seppellii il capo che mi bruciava nei cuscini. (p.207)
Dal giorno che m’ero trovato davanti alla tomba di mia madre, non avevo più pianto. […]
Adesso mi accorgevo, per la prima volta, come i dolori personali siano niente in confronto della sventura della Patria. Tutto era stato inutile. Inutili i sacrifici, le privazioni, inutili la fame e la sete durante mesi senza fine, inutili le ore in cui, attanagliati dalla paura e dalla morte, facevamo il nostro dovere; inutile la morte dei due milioni che erano appunto morti.[…]
Quanto più in quest’ora io cercavo di chiarirmi gli eventi, tanto più mi bruciavan dentro vergogna e indignazione. Che cos’era lo strazio privato dei miei occhi, commisurato a tale desolazione?
Ciò che seguì furono giorni orrendi e più orrende notti: sapevo che ogni cosa era perduta. Solo dei pazzi, o dei bugiardi e criminali, potevano sperare nella generosità del nemico. In quelle notti crebbe in me l’odio contro i colpevoli di quel misfatto. In quei giorni previdi quale doveva essere il mio destino. (p.208)

Scoppiata la rivoluzione e instaurata la Repubblica, Hitler decide di dedicarsi attivamente alla politica…

Così decisi di diventare uomo politico. (p.209)

VIII – INIZIO DELLA MIA ATTIVITÀ POLITICA p.209

Frequentando i corsi di Feder apre gli occhi sulle questioni più importanti concernenti i fatti contemporanei, poi scopre di avere buone doti oratorie…

Tornai a Monaco già alla fine di novembre del 1918. Mi presentai di nuovo al deposito del mio reggimento, che era finito in mano a un Consiglio di soldati. Quella baracca mi era così odiosa che decisi di andarmene al più presto. Con un fedele compagno di guerra, Ernst Schmidt andai a Traunstein, e vi rimasi fino allo scioglimento del campo. (p.209)
Nel marzo del 1919 tornammo a Monaco. La situazione era diventata insostenibile e degradava verso ulteriori sviluppi rivoluzionari. […]
A quei tempi una infinità di piani mi passavano nel cervello. Pensavo intere giornate a ciò che si poteva fare, ma ogni volta l’esame freddo e sobrio dei fatti mi diceva che, come anonimo, non avevo alcuna prospettiva di svolgere un’attività comunque utile. Né potevo decidermi a entrare in uno dei partiti esistenti – ma su questo tornerò. […]
Pochi giorni dopo la liberazione di Monaco, fui comandato alla commissione d’inchiesta del II Reggimento di Fanteria. Questa fu la mia prima attività più o meno politica.
Alcune settimane dopo ricevetti l’ordine di partecipare a un corso destinato agli appartenenti all’esercito di difesa. I soldati vi dovevano ricevere i primi elementi di un pensiero civico. Per me, l’unico vantaggio di questa istituzione consistette nel fatto che vi conobbi alcuni camerati di idee affini, con i quali potevo discutere a fondo la situazione del momento. Eravamo tutti più o meno convinti che la Germania non avrebbe potuto salvarsi dall’imminente catastrofe per mezzo dei partiti colpevoli del delitto di novembre, il Zentrum e la socialdemocrazia; ma che anche le cosiddette formazioni borghesi-nazionali non sarebbero mai state in grado di capovolgere la situazione: mancavano loro le premesse senza le quali la ricostruzione non era possibile. E l’avvenire mi diede ragione.
Perciò discutemmo nel nostro piccolo gruppo la fondazione di un nuovo partito. Le idee essenziali erano le stesse che si realizzarono più tardi nel “Partito degli operai tedeschi”. Il nome del movimento che volevamo fondare doveva darci la possibilità, fin dall’inizio, di accostarci alle grandi masse; senza questa premessa nessun lavoro ci sembrava utile. (p.211)
Per la prima volta nella mia vita assistetti a una polemica di principio contro il capitale
internazionale e borsistico. Dopo aver udito la prima conferenza di Feder, mi balenò il pensiero di aver trovato la via per una premessa fondamentale su cui fondare un nuovo partito. Ai miei occhi il merito di Feder consiste nel fatto di avere individuato con spregiudicata brutalità il carattere speculativo del capitale puramente borsistico e di avere svelato chiaramente le eterne premesse dell’interesse. (p.212)
Quanto più un’idea è astrattamente giusta e perciò potente, tanto più impossibile sarà i l suo completo adempimento finché esso dipenda dagli uomini. Perciò non si può valutare l’importanza del teorico dalla realizzazione dei suoi scopi, ma soltanto dalla loro verità e dall’influenza che esercitano sullo sviluppo dell’umanità. […]
La realizzazione degli scopi che possono avere importanza e valore anche nei tempi più lontani, non è mai di guadagno per chi li tenta, ché non incontrerà mai la comprensione delle grandi masse, cui i decreti sul latte e sulla birra sono molto più vicini dei grandi piani futuribili, i l cui adempimento può effettuarsi solo dopo molto tempo e i cui vantaggi saranno effettivi solo per le nuove generazioni. Perciò la grande massa degli uomini politici, proprio per una certa vanità che confina sempre con la stupidità, si terranno lontani da ogni piano futuribile per non perdere l’occasionale simpatia della grande massa. Il loro successo e la loro importanza saranno sempre e soltanto attuali, inutili per i posteri. Ma ai cervelli mediocri questo non importa, son contenti lo stesso.
Ben diversamente stanno le cose nei riguardi del teorico. Il suo rilievo sta nell’avvenire; egli è quasi sempre come lo esprime una chiara parola: “alieno dal mondo”. Se l’arte del politico è l’arte del possibile, i l teorico appartiene a coloro di cui si dice che piacciono agli dei soltanto se pretendono e vogliono cose impossibili. Essi dovranno rinunciare al riconoscimento del tempo presente, ma raccoglieranno, se veramente i loro pensieri sono immortali, la gloria dei posteri. (p.214)
La ripulsa del tempo presente che non capisce l’uomo, contrasta col riconoscimento dei posteri per i quali egli lavora.
Quanto più grandi sono le opere di un uomo che lavora per l’avvenire, tanto meno i suoi contemporanei lo sapranno comprendere: la sua battaglia sarà più dura e i l suo successo più raro. […]
A questa categoria non appartengono solo gli uomini realmente grandi, ma anche tutti i grandi riformatori:vicino a Federico il Grande, Martin Lutero come Richard Wagner.
Mentre ascoltavo la prima conferenza di Gottfried Feder sulla eliminazione della servitù dell’interesse, capii subito che si trattava di una verità teorica, la cui importanza doveva essere immensa per l’avvenire del popolo tedesco. Quella decisa separazione del capitale borsistico dall’economia nazionale offriva la possibilità di opporsi all’internazionalizzazione dell’economia tedesca, al tempo stesso senza compromettere la conservazione dell’indipendenza del popolo con una lotta contro il capitale. Lo sviluppo della Germania mi stava già fin troppo chiaro davanti agli occhi, per non capire che la lotta più aspra non avrebbe dovuto essere condotta contro i popoli nemici, quanto contro il capitale internazionale. Nella conferenza di Feder io trovai una potente parola d’ordine per le imminenti battaglie.
E anche in questo senso il successivo sviluppo dei fatti dimostrò quanto fosse giusto il nostro presentimento di allora. I furbi del nostro ambiente politico borghese oggi non ci irridono più; e fin dove non sono bugiardi, hanno capito che i l capitale della Borsa internazionale fu non soltanto il più grande colpevole della guerra, ma anche ora, a guerra finita, non lascia nulla d’intentato per trasformare la pace in inferno. La lotta contro i l capitale finanziario internazionale è il più importante punto programmatico della lotta della Nazione tedesca per la sua indipendenza economica e per la sua libertà. (p.215)
Ciò per cui noi dobbiamo lottare è la sicurezza della conservazione e della nostra razza e del nostro popolo, del nutrimento dei nostri figli, della purezza del sangue, della libertà e indipendenza della Patria, per mezzo delle quali il nostro Popolo si dirige verso l’adempimento della missione affidatagli dal Creatore dell’universo. Ogni pensiero, ogni idea, ogni dottrina ogni scienza devono servire a questo scopo. E da questo punto di vista che ogni cosa va esaminata, e a seconda della sua applicabilità, accettata o respinta. In questo modo nessuna teoria corre i l rischio di irrigidirsi in dottrina di morte, perché tutto deve servire alla vita. (p.216)
Quel corso fu fecondo per me anche in un altro senso. Un giorno chiesi la parola. Uno dei partecipanti aveva creduto opportuno spezzare una lancia per gli ebrei, e aveva cominciato a difenderli con lunghissime argomentazioni. Ciò mi stimolò a controbattere. La grande maggioranza dei presenti si mise dalla mia parte. Il risultato di quella discussione fu che pochi giorni dopo venni destinato a uno dei reggimenti di Monaco in qualità di ufficiale conferenziere.
A quel tempo la disciplina della truppa si era assai allentata. Essa soffriva degli effetti del periodo dei Consigli di soldati. Solo lentamente e prudentemente si procedeva a sostituire all’ubbidienza spontanea – come la si chiamava bellamente durante il bestiale periodo di Eisner – la disciplina militare e la subordinazione. Allo stesso modo la truppa doveva di nuovo imparare a sentire nazionalmente e patriotticamente. In queste due direzioni doveva svolgersi la mia nuova attività.
Cominciai con gioia e con amore. Mi si offriva per la prima volta l’opportunità di parlare davanti a grandi assemblee, e verificai così ciò che fino ad allora avevo presentito nel mio cuore, senza saperlo chiaramente: sapevo parlare. Anche la mia voce aveva cominciato a migliorare, nel senso che potevo essere udito da tutti i presenti nelle camerate. Nessun compito mi poteva rendere più felice, perché mi offriva la possibilità di rendere dei servigi utili all’istituzione che stavo per abbandonare: l’esercito. E posso anche parlare di successo: molte centinaia, anzi migliaia di camerati furono da me riportati nel corso delle mie conferenze al loro popolo e alla loro Patria. Io nazionalizzavo la truppa e contribuivo così a consolidare la disciplina generale. Potei conoscere inoltre un certo numero di compagni di idee affini, che più tardi formarono il nucleo del nuovo movimento. (p.217)

IX – IL PARTITO TEDESCO DEGLI OPERAI p.217

Incaricato di parteciparne ad un riunione per poi farne relazione, Hitler entra in contatto con il Partito Tedesco degli Operai…

Un giorno i miei superiori mi impartirono l’ordine di esaminare cosa fosse in realtà una certa associazione apparentemente politica la quale, sotto il nome di “Partito tedesco degli operai”, doveva tenere di lì a poco un raduno cui sarebbe intervenuto anche Feder; io mi ci sarei dovuto recare, studiare la situazione e presentare una relazione. (p.217)
Ma fu soltanto nel momento in cui il Zentrum e il socialismo dovettero constatare che le simpatie dei soldati passavano dai partiti rivoluzionari ai movimenti nazionali, che essi si decisero a togliere alla truppa il diritto elettorale e politico. (p.218)

Ed eccolo alla riunione del ristretto numero di aderenti…

Perciò mi decisi ad andare a quel raduno di cui ho detto, per conoscere meglio questo partito fin qui sconosciuto.
Quella sera, quando entrai nella sala centrale dell’allora birreria Sternecker a Monaco, più tardi diventata storica, vi trovai 25 presenti appartenenti quasi tutti alle classi più basse della popolazione. L’impressione che mi fecero non fu né buona né cattiva: una ennesima formazione, come tantissime altre. In quel tempo ciascuno si sentiva chiamato a creare un nuovo partito che non fosse d’accordo con gli sviluppi della cosa pubblica e coi partiti esistenti. Perciò le associazioni nascevano come i funghi, per poi scomparire subito dopo, senza eco. I fondatori non avevano la minima idea di come si trasforma una associazione in un partito, o magari in un movimento. Perciò simili formazioni scomparivano quasi sempre per conto loro in mezzo al ridicolo.
Né altrimenti giudicai, dopo averli ascoltati per più di due ore, i membri del Partito degli operai tedeschi. Quando Feder terminò di parlare, ero soddisfatto; avevo visto abbastanza e volevo andarmene; ma l’annuncio di un libero contraddittorio mi convinse a restare. […] (pp.220-221)

Non si trattiene e finisce per prendere la parola. Poi se ne va ma Drexler gli lascia un opuscolo che solo alcune notti più tardi leggerà. Una cartolina lo invita successivamente a presentarsi ad una riunione dove sarà accolto come membro…

A quel punto non mi fu più possibile trattenermi dal prendere la parola per dir chiara la mia opinione in faccia a quel dotto signore – col risultato che, prima ancora d’aver finito, il mio contraddittore si allontanò come un cane bastonato. Mentre parlavo, la gente mi guardava stupita, e fu soltanto quando mi accinsi a dire buonanotte all’assemblea e ad andarmene, che un uomo mi si accostò, mi si presentò – non riuscii ad afferrarne il nome – e mi fece scivolare nella mano un quadernetto, evidentemente un opuscolo politico, con la pressante preghiera di leggerlo. La cosa mi fu gradita, ché speravo così di poter conoscere più facilmente quella noiosa associazione senza essere obbligato a frequentare ancora le sue riunioni. Quell’operaio, del resto, mi aveva fatto un’ottima impressione. E me ne tornai a casa.
A quel tempo abitavo nella caserma del II Reggimento di Fanteria, in una stanzetta dove le tracce della rivoluzione erano ancora visibili. Durante il giorno ero quasi sempre assente, o col 41° Reggimento di fucilieri, o nelle riunioni e conferenze di altri reparti. Tornavo in quella stanza soltanto di notte. Siccome avevo l’abitudine di svegliarmi alle 5 del mattino, quasi per gioco avevo preso l’abitudine di spargere sul pavimento i resti del mio pane per sfamare una simpatica famiglia di sorcetti, e di restare poi a guardare come le bestiole vi si accanivano attorno. Avevo patito tante privazioni nella mia vita, che non mi era difficile capire cosa fosse davvero la fame, e quindi la gioia delle piccole creature. (p.221)
E siccome non mi riusciva di riaddormentarmi, all’improvviso mi ricordai della sera avanti e del quadernetto che mi aveva dato quell’operaio. Cominciai a leggerlo. Era un
breve opuscolo, dove l’autore, appunto quell’operaio, illustrava come egli fosse uscito dal caos della fraseologia marxista e sindacale per giungere di nuovo a un pensiero nazionale; da ciò il titolo Il mio risveglio politico. Avendolo cominciato, lo lessi con interesse fino alla fine. Esso rispecchiava un processo ideale quale io stesso avevo sperimentato dodici anni prima. Involontariamente mi pareva di rivedere vivo davanti agli occhi il mio passato. Ancora nel corso della giornata ripensai più volte all’accaduto; ma stavo già per non badarci più, quando meno di una settimana dopo, con grande stupore, ricevetti una cartolina in cui mi si comunicava che ero stato ammesso tra i membri del Partito dei lavoratori tedeschi: mi pregavano di rispondere a questo proposito, e di recarmi, i l prossimo mercoledì, a una riunione del comitato del partito. A tutta prima rimasi stupito di questo strano modo di guadagnare nuovi soci, né sapevo se arrabbiarmi o riderne. Non pensavo, allora, di entrare in un partito già bell’e fatto, ma piuttosto di fondarne uno io stesso. Quella comunicazione, pertanto, non mi interessava. E già mi accingevo a rispondere per iscritto a quei signori, quando vinse in me la curiosità, e mi decisi a comparire il giorno stabilito per dire a voce le mie ragioni. Arrivò il mercoledì. La trattoria dove la riunione doveva avere luogo era la vecchia “Altes Rosenbad”, nella Herrenstrasse; un luogo piuttosto squallido, dove solo di rado capitava qualcuno. Né ciò poteva stupire nell’anno 1919, quando anche la lista dei piatti del giorno nei più importanti ristoranti aveva una mediocrissima forza d’attrazione – quella trattoria, a ogni modo, non la conoscevo affatto. Attraversai la sala principale, poco illuminata; non c’era nessuno. Aprii la porta della saletta, ed ecco, avevo davanti agli occhi la “riunione”. Nella mezza luce di una lampada a gas pressoché scassata sedevano attorno a un tavolo quattro giovani, tra i quali anche l’autore dell’opuscolo; costui mi salutò cordialmente, e mi diede il benvenuto come nuovo membro del partito. Io ero stupefatto. Ma siccome mi avevano comunicato che il presidente nazionale doveva ancora venire, decisi di aspettare a fare la mia dichiarazione. Finalmente comparve anche il presidente. Era il signore che presiedeva
l’assemblea dove aveva parlato Feder. Io ero tornato curioso, e aspettavo con ansia le cose che dovevano svolgersi. Intanto avevo imparato, se non altro, a conoscere i nomi dei presenti. Il presidente nazionale era un certo signor Harrer, quello dell’organizzazione di Monaco Anton Drexler. (p.222)

Nonostante le pecche organizzative e la mancanza di un programma, alla fine decide di iscriversi alla DAP…

Disastroso! Disastroso! Non potevo immaginare una riunione più mediocre e inutile; e avrei dovuto entrare in questa associazione? Finalmente si presentò all’ordine del giorno l’accettazione dei nuovi soci, cioè la mia. Cominciai a fare qualche domanda – ma non c’era niente: né un programma, né un regolamento, niente di stampato, nessuna tessera per soci, neppure un timbro: soltanto buonafede e evidente buona volontà. […]
Ciò che questi uomini sentivano, io lo conoscevo da tempo: nostalgia di un movimento nuovo che fosse più e meglio di un partito nella accezione solita della parola. Quando quella sera tornai in caserma, il mio giudizio su quell’associazione era definitivo. E mi trovavo di fronte al più grave dilemma della mia vita: entrare o no? La ragione non poteva che consigliarmi la risposta negativa, ma un sentimento interiore non mi dava pace, e quanto più consideravo l’assurdità di quella associazione, tanto più il mio sentimento era portato a difenderla. […] (p.223)
Già allora io provavo istintiva repulsione per gli esseri che cominciano tante cose senza mai portarle a compimento; simile inconcludente genìa mi era odiosa, la loro attività mi pareva peggiore di una assoluta inattività.
Il destino sembrava ora volermi dare un’indicazione. Non sarei mai entrato in uno dei grandi partiti storici, e ne dirò ancora le ragioni. Quella piccola e primitiva associazione, coi suoi pochi soci, aveva i l vantaggio di non essersi ancora irrigidita in un’organizzazione; e mi forniva perciò la possibilità di svolgere un’attività personale. Qui si poteva lavorare. Quanto più piccolo il movimento, tanto maggiore la possibilità di darvi una forma adeguata. C’era ancora modo di deciderne il contenuto, lo scopo e la via; cose impossibili, naturalmente, nei grandi partiti. E quanto più ci pensavo, tanto più cresceva in me la convinzione che proprio da un simile piccolo movimento potesse uscirne in seguito il risollevamento della Nazione – ma mai dai partiti parlamentari, legati a visioni sorpassate o partecipi degli utili del nuovo regime. Ciò che qui si doveva annunciare era una nuova visione del mondo, non un’etichetta parlamentare.[…]
Dopo due giorni di tormentosi pensieri, arrivai finalmente alla convinzione che quel passo era necessario. Questa fu la decisione più importante della mia vita. Da quel momento, io non potevo più tornare indietro. Così mi iscrissi come membro del Partito dei lavoratori tedeschi, e ottenni una tessera provvisoria, col numero 7. (p.224)

X – LE CAUSE DELLA CATASTROFE p.225

Già la fondazione del Reich ci appare circondata dalla magìa di un avvenimento che aveva risollevato tutta la Nazione. Dopo un corteo trionfale di vittorie incomparabili, era sorto come premio di quegli eroismi un Impero per i figli e per i nipoti. […]
i tedeschi, prìncipi e popoli, erano decisi a essere in avvenire un Impero innalzandone come simbolo, di nuovo, la corona imperiale. Né la cosa era capitata così, in seguito a una pugnalata alle spalle; non erano disertori e imboscati i fondatori dell’Impero di Bismarck, ma i reggimenti del fronte.
Questa nascita unica, questo battesimo del fuoco, circondavano il Reich con l’alone della gloria storica, quali solo i più antichi Stati, e raramente, avevano avuto in sorte. E poi, quale sviluppo! La libertà verso l’esterno dava a tutti il pane quotidiano all’interno. La Nazione divenne ricca di numero e di beni terreni. L’onore dello Stato, e con esso quello di tutto il popolo, era protetto da un Esercito che illuminava chiaramente la differenza col vecchio “Bund” di una volta.
Spaventosamente profonda fu perciò la caduta che trascinò il Reich e il popolo tedesco; sicché sembra che tutti siano colti come da stordimento e abbiano perso sentimento e coscienza; non ci si sa neppure più ricordare della gloria di un tempo, tanto irreale e sognata essa appare al confronto dell’attuale desolazione. (pp.224-225)

Tragica dunque la caduta del Reich che, erroneamente, viene attribuita alla crisi susseguitasi alla sconfitta in guerra. Molteplici ne furono le cause, inclusa l’azione degli ebrei…

Come per guarire una malattia è necessario riconoscerne la causa, cosi si deve procedere anche per guarire i mali politici. […]
Perciò la maggior parte dei contemporanei vede la catastrofe tedesca soprattutto nel disagio economico e nelle sue conseguenze.[…]
La diagnosi più facile e più diffusa dell’attuale sciagura è che si tratti semplicemente delle conseguenze della guerra perduta: la sconfitta sarebbe perciò la vera causa dei mali presenti.
C’è molta gente che crede in buona fede a un tale assurdo; ma per quanti, invece, tale affermazione è consapevole bugia! E ciò vale per tutti coloro i quali stanno attaccati alla greppia governativa. (p.226)
Certo, la perdita della guerra ha un’importanza spaventosa per l’avvenire della nostra Patria, ma non è una causa, bensì una conseguenza di cause. […]
I loro limiti coincidevano coi limiti delle generali possibilità umane. Il fatto che questo esercito sia poi crollato, non è certo la causa della nostra sventura odierna, ma la conseguenza di un crimine; conseguenza che naturalmente è stata a sua volta l’inizio di un ulteriore crollo, stavolta visibilissimo. E che le cose stiano così, risulta anche da quanto segue. (p.227)
In questo modo sarebbe stata accettata una sconfitta che fosse dovuta soltanto alla fatalità. Ma non si sarebbe riso né danzato, né vantata la vigliaccheria, né esaltata la sconfitta; non si sarebbe ingiuriato la truppa e le sue bandiere, né calpestato nel fango le coccarde, e soprattutto non si sarebbe mai giunti a quell’orrendo fenomeno che fece esclamare a un ufficiale inglese, il colonnello Repington: «Ogni tre tedeschi c’è un traditore». No, una tale peste non si sarebbe mai diffusa fino a diventare una marea soffocante, che da cinque anni affoga anche l’ultimo resto di stima del mondo.
Qui si legge chiaramente la bugia della famigerata affermazione che la guerra perduta sia stata la causa del crollo tedesco. No, la catastrofe militare fu la conseguenza di una serie di fenomeni patologici, i l cui virus era già inoculato nel corpo della Nazione tedesca fin dal tempo di pace: essa non fu che la prima, visibile e catastrofica conseguenza di un avvelenamento morale, di una diminuzione dell’istinto di conservazione che già da anni aveva cominciato a minare le fondamenta del popolo e dell’Impero.
Occorrevano la doppiezza degli ebrei e l’organizzazione dei marxisti per caricare la colpa della catastrofe sull’uomo che da solo cercò, con un’inumana e spasmodica tensione della volontà, di evitare la catastrofe prevista e di risparmiare alla Nazione la più tremenda vergogna. Inchiodando Ludendorff alla gogna, rendendolo responsabile della perdita della guerra, si volle togliere di mezzo il più pericoloso accusatore, l’unico che avrebbe saputo ergersi contro i traditori della Patria, levando l’arma del diritto e della morale. E si partì dal giusto criterio che nel corpo di una bugia c’è sempre un certo fattore di credulità; la grande massa di un popolo è, nelle più riposte pieghe del suo cuore, forse guasta ma non coscientemente malvagia, e proprio per la elementarità dei suoi sentimenti cade più facilmente nell’inganno di una grossa bugia che di una piccola; poiché anch’essa è spesso bugiarda in piccole cose, ma si vergognerebbe di esserlo nelle essenziali. Una bugia così grossa non le verrebbe neppure in mente, né potrebbe credere alla possibilità di una simile, formidabile falsificazione della realtà; e anche quando sia poi illuminata in merito, dubita ancora, e cercherà di credervi almeno per qualche tempo. Qualcosa di tali svergognatissime bugie rimane sempre – un fatto che gli artisti della menzogna e le associazioni truffaldine conoscono benissimo, e quindi spregiudicatamente applicano.
I migliori conoscitori della possibilità di impiegare con successo la calunnia e la bugia sono sempre stati gli ebrei; tutta la loro esistenza, d’altronde, è fondata su un’unica grande bugia: quella cioè che essi formano una collettività religiosa, mentre si tratta soltanto di una razza – e che razza! Uno dei più grandi geni dell’umanità li ha inchiodati con una frase di fondamentale esattezza: egli li ha chiamati «i grandi maestri della bugia». Chi non lo voglia riconoscere o credere, non contribuirà mai al trionfo della verità in questo mondo. (p.229)

Analizza la crisi economica…

Sotto l’aspetto economico si può dire: in conseguenza del gigantesco aumento della popolazione tedesca prima della guerra, la domanda della conquista del pane quotidiano si presentò in forma sempre più acuta. Disgraziatamente, non ci si seppe decidere ad afferrare l’unica soluzione esatta, ma si credette di poter raggiungere la meta più a buon mercato. La rinuncia a conquistare nuovi territori, e il suo surrogato consistente nel sogno di una conquista economica, ci portò a una industrializzazione del Paese gigantesca quanto pericolosa.
La prima conseguenza di una certa importanza fu l’indebolimento della classe agricola. E nella misura in cui questa decadde, crebbe il proletariato cittadino, finché l’equilibrio si ruppe del tutto. Il brutale scambio da povertà a ricchezza si fece sempre più vistosamente drastico. Sovrabbondanza e miseria vivevano l’una accanto all’altra, per cui le conseguenze non potevano non essere che assai tristi. Il bisogno e una crescente disoccupazione cominciarono il loro gioco con gli uomini, lasciando dietro di sé scontento e livore. Ne seguì la divisione politica in classi. (p.230)
Nella misura in cui l’economia divenne la padrona dello Stato, il denaro ne divenne il dio che tutti dovevano adorare adorare in ginocchio. Gli dèi del cielo sembravano invecchiati e sorpassati, e l’incenso saliva verso la statua di Mammona. Ne seguì un pericoloso processo di degradazione; gravissimo perché cominciò in un tempo che la Nazione avrebbe avuto bisogno come non mai di eroiche esaltazioni. […]
E anche dal punto di vista del sangue questa evoluzione era tristissima: la nobiltà perdette sempre più le premesse razziali della sua esistenza, e a gran parte di essa si addiceva meglio l’aggettivo: ignobile.
Un gravissimo fenomeno di decadenza economica fu la lenta scomparsa della proprietà privata, e il passaggio di tutta l’economia sotto il controllo delle società anonime. Il lavoro era degradato a oggetto di speculazione di spudorati manovratori di Borsa; la spersonalizzazione della proprietà, nei confronti dell’operaio, si sviluppò all’infinito. La Borsa cominciò a trionfare e si accinse lentamente, ma sicuramente, a sottoporre al suo controllo la vita della Nazione. L’internazionalizzazione dell’economia tedesca era così cominciata fin da prima della guerra, lungo la strada del capitale azionario. Certo, una parte dell’industria tedesca tentò di difendersi energicamente. Ma alla fine cadde di fronte all’attacco unitario del vorace capitale finanziario, sostenuto dai suoi più fedeli complici: i marxisti. (p.231)

Critica quindi l’educazione, la Monarchia…

Un altro dei fenomeni più gravi di decadenza della Germania prebellica fu certamente la politica delle mezze misure, che andava sempre più diffondendosi dovunque e in ciascuno. Essa è la fatale conseguenza dell’incertezza nei riguardi di ogni cosa e della vigliaccheria che da tale incertezza risulta. Questa malattia fu naturalmente agevolata dall’educazione. L’educazione tedesca presentava, prima della guerra, molti lati deboli. Essa si impostava unilateralmente nella produzione di una scienza pura, e non già di una reale capacità. Più sciagurata ancora, l’educazione del carattere dei singoli: non ci si occupava minimamente di promuovere il senso di responsabilità, né l’educazione della volontà e della forza di decisione. Da questa scuola non uscirono naturalmente uomini forti, ma quei presuntuosi onniscienti che erano i tedeschi prima della guerra. Si amavano i tedeschi perché erano buoni a far tutto, ma non si rispettavano appunto perché non possedevano volontà. Non per niente essi perdevano più facilmente degli altri la propria nazionalità e la propria Patria. Il motto «Col cappello in mano si arriva dovunque», allora così diffuso, dice tutto.
Ma fatale oltre ogni dire diventava poi una simile adattabilità, quando essa determinava la forma in base alla quale ci si doveva accostare al Monarca. (p.232)
Il valore e l’importanza dell’idea monarchica non stanno dunque nella persona del Monarca, a meno che il cielo decida di porre la corona su un eroe geniale come Federico i l Grande, o su un carattere saggio come Guglielmo I. Ma questo capita una sola volta in un secolo, o poco più. Di solito, l’idea sopravanza la persona, in quanto il significato di quell’istituzione poggia esclusivamente su di essa. Perciò, anche il Monarca entra nell’ambito dei servitori della Nazione. Anch’esso non è che una ruota della macchina nazionale.[…]
Oggi è necessario ripetere queste cose. Provengono strane voci, oggi, da quelle zone nascoste il cui comportamento miserabile ha provocato in gran parte la catastrofe della monarchia. Con ingenua facciatosta costoro non parlano più che del loro re – quel re che nell’ora critica hanno piantato in asso- e tacciano di cattivo tedesco chi non sa decidersi a approvare le loro ipocrite smargiassate. E si tratta naturalmente di quei soliti conigli che nel 1918 scapparono a rotta di collo davanti a ogni sciarpa rossa, piantando in asso il loro re; e scambiarono l’alabarda con una canna da passeggio, si misero al collo cravatte dai colori neutri e scomparvero nella massa dei pacifici cittadini (pp.233-234)
Se gli stessi monarchi non fossero stati in parte responsabili di questa situazione, sarebbe proprio il caso di compiangerli, a esaminare oggi i loro paladini. Se non altro, bisogna che si convincano che con simili cavalieri è possibile perdere dei troni, ma non
riconquistare una corona. Pure, il servile sentimento di devozione dinastica fu il massimo errore della nostra educazione; e si vendicò, poi, nel modo più tremendo. In conseguenza di essa, infatti, questi tristi figuri circolavano in tutte le Corti e intanto minavano le fondamenta della Monarchia. Quando l’edificio cominciò a barcollare, furono spazzati via. Si capisce: adulatori e lacchè non muoiono per il loro Signore. Ma la fatalità dei monarchi sta appunto in questo: che non lo sanno, né lo vogliono imparare…
Un’altra conseguenza dell’educazione sbagliata fu la paura della responsabilità, e la conseguente debolezza nel trattare i problemi di più vitale importanza. Il punto di partenza di questo male in Germania era l’istituto parlamentare, dove la mancanza di responsabilità è quasi prodotta artificialmente. (p.234)

… la stampa…

Negli ambienti giornalistici si ha l’abitudine di designare la stampa come un potere dello Stato. La sua importanza, infatti, è enorme. Essa non può mai essere sottovalutata, poiché ne dipende l’educazione degli uomini di età matura. I lettori di giornali possono essere divisi, grossomodo, in tre gruppi: quelli che credono a tutto quello che leggono; quelli che non credono più a niente; quelli che giudicano criticamente quanto hanno letto. Numericamente, il primo gruppo è di gran lunga il più imponente. Esso comprende la grande massa del popolo, e rappresenta pertanto la parte spiritualmente più semplice della Nazione. Esso non può pertanto venir designato secondo le professioni, ma solo secondo i gradi dell’intelligenza. A esso appartengono tutti coloro i quali non possiedono un pensiero indipendente e credono a tutto quello che vedono stampato sia per imbecillità, sia per ignoranza. A questi si possono aggiungere quegli indolenti che saprebbero pensare per conto loro, ma preferiscono rimasticare ciò che han pensato gli altri, pigramente scusandosi che costoro hanno già fatto lo sforzo. L’influenza della stampa sarà pertanto enorme su tale gente, che rappresenta la grande massa. […]
Il secondo gruppo è molto meno numeroso. Esso è composto in parte da elementi che appartenevano al primo, per rivoltarsi poi nel contrario in seguito ad amare delusioni; adesso non credono più a nulla di ciò che vedono stampato. Odiano i giornali, o non li leggono, o si indignano per il loro contenuto, che nella loro opinione è solo una miscela di bugie e di falsità. Questa gente è assai difficile da trattare, giacché la loro sfiducia reagisce anche contro la verità; essi vanno persi per qualsiasi propaganda positiva. Il terzo gruppo è di gran lunga il più esiguo; esso è formato di cervelli fini, i quali per disposizione e educazione hanno imparato a pensare per conto loro, sanno farsi un giudizio personale su ogni cosa, e sottopongono quanto leggono a un esame scrupoloso e attento. Se leggono i giornali, lo fanno col cervello, e gli articolisti non hanno un compito facile. I giornalisti, infatti, amano simili lettori con una certa prudenza. Per questi componenti del terzo gruppo le sciocchezze che un giornale è capace di mettere insieme non sono pericolose, né hanno importanza. Essi si sono abituati a vedere in ogni giornalista essenzialmente un birichino che raramente dice la verità. Disgraziatamente, l’importanza di questa brava gente sta nella loro intelligenza, non nel loro numero – una effettiva sventura in tempi in cui conta non la saggezza, ma la maggioranza. Oggi, quando il bollettino elettorale della massa decide qualunque cosa, il peso decisivo riposa presso il gruppo più numeroso, cioè il primo: il gruppo degli ingenui e dei creduloni.
È pertanto compito essenziale di uno Stato impedire che questi uomini caschino nelle mani di educatori malvagi, ignoranti o malintenzionati. Lo Stato ha perciò il dovere di controllare questo insegnamento, e di impedirne le malefatte. Esso deve sorvegliare strettamente la stampa; l’influenza di questa è enorme e penetrante, in quanto si applica non occasionalmente, ma quotidianamente. È proprio nella ripetizione dei suoi insegnamenti che consiste la sua inaudita efficacia. Proprio qui lo Stato non deve dimenticare che tutti i mezzi servono a uno scopo. Non deve lasciarsi ingannare dalle frasi di una cosiddetta libertà di stampa, per tralasciare di adempiere al suo dovere di fornire alla Nazione i cibi che le sono di vantaggio; bisogna invece che proceda energicamente, per assicurare con tutti i mezzi questa educazione del popolo portandola al servizio della Nazione. Ma quale è il cibo che la stampa tedesca prebellica ha offerto ai suoi lettori? Non è stato forse il più micidiale veleno che si possa immaginare? Non si inoculò nel nostro popolo il più esiziale pacifismo, proprio in un tempo in cui il resto del mondo si accingeva a soffocare la Germania, lentamente ma fermamente? (pp.234-235)
L’attività della cosiddetta stampa liberale fu un’opera da becchini del popolo e dell’Impero tedesco. E non è il caso di parlare dei bugiardi fogli marxisti; per essi la menzogna è una necessità vitale, come per il gatto i topi. Il loro compito consiste nello spezzare la spina dorsale nazionale e popolare, per farlo maturo al giogo del capitale internazionale e dei suoi padroni, gli ebrei. […]
La lotta difensiva del Governo tedesco di allora contro la stampa che rovinava lentamente la Nazione fu condotta senza una direttiva precisa, senza decisione, e specialmente senza avere una mèta chiara. (p.236)

…decadenza fisica e malattie…

Un altro esempio della debolezza e dell’indecisione della nostra Nazione nei confronti dei suoi problemi vitali, nel periodo prebellico, è il seguente: parallelamente al contagio politico e morale del popolo, si verificava un non meno spaventoso avvelenamento del suo corpo fisico. La sifilide cominciò a diffondersi sempre più, specie nelle grandi città, mentre la tisi ammucchiava il suo mortale raccolto, in quasi tutto i l Paese. E per quanto nei due casi le conseguenze fossero spaventose per la Nazione, nessuno si decise a opporvi delle misure serie. (p.238)
Nelle malattie dei figli si manifestano i vizi dei genitori. (p.239)

Lunga digressione sulla mancata lotta alla sifilide…

La premessa è quindi la creazione della possibilità dei matrimoni giovanili, specie dell’uomo; giacché la donna, in questo caso, rappresenta soltanto la parte passiva.[…]
Il matrimonio non può essere fine a se stesso, ma deve servire a uno scopo più alto: la conservazione e il potenziamento della razza. In questo consiste il suo scopo e il suo compito. La sua giustificazione è pertanto commisurata al modo con il quale esso adempie a tale compito. Perciò il matrimonio giovanile è giustificato, in quanto solo i giovani coniugi hanno la salute e la resistenza per procreare abbondantemente. (p.241)
Una lotta efficace contro la prostituzione non si può iniziare se non con la trasformazione fondamentale delle circostanze sociali che rendono impossibili tali matrimoni; che sono poi la premessa per risolvere quel problema.
In secondo luogo l’educazione e l’istruzione dovrebbero sradicare tutta una serie di inconvenienti perniciosi dei quali, oggi, quasi nessuno si preoccupa. Si dovrebbe trovare dapprima un equilibrio fra l’istruzione scientifica e il rafforzamento fisico dei corpi. Ciò che oggi noi chiamiamo ginnasio, è un’irrisione del suo modello greco. Abbiamo completamente dimenticato che lo spirito sano, alla lunga, non può abitare che in un corpo sano. Questo antico precetto dimostra ancora oggi la sua saggezza, se si guardi attentamente la grande massa del popolo. […](p.242)
L’accentuazione esagerata dell’educazione puramente intellettuale, e la negligenza dell’educazione fisica, facilitano il sorgere di fantasie sessuali in età precoce. I ragazzi che trovano nello sforzo e nella ginnastica un ferreo rafforzamento del proprio corpo, cedono meno al bisogno di soddisfazioni sessuali, rispetto al compagno che è stato esclusivamente nutrito di cibi intellettuali. Una ragionevole educazione non può prescindere da simili constatazioni. Né deve dimenticare che il ragazzo sano si aspetta ben altro dalla donna, rispetto al suo compagno precocemente guasto.
Perciò l’educazione deve badare a che il giovane sappia impiegare il suo tempo libero a un utilissimo rafforzamento del suo corpo. Egli non ha il diritto, in quegli anni, di oziare per le strade della città, di frequentare i cinematografi, ma deve invece, dopo aver compiuto la sua fatica giornaliera, rafforzare, irrobustire il suo corpo, in modo che la vita più tardi non lo trovi troppo fiacco. Lo scopo dell’educazione giovanile consiste appunto nel realizzare tale compito, e non soltanto nel travasare nelle teste dei ragazzi la cosiddetta scienza. E deve anche eliminare il pregiudizio che lo sviluppo fisico sia cosa di esclusiva competenza del singolo. Non esistono libertà che producano danni per le generazioni future e per la razza. Parallelamente all’educazione del corpo, si deve svolgere la lotta contro l’avvelenamento dell’anima. La nostra odierna vita sociale sembra una serra riscaldata di immaginazioni e di eccitamenti sessuali. Basta guardare i programmi dei cinematografi, dei varietà e dei teatri, e non si potrà non constatare come essi offrano il cibo più assurdo, specialmente alla gioventù. I manifesti e le vetrine si affannano, con i mezzi più volgari, a richiamare l’attenzione della massa. E chiunque non abbia perso la capacità di simpatizzare con i giovani, dovrà ammettere che si tratta di un fenomeno il quale produce i danni più perniciosi nell’animo della gioventù.
Questa torbida atmosfera sprona il ragazzo a fantasie e a eccitazioni, in un’età in cui non dovrebbe avere ancora nessuna esperienza di tali cose. Il risultato di una simile educazione dei ragazzi si può constatare dai sintomi, tutt’altro che soddisfacenti, che abbondano nella gioventù odierna. Essa è precoce, e perciò vecchia anzitempo. Dai Tribunali ci giungono talvolta gli echi di fattacci che ci permettono di gettare nella vita spirituale dei nostri quindicenni gli sguardi più inorriditi. Chi si stupirà allora, se già a quell’età la sifilide miete le sue vittime? E non è spaventoso vedere come molti di questi giovanotti, rovinati fisicamente e moralmente, vengano poi condotti al matrimonio dalle paraninfe delle grandi città?
No, chi vuole sradicare la prostituzione deve contribuire anzitutto a eliminarne le premesse morali. Bisogna che si decida a far piazza pulita dello schifo della cultura urbana; e ciò spietatamente, senza esitare davanti al frastuono e alla rabbia che naturalmente si scatenerà contro di lui. Se non riusciamo a strappare la gioventù dal pantano in cui vive, essa vi affonderà fino al collo. E chi non lo vede, contribuisce e si fa complice di questo processo di prostituzione del nostro futuro. Simile repulisti della nostra cultura deve estendersi a quasi tutti gli ambiti della vita. Teatro, arte, letteratura, cinematografo, stampa, manifesti e vetrine devono essere purgati dalle manifestazioni di un mondo che imputridisce, e posti al servizio di idee morali, per lo Stato e per la cultura. La vita pubblica deve essere sgomberata dai vapori mefitici che esalano dall’erotica moderna, come anche da tutte le ipocrisie pudibonde, indegne di un uomo. In tutti questi problemi, lo scopo e la via sono determinati dalla preoccupazione per la conservazione della salute fisica e morale del nostro popolo. Il diritto della libertà personale deve piegare di fronte al dovere della conservazione della razza. (p.243)
L’esigenza che uomini anormali non possano procreare altri anormali, sorge dalla ragione più autentica, e rappresenta nella sua realizzazione programmatica lo scopo più umano dell’umanità. Essa risparmierà a milioni di infelici sofferenze immeritate, e condurrà gradatamente a un progressivo risanamento del popolo. La risolutezza secondo cui si procederà in questa direzione, varrà a indicare il dilagamento delle malattie veneree. Si dovrà naturalmente procedere all’isolamento spietato degli incurabili – una misura crudele, certo, per gli sciagurati che ne sono colpiti, ma una benedizione per tutti gli altri. La sventura contingente di un secolo potrà liberare da strazi indicibili millenni di storia. (p.244)

…decadenza culturale… attacca dadaismo, il cubismo, il teatro contemporaneo…

Un altro fenomeno di decadenza del vecchio Stato era la discesa lenta del livello culturale[…] (p.245)
Sessantanni fa un’esposizione di cosiddette esperienze dadaiste sarebbe stata assolutamente impossibile, e i promotori sarebbero finiti in manicomio. Oggi invece presiedono le varie associazioni artistiche e culturali. E simile pestilenza non era allora possibile poiché o l’opinione pubblica non l’avrebbe trangugiata, o lo Stato non l’avrebbe permessa. È compito dello Stato, infatti, impedire che un popolo sia gettato in balìa di un’estetica impazzita. (p.246)

In ambito artistico-culturale, così come in politica, si nega e insulta il passato…

Solo chi non è in grado di dare al mondo creazioni dotate di valore intrinseco odierà le creazioni del passato, e vorrà possibilmente negarle o distruggerle.
Né questo vale solo per gli odierni fenomeni nel campo della cultura, ma anche per quelli della politica. Anche qui si può vedere come l’ansia di presentare le proprie produzioni come qualcosa di meritevole, conduca a un cieco odio per i valori tradizionali. […]
Ovvio, pertanto, l’odio dei nuovi astri dell’umanità contro le stelle fisse. Simili zeri della vita politica usano, quando il destino transitoriamente getti loro in grembo il potere, non soltanto lordare affannosamente il passato, ma anche sfuggire con tutti i mezzi alla critica contemporanea. Esempio di questo, la legislazione di difesa repubblicana del nuovo Reich. (p.247)
Quando dunque una nuova idea, o una nuova dottrina, o un movimento economico o politico, si affanna a negare tutto il passato, a ridicolizzarlo, a sminuirlo, si rende necessario comportarsi nei suoi riguardi con molta prudenza e con molta sfiducia. La causa di un simile odio è sempre o la propria piccolezza, o peggio un cattivo proposito. Un felice e benedetto rinnovamento dell’umanità non può costruirsi che là dove finisce l’ultimo solido fondamento. Esso non si vergognerà di adoperare le verità esistenti. Intatti tutta la cultura umana, come l’uomo, è il risultato di un lungo sviluppo cui ogni generazione ha apportato il proprio contributo. Lo scopo di una rivoluzione non è perciò di distruggere l’edificio, ma di allontanarne soltanto i materiali inadatti per ricostruire sulle basi ritornate sane e solide. Solo cosi si può parlare di un progresso dell’umanità. Diversamente, il mondo non sarà mai liberato dal caos, perché il diritto di rifiutare il passato spetterebbe a ogni generazione, e ognuna di queste si arrogherebbe, come premessa al proprio lavoro, la facoltà di distruggere il passato. Perciò il momento più malinconico della nostra cultura prebellica non fu soltanto la manifesta, impotenza della capacità creativa artistica o culturale, ma l’odio secondo cui si cercò di spegnere il ricordo del nostro grande passato In quasi tutti gli ambiti dell’arte, specie nelle lettere e nel teatro, alla svolta del secolo si cominciò a produrre poche novità significative, ma a svilire il meglio del passato e a considerarlo superato; come se in quel tempo di vergognosa-mediocrità si fosse mai in grado di superare alcunché. […] Se l’età di Pericle ci appare impersonata nel Partenone, l’attualità bolscevica lo è certamente in un mostriciattolo cubista.[…]
essi presentavano ogni loro creatura vaneggiarne o incomprensibile come «esperienza intima»- per togliere così ai contemporanei anche la possibilità di criticarli. Che si trattasse di esperienze interiori, non c’era davvero da dubitarne; ma piuttosto se era proprio il caso di presentare a un pubblico sano le allucinazioni di pazzi o di mascalzoni. (p.248)
Ed è proprio qui che si può studiare con esattezza la sciagurata vigliaccheria della nostra cosiddetta “intellighenzia”, che si imboscò nei confronti di questo avvelenamento del buonsenso del nostro popolo, e lo abbandonò a se stesso nella difesa da tali impudenti assurdità. […]

Le moderne città hanno contribuito all’abbrutimento del proletariato e del sottoproletariato…

Nel XIX secolo le nostre città cominciarono a perdere il loro carattere di centri di cultura, per mutarsi in mere agglomerazioni umane. La scarsità di legami che uniscono l’odierno proletariato cittadino al suo luogo di abitazione è la conseguenza del fatto che per lui si tratta solo di una residenza occasionale e nient’altro. […]
E sarebbe certo assurdo pretendere che da una simile mancanza di fisionomia possa nascere un intimo legame tra l’abitante e il suo luogo di residenza. Nessuno si sente legato a una città che non gli offre più o meglio di qualsiasi altra, cui manchi una caratteristica soggettiva, e dove si eviti con cura ogni manifestazione che presupponga arte o cultura. Ma perfino le vere metropoli, pur presentando un continuo aumento della popolazione, diventano relativamente sempre più povere di effettive opere d’arte. Esse ci appaiono sempre più neutre, e ci offrono lo stesso quadro seppure ingigantito, delle altre città industriali. (p.249)
La causa essenziale ne è la seguente: le metropoli moderne non posseggono monumenti che dominino il quadro cittadino o che comunque possano essere considerati come il simbolo del tempo. […]
Ciò che noi oggi possiamo ammirare nelle rovine del mondo antico, cioè quei pochi colossi che ancora rimangono in piedi, non sono palazzi d’affari, ma templi o edifici pubblici; costruzioni di cui era proprietaria la collettività. (p.250)
Ne consegue una banalizzazione della città che non può non risolversi in una perfetta indifferenza del cittadino nei riguardi del destino della sua stessa città.
E anche questo è un segno della nostra cultura decadente e della nostra generale rovina. Il tempo pare distrarsi in piccole cose di utilità quotidiana, o meglio, nel servizio del denaro. Non ci si stupisca perciò se all’ombra di tale divinità scarseggi il sentimento dell’eroismo. Oggi noi raccogliamo quanto il passato prossimo ha seminato.
In ultima analisi tutti questi fenomeni sono la conseguenza della mancanza di una precisa, e da tutti riconosciuta, visione del mondo; come pure della conseguente incertezza del giudizio e “dell’atteggiamento dei singoli nei confronti dei grandi problemi del tempo. A cominciare dall’educazione, tutto è mediocre e oscillante; si teme la responsabilità, e si finisce con la vile sopportazione anche degli errori riconosciuti. È venuto di moda blaterare di umanità; e mentre si lasciano passare o si cede alle germinazioni patologiche, si sacrifica l’avvenire di milioni. (p.251)

Anche la Fede e la religione stanno declinando…

Notevole è il fatto che aumenta ogni giorno la lotta contro i fondamenti dogmatici delle singole Chiese, senza le quali una fede religiosa non è pensabile in questo mondo fatto di uomini. La grande massa del popolo non è composta di filosofi; e per la massa la fede è quasi sempre l’unico fondamento di una concezione morale del mondo. (p.251)
Per l’uomo politico la svalutazione di una religione non è determinata dalle sue manchevolezze, quanto dalla bontà di un suo surrogato migliore. Ma finché tale surrogato manchi, la religione esistente non può essere demolita che da pazzi o da malfattori. Certo, una grande responsabilità della poco soddisfacente situazione religiosa odierna la portano coloro i quali introducono nei sentimenti religiosi concetti terreni, e cadono perciò in un inutile conflitto con la cosiddetta scienza esatta. In esso la vittoria, sia pure dopo dura lotta, toccherà sempre a quest’ultima, mentre la religione ne soffrirà danni gravissimi agli occhi di coloro i quali non sanno alzarsi al di sopra di una mera manifestazione esteriore.
Più esiziali ancora, i danni causati dall’utilizzo delle convinzioni religiose per scopi politici. Non si potrà mai procedere abbastanza severamente contro quei ciarlatani della politica che vedono nella religione un mezzo il quale può loro fornire ottimi servigi politici o sociali. Questi bugiardi strillano impudenti, naturalmente con voci stentoree in modo che li sentano gli altri peccatori, e proclamano la loro confessione religiosa davanti a tutto il mondo; ma non per morire per essa, ma per vivere meglio. Lo scopo della fede consiste per costoro nella possibilità di poggiarvi sopra movimenti politici; per ottenere dieci mandati parlamentari, essi si alleerebbero poi coi marxisti, i nemici mortali di ogni religione – e per un posto da ministro sposerebbero anche il diavolo, se questi non rifiutasse tale unione per un ultimo residuo di dignità. (p.252)

Decadenza politica…

Allo stesso modo, nell’ambito della politica, per chi sapeva vedere, c’erano indicatori i quali, se non fosse subentrato in breve tempo un miglioramento o un cambiamento, potevano e dovevano condurre a un’imminente catastrofe del Reich. L’assenza di scopi della politica tedesca interna ed estera era visibile a tutti coloro i quali non fossero volutamente ciechi. (p.253)
Una frase fatta, oggi spesso ripetuta,dice che il parlamentarismo ha fallito in Germania dopo la rivoluzione. Si crea così l’opinione che prima della rivoluzione le cose andassero meglio. In realtà, quell’istituzione non può avere che effetti distruttori – e li aveva già al tempo in cui la maggioranza, fornita di paraocchi, non voleva o non sapeva vedere. È proprio a quell’istituzione che si deve il crollo della vecchia Germania; e se la catastrofe non si è realizzata prima ancora, non è certo un merito del Parlamento, ma semplicemente la resistenza che negli anni di pace si opponeva ancora all’attività di quel becchino della Nazione tedesca.
Dalla somma sconfinata di danni orrendi che quell’istituzione direttamente o indirettamente ha provocato, io voglio sceglierne soltanto uno, che meglio corrisponde alla sua intima essenza: la spaventosa indecisione e debolezza della direzione politica del Reich all’interno e verso l’estero, che è da imputarsi in primo luogo all’attività del Parlamento, il quale è perciò la causa principale della catastrofe politica. (pp.256-257)
La sconfitta nella guerra per la libertà e l’indipendenza della Nazione tedesca è la conseguenza di una politica incerta e debole, fatta in tempo di pace, nei riguardi dell’istruzione militare del popolo. (p.258)

Marina insufficiente, ma bene l’esercito…

In realtà, il minor tonnellaggio delle navi tedesche avrebbe dovuto compensarsi con una maggiore rapidità e un più efficace armamento.[…]
Si rinunciò infatti a impostare la nostra flotta in chiave aggressiva, e ci si basò completamente sulla difensiva. E si rinunciò così al successo finale, che non può non consistere nell’attacco.[…]
L’Esercito, invece, come già s’è detto, si tenne lontano da simili concetti errati. Specialmente l’allora colonnello del grande Stato Maggiore, Ludendorff, condusse una lotta disperata contro quelle indecisioni e quelle debolezze con le quali il Parlamento risolveva le questioni vitali della Nazione, o quasi sempre le rinnegava. Se poi la sua lotta riuscì inutile, la colpa va per metà al Parlamento, e per l’altra metà alla condotta, più miserabile ancora, del cancelliere Bethmann-Hollweg TM. Ma questo non impedisce poi ai colpevoli della catastrofe tedesca di addossarne la colpa a colui il quale fu il solo a opporsi a quella criminale negligenza rispetto agli interessi nazionali – certo, una menzogna in più o in meno non importa a questi malefici avventurieri. (pp.259-260)
Ma gli organi superiori del governo non capirono mai il valore e l’importanza della propaganda, né che con l’uso intelligente e insistente della propaganda si può dipingere al popolo il cielo come inferno o la vita più miserabile come un paradiso. Non c’era che l’ebreo a saperlo, e lui agiva di conserva; ma il tedesco, o meglio il suo governo, non ne aveva la più vaga idea. E le conseguenze si manifestarono crudelmente durante la guerra. (p.260)

Tre soli elementi positivi in tanta decadenza…

Ma a prescindere da questo, tra le infinite istituzioni sane della Nazione possiamo sceglierne almeno tre, che nel loro genere ci appaiono esemplari e in parte non raggiunte da altri.
In primo luogo, la forma dello Stato in se stesso, e l’impronta che aveva trovato nella Germania moderna. (p.261)
A questo e a molti altri inconvenienti del sistema si contrapponevano però dei valori indiscussi. In primo luogo, la stabilità dell’intera condotta dello Stato, dovuta alla forma monarchica, come anche la salvaguardia dei posti dell’amministrazione statale di fronte alla speculazione di politicanti voraci. […]
Altro grandissimo fattore positivo, in quei tempi di incipiente dissoluzione del nostro popolo, era senz’altro l’Esercito. (p.262)
L’Esercito educava i tedeschi a un incondizionato sentimento di responsabilità, e ciò in un tempo in cui questa qualità andava facendosi rara, mentre lo sfuggirlo diventava abitudine comune; effetto, naturalmente, di quel prototipo di ogni mancanza di responsabilità che è il Parlamento. Esso educava inoltre al coraggio personale, in un’epoca in cui la vigliaccheria minacciava di trasformarsi in dilagante contagio, e la capacità di sacrificio veniva considerata quasi come un’ingenuità, mentre si reputava astuto solo colui che sapeva meglio avvantaggiare il proprio io. L’Esercito era l’unica scuola in cui il tedesco imparava a ricercare il benessere della Nazione non nelle frasi bugiarde di un’internazionale fratellanza di negri, tedeschi, cinesi, francesi, inglesi, ma nella forza e nella risolutezza del proprio animo popolare.
L’Esercito insegnava il coraggio della decisione, mentre nella vita comune i dubbi e la mancanza di decisione cominciavano a determinare le azioni degli uomini. […]
L’Esercito educava all’idealismo, alla dedizione alla Patria e alla sua grandezza, mentre nella vita comune il materialismo e l’avidità dilagavano. (p.263)
Alla forma di Stato e all’Esercito si deve aggiungere come terzo elemento l’incomparabile corpo dei funzionari del vecchio Impero. La Germania era il Paese meglio organizzato e meglio amministrato del mondo. […]
La forza del vecchio Reich consisteva dunque nella sua forma statale, nell’Esercito e nella burocrazia. Queste erano in primo luogo le premesse di una qualità di cui lo Stato attuale è completamente privo: l’autorità. (p.264)
L’ultima e più profonda causa della rovina del vecchio Reich fu il mancato riconoscimento del problema della razza e della sua importanza per lo sviluppo storico dei popoli. (p.265)

XI – POPOLO E RAZZA p.265

L’incrocio di razze va assolutamente evitato…

Ogni incrocio di due esseri di grado diverso dà come prodotto una via di mezzo tra i diversi livelli dei due genitori. Ciò significa: la creatura starà più su dell’elemento inferiore della coppia, ma non sarà elevata quanto il superiore, perciò, nella lotta contro questa specie più alta, essa dovrà soccombere. Simili accoppiamenti contraddicono la volontà della natura, che tende a migliorare i prodotti vitali. La premessa di ciò non sta nell’accoppiare una specie più alta a una più bassa, quanto nella prevalenza della prima. Il più forte deve vincere, e non mischiarsi al più debole, sacrificando così la sua grandezza. Soltanto i deboli di natura trovano crudele questa legge, ma sono appunto creature molli e limitate; e se questa legge non dominasse il mondo, qualsiasi miglioramento della vita organica sarebbe inconcepibile. (p.265)
Anche qui, naturalmente, la lotta non si svolge in seguito a avversioni intime, quanto piuttosto per fame e per amore. In ambedue i casi la natura contempla soddisfatta questa lotta. La battaglia per il pane quotidiano seleziona i deboli, i malati, gli imbecilli, mentre la lotta dei maschi per conquistare la femmina garantisce solo ai più sani il diritto o la possibilità di procreare. E la lotta è sempre un mezzo per aumentare la salute e la resistenza della specie; una causa cioè del suo progresso. Se le cose non stessero così cesserebbe ogni miglioramento della specie e subentrerebbe i l contrario. Siccome i mediocri sorpassano per numero i migliori, a uguali condizioni di procreazione e di possibilità vitali, i peggiori aumenterebbero più rapidamente, finché il migliore verrebbe emarginato. Bisogna dunque che intervenga una correzione a vantaggio del migliore. Ciò viene fatto dalla natura, in quanto essa sottopone i più deboli a condizioni di vita così dure che il loro numero ne è limitato, e che coloro i quali sopravvivono non possono procedere liberamente alla procreazione, in quanto anche qui si realizza una selezione spietata, in base alla forza e alla salute dei singoli.
Nella misura in cui la natura non desidera l’accoppiamento di un più debole con un più forte, essa si oppone al miscuglio di una razza più alta con una razza più bassa, ché altrimenti la sua millenaria fatica selezionatrice ne verrebbe compromessa in un’ora sola. […]
Il risultato di ogni incrocio di razze è, in breve, il seguente: a) Abbassamento del livello della razza superiore; b) arretramento fisico e spirituale, e inizio di un contagio lento ma inesorabile. Contribuire a un simile miscuglio significa pertanto peccare contro la volontà del Creatore. (p.266)
L’idea pacifista umanitaria è forse ottima, quando la razza più alta si sia conquistata il mondo diventando così l’unico signore della terra. In questo caso mancherebbe a quell’idea qualsiasi effetto pernicioso, appunto nella misura in cui la sua applicazione pratica diventerebbe scarsa o impossibile. Prima lotta; poi, magari, pacifismo. Nel caso opposto, l’umanità avrebbe raggiunto l’apice del suo sviluppo, e la fine non sarebbe più il trionfo di un’idea etica, ma barbarie e poi caos. […]
Tutto ciò che noi oggi ammiriamo su questa terra – scienza e arte, tecnica e scoperte – è solo il prodotto geniale di pochi popoli e forse, in origine, di una sola razza. Da questi, a ogni modo, dipende l’esistenza di tutta la cultura; se vanno in rovina, con essi scomparirà la bellezza del mondo. Per quanto poi il territorio possa influire sugli uomini, anche qui il risultato sarà sempre diverso, a seconda delle razze. La scarsa fertilità di un territorio può stimolare una razza a grandissime iniziative, mentre sarà per un’altra la causa di amarissima povertà, di malnutrizione, con tutte le tragiche conseguenze. Le predisposizioni profonde dei popoli determinano anche in questo caso gli effetti dell’influenza esterna. Ciò che conduce gli uni a crepare di fame, educa invece gli altri al duro lavoro.
La causa ultima del tramonto dei popoli fu sempre l’oblìo, la misconoscenza del fatto che la cultura dipende dagli uomini e non viceversa; che dunque, per conservare una determinata cultura, è necessario conservare gli uomini che la producono. Ma questa conservazione è legata alla ferrea legge della necessità e del diritto della vittoria dei migliori e dei più forti. Chi vuol vivere deve combattere; ma chi non vuol lottare in questo mondo, non merita la vita. (p.268)
Ciò che noi vediamo oggi, in materia di cultura o di arte o di scienza o tecnica, è quasi esclusivamente il prodotto geniale dell’ariano. E questo ci porta alla ovvia conclusione che egli solo è stato il fondatore dei valori umani più alti, e rappresenta quindi il prototipo di ciò che designiamo con la parola uomo. Egli è il Prometeo dell’umanità, dalla cui fronte radiosa scoccò in ogni tempo la scintilla del genio, accendendo ogni volta la fiaccola che illuminò di conoscenza la notte del silenzioso mistero; e così preparò la strada all’umanità per dominare le altre creatore terrene. Lo si elimini, e quella oscurità tornerà ad avviluppare di nuovo la terra, la cultura umana tramonterà e il mondo si rifarà deserto…
Se si potesse dividere l’umanità in tre specie – fondatori di cultura, portatori di cultura e distruttori di cultura. Da lui derivano le fondamenta e le mura di ogni costruzione umana; e soltanto la forma estrema e i l colore son condizionate dalle caratteristiche mutevoli dei diversi popoli. Egli fornisce le pietre e i piani per ogni progresso, e soltanto l’esecuzione corrisponde poi alle caratteristiche delle varie razze. Tra pochi decenni tutto l’oriente asiatico possederà una cultura le cui fondamenta saranno fatte di genio ellenico e di tecnica germanica; come accadde da noi. Soltanto la forma estrema – almeno in parte – corrisponderà ai lineamenti della natura asiatica. Non è il Giappone, come molti credono, ad assorbire per la sua cultura la tecnica europea, ma sono la tecnica e la scienza europee che si realizzano secondo il tipo giapponese. (p.269)
Da questo punto di vista un esame dei singoli popoli ci porta alla conclusione che quasi sempre ci troviamo di fronte ai primi, e non ai secondi. E quasi sempre ne nasce il seguente quadro del loro svolgimento. Popolazioni ariane sottomettono – e quasi sempre in numero addirittura esiguo – popoli stranieri, e stimolati dalle situazioni speciali dei nuovi territori (fecondità, condizioni climateriche, ecc.) e favoriti dalla quantità delle riserve di uomini di razza inferiore, sviluppano le loro qualità spirituali e organizzative che parevano sonnecchiare. E spesso producono, in pochi secoli, delle culture che in origine corrispondono perfettamente alle caratteristiche peculiari della loro natura, adattate alle qualità del territorio, come anche alla tipologia dei popoli sottomessi. Fatalmente, i conquistatori peccano contro il principio della conservazione del proprio sangue, cominciano a unirsi agli indigeni sottomessi, e terminano così la loro esistenza; perché al peccato è sempre seguita la cacciata dal paradiso. Dopo mille anni o anche più, si vede ancora l’ultima traccia dell’antico popolo di padroni in una carnagione più chiara, che il suo sangue ha lasciato in eredità alla razza sottomessa, e in una cultura raggelata, che esso aveva fondato. (p.270)
Allo stesso modo la formazione di culture superiori presupponeva l’esistenza di uomini inferiori, in quanto la mancanza di strumenti tecnici doveva essere da questi sostituita. (p.271)
Finché tenne fermo il suo principio di dominatore, egli restò non soltanto il padrone, ma anche il conservatore e l’aumentatore della cultura. Questa, infatti, dipendeva esclusivamente dalle sue qualità, e quindi dalla sua stessa conservazione. Ma quanto più i soggetti cominciarono a elevarsi, e probabilmente a avvicinarsi anche linguisticamente al conquistatore, tanto più presto cadde la netta separazione tra padrone e servo. L’ariano rinunciò alla purezza del suo sangue, e perse il suo soggiorno nel paradiso che lui stesso si era costruito. Si degradò con la mescolanza delle razze, perdette gradualmente le sue qualità culturali, finché cominciò ad assomigliare ai sottomessi, non solo spiritualmente ma anche fisicamente. Per qualche tempo egli potè ancora consumare le riserve di cultura, poi subentrò l’involuzione, e l’eroe scomparve nell’oblìo. In questo modo crollano le culture e i regni, per lasciare posto libero a nuovi Stati.
La mescolanza di sangue e la conseguente diminuzione del livello della razza è l’unica causa della morte delle antiche culture; gli uomini non si distraggono in conseguenza di guerre perdute, ma soltanto per la perdita di quella forza di resistenza che è peculiare a un sangue puro. Chi non è di buona razza in questa terra, è loglio. Tutta la storia del mondo è soltanto l’estrinsecazione dell’istinto di conservazione delle razze, in senso buono o cattivo. (p.272)
Nelle creature elementari l’istinto di conservazione non oltrepassa il livello del proprio io. L’egoismo è così forte che coinvolge anche i l tempo, in modo che ogni istante ha tali pretese da non voler concedere nulla alle ore successive. La bestia vive in questo stato, solo per se stessa, cerca il nutrimento soltanto per la fame del momento e lotta soltanto per la propria vita. Ma finché l’istinto di conservazione si esprime in questo modo, manca qualsiasi base per la costruzione di una vita collettiva, sia pure nella forma più primitiva della famiglia. Già una solidarietà tra maschio e femmina, al di là del mero accoppiamento, presuppone un allargamento dell’istinto di conservazione, in quanto la lotta e la preoccupazione per il proprio io deve ora comprendere anche l’altra parte; il maschio cerca talvolta il cibo per la femmina, o spesso lo cercano insieme per la prole. Uno interviene per la difesa dell’altro, e da qui nascono le prime forme, sia pure rudimentali, di una volontà di sacrificio. Quando questa volontà oltrepassa le barriere della famiglia, nasce la premessa per la costruzione di società più grandi, e infine i veri Stati. Presso gli animali inferiori questa qualità è presente solo in minimo grado, di modo che essi non riescono a oltrepassare lo stadio della famiglia. Quanto più grande è poi la volontà di subordinare gli interessi personali, tanto più aumenta la capacità di formare delle collettività più ampie. Questa volontà di sacrificio, questa messa in gioco del proprio lavoro e della propria vita per la collettività, appare più marcata presso gli ariani. La grandezza di costoro non è tanto nelle loro qualità intellettuali, quanto nella misura della loro capacità di porre tutte le loro qualità al servizio della collettività. L’i-
stinto di conservazione ha raggiunto presso di loro la forma più nobile, in quanto subordinano volontariamente il proprio io alla collettività, e quando l’ora lo chieda arrivano anche al sacrificio di se stessi. Non è dunque nelle sue doti intellettuali la causa della capacità costruttiva e formativa dell’ariano. Se possedesse solo quelli egli avrebbe potuto agire come distruttore, mai come organizzatore; giacché l’essenza stessa di ogni organizzazione poggia sul fatto che il singolo rinuncia all’affermazione della sua opinione personale come dei suoi interessi, per sacrificarli a vantaggio della collettività. Ed è solo attraverso questa collettività che egli ne ritrova una parte. Egli non lavora più unicamente per se stesso, ma colloca la sua attività nel quadro della collettività; né soltanto per il proprio utile, ma per l’utile di tutti. La più bella espressione di tale mentalità è data dalla parola “lavoro”; la quale non indica un’attività per la conservazione della vita in sé, ma un lavoro che corrisponda agli interessi della collettività. Nel caso opposto, essa determina una semplice fatica umana, in quanto tende all’istinto di conservazione senza riguardo al benessere sociale: come furto, speculazione, rapina, scasso, ecc..
Questa mentalità che fa indietreggiare l’interesse del proprio io a vantaggio della conservazione della collettività, è la vera premessa per ogni autentica cultura umana. Sì, da essa si capisce come mai molti sappiano sopportare onestamente una vita grama; una vita che impone loro povertà e modestia, ma nello stesso tempo fornisce alla collettività i fondamenti della sua esistenza. Ogni operaio, ogni contadino, ogni inventore o funzionario il quale lavora senza mai giungere per conto suo alla felicità o al benessere, è appunto un portatore di quell’alta idea, anche se i l significato profondo della sua attività gli rimanga spesso oscuro. (pp.272-273)

Il concetto d’idealismo…

La mentalità che sorge da un simile agire, la chiamiamo – a differenza dell’egoismo -idealismo;indichiamo con ciò la capacità di sacrificio dei singolo per la società.[…]
E siccome il vero idealismo non è che la subordinazione degli interessi e della vita dei singoli alla collettività – che è a sua volta la premessa per la creazione di tutte le forme organizzative – esso corrisponde intimamente alla volontà più profonda della natura. Esso solo conduce gli uomini a un volonteroso riconoscimento del privilegio della forza, e li muta quindi in elementi di quell’ordine che ha dato forma a tutto l’universo. (p.274)

Inizia infine l’attacco all’ebraismo contrassegnato dalla presenza di tutti gli stereotipi della pubblicistica antisemita…
Sono scaltri e intelligenti, ma privi di mentalità idealistica…

Il più forte contrasto con l’ariano è dato dall’ebreo. Presso pochissimi popoli del mondo l’istinto’ di conservazione è più sviluppato che presso il cosiddetto “eletto”. (p.274-275)
Le qualità intellettuali dell’ebreo sono mutate nel corso dei millenni. Egli passa oggi per intelligente e in certo senso lo è sempre stato, in tutti i tempi. Ma la sua intelligenza non è il risultato di una propria evoluzione, quanto di pratici insegnamenti ricevuti da stranieri. […]Siccome l’ebreo – per motivi che vedremo in seguito -non si è mai trovato in possesso di una cultura propria, i fondamenti della sua attività spirituale gli sono sempre stati dati dagli altri. Il suo intelletto si è sempre sviluppato in rapporto al mondo che lo attorniava, e viceversa non si è mai realizzato per conto proprio. (p.275)
è pari alle altre razze, gli manca invece completamente l’essenziale presupposto di ogni popolo di cultura: la mentalità idealistica.
La capacità di sacrificio del popolo ebreo non sorpassa l’istinto di conservazione del singolo. Quel suo apparente sentimento di solidarietà si fonda su un elementare istinto gregario, quale appare presso molti altri esseri di questa terra. Tipico è il fatto che l’istinto gregario porta all’appoggio reciproco fin dove un pericolo comune lo faccia apparire utile o inevitabile. (p.275)
L’ebreo si sente collettivo solo quando un pericolo comune incombe o una preda comune lo attira; ove manchino queste due premesse, torna a galla il suo egoismo più brutale; e da un unico popolo nasce immediatamente una schiera di topi che si dilaniano sanguinosamente. (p.276)

Senza patria, privo di una cultura propria, l’ebreo si appropria di quella degli altri corrompendola. Non ha creatività, è parassita…

Perciò il popolo ebreo, malgrado le sue apparenti qualità intellettuali, è privo di vera cultura, specie di una propria; ciò che l’ebreo oggi possiede in fatto di apparente cultura è solo un bene preso ad altri popoli, e che tra le sue mani si è corrotto e guastato.
Il segno più caratteristico per giudicare gli ebrei nel loro rapporto col problema della cultura umana sta nel fatto che un’arte ebraica non è mai esistita, e che le due regine dell’arte, architettura e musica, non devono niente di originale all’ebraismo. Ciò che egli produce nel campo dell’arte è o furto spirituale, o paradosso. Gli mancano infatti le qualità che caratterizzano le razze dotate di valori geniali.
Fino a che punto l’ebreo assorba le culture straniere, riecheggiandole o meglio corrompendole, risalta dal fatto che lo si ritrova quasi sempre in quel genere artistico che non si fonda su un’inventiva geniale: la recitazione. […]
No, l’ebreo non possiede nessuna forza creativa, poiché egli è privo di quell’idealismo senza il quale non è possibile uno sviluppo dell’umanità verso l’alto. La sua intelligenza non sarà mai produttrice, ma agirà sempre distruggendo – o in pochissimi casi stimolando, ma in tal caso sotto l’aspetto di una forza «che vuol sempre il male e produce sempre il bene».(p.276)
Presso gli ebrei, invece, questa mentalità manca del tutto; perciò non fu mai nomade ma sempre e soltanto parassita II fatto che egli ogni tanto abbandoni il suo territorio non dipende dalla sua volontà, ma è la conseguenza di sfratti che di tempo in tempo lo
cacciano via per avere abusato degli ospiti. E quel suo dilagare è un tipico fenomeno parassitario; egli cerca sempre nuove possibilità di nutrimento per la sua razza.
Ciò naturalmente non ha niente a che vedere col nomadismo, dato che l’ebreo non pensa affatto di abbandonare il territorio che ha occupato, ma rimane dove si è stanziato, e così saldamente che non lo si può più cacciar via se non per mezzo della violenza. Il suo diffondersi in nuovi Paesi avviene soltanto se e in quanto vi possa trovare migliori condizioni per l’esistenza, senza le quali egli, come il nomade, non muterebbe la sua attuale residenza. Egli è e rimane il tipico parassita, uno scroccone, che si spande alla maniera di bacilli dannosi, purché trovi un terreno favorevole. (p.277)
Nell’esistenza dell’ebreo quale parassita del corpo di altri popoli, si fonda una caratteristica che indusse Schopenhauer a pronunciare la sua famosa frase: l’ebreo è un gran maestro di menzogne. È il suo genere di esistenza che spinge l’ebreo alla menzogna; e proprio a una menzogna eterna, come gli abitanti del nord sono obbligati a indossare sempre un vestito pesante. La sua esistenza in mezzo agli altri popoli può durare a lungo soltanto se gli riesce di far nascere l’opinione che non si tratti già di un popolo speciale, ma di una collettività religiosa – questa è la prima grande bugia.
Infatti, per poter continuare la sua vita di parassita dei popoli, gli tocca rinnegare la sua profonda natura. Quanto più intelligente è il singolo ebreo, tanto più facile gli riuscirà tale imbroglio. Può perfino capitare che una gran parte del popolo che lo ospita creda veramente che un ebreo possa essere un francese o un inglese, un tedesco o un italiano, sia pure di confessione diversa. […]
Il popolo ebreo fu sempre dotato di caratteristiche razziali, e mai di una confessione religiosa; ma le necessità vitali l’obbligarono presto a cercare un mezzo che potesse distogliere l’attenzione da lui e dai suoi aderenti. Il mezzo più adatto e inoffensivo apparve subito l’introduzione del concetto di “comunità religiosa”.[…]
La dottrina religiosa ebraica è in primo luogo un metodo per mantenere puro il sangue del giudaismo, e un codice che regola i rapporti degli ebrei fra di loro e ancor più col resto del mondo, cioè coi non ebrei. Ma anche qui non si tratta affatto di problemi etici, bensì solo di precisi problemi economici. (p.278)
Su questa prima ed enorme bugia, che il giudaismo non sia una razza ma una religione, si fondano poi, in serie ininterrotta, ulteriori bugie. Tra queste, quella che riguarda la lingua degli ebrei. Essa non è per loro il mezzo col quale esprimere i loro pensieri, ma piuttosto quello per nasconderli. Parla francese, ma pensa ebreo, e mentre costruisce versi tedeschi non fa che dare sfogo alla sua natura. Fino a quando l’ebreo non sarà diventato il padrone degli altri popoli, non potrà fare a meno di parlare le loro lingue, ma non appena questi saranno diventati suoi servi, toccherà a loro imparare una lingua universale – per esempio l’esperanto – affinché l’ebreo possa con questo mezzo dominarli più facilmente.
Tutta l’esistenza di questo popolo poggia su una continua menzogna, come appare nei famosi Protocolli dei Savi anziani di Sion. Essi si fondano su una falsificazione, lamenta piagnucolando la “Frankfurter Allgeméine”, e in questo sta la miglior prova che sono veri. Ciò che molti ebrei vorrebbero inconsciamente fare, qui è consapevolmente dichiarato. (p.279)

Elenca i processi di mimesi degli ebrei che dal non mescolarsi, passano a poco a poco dal commerciante e usuraio al membro di uno stato nello stato, controllando infine la finanza e il commercio. È questo il momento in cui la popolazione inizia a dar segni d’insofferenza. Ma l’ebreo entra nei governi…

a) Con il formarsi dei primi stanziamenti stabili, l’ebreo è improvvisamente “qui”. È arrivato come mercante, e non si preoccupa ancora di mascherare la sua razza. È ancora un ebreo; forse la differenza esteriore tra lui e il popolo che lo ospita è troppo grande, le sue conoscenze linguistiche troppo limitate, la refrattarietà del popolo che lo ospita troppo aspra, perché egli ardisca presentarsi diversamente da quello che è: un mercante straniero. A causa della sua duttilità e delle inesperienze del popolo ospite, la conservazione del suo carattere di ebreo non presenta nessuno svantaggio per lui; anzi, forse un vantaggio. Ci si accosta cortesemente allo straniero.
b) Lentamente, egli comincia a penetrare nell’economia locale, non come produttore, ma come mediatore. Per la sua millenaria abilità commerciale, egli sopravanza di gran lunga l’imbarazzato e troppo onesto ariano, in modo che in brevissimo tempo il commercio minaccia di diventare un suo monopolio. Egli incomincia a prestare del denaro, come sempre, a tassi esosi, e in realtà gli riesce anche di incassare gli interessi. Il pericolo di questo nuovo sistema non viene dapprima notato; anzi, per certi vantaggi immediati che offre è perfino benvisto.
c) L’ebreo si è stanziato definitivamente, cioè egli occupa nelle città e nei villaggi dei particolari quartieri, e formavano Stato nello Stato. Egli considera tutti gli affari finanziari quasi come un suo privilegio, che sfrutta senza scrupoli
d) La finanza e il commercio sono ormai diventati il suo monopolio. I suoi interessi usurai provocano finalmente lo sdegno; la sua solita crescente insolenza indignazione; la sua ricchezza, invidia. La misura è colma quando egli comincia poi a introdurre nell’ambito dei suoi affari anche la terra, per renderla commerciabile; anzi, per abbassarla a merce. Dato che egli non coltiva mai la terra, ma la considera soltanto come oggetto di speculazione sul quale il contadino continua a penare, naturalmente alle condizioni più dure che gli vengono fatte dal suo nuovo e vorace padrone, quella indignazione si tende fino a odio motivato. La sua tirannia da vampiro diventa così enorme, che ne nascono scandali e rivolte. Si comincia a tenerlo d’occhio, e si scoprono nuove caratteristiche ripugnanti; finché l’abisso si fa incolmabile. In tempi di grande bisogno scoppia finalmente l’ira popolare, e le masse sfruttate e rovinate si accingono a difendersi contro quello strumento della collera divina. Nel corso di qualche secolo hanno imparato a conoscerlo, e avvertono la sua mera esistenza come contagio.
e) Adesso l’ebreo comincia a mettere in mostra le sue vere caratteristiche. Con ripugnanti adulazioni egli si accosta ai governi, fa scorrere il suo denaro e si garantisce così nuove franchigie per continuare a sfruttare le sue vittime. Anche se talvolta l’ira popolare si incendia contro di lui, ciò non gli impedisce affatto di proseguire per la sua strada e di tornare pochi anni dopo nelle zone che ha appena abbandonato, a ricominciarvi la sua vita. Nessuna persecuzione riuscirà a impedirgli di sfruttare i suoi simili, né a cacciarlo definitivamente; poco dopo, eccolo che ricompare di nuovo, ma è sempre quello di prima. Per impedirgli, se non altro, di fare il peggio, si comincia a togliere la terra dalle sue mani usuraie, in quanto gli si impedisce legalmente di acquistarla.
f) Nella misura in cui il potere dei prìncipi comincia ad aumentare, egli vi si accosta sempre di più. Scrocca lettere di franchigia e privilegi, che ottiene dai signori contro pagamento. (pp.280-281)
Ma le cose adesso dovevano cambiare. Nel corso di più di mille anni l’ebreo era riuscito a impadronirsi della lingua del popolo ospite, e ora ardiva di attenuare i l suo giudaismo per mettere in mostra una sua germanità. Per quanto la cosa possa sembrare a prima vista ridicola e paradossale, pure egli ha avuto l’impudenza di mutarsi in germanico; nel nostro caso, dunque, in tedesco. E con ciò comincia una delle più enormi truffe che si sia mai potuta immaginare. Dato che egli del germanesimo possiede solo l’abilità di scimmiottarne – in modo orrendo – la lingua, tutto il suo germanesimo poggia sulla lingua. Ma la razza non consiste nella lingua, bensì nel sangue; cosa, questa, che nessuno sa meglio dell’ebreo, il quale, se non accentua la conservazione del proprio linguaggio, si sforza in tutti i modi di conservare puro il suo sangue. Un uomo può cambiare la sua lingua, cioè servirsi di un’altra; ma anche con la nuova lingua egli esprimerà i vecchi pensieri, né la sua natura intima cambierà minimamente. Ciò è dimostrato magnificamente dall’ebreo, che sa parlare mille lingue, ma rimane sempre un ebreo. […]
Lo scopo che si è prefisso l’ebreo diventando di colpo tedesco ci appare ovvio. Egli si accorge che il potere dei prìncipi comincia a barcollare, e cerca perciò una nuova piattaforma dove mettere saldamente i piedi. Di più, il suo dominio sull’economia nazionale è già così avanzato che non potrebbe più tenere in piedi l’enorme edificio senza il possesso di tutti i diritti civici; e comunque, non gli riuscirebbe di aumentare ancora la sua influenza. Ma è proprio ciò che egli vuole; quanto più si arrampica, tanto più si leva dall’ombra del passato la sua vecchia mira; e con avidità febbrile i suoi esponenti più intelligenti vedono avvicinarsi l’antico sogno del dominio del mondo. Perciò la sua tendenza attuale è adesso rivolta a ottenere i l pieno possesso di tutti i diritti civici. In ciò sta i l fondamento della emancipazione dal ghetto.
i) In questo modo dall’ebreo di Corte si sviluppa l’ebreo del popolo, cioè: l’ebreo continua come prima a frequentare i prìncipi, anzi egli cerca sempre meglio di penetrare nei loro ambienti; ma nello stesso tempo un’altra parte della razza si rivolge al popolo.(pp.282-283)
Gli toccava naturalmente rimediare, agli occhi del popolo, alle malefatte di un tempo. Così ora comincia a fare il benefattore dell’umanità. E siccome la sua nuovissima generosità nasce da un motivo preciso, non gli riesce di mantenersi fedele al versetto biblico che impone alla destra di non sapere cosa fa la sinistra; anzi, gli tocca arrangiarsi come può per far sapere a tutti in quale misura egli soffra delle sofferenze della massa, e quali sacrifici egli incontri per lenire queste sofferenze. […]
Del resto si dovrebbe ancora osservare che l’ebreo, a dispetto dei suoi sacrifici, non diventa mai povero. […]
Comunque sia, in un tempo relativamente breve tutto il mondo sa che l’ebreo è diventato un benefattore e un amico degli uomini.[…]
Finalmente l’influenza ebraica si espande dalla Borsa’ per tutto i l circolo economico, in modo spaventosamente rapido. Egli diventa un proprietario, o almeno il controllore della forza produttiva della Nazione. Per rafforzare sempre più la sua posizione politica, tenta di abbattere le frontiere razziali che ancora non gli danno agio di movimento. A questo scopo egli combatte con tutta la sua risolutezza adducendo la tolleranza religiosa, e trova nella massoneria un magnifico strumento per realizzare i suoi scopi. Attraverso la massoneria, anche gli ambienti dei governanti, come delle classi dirigenti della borghesia politica ed economica, cadono così nella sua trappola senza neanche accorgersene. (p.283)

Dopo l’economia inizia a controllare anche la stampa…

Così si aggiunge alla massoneria una nuova arma al servizio del giudaismo: la stampa. Egli con grande ostinazione e abilità si impossessa di essa; attraverso essa, gli riesce di attanagliare tutta la vita pubblica: la guida, la sospinge, dato che è in grado, adesso, di creare e di dirigere quel potere che si suole chiamare opinione pubblica».[…]
Ma la sua razza egli la difende e la conserva come mai prima. Proprio quando sembra invasato di illuminismo, di libertà e di umanità, egli cura rigorosamente l’isolamento del suo popolo. A volte, certo, egli appiccica le sue donne ai cristiani influenti, ma cerca di mantenere pura la sua genealogia. Avvelena il sangue degli altri, ma difende il proprio. L’ebreo sposa raramente una cristiana, è piuttosto il cristiano che sposa l’ebrea. (p.284)
Giunto a questo stadio, la sua mèta finale è adesso la vittoria della democrazia, o come si deve intendere la cosa: il dominio del Parlamento. […]
j) Lo spettacolare sviluppo economico conduce a una metamorfosi della struttura sociale del popolo. Il piccolo artigianato si esaurisce lentamente e cessa con ciò la possibilità per gli operai di conquistare una esistenza indipendente, quindi i l popolo si proletarizza. Nasce così l’operaio di fabbrica, la cui caratteristica principale sta nel fatto che non sarà mai nella situazione di potersi creare, neanche per la vecchiaia, una vita indipendente. Egli è, nel vero senso della parola, il povero; i suoi giorni da vecchio sono miseria e tormento, né si possono più chiamare vita. (pp.284-285)
Un’altra volta questo problema si presentò allo Stato e alla Nazione, e stavolta in dimensioni molto più vaste. Un’infinità di gente, a milioni, emigravano dalla campagna verso le metropoli per guadagnarsi il pane come operai delle nuove industrie.[…]
Si aggiunga a questo i salari ignobilmente bassi, e per converso la brillante situazione del datore di lavoro.[…]
Soltanto la giudaizzazione della nostra vita mutò l’antico rispetto per il lavoro manuale in un disprezzo per ogni attività fisica. (p.285)
Mentre la borghesia non pareva preoccuparsi di questo problema così essenziale, e lasciava correre le cose per la loro china, l’ebreo capì le enormi possibilità che vi erano dentro per i l suo avvenire; e pur continuando a organizzare, da una parte, i metodi capitalisti dello sfruttamento umano fino alle sue estreme conseguenze, egli dall’altra parte si avvicinò alle vittime del suo modo di agire, e divenne in breve tempo il condottiero della lotta contro se stesso. […]
Non appena quella nuova categoria cominciò a sollevarsi dalla sua informe situazione economica, l’ebreo vi vide l’avanguardia di un suo ulteriore progresso. Se egli si era servito della borghesia come di un ariete per abbattere il mondo feudale, ora si serve dell’operaio contro i borghesi. E come aveva saputo guadagnarsi all’ombra della borghesia i diritti civici, così spera ora, nella lotta degli operai per la loro esistenza, di trovare la strada per il proprio dominio.
D’ora in poi l’operaio ha solo il compito di combattere per l’avvenire del popolo ebreo. Così viene posto, inconsciamente, al servizio della potenza che egli crede di combattere. Lo si illude di attaccare il capitale, gli si addita il capitale internazionale come l’ostacolo da abbattere; ma in realtà si vuol dire “l’economia nazionale”. È questa che va demolita, perché al suo posto trionfi, sul cimitero, la Borsa Internazionale.
Il modo di procedere dell’ebreo, in questo caso, è il seguente. Egli si avvicina agli operai, finge una grande compassione per il loro destino, o magari indignazione per la loro miseria, guadagnandosi così la loro fiducia. Egli si sforza di studiare le reali o immaginarie magagne della loro vita, e di svegliare così un anelito per il cambiamento. Quella esigenza che sonnecchia in ogni uomo ariano per la giustizia sociale, egli riesce a stimolarla, ad aumentarla, fino a gonfiarla in odio contro coloro che furono favoriti dalla fortuna; e dà così alla lotta per l’eliminazione degli inconvenienti sociali un’impronta assai particolare. E fonda la dottrina marxista. (p.286)
Il senso di questa dottrina consiste proprio nella sua follia economica e politica. È per questo che i galantuomini e le persone veramente intelligenti non possono mettersi al suo servizio, mentre vi accorrono a bandiere spiegate tutti i mediocri o ignoranti o dementi. A fornire i condottieri di quel movimento – perché anche un tale movimento ha bisogno di una intellighenzia per progredire – si sacrifica naturalmente l’ebreo. In questo modo è nato il movimento di operai sotto la guida di ebrei, che apparentemente si propone di migliorare la condizione degli operai, ma in realtà si accinge a renderli schiavi e a distruggere cosi tutti i popoli non semiti.
Ciò che la massoneria aveva introdotto nei circoli della cosiddetta “intellighenzia” con lo scopo di paralizzare l’istinto di conservazione nazionale, venne poi continuato dall’attività della stampa ebraica che si rivolgeva al popolino. A queste due armi di dissoluzione se ne aggiunge ora una terza; la più formidabile organizzazione della forza bruta. Il marxismo deve completare l’opera di dissoluzione iniziata dagli altri due, facendo maturare così l’imminente catastrofe.[…]
La lotta che combatte si svolge a grandi linee così. In conformità agli scopi finali degli ebrei, che non si risolvono solo nella conquista economica del mondo ma anche nella sua sottomissione politica, l’ebreo divide l’organizzazione della sua dottrina marxista in due metà le quali, separate in apparenza, rappresentano in realtà un tutto: il movimento politico e il movimento sindacale.
Il movimento sindacale è destinato ad acquisire proseliti. Esso offre all’operaio, costretto a condurre un’esistenza miserabile per colpa dell’avidità o della miopia di molti datori di lavoro, aiuto e difesa, e con ciò la possibilità di conquistarsi migliori condizioni di vita. (p.287)
Egli diventa così gradualmente il condottiero del movimento sindacale[…] (p.288)

Sempre privi di scrupoli morali nell’agire…

La sua attività, infatti, non è mai frenata da scrupoli morali. In questo modo gli riesce di eliminare tutti i concorrenti da questo ambito della vita. In conformità con la sua brutale avidità, egli imposta il movimento sindacale su un uso bestiale della violenza. Chiunque si opponga all’adescamento giudaico, costui verrà frantumato dal terrore. E il successo di una simile tattica è enorme. L’ebreo riesce così a distruggere le basi dell’economia nazionale proprio per mezzo dei sindacati, che avrebbero dovuto essere una benedizione per la Nazione.
Parallele a essi, si sviluppano le organizzazioni politiche. Esse si accordano col movimento sindacale, nel senso che questo ne prepara le masse all’attività politica; anzi, in un certo senso le spinge verso essa con la forza e con la costrizione. Il sindacato è inoltre la sorgente finanziaria per mezzo della quale l’organizzazione politica paga le spese del suo enorme apparato. Esso è inoltre l’organo di controllo dell’attività politica dei singoli, e convoglia le masse a tutte le manifestazioni politiche. E finalmente non si occupa quasi più di aspirazioni economiche, ma pone il suo più efficace e tremendo mezzo di lotta, cioè lo sciopero generale, a disposizione dell’idea politica.
Con la creazione di una stampa il cui contenuto si adatta al limitato orizzonte delle masse ignoranti, l’organizzazione sindacale e politica ha infine ottenuto quell’organismo per mezzo del quale le classi più basse della Nazione vengono trascinate alle azioni più pericolose. Il suo compito non consiste già nel togliere gli uomini dal pantano di concezioni basse e volgari, ma nell’andare incontro ai suoi istinti più miserabili. Ottimo affare, e assai redditizio, se si pensi alla torpidezza di pensiero delle grandi masse.
È questa la stampa che con grandi campagne di fanatiche calunnie riesce a imbrattare ogni cosa che serva a difendere l’indipendenza nazionale, l’elevatezza della cultura e l’indipendenza economica. (p.289)
L’ignoranza delle grandi masse per la natura dell’ebreo, la formidabile grettezza delle nostre classi dirigenti, contribuiscono a lasciare che il popolo diventi facilmente la vittima di questa grande campagna di bugie semite.[…]
Così la paura dell’arma marxista degli ebrei pesa come un incubo sul cuore e sul cervello della gente perbene. Si comincia a tremare di fronte al pericolosissimo nemico, e se ne diventa gradualmente la vittima.
k) Il dominio degli ebrei sullo Stato sembra già così sicuro che essi non ardiscono soltanto di presentarsi come ebrei, ma ammettono anche, spudoratamente, le loro finalità razziali e politiche. Una parte di quella razza si proclama oggi come popolo straniero, mentendo anche in questa direzione. Perché se il sionismo volesse dare a intendere che il sentimento nazionale ebraico troverebbe la sua soddisfazione nella creazione di uno Stato in Palestina, anche così gli ebrei imbrogliano un’altra volta il povero cristiano. Ché non passa loro neppure per la testa di creare in Palestina un nuovo Stato per andarvi poi ad abitare, ma desiderano soltanto una Centrale dotata di diritti sovrani che li sottragga al controllo di altri Stati: un luogo di rifugio, e una università per futuri cialtroni. (pp.289-290)

Corrompono donne e razze…

Il giovanotto ebreo, dai neri capelli crespi, spia per ore e ore, con sul viso un’espressione di gioia satanica, la ragazza ignara, che egli poi sconcia nel suo sangue e distoglie dal suo popolo. Con tutti i mezzi egli cerca di rovinare la base razziale dei popoli soggiogati. Così come egli rovina programmaticamente donne e ragazze, non teme neppure di strappare le barriere razziali che separano gli altri popoli. Furono ebrei a portare sul Reno i negri, sempre nella speranza e con lo scopo chiaro di contribuire così a un imbastardimento della razza bianca, per precipitarla dalle sue posizioni politiche e culturali e mettersi al suo posto. Un popolo di razza pura, che è cosciente del suo sangue, non sarà mai assoggettato dall’ebreo. Costui non potrà essere che d signore di popoli bastardi. Perciò egli cerca programmaticamente di abbassare il livello razziale, corrompendo e avvelenando i singoli. Politicamente egli comincia col disgregare i concetti della democrazia mediante la dittatura del proletariato. Nelle masse organizzate del marxismo egli ha trovato l’arma che gli permette di fare a meno della democrazia, e di governare e sottomettere i popoli con pugno brutale e dittatoriale. Egli lavora programmaticamente a rivoluzionare i l mondo, in due direzioni: economia e politica. Grazie alle sue relazioni internazionali egli riesce ad avviluppare in una rete di nemici i popoli che si oppongono energicamente al suo attacco, li coinvolge se è necessario nella guerra, pianta la bandiera della rivoluzione sul campo di battaglia.
Economicamente, egli scuote così a lungo gli Stati finché le aziende statali, diventate passive, cascano sotto i l controllo della sua finanza. Dal punto di vista politico, egli rifiuta allo Stato i mezzi per la sua conservazione, distrugge le fondamenta della sua difesa nazionale, elimina la fede in una guida superiore, disprezza la storia e la tradizione, e mette alla gogna tutto ciò che c’è ancora di davvero grande. Dal punto di vista culturale egli contagia l’arte, la letteratura, il teatro, corrompe la sensibilità naturale, capovolge tutti concetti di bellezza, di dignità, di nobiltà, e travolge gli uomini nel cerchio delle sue basse aspirazioni. Dal punto di vista religioso egli deride i culti, dichiara che la morale è sorpassata finché anche queste ultime trincee di un popolo giacciano frantumate e abbattute.(p.290)
1) Infine comincia la grande rivoluzione finale. Quando ha raggiunto il potere politico, egli getta la maschera. L’ebreo popolare e democratico si trasforma in ebreo sanguinario e in tiranno del popolo. (p.290)

Il mancato riconoscimento del problema razziale è stata una delle principali cause della sconfitta bellica e della decadenza generale della nazione…

Se noi facciamo passare davanti ai nostri occhi le cause della catastrofe tedesca, vedremo che la causa vera, ultima e definitiva, fu proprio il mancato riconoscimento del problema razziale, e specialmente del pericolo ebraico. […]
Ogni cosa su questa terra è migliorabile. Ogni sconfitta può essere la causa di una futura vittoria. Ogni guerra persa, la base di un prossimo risollevamento. Ogni necessità, lo stimolo dell’energia umana; e da ogni soggezione possono nascere le forze di una rinascita – finché i l sangue sia conservato puro. Solo la perdita di questa purezza distrugge per sempre la fortuna, abbatte l’uomo, e le sue conseguenze non si possono più eliminare dal corpo e dallo spirito. Se si confrontano con questo unico problema gli altri problemi della vita, ci si accorgerà come questi siano infimi, commisurati a quello. Essi sono tutti limitati nel tempo – ma il problema della purezza del sangue esisterà sempre, finché ci siano uomini sulla terra. Anche i fenomeni di decadenza di prima della guerra si possono tutti riportare a cause razziali. Si tratti di problemi di diritto pubblico, di escrescenze nella vita morale, di processi di decadenza economica o di degradazione politica, di questioni pedagogiche o di stampa, sempre e dovunque la misconoscenza delle aspirazioni razziali del proprio popolo ne forma il centro essenziale. Perciò tutti i tentativi di riforma, tutti gli sforzi politici, tutte le previdenze sociali, come pure l’aumento del sapere e i progressi economici, non diedero risultato alcuno. La Nazione, e l’organismo che la sottende e conserva, cioè lo Stato, non risanarono ma si ammalarono sempre più. Tutte le apparenze gloriose del vecchio Reich non valsero a nasconderne l’intima debolezza; e ogni tentativo di rafforzarlo realmente fallirono per la negligenza di questo problema essenziale. (p.291)

Di qui la nascita del movimento nazionalsocialista con un programma ben chiaro…

Da questo esame rigoroso sorsero i princìpi fondamentali, come anche la tendenza del nuovo movimento, che secondo la nostra convinzione era l’unico capace di impedire la catastrofe del popolo tedesco, e di rifare le basi granitiche sulle quali uno Stato può vivere; non soltanto come meccanismo di interessi economici, ma come un vero organismo di popolo: uno Stato germanico di Nazione tedesca. (p.292)

XII – IL PRIMO SVILUPPO DEL PARTITO OPERAIO NAZIONAL-SOCIALISTA TEDESCO p.292

È tipico di tutte le grandi riforme che esse abbiano come assertore un solo personaggio, il quale a sua volta è il rappresentante di molti milioni. Il loro scopo non è spesso altro che un nostalgico e profondo desiderio di centinaia di migliaia di uomini e che dura da secoli; finché sorge l’annunziatore di quella aspirazione collettiva ad alzare la bandiera dell’antica nostalgia e a portarla alla vittoria, concertata in una nuova idea.
Che milioni di uomini abbiano nel cuore il desiderio di una radicale trasformazione dei rapporti sociali odierni è dimostrato dal profondo malessere di cui soffrono. Tale malessere si manifesta in migliaia di fenomeni, nell’uno come scoramento, nell’altro come ira o indignazione, in altri ancora come indifferenza, e così via. Testimoni di questo intimo malessere possono essere tutti coloro i quali sono delusi e stufi del sistema elettivo, come anche quei tanti che piegano verso l’estremismo fanatico di sinistra. E a costoro che a tutta prima il nuovo movimento doveva rivolgersi: esso non voleva essere un’organizzazione di soddisfatti e di gente sazia, ma stringere in un unico
fascio i senza pace, i disgraziati, gli scontenti e gli infelici; né il suo compito era di galleggiare sulla superficie del corpo popolare, ma di radicarsi nel suo intimo. (pp.292-293)
Il problema di una rinascita della potenza tedesca non si pone perciò in questi termini: come fabbricare armi? Ma piuttosto: come possiamo creare uno spirito che rifaccia capace un popolo di imbracciare le armi? Quando un simile spirito domina in una Nazione, la volontà trova mille vie, e tutte conducono alle armi. Si diano a un vigliacco dieci pistole, e non sarà capace di sparare neppure un colpo; esse non hanno per lui nessun valore, meno ancora che per un uomo coraggioso un semplice bastone nodoso.
Il problema della rinascita del nostro popolo è perciò prioritariamente i l problema del risanamento del nostro istinto di conservazione, poiché ogni politica estera come ogni rivalutazione dello Stato non si basano sui magazzini di armi, ma sulla effettiva o presunta forza di resistenza della Nazione. […]
Quando si capisce che la rinascita della Nazione tedesca è il problema della riconquista della nostra volontà di conservazione politica, si vede chiaramente che ciò non può avvenire soltanto guadagnando alla causa gli elementi nazionali, ma solo nazionalizzando la massa, finora volutamente antinazionale.
Bisogna dunque che un giovane movimento che si proponga di riaffermare la sovranità assoluta dello Stato tedesco diriga la sua battaglia verso la conquista delle larghe masse. (p.294)
Perciò la riconquista dell’indipendenza tedesca è legata in primo luogo alla riconquista della profonda e volitiva risolutezza del nostro popolo.[…]
Invincibili, invece, saranno quei milioni di uomini che avversano per convinzioni politiche la rinascita nazionale – invincibili almeno fino a quando non si sarà strappato dal loro cuore e dal loro cervello la causa prima della loro avversione: la dottrina marxista. (p.295)

Primo obiettivo del movimento è dunque quello della nazionalizzazione delle masse…

Se una soluzione favorevole dell’avvenire tedesco è così legata alla conquista nazionale delle grandi masse del nostro popolo, tale finalità sarà il compito essenziale di un movimento il quale non tende soltanto a soddisfare i bisogni del momento, ma che scruta ogni suo atto nel senso delle sue ripercussioni per l’avvenire.
Perciò già nell’anno 1919 noi vedevamo chiaramente che il nuovo movimento doveva riproporsi come scopo essenziale la nazionalizzazione delle masse. Da questo nasceva una serie di premesse tattiche.
1) Per riconquistare le masse all’ideale nazionale, nessun sacrificio sociale è troppo caro.
Per quanto grandi siano le concessioni economiche chieste ai datori di lavoro, esse non staranno mai in rapporto alcuno col vantaggio di tutta la Nazione, se contribuiscano a ricondurre le grandi masse alla Patria. […]
2) L’educazione nazionale delle larghe masse può avvenire soltanto secondo la via dei miglioramenti sociali, perché soltanto mediante questi si producono le premesse economiche che permettono ai singoli di partecipare ai valori della cultura nazionale.
3) La nazionalizzazione delle grandi masse non può verificarsi mediante mezze misure o con l’accentuazione della cosiddetta oggettività, ma soltanto con una fanatica, unilaterale e risoluta impostazione finalizzata alla mèta da raggiungere. (p.296)
Chi vuole conquistare le grandi masse, deve possedere la chiave che apre la porta del loro cuore; e questa chiave non è oggettività, cioè debolezza, bensì volontà e potenza.
4) Guadagnare l’anima del popolo è possibile solo se, accanto a una condotta positiva della propria lotta, si riesca anche a distruggere gli scopi dell’avversario. […]
5) Tutti i grandi problemi del tempo sono problemi momentanei, manifestazioni condizionate da cause precise. Ma tra essi, uno solo possiede un’importanza fondamentale; il problema della conservazione razziale del popolo. Solo nel sangue si fonda la forza, come anche la debolezza degli uomini. I popoli che non riconoscono l’importanza delle loro fondamenta razziali, somigliano a gente che vorrebbe inoculare ai cani barboni le qualità dei levrieri, senza capire che la velocità del levriero come anche l’intelligenza del barboncino non sono cose acquisite ma qualità innate nella razza. I popoli che rinunciano alla conservazione della loro purezza razziale rinunciano al tempo stesso all’unità della loro anima, in tutte le sue manifestazioni. La
disgregazione della loro natura è la necessaria conseguenza della disgregazione del loro sangue, e le mutazioni della loro forza spirituale l’effetto del cambiamento del loro fondamento razziale. (p.297)
anche dell’intera cultura umana.
6) La reintegrazione delle larghe masse del nostro popolo, che stanno oggi nel campo internazionale, in una collettività nazionale, non significa naturalmente la rinuncia a difenderne i giusti interessi di categoria. […]
L’integrazione di una categoria diventata classe nella collettività popolare o nello Stato, non avviene con l’abbassamento delle classi più alte, ma con l’elevazione di quelle inferiori. (p.298)
La riserva da cui il nuovo movimento attingerà i suoi elementi sarà dunque in prima linea la massa dei nostri operai. Si tratterà di strapparli al miraggio internazionalista, di liberarli dalla loro miseria sociale, di toglierli alla loro povertà culturale, per ricondurli nella collettività come fattori risoluti, validi, dotati di sentimenti e di volontà nazionali.[…]

La propaganda deve essere rivolta alle grandi masse…

7) Questa impostazione unilaterale, ma chiara, deve manifestarsi anche nella propaganda del movimento. Se la propaganda vuole essere efficace, essa deve rivolgersi a una sola parte; ché altrimenti, proprio per la differenza della educazione culturale dei due campi, non sarà capita o dall’una, o dall’altra. (p.299)
La forza di attrazione della socialdemocrazia, e di tutto il movimento marxista in generale, poggiava in gran parte sulla unità, e quindi sulla unilateralità del pubblico cui si rivolgeva. Quanto più le argomentazioni erano in apparenza modeste, e anzi banali, tanto più facilmente venivano capite e rielaborate da una massa il cui livello culturale corrispondeva alla merce offerta. Con ciò si presentava anche al nuovo movimento una linea di condotta semplice e chiara: la propaganda deve essere commisurata, per la sostanza e per la forma, alle grandi masse, e la sua esattezza è da calcolarsi in rapporto al suo effettivo successo. Nelle assemblee popolari parla assai meglio non l’oratore che si avvicina di più agli intellettuali che l’ascoltano, ma quello che sa conquistare i cuori delle masse.[…]
Giacché la propaganda non deve servire a conservare degli uomini che già possiedono una mentalità patriottica, ma a guadagnare i nemici della nostra Nazione fin dove appartengono al nostro sangue.[…]
8) Lo scopo di un movimento di riforma politica non verrà mai raggiunto mediante un’attività di chiarificazione o di persuasione degli uomini al potere, ma con la conquista del potere politico. […]
Se dunque la conquista del potere politico è la premessa per la realizzazione pratica di scopi riformatori, un movimento che si proponga simili scopi deve sentirsi, fin dall’inizio, come l’espressione delle masse, e non come il prolungamento di salotti letterari o di borghesissime società bocciofile. (p.300)

Autorità del capo…

9) Il nuovo movimento è per essenza e per organizzazione interna antiparlamentare; esso rinnega cioè il principio della maggioranza, dove il condottiero è degradato a esecutore della volontà degli altri. Il nostro movimento invece, afferma il fondamento dell’assoluta autorità del capo, unita alla sua più alta responsabilità. (pp.300-301)
Soltanto il capo di tutto il partito verrà nominato, per motivi statutari, dall’assemblea generale dei membri. Egli sarà però il capo esclusivo del movimento. Tutti gli organi dipendono da lui, e non lui dagli organi.[…]
In questo senso, il nostro movimento è appunto antiparlamentare; e la nostra partecipazione all’istituto parlamentare esprime soltanto la volontà di distruggerlo, per eliminare finalmente un organo nel quale noi vediamo uno dei sintomi più gravi della decadenza umana. (p.301)
10) Il movimento si rifiuta di prendere posizione di fronte a problemi che esulano dal quadro della sua missione politica, o che non gli appaiono di importanza fondamentale. Il suo compito non è una riforma religiosa, ma una nuova organizzazione politica del nostro popolo. […]
La sua missione non sta dunque nel fondare una monarchia o nel consolidare una repubblica; ma nella creazione di uno Stato Germanico. (p.301)
11) Il problema dell’organizzazione interna del movimento è solo contingente, non di princìpio. La migliore organizzazione non è certo quella che frappone tra la direzione e il singolo aderente i l massimo apparato di intermediari, ma il minimo. Il compito dell’organizzazione è appunto la trasmissione di un’idea precisa, che nasce sempre dalla testa del singolo, a una molteplicità. di uomini, come anche i l controllo dell’attuarsi ditale idea. […]
Il processo di un’idea verso la sua realizzazione si svolge, grossomodo, così. Un pensiero geniale nasce nel cervello di un uomo che si sente chiamato a coinvolgere in questa sua visione i l resto dell’umanità; Egli predica la sua idea, e acquisisce gradualmente un certo gruppo di aderenti. Questo modo di trasmettere direttamente e personalmente le idee di un uomo al restante mondo, è il migliore e il più naturale. Con l’aumento degli aderenti alla nuova dottrina, nasce l’impossibilità, per i l portatore dell’idea, di agire direttamente sulle masse sterminate, e anche di guidarle e di dominarle. Nella misura in cui il crescere della comunità rende impossibile il contatto diretto, sorge la necessità di organi intermedi: lo Stato ideale cessa, e al suo posto subentra il male necessario dell’organizzazione. Così si formano piccoli gruppi subordinati, i quali rappresentano nel movimento politico, in quanto gruppi locali, le cellule della futura organizzazione. (p.302)
Perciò le forme meccaniche di un’organizzazione possono essere sviluppate solo nella misura in cui l’autorità ideale della Centrale sia incondizionatamente affermata; nelle organizzazioni politiche, questa garanzia risiede spesso soltanto nel potere concreto. Da ciò dipendono le seguenti direttive per l’organizzazione interna del movimento:
a) Concentrazione di tutte le attività, anzitutto, in un solo luogo: Monaco.[…]
b) Formazione di gruppi locali, solo quando l’autorità della direzione centrale di Monaco sia incondizionatamente riconosciuta.
e) La creazione di organismi provinciali e regionali non deve avvenire in funzione del loro bisogno, ma solo dopo i l raggiungimento della sicurezza dell’assoluto riconoscimento della Centrale.[…]
La direzione del movimento deve disinteressarsi di grandi zone, finché non trovi nei suoi aderenti locali un uomo capace di prenderne la direzione, e di organizzarvi il movimento. (p.303)
12) L’avvenire del movimento è condizionato dal fanatismo: gli aderenti considerano come l’unico giusto, ed essi oppongono risolutamente insofferenza agli altri movimenti-affini. È un grave errore credere che la forza di un movimento aumenti con la sua fusione con altri, simili a esso: ogni aumento in questa direzione significa uno sviluppo della dimensione esterna, e rappresenta quindi agli occhi dei superficiali un aumento di potenza, ma in verità esso non fa che assorbire i germi di una debolezza che si manifesterà più tardi. Se anche si possa parlare di somiglianza di due movimenti, essa, di fatto, manca sempre. Se non fosse così, in realtà non ci sarebbero due movimenti, ma uno solo. Né importa esaminare dove siano le differenze, anche se queste fossero soltanto in funzione delle diverse capacità dei capi – basta che ci siano. La legge naturale di ogni evoluzione non è mai l’accoppiamento di due gruppi disuguali, ma sempre la vittoria del più forte, e l’aumento della potenza del vincitore proprio attraverso questa lotta.
Può darsi che con la riunione di due partiti affini si possono anche raggiungere vantaggi immediati, ma alla lunga questi vantaggi sono il germe di debolezze intestine. […]
13) Il movimento deve educare i suoi aderenti a vedere nella lotta non un incidente passeggero e contingente, ma proprio ciò che essi stessi desiderano nel profondo. Essi non devono perciò temere l’inimicizia degli avversari, ma avvertirla come la premessa esatta che giustifica la propria esistenza. Non soltanto non devono aver paura dell’odio dei nemici del nostro popolo e della nostra visione del mondo, ma anzi desiderarlo. Naturalmente le espressioni di quell’odio son impastate di bugie e di calunnie. (p.304)
Chi la mattina apre un giornale ebraico senza trovarcisi calunniato, non ha fatto niente di utile il giorno precedente; se lo avesse fatto, l’ebreo lo perseguiterebbe, lo calunnierebbe, lo sconcerebbe, lo prostituirebbe. (p.305)
14) Il movimento deve stimolare al massimo il rispetto per la persona: non deve mai dimenticare che la persona incarna il valore di tutto ciò che è umano, che ogni idea e ogni cosa buona è il risultato della forza geniale di un uomo, e che l’ammirazione per i grandi non è soltanto una doverosa riconoscenza, ma anche un legame spirituale che ci avvince agli altri uomini. (p.305)

A poco a poco le riunioni vedono crescere il numero dei partecipanti e le doti oratorie di Hitler contribuiscono alla riuscita…

Ma i l successo dell’assemblea fu significativo anche in un altro senso. Avevo già allora cominciato a portare al comitato un numero di freschi e baldi giovanotti. Durante i l mio lungo servizio militare avevo conosciuto una grande quantità di fedeli camerati, che cominciavano ora, spinti dalla mia insistenza, a entrare nel movimento; erano giovani robusti e attivi, abituati alla disciplina, e che avevano ricavato dal loro servizio militare il principio «Nulla è impossibile, si può tutto ciò che si vuole». E di quanto una simile trasfusione di sangue fresco fosse necessaria, lo potemmo riconoscere dopo pochissime settimane di collaborazione. L’allora primo presidente del partito, il signor Harrer, era in realtà un giornalista, e in quanto tale certo versatissimo in molte cose. Ma c’era un inconveniente assai grave per un capopartito: non era un oratore. Per quanto precisa e scrupolosa fosse la sua preparazione, gli mancava – forse a causa della mancanza di talento oratorio – anche uno slancio profondo. Il signor Drexler, allora presidente del gruppo di Monaco, era un semplice operaio, insignificante come oratore; d’altronde non aveva fatto il soldato, non aveva servito nell’esercito, non aveva fatto la guerra, così tutta la sua indole era incerta e debole, ché gli era mancata l’unica scuola che possa trasformare una natura femminea e incerta in un uomo. (p.307)
L’odio maggiore dei marxisti si rivolgeva naturalmente ai movimenti che si proponevano di acquisire proseliti in quelle stesse masse che, fino ad allora, erano rimaste completamente al servizio degli ebrei, dell’internazionale marxista e dell’internazionale di Borsa. Già il nome “Partito degli operai tedeschi” sembrava una sfida. C’era dunque da prevedere che alla prima occasione essi avrebbero cominciato a fare i conti con noi. Nella piccola cerchia del movimento di allora regnava infatti una certa paura di fronte a questa probabilità. Si voleva rivolgersi il meno possibile al pubblico, nel timore di finire picchiati. Già si immaginava il nostro primo grande comizio sconquassato dagli avversari, e magari la fine del movimento. La mia posizione non era facile; io pretendevo che non ci si dovesse sottrarre alla battaglia, ma dovevamo perciò equipaggiarci con quelle armi che sole garantiscono dalla prepotenza altrui. Il terrore non viene vinto dallo spirito, ma da altrettanto terrore. Il successo del primo comizio rafforzò il mio punto di vista; ne ricavammo un certo coraggio per indirne un secondo più grande.
Nell’ottobre del 1919, in un’altra birreria di Monaco, ebbe luogo anche questa seconda riunione. Il tema era: Brest-Litowsk e Versailles. In programma c’erano quattro oratori. Io parlai quasi un’ora, e il mio successo fu ancora più grande della prima volta. La cifra dei presenti era salita a 130. Un tentativo di disturbarci venne stroncato sul nascere dai miei camerati. I disturbatori volarono giù dalle scale, con le teste gonfie e cosparse di bernoccoli.
Quindici giorni dopo, nella stessa sala, indicemmo un terzo comizio. I presenti erano saliti a 170 – un bel numero, che riempiva bene il locale. Parlai di nuovo, e di nuovo il successo mi arrise; anzi, fu più grande ancora. (pp.308-309)
Tutto quell’inverno del 1919-1920 fu per me un’unica battaglia volta a rafforzare la fiducia dei miei compagni nella potenza vittoriosa del nuovo movimento, e a moltiplicare il fanatismo, che come la fede muove il mondo. (p.309)
Il nuovo movimento doveva guardarsi da un afflusso di individui la cui unica giustificazione stava nel fatto che affermavano di aver combattuto da trenta o quarantanni per la stessa idea. Ma chi ha combattuto quarantanni per una cosiddetta idea senza giungere al minimo successo, e soprattutto senza avere impedito la vittoria all’avversario, ha offerto la prova migliore della sua radicale incapacità. Il pericolo maggiore sta in questo: tali individui non si adattano poi a restare membri del movimento, ma tendono a entrare negli ambienti di comando, dove credono di trovare l’unica prospettiva di posti che si addicano alla loro lunga attività politica. Ma guai se si consegna un movimento in mano a simile genìa! […]
Queste mummie, che sognano ancora l’età degli antichi germani e non parlano che di asce di pietra, di scudi e di tempi preistorici, sono poi in realtà degli incommensurabili vigliacchi. La stessa gente che va in giro cinta di spadoni di latta egregiamente imitati, e magari mettendosi in testa la pelle d’orso con le coma di toro, predica invece, per l’oggi, la lotta con armi spirituali, e scappa come la lepre di fronte al primo manganello comunista. (p.310)
Non per niente i l nuovo movimento fissò subito un programma preciso, evitando con cura la parola “popolare». […]
Ma chi non riesce a farsi odiare dai nemici, non può essere considerato come un valido amico. L’amicizia di simili profeti non aveva alcun valore per il nostro giovane movimento, anzi, gli fu sempre dannosa; in ciò sta il motivo principale per cui abbiamo deciso di darci il nome di partito – speravamo in tal modo di respingere tutto lo sciame di questi lunatici “popolari” – e che, in secondo luogo, ci siamo designati come Partito nazional-socialista degli operai tedeschi. (p.311)
All’inizio dell’anno 1920 sollecitai i miei compagni a indire il primo grande comizio di massa. Ne nacque subito una grande diversità di opinioni. Alcuni membri influenti del partito consideravano la cosa come intempestiva, e quindi pericolosa nei suoi effetti. La stampa rossa aveva cominciato a occuparsi di noi, e ci era finalmente riuscito di suscitare il loro odio. […]
Conoscevo la mentalità dei militanti di parte rossa, e sapevo che una resistenza fiera non solo fa su di loro un’impressione enorme, ma riesce a guadagnarsi dei simpatizzanti. Bisognava dunque essere decisi a organizzare una pugnace resistenza. L’allora primo presidente del partito, signor Harrer, non credette di poter appoggiare le mie idee per ciò che riguardava la scelta della data, e si ritirò perciò dalla direzione del partito, da quell’uomo onesto e sincero che era. Al suo posto avanzò il signor Anton Drexler. Io mi ero riservata l’organizzazione della propaganda, e cominciai ad attuarla in pieno. Così la data della prima grande assemblea popolare del nostro movimento, ancora quasi sconosciuto, fu fissata per il 24 febbraio del 1920. […]
Il colore scelto fu il rosso: esso è certo il più eccitante, e doveva al tempo stesso indignare i nostri nemici, portandoci così al centro della loro attenzione e del loro ricordo.[…]
Questi manifesti stanno a dimostrare l’intensità della lotta che il nostro giovane movimento ingaggiò a quel tempo.[…]
L’allora presidente della Polizia Ernst Pòhner, e il suo fido consigliere Frick, erano gli unici alti funzionari che avevano già allora il coraggio di essere prima tedeschi, e poi funzionari. (p.313)
Prima di indire il nostro grande comizio di massa, dovemmo naturalmente preparare il necessario materiale di propaganda, e stampare i punti principali del programma. Svilupperò rigorosamente nel secondo volume i princìpi che ci guidarono nella redazione del programma. […]
Le varie assemblee tenute nei quattro mesi che precedettero il gennaio 1920, ci avevano permesso di rastrellare gli esigui mezzi necessari a stampare i nostri primi volantini, i nostri primi manifesti, e il nostro programma. (p.314)
L’inizio era fissato alle 7.30. Alle 7 e un quarto io entrai nella sala delle feste della Hofbrauhaus, sulla piazzetta di Monaco; e pareva che il cuore volesse scoppiarmi nel petto. L’enorme salone – allora mi appariva ancora enorme – era colmo di gente, gli uni addosso agli altri, una massa di circa duemila persone. Ma anzitutto, erano venuti proprio coloro ai quali ci volevamo rivolgere. Più della metà del salone sembrava occupato da comunisti e da indipendenti; costoro avevano deciso di farla subito finita con la nostra prima grande manifestazione. […]
Presi allora il programma e cominciai per la prima volta a illustrarlo. Di quarto d’ora in quarto d’ora le interruzioni si facevano sempre più deboli, soverchiate da grida di approvazione. E quando finalmente ebbi esposto alla massa le 25 tesi del partito, e la pregai di voler esprimere il suo giudizio, ognuna di esse venne accolta con un giubilo crescente, a una voce sola; e quando l’ultima tesi ebbe trovato così la via del cuore della massa, io avevo davanti a me un salone colmo di un pubblico che era cementato e compatto in una nuova convinzione, in una nuova fede, in una nuova volontà. (p.315)

VOLUME SECONDO: “IL MOVIMENTO NAZIONALSOCISTA” p. 317

I – CONCEZIONE DEL MONDO E PARTITO p. 317

Il 24 febbraio 1920 il movimento presenta il proprio programma, articolato in venticinque punti e approvato all’unanimità…

Il 24 febbraio 1920 si svolse la prima grande manifestazione pubblica del nostro giovane movimento, Nel salone della Hofbrauhaus, a Monaco, le venticinque tesi del programma del nuovo partito vennero esposte a una moltitudine di quasi duemila persone, e ciascun punto fu approvato fra grida di consenso e di giubilo. (p.317)

Espone la propria concezione di Stato e Nazione…

Quindi io, prima di accingermi a spiegare i compiti e gli scopi del Partito operaio nazional-socialista tedesco, vorrei chiarire il concetto di “nazionale” e il suo rapporto col movimento del partito. (p.321)
La concezione politica oggi corrente si basa in generale sull’idea che allo Stato si debba assegnare una forza creatrice, civilizzatrice, ma che lo Stato non abbia nulla in comune con le premesse razziali. Lo Stato sarebbe piuttosto un prodotto di necessità economiche o, nel migliore dei casi, il risultato naturale di forze e di impulsi politici. Questa concezione di fondo conduce, nel suo sviluppo logico, non solo al misconoscimento delle primordiali forze etniche, ma anche a una sottovalutazione della singola persona. (pp.324-325)
All’opposto, la concezione nazionale, razzista, riconosce il valore dell’umanità nei suoi primordiali elementi di razza. In conformità coi suoi princìpi, essa ravvisa nello Stato soltanto un mezzo per raggiungere un fine, il fine della conservazione dell’esistenza razziale degli uomini. Con ciò, non crede affatto a un’uguaglianza delle razze, ma riconosce che sono diverse e quindi hanno un valore maggiore o’ minore; e da questo riconoscimento si sente obbligata a esigere, in conformità con l’eterna Volontà che domina l’Universo, la vittoria del migliore e del più forte, la subordinazione del peggiore e del più debole. E così rende omaggio all’idea fondamentale della Natura, che è aristocratica, e crede che questa legge abbia valore fino al più umile individuo. Essa riconosce non solo i l diverso valore delle razze ma anche quello degli individui. Estrae dalla massa l’individuo di valore, e opera così da organizzatrice, di fronte al marxismo disorganizzatore. Crede nella necessità di idealizzare l’umanità, ravvisando solo in questa idealizzazione la premessa dell’esistenza dell’umanità stessa. Ma non può concedere a un’idea etica il diritto di esistere se questa idea costituisce un pericolo per la vita razziale dei portatori di un’etica superiore; perché in un mondo imbastardito e “negrizzato” sarebbero perduti per sempre i concetti dell’umanamente bello e del sublime, nonché ogni nozione di un avvenire idealizzato del genere umano. Nel nostro continente, la cultura e la civiltà sono connesse, in modo indissolubile, alla presenza degli Ariani; il tramonto e la scomparsa dell’Ariano ricondurrebbe sul globo terrestre tempi di barbarie. (p.326)
Non si vince con armi così deboli! Solo quando alla concezione intemazionale marxista (rappresentata in politica dal marxismo organizzato) si opporrà una concezione nazionale altrettanto unitariamente organizzata e diretta, e solo se sarà eguale nei due campi l’energia del combattere, la vittoria si troverà dalla parte della verità eterna. (p.327)

II – LO STATO p.328

Tre sono i gruppi di persone che danno una diversa valenza al concetto di Stato. Stato che deve principalmente preservare l’integrità razziale del proprio popolo…

Grossomodo, si possono distinguere tre gruppi.
a) Il gruppo di coloro che nello Stato ravvisano semplicemente una comunità più o meno volontaria di uomini sottomessi a una potenza e a unità governativa.[…]
Lo Stato non esiste più per servire gli uomini; ma gli uomini esistono per adorare un’autorità statale che racchiude in sé anche l’ultimo dei funzionari.[…]
b) Il secondo gruppo è alquanto meno numeroso; di esso fanno parte coloro che almeno connettono determinate condizioni all’esistenza di uno Stato.
Essi vogliono non solo uno stesso governo ma anche – se possibile – una medesima lingua, sia pure partendo da punti di vista di generica tecnica amministrativa. […]
I principali rappresentanti di queste opinioni si incontrano nella normale borghesia tedesca, e specialmente nei circoli della nostra democrazia liberale. (p.329)
c) Il terzo gruppo è il più esiguo. Esso ravvisa già nello Stato un mezzo per realizzare le tendenze di potenza politica, per lo più vaghe, di un popolo unito e caratterizzato da una propria lingua. […]
È invece un grave errore il credere che, poniamo, un Cinese o un Negro diventi un Tedesco perché impara il tedesco ed è pronto a servirsi in avvenire della lingua tedesca e a dare il suo voto a un partito politico tedesco. Il nostro mondo borghese non ha mai capito che una simile germanizzazione è, in realtà, una sgermanizzazione. Perché se, con l’imposizione di una lingua comune, certe distinzioni finora visibili fra popolo e popolo vengono superate e infine cancellate, ciò comporta l’inizio di un imbastardimento e, nel caso nostro, non una germanizzazione ma un annientamento di elementi germanici. Troppo spesso nella storia accade che un popolo conquistatore riesca, grazie alla sua potenza, a imporre ai vinti la propria lingua, e che mille anni dopo la sua lingua sia parlata da un altro popolo facendo dei vincitori i veri vinti.
La nazione, o meglio la razza, non consiste nella lingua, ma solo nel sangue. Quindi si potrà parlare di una germanizzazione solo quando si sappia trasformare con questo processo i l sangue dei vinti. Ma ciò non è possibile: a meno che, grazie alla mescolanza di sangue, si produca un mutamento, cioè l’abbassamento del livello della razza superiore. (p.330)
Anche per questo terzo gruppo lo Stato è pur sempre, in qualche modo, fine a se stesso, e la conservazione dello Stato è la più alta mèta dell’esistenza umana. Concludendo, si può affermare che tutte queste concezioni non affondano le loro radici nel riconoscimento che le forze originanti la civiltà e i valori si basano essenzialmente su elementi razziali, e che quindi lo Stato deve considerare sua missione suprema la conservazione e l’elevamento della razza, condizione preliminare di ogni ulteriore sviluppo della civiltà umana.[…]
Quindi, il primo dovere di un nuovo movimento basato su una concezione razzista del mondo è quello di fare in modo che la nozione dell’essenza e dello scopo dell’esistenza dello Stato assuma una forma chiara e unitaria. Bisogna anzitutto riconoscere questo:lo Stato non rappresenta un fine, ma un mezzo. Esso è la premessa della formazione di una civiltà umana superiore, ma non è la causa di questa. La causa è riposta solo nella presenza di una razza idonea alla civiltà. (pp.332-333)
Non è lo Stato in sé che crea un determinato grado di civiltà; esso può solo conservare la razza, che è la condizione di quel grado. (p.333)
Da ciò segue questa nozione. Lo Stato è un mezzo per raggiungere il suo fine consiste nella conservazione e nell’incremento di una comunità che conduce una vita fisica e morale omogenea. Questa stessa conservazione include l’esistenza di una razza, e con ciò permette il libero sviluppo di tutte le forze latenti in questa razza[…]
Lo scopo supremo dello Stato nazionale è conservare quei primordiali elementi di razza che, quali donatori creano la bellezza e la dignità dì un’umanità superiore. Noi Ariani,Stato possiamo solo raffigurarci l’organismo vivente di una Nazione – organismo che non solo assicura la durata di questa Nazione, ma la suprema libertà sviluppandone le capacità spirituali e ideali. (p.334)
E comprensibile che un popolo dotato di alta cultura abbia maggior valore di una tribù di negri; tuttavia l’organismo statale di quel popolo, dal punto di vista della realizzazione dei suoi scopi, può essere peggiore di quello della tribù negra. Il miglior Stato e la miglior forma statale non sono in grado di ricavare da un popolo facoltà che gli mancano e che non ha mai avuto; invece uno Stato cattivo è in grado di far scomparire facoltà che in origine esistevano, permettendo o favorendo la soppressione dei portatori della civiltà della razza! (p.335)
In generale, già la Natura prende certe decisioni e apporta determinate modifiche al problema della purezza di razza delle creature terrestri. Essa ama poco i bastardi. Soprattutto i primi prodotti degli incroci, per esempio nella terza, quarta, quinta generazione, debbono soffrire amaramente: non solo sono privi del valore proprio del più nobile fra i primitivi elementi dell’incrocio, ma, mancando loro l’unità del sangue, gli manca pure l’unità della volontà e della determinazione, indispensabile all’esistenza. In tutti i momenti critici in cui l’individuo di razza pura prende decisioni giuste e unitarie, l’individuo di razza mista diventa esitante e ricorre a mezze misure. Ciò significa una certa inferiorità della creatura di razza mista di fronte a quella di razza unitaria, e nella realtà implica anche la possibilità di un rapido declino. In innumerevoli casi la razza resiste, mentre il bastarde. In ciò si deve ravvisare la correzione della Natura, la quale spesso si spinge ancora più lontano. Essa limita le possibilità di propagazione: sopprime la fecondità di ulteriori incroci, e li spinge all’estinzione. Se, per esempio, un individuo di una razza si unisse a uno di razza inferiore, ne risulterebbe in primo luogo l’abbassamento del livello in sé, e in secondo luogo un indebolimento dei discendenti di fronte agli altri individui rimasti puri di razza. (p.339)
Chi non vuole che la Terra vada incontro a questa sorte, deve professare la concezione che sia compito soprattutto dello Stato germanico quello di fare in modo che sia imposto un termine conclusivo a ogni ulteriore imbastardimento. (p.340)
Quindi, uno Stato nazionale dovrà in primo luogo elevare il matrimonio dal livello di un costante scandalo per la razza, e dargli la consacrazione di un istituto chiamato a generare creature fatte a immagine e somiglianza del Signore e non aborti fra l’uomo e la scimmia. (p.341)
Mentre, grazie a Dio, i nostri popoli europei cadono in uno stato di lebbrosità fisica e morale, il pio missionario emigra nell’Africa centrale e fonda missioni per Negri: così la nostra “civiltà superiore” farà anche là, di individui sani sebbene primitivi e incolti, una putrida razza di bastardi.
Sarebbe più conforme al senso di quanto vi è di più nobile sulla terra, questo: che le nostre due Chiese cristiane, invece di molestare i Negri con missioni dai Negri non desiderate né comprese, insegnassero con bontà ma con ogni serietà alla nostra umanità europea che quando i genitori non sono sani, è opera più gradita a Dio l’aver pietà di un piccolo orfano sano e donargli un padre e una madre, piuttosto che mettere al mondo un bambino malato, apportatore di sofferenze e di sventure a sé e agli altri.
Lo stato-nazionale deve recuperare ciò che oggi, in questo campo, è trascurato da tutte le parti. Deve mettere la razza al centro della vita generale. Deve preoccuparsi di conservarla pura. Deve dichiarare che il bambino è il bene più prezioso di un popolo. Deve fare in modo che solo chi è sano generi figli, che sia scandaloso il mettere al monda bambini quando, si è malati o difettosi, e che nel rinunziare a ciò consista il supremo onore. […]
Deve dichiarare incapace di generare chi è affetto da visibile malattia o portatore di tare ereditarie e quindi in grado di tramandare ad altri queste tare, e provocare praticamente questa incapacità. […]
Chi non è sano e degno di corpo e di spirito non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino.[…]
Lo Stato deve, con l’educazione, insegnare agli individui che essere malati e deboli non è una vergogna, ma è solo una disgrazia meritevole di compassione, e che è delitto e vergogna il disonorarsi e il dar prova di egoismo imponendo la malattia e la debolezza a creature innocenti. (p.343)
Ma quando la massa di un popolo è composta di degenerati, è ben raro che da un simile pantano si levi un grande spirito. […]
Un corpo imputridito non sarà certo reso più estetico da uno spirito radioso; anzi, la più alta formazione spirituale non potrebbe giustificarsi snello stesso tempo i suoi portatori fossero deformi, storpi, privi di carattere, esitanti e codardi. Ciò che rende immortale l’ideale greco della bellezza è la meravigliosa unione di una splendida armonia fisica con uno spirito brillante e un’anima nobilissima. (p.346)
In uno Stato nazionale, la scuola deve lasciare libero un tempo di gran lunga maggiore per l’educazione fisica. […]
Non dovrebbe passare un solo giorno senza che il giovanetto ricevesse almeno un’ora di educazione fisica al mattino e alla sera, in ogni genere di sport e di ginnastica. (p.347)
In genere, lo sport deve non solo rendere forte, agile e ardito il singolo, ma anche indurire i l corpo e insegnare a sopportare le intemperie. (p.348)
È nell’interesse della Nazione anche questo: che i corpi più belli si incontrino, e collaborino a donare nuova bellezza alla Nazione.[…]
Lo Stato odierno, che non ha interesse all’uomo sano, ha criminosamente trascurato questo dovere: esso lascia che la gioventù si corrompa nelle strade o nei bordelli, invece di prenderla per le briglie e formarne il corpo affinché un giorno si sviluppino da essa uomini sani e donne sane. (p.350)
Questo è solo un esempio fra molti. Oggi, nella scuola, è quasi inesistente lo sviluppo consapevole di buone e nobili qualità del carattere. A tale sviluppo si dovrà un giorno attribuire ben altro peso. Fedeltà, abnegazione, taciturnità sono virtù di cui un grande popolo ha necessità: l’insegnarle e il perfezionarle nella scuola è più importante di molte cose che oggi riempiono i nostri programmi scolastici. (p.352)
Così lo Stato nazionale, nel suo lavoro di educazione, deve attribuire grandissimo valore, accanto all’educazione del corpo, a quella del carattere. Numerosi acciacchi morali che oggi il corpo della Nazione porta in sé possono essere eliminati o molto mitigati da una educazione di questo tipo. Di estrema importanza è l’educazione della forza di volontà e di decisione, e la cura della gioia della responsabilità. (p.353)
Questa cultura, al contrario, deve sempre essere ideale, deve fondarsi più sulle discipline umanistiche e offrire solo le basi di un’ulteriore istruzione scientifica speciale. Altrimenti si rinunzia a forze più importanti di ogni sapere tecnico per la conservazione della Nazione. In particolar modo, nell’istruzione storica non si deve abbandonare lo studio degli antichi; la storia romana nelle sue grandi linee è e rimane la miglior maestra non solo per l’epoca nostra ma per tutte le epoche; anche l’ideale della civiltà ellenica deve esserci preservato nella sua esemplare bellezza. Le diversità dei singoli popoli non devono farci dimenticare la grande comunità di razza. (p.357)
La materia di insegnamento deve essere apprestata metodicamente partendo da questi punti di vista; l’educazione deve essere forgiata in modo che il giovane quando lascia la scuola non sia un mezzo pacifista, un democratico o alcunché di simile, ma un tedesco completo. […]
Il complessivo lavoro di istruzione e di educazione dello Stato nazionale deve trovare il suo coronamento nell’infondere, nel cuore e nel cervello della gioventù a lui affidata, il senso e il sentimento di razza conforme all’istinto e alla ragione. Nessun ragazzo né ragazza devono lasciare la scuola senza essere giunti a conoscere perfettamente l’essenza e la purezza del sangue. Con il che sono create le premesse di una base razziale della nostra Nazione, e inoltre è fornita la certezza dei presupposti di un ulteriore sviluppo scientifico e culturale. (p.360)
Congiungendoci sempre di nuovo con altre razze, innalziamo queste dal loro precedente livello di civiltà a un livello superiore, ma decadiamo per sempre dall’altezza nostra. Del resto, anche questa educazione deve trovare, dal punto di vista della razza, il suo adempimento supremo nel servizio militare. E in generale il tempo del servizio militare deve essere considerato la conclusione dell’educazione normale del Tedesco medio.[…]
Il nostro decadente mondo borghese non sospetta che qui in verità si commette un peccato contro la ragione; che è una colpevole follia quella di ammaestrare una mezza scimmia in modo che si creda di averne fatto un avvocato, mentre milioni di appartenenti alla più alta razza civile devono restare in posti vili e indegni. Si pecca contro la volontà dell’Eterno Creatore lasciando languire nell’odierno pantano proletario centinaia e centinaia delle sue più nobili creature per addestrare a professioni intellettuali Ottentotti, Cafri e Zulù. Perché qui si tratta proprio di un addestramento, come nel caso del cane, e non di un “perfezionamento” scientifico. La stessa diligenza e fatica, impiegata su razze intelligenti, renderebbe gli individui mille
volte più capaci di simili prestazioni. (p.362)
Ma da noi si attribuisce a ciò poco valore: importano solo i buoni punti riportati agli esami. Anche qui dovrà intervenire seriamente lo Stato nazionale. Suo compito non è l’assicurare un’influenza decisiva a una data classe sociale, ma l’estrarre dalla totalità dei membri della Nazione i cervelli più capaci e portarli agli impieghi e alle cariche. (p.363)
Lo Stato nazionale avrà il compito di curare che nei suoi istituti di insegnamento abbia luogo un costante rinnovamento dei ceti intellettuali mediante l’infusione di sangue fresco dei ceti inferiori. Lo Stato ha l’obbligo di estrarre dalla totalità della popolazione, dopo averlo vagliato con attenzione e diligenza estrema, il materiale umano più favorito dalla Natura, e di impiegarlo al servizio della collettività. (p.364)

III – I MEMBRI DELLO STATO E CITTADINI p.367

Critica al sistema della cittadinanza…

Quell’istituto che oggi è chiamato Stato, in generale conosce due sole specie di individui: cittadini e stranieri. Cittadini sono tutti coloro che per nascita o per essere stati più tardi incorporati nello Stato posseggono i diritti civili; stranieri sono coloro i quali posseggono questi diritti in un altro Stato. Fra gli uni e gli altri vi sono delle comparse, i cosiddetti “senza Stato”: uomini che hanno l’onore di non appartenere a nessuno degli Stati odierni, e quindi non posseggono i diritti civili in nessun luogo.
Il diritto di cittadinanza si acquisisce oggi in primo luogo col nascere entro i confini di uno Stato. La razza o l’appartenenza alla Nazione non hanno in ciò alcun peso. Un Negro, vissuto un tempo nei territori di protettorato tedesco, e ora dimorante in Germania, mette al mondo un figlio che è “cittadino tedesco”. E così, ogni figlio di Ebrei, di Polacchi, di Africani o di Asiatici, può essere senz’altro dichiarato cittadino tedesco. Oltre alla cittadinanza acquisita con la nascita, sussiste la possibilità di diventare cittadini in seguito. (p.367)
So che queste cose non si ascoltano volentieri; ma non esiste nulla di più assurdo, di più irritante dell’odierno diritto di cittadinanza. (p.368)
Di ogni appartenente allo Stato si deve, in linea di principio, stabilire la razza e la nazionalità. L’appartenente allo Stato può sempre rinunciare a questa appartenenza e diventare cittadino dello Stato la cui nazionalità risponde alla sua. […]
Quando il giovane, sano e virtuoso, ha terminato il servizio militare, gli viene conferito il diritto di cittadinanza. […]
Il cittadino è privilegiato di fronte allo straniero. È il padrone del Reich. Ma quest’alta dignità comporta doveri. Chi non ha onore né carattere, gare malfattore, il traditore della Patria, può sempre essere privato di tale onore; e così ridiventa un semplice appartenente allo Stato. La fanciulla tedesca è appartenente allo Stato; solo il matrimonio la rende cittadina; ma il diritto di cittadinanza può pure essere conferito alle Tedesche appartenenti allo Stato che si guadagnano da vivere. (p.369)

IV – PERSONALITÀ E CONCETTO NAZIONALE DI STATO p.369

La concezione nazionale prevede il riconoscimento del valore della razza…

Io, in genere, devo valutare in diverso modo i popoli fondandomi sulla razza cui appartengono; e sulla stessa base devo valutare gli individui nell’ambito di una comunità nazionale. La constatazione che un popolo non è uguale a un altro si trasferisce agli individui di una Nazione, nel senso che una testa non può essere uguale a un’altra, perché anche qui gli elementi del sangue sono, grossomodo, i medesimi, ma negli individui vanno soggetti a mille sottilissime differenziazioni.
La prima conseguenza di questa cognizione è alquanto grossolana; consiste nel promuovere gli elementi i quali, nell’ambito della comunità nazionale, furono riconosciuti più preziosi per la razza, e nel curarne la moltiplicazione. (p.370)
Non la massa inventa, non la maggioranza organizza o pensa, ma sempre e unicamente l’uomo singolo, la persona.[…]
Il marxismo rappresenta il tentativo degli ebrei, trasferito nel campo della cultura, di eliminare in tutti gli aspetti della vita umana la preminenza e la prevalenza della personalità, e di sostituirle il numero della massa. (pp.372-373)
La concezione nazionale si distingue essenzialmente dalla marxista in questo: essa riconosce il valore della razza e quindi anche persona, e ne fa uno dei pilastri della sua costruzione. (p.373)
Ne risulta il seguente quadro. Lo Stato nazionale non ha, a cominciare dal Comune fino alla direzione del Reich, corpi responsabili che decidono a maggioranza di voti; ha solo corpi consultivi, che assistono il Capo temporaneo eletto e ai quali il Capo ripartisce il lavoro. Questi corpi, secondo il bisogno, si assumono in determinati campi una responsabilità assoluta, quale possiede in maggior misura il Capo o il presidente di ciascuna corporazione. (p.374)

V – CONCEZIONE MONDIALE E ORGANIZZAZIONE p.375

E ciò fu naturale, giusto e logico. A eliminare uno Stato esistente non basta la semplice invocazione e descrizione di uno Stato futuro. Non c’è da sperare che i partigiani o gli interessati allo stato di cose esistente possano essere convertiti con la semplice constatazione di una necessità e guadagnati a una rivoluzione. (p.376)

Il programma è stato condensato in venticinque punti fondamentali…

Perciò il programma del nuovo movimento fu condensato in 25 proposizioni o punti fondamentali. Essi sono destinati anzitutto a dare all’uomo del popolo un’idea della volontà del movimento, di ciò che questo si propone. Sono, per così dire, una professione di fede politica, che fa propaganda per il movimento ed è atta a unire insieme gli adepti mediante comuni doveri riconosciuti. (p.379)
Chi dunque desidera realmente e con serietà il trionfo di una concezione nazionale, deve riconoscere che per ottenere questo trionfo occorre un movimento idoneo alla lotta, e che questo movimento terrà duro solo sulla base di un’incrollabile sicurezza e solidità del suo programma. (p.380)
Per condurre alla vittoria le idee nazionali, fu necessario creare un partito del popolo, un partito composto non solo di capi intellettuali ma anche di lavoratori. Ogni tentativo di realizzare l’idea nazionale senza una simile battagliera organizzazione sarebbe oggi, come fu in passato e sarà in futuro, destinato all’insuccesso. Il movimento ha non solo il diritto ma il dovere di sentirsi campione e rappresentante di quella idea. Come la idea fondamentale del movimento nazional-socialista è nazionale, così le idee nazionali sono nazional-socialiste.(p.381)

VI – LA LOTTA DEL PRIMO PERIODO. IMPORTANZA DEL DISCORSO p.382

Nel salone della Hofbrauhaus di Monaco le riunioni e i comizi si fanno settimanali e sempre più affollati…

Il primo grande raduno del 24 febbraio 1920 nel salone della Hofbrauhaus non aveva ancora spento in noi i suoi echi, e già cominciavamo i preparativi del successivo. Mentre prima appariva preoccupante i l tenere, in una città come Monaco, ogni mese o ogni quindici giorni, una piccola adunata, ora doveva svolgersi una grande assemblea di massa ogni settimana. Noi eravamo tormentati dalla paura: la gente sarebbe venuta?, ci avrebbe dato ascolto? Io personalmente, però, già allora avevo la salda convinzione che la gente, una volta venuta, si sarebbe fermata e avrebbe ascoltato il discorso.
All’epoca, il salone della Hofbrauhaus, a Monaco, per noi nazional-socialisti acquisì un’importanza quasi mistica. Ogni settimana un’adunata, quasi sempre in quel locale, e ogni volta la sala era più colma e il pubblico più attento. (p.382)
Io però vedevo allora con chiarezza che per il piccolo gruppo di cui dapprima si compose i l movimento doveva essere risolta e appurata la questione della colpa della guerra, appurata nel senso della verità storica. (p.383)

A poco a poco affina le doti oratorie…
Di grande successo la propaganda contro i trattati di Brest-Litovsk e di Versailles…

Ne è prova il successo della propaganda da me iniziata contro il trattato di Versailles, alla quale feci precedere una illustrazione del trattato di Brest-Litovsk. Confrontai fra loro i due trattati di pace, punto per punto, mostrai che l’uno era di una sconfinata umanità a fronte della inumana crudeltà dell’altro: l’effetto fu prodigioso. […]
Le due conferenze, su «Le vere cause della guerra mondiale» e sui «Trattati di pace di Brest-Litovsk e di Versailles», furono da me considerate, allora, le più importanti di tutte; quindi le ripetei, mutandone la forma, dozzine di volte. Così, almeno su questi punti, si diffuse una determinata concezione, chiara e unitaria, fra gli uomini da cui il nostro movimento trasse i suoi primi membri. Queste adunanze avevano inoltre il vantaggio di fare di me a poco a poco un oratore da comizio: mi abituai al patetismo da assemblea e ai gesti necessari nei grandi locali stipati di migliaia di persone. (p.386)
Anche il volantino fu posto da noi al servizio di questa propaganda. Già da militare avevo compilato un volantino dove erano contrapposti i trattati di Brest-Litovsk e di Versailles – quel volantino era stato diffuso in gran numero di esemplari. Più tardi me ne valsi per il partito, anche qui con buon successo. (p.387)

Lunga digressione sulla propaganda…

L’oratore riceve dalla stessa folla cui si rivolge una costante correzione della propria conferenza, in quanto dal viso degli ascoltatori può riconoscere se e quanti di essi seguano e condividano quanto egli dice, e se le sue parole facciano l’effetto e l’impressione desiderata. Viceversa, lo scrittore non conosce i suoi lettori, perciò egli non mira a priori a una determinata moltitudine umana situata davanti ai suoi occhi, e discorre in modo generico; con ciò perde, fino a un certo grado, la finezza psicologica e la duttilità. Per questo un brillante oratore sa scrivere meglio di quanto un brillante scrittore sappia parlare, a meno che lo scrittore si eserciti costantemente nell’oratoria. Si aggiunga che la massa in sé è pigra, resta attaccata alle vecchie abitudini e non pone mano volentieri, da sé, agli scritti, se questi non rispondono a ciò che essa crede e non contengono ciò che essa spera. Quindi, uno scritto di determinata tendenza è, perlopiù, letto solo da chi ha già simpatia per essa. Tutt’al più un volantino o un manifesto può, grazie alla sua brevità, sperare di trovare per un istante attenzione presso chi è di altro
parere.
Maggiori prospettive possiede l’immagine in tutte le sue forme, compreso il film. Qui c’è ancora meno bisogno di lavorare con l’intelletto: basta guardare, tutt’al più leggere brevi testi; perciò molti sono più disposti ad accogliere in sé un’esposizione fatta con l’immagine, che a leggere un lungo scritto. L’immagine apporta in breve tempo, e quasi di colpo, chiarimenti e nozioni che lo scritto permette di ricavare solo da una noiosa lettura. (p.388)
Non di rado si tratta di vincere, negli individui, prevenzioni non fondate sull’intelletto ma inconsce, appoggiate solo sul sentimento. L’abbattere questa barriera di istintiva avversione, di odio sentimentale, di dissenso preventivo, è mille volte più difficile che il rettificare un’opinione scientifica difettosa o errata. False idee e cattiva erudizione possono essere eliminate dall’insegnamento: le resistenze del sentimento, no. Solo un appello a queste stesse misteriose forze può qui giovare – e questo appello può farlo l’oratore, mai lo scrittore. (p.389)

Come esempio valga la propaganda marxista…

Ciò che guadagnò al marxismo milioni di lavoratori non è tanto lo stile dei padri della chiesa marxista, quanto l’instancabile e veramente formidabile lavoro di propaganda di decine di migliaia di instancabili agitatori, a cominciare dal grande apostolo aizzatore fino al piccolo funzionario di Sindacato, all’uomo di fiducia e all’oratore da comizio. Inoltre, le centinaia di migliaia di assemblee, dove questi oratori popolari, saliti sul tavolo di fumose osterie, martellarono le loro idee sulle masse, diedero loro una favolosa conoscenza del materiale umano, e così si trovarono in grado di scegliere le migliori armi per assaltare la rocca della pubblica opinione. E giovarono pure al socialismo le gigantesche manifestazioni di massa, quei cortei di centomila individui che infusero nel piccolo uomo miserabile la convinzione di essere sì un piccolo verme, ma in pari tempo il membro di un grosso drago, sotto il cui fiato ardente l’odiato mondo borghese potrebbe un giorno andare a fuoco e fiamme e la dittatura proletaria potrebbe celebrare la definitiva vittoria. (pp.390-391)
È difficile eliminare pregiudizi, stati d’animo, mentalità, e sostituirli con altri – il successo dipende da condizioni e influenze imponderabili. L’oratore di intuito sensibile può misurare tutto ciò da questo: perfino l’ora del giorno in cui la conferenza ha luogo, esercita un’influenza decisiva sul risultato della medesima. (p.391)
La mattina o durante la giornata, pare che le energie della volontà umana si ribellino con estrema forza a ogni tentativo di imposizione del volere o dell’opinione altrui: di sera invece soccombono con facilità al dominio di una volontà più forte. […]
Nella lotta fra l’oratore e l’avversario da convertire, l’oratore acquisterà per gradi quella mirabile sensibilità delle condizioni psicologiche della propaganda che quasi sempre mancano a chi scrive. Lo scritto, in generale, per il suo limitato effetto serve piuttosto a conservare, rafforzare e approfondire una mentalità già esistente, un’opinione già in atto. (p.392)
L’assemblea di massa è già necessaria per questo: in essa il singolo, che dapprima, essendo soltanto sulla via di diventare un seguace del giovane movimento, si sente isolato e colto dalla paura di essere solo, vede per la prima volta lo spettacolo di una grande comunità, e ne resta incoraggiato e rafforzato. Un uomo, inquadrato in una compagnia o in un battaglione, circondato dai suoi camerati, si slancerà più volentieri all’assalto, che se si trovasse solo. Nella moltitudine si sente alquanto protetto, quand’anche vi fossero mille argomenti per credere l’opposto.
Le manifestazioni di massa non solo rafforzano il singolo ma lo avvincono, e contribuiscono a creare lo spirito di corpo. (p.394)

VII – LA LOTTA CONTRO IL FRONTE ROSSO p.395

Battaglieri i comizi nazional-socialisti che, invano, i marxisti tentano di boicottare…

Io li ho conosciuti, i profeti della concezione mondiale borghese, e lungi dal meravigliarmi comprendo la ragione per cui essi non concedono nessun valore alla parola detta. Frequentai allora comizi di democratici, di nazional-tedeschi, di membri del partito popolare, e anche di appartenenti al Zentrum bavarese. Ciò che subito colpiva era l’omogeneità, la compattezza degli ascoltatori. A simili manifestazioni partecipavano quasi solo iscritti al partito. Non c’era disciplina, e in complesso somigliavano piuttosto a un club di giocatori di carte annoiati, invece che all’assemblea di un popolo il quale da poco aveva fatto la sua più grande rivoluzione. (p.395)
Le adunate nazional-socialiste, invece, non erano affatto “pacifiche”: là si urtavano le onde di due concezioni opposte, e le assemblee non si chiudevano col canto di un inno patriottico ma col fanatico scoppio di passione nazionale.
Fin dall’inizio fu necessario introdurre nelle nostre adunate una ferrea disciplina e assicurare l’autorità dei dirigenti delle assemblee. (p.396)
Dopo attenta e profonda riflessione, abbiamo scelto per i nostri manifesti il colore rosso per incitare al furore i partiti di sinistra, per indurre i loro seguaci a venire alle nostre adunate, magari solo con lo scopo di sabotarle: cosi ci procuravamo il modo di parlare con quella gente![…]
Le nostre adunate, già tre quarti d’ora prima dell’apertura, erano stipate di operai. Somigliavano a un barile di polvere che in qualunque momento potesse saltare in aria e che fosse già munito di una miccia accesa. Ma le cose andavano sempre in un altro modo. Gli operai entravano come nostri nemici e uscivano, se non ancora come nostri seguaci, almeno come critici e dubbiosi della giustezza della loro dottrina. Poco a poco avvenne che, quando io avevo parlato per tre ore, amici e avversari si fondevano in una sola massa entusiasta. E allora non c’era più possibilità di sabotaggio. […]
Del resto, questa ondeggiante tattica fu adottata anche dalla stampa rossa. Ora si fece su di noi il silenzio di tomba, ma subito ci si convinse dell’inutilità di questo tentativo e si ricorse al mezzo opposto. Ogni giorno fu fatta in qualche modo “menzione” di noi, perlopiù onde spiegare agli operai il ridicolo della nostra stessa esistenza. (p.397)
La gente diventò curiosa. Allora sventolarono il bandierone e ci denunziarono come delinquenti, nemici del genere umano. In numerosi articoli la nostra criminalità fu spiegata e sempre nuovamente dimostrata: si inventarono da cima a fondo storie scandalose contro di noi. […]
Dovemmo, a quell’epoca, occuparci noi stessi della protezione delle nostre adunate, perché non potevamo contare su quella delle autorità. Anzi, l’esperienza ci mostrò che la polizia era sempre dalla parte dei disturbatori. Tutt’al più, l’intervento della polizia si riduceva allo scioglimento dell’adunanza – e questo era l’unico scopo e l’intenzione degli avversari disturbatori. […]
Quando i nazional-socialisti vollero tenere comizi in certi luoghi, e i Sindacati dichiararono che i loro membri si sarebbero opposti, la polizia non prese per il collo quei furfanti e non li ficcò in carcere, ma proibì a noi i comizi. Sì, gli organi della legge ebbero perfino la spudoratezza di comunicarci il divieto, numerose volte, per iscritto. (p.398)
Più di una volta un manipolo di nostri compagni sostenne vittoriosamente l’assalto di una chiassosa e brutale preponderanza rossa. Certo, in questi casi i 15 o 16 nazional-socialisti avrebbero finito con l’essere sopraffatti; ma gli altri sapevano che, prima che questo capitasse, un numero doppio o triplo dei loro avrebbe avuto la testa rotta, e questo era un rischio che non correvano volentieri. (p.399)

Quanti di loro non finivano convertiti, si ritrovavano malmenati in strada…

Così fu una novità per i marxisti quando noi nazional-socialisti tenemmo le nostre prime adunate, soprattutto per il modo in cui le tenemmo. Essi vennero con la convinzione di poter ripetere il giochetto tante volte riuscito: «Oggi la facciamo finita!». Più di uno, entrando nei locali dei nostri comizi, gridò orgoglioso questa frase ai suoi compagni, per poi, ancor prima di arrivare alla seconda interruzione, trovarsi, con la rapidità del lampo, in mezzo alla strada!
Da noi, già la direzione dell’assemblea era tutta diversa. Non supplicavamo i presenti di avere la volontà di ascoltare la nostra conferenza, non assicuravamo a priori piena libertà di contraddittorio, ma stabilivamo senz’altro che padroni dell’assemblea eravamo noi, che quindi eravamo in casa nostra, e che chiunque avesse osato anche solo azzardare un’interruzione sarebbe stato ricacciato al posto donde era venuto! Aggiungevamo che per i disturbatori non assumevamo responsabilità; se fosse rimasto tempo e a noi fosse piaciuto, avremmo permesso una discussione, in caso diverso no. E
davamo la parola al compagno di partito Tal dei Tali. Gli avversari restavano stupiti già da questo.
Inoltre, disponevamo di “custodi della sala” rigidamente organizzati. (p.400)

A poco a poco il servizio d’ordine viene assicurato dalle SA, Squadre d’Assalto (ottobre 1921)…

Fin dal principio della nostra attività di conferenzieri, introdussi l’organizzazione di una guardia della sala in forma di un servizio d’ordine composto soprattutto di giovani. Erano in parte camerati a me noti fin dal servizio militare, in parte giovani compagni di partito di recente acquisizione, ai quali fin dai primi giorni veniva insegnato che il terrore si può spezzare solo col terrore, che in questo mondo il successo spetta a chi ha coraggio e decisione; che noi combattevamo per una formidabile idea, così grande e sublime da meritare di essere difesa e protetta con l’ultima goccia di sangue. E s’insegnava loro anche che, quando la ragione tace e la decisione suprema tocca alla violenza, la miglior difesa consiste nell’attacco; e che la nostra truppa d’ordine doveva essere preceduta dalla reputazione di formare non un club da dibattiti ma una battagliera comunità pronta a tutto.
Quella gioventù anelava a una simile parola d’ordine. La nostra generazione, che ha fatto la guerra, è delusa e indignata, piena di nausea e di orrore per l’ignavia borghese. E a molti fu chiaro che la rivoluzione era stata resa possibile soltanto dalla disastrosa direzione borghese del nostro popolo. (p.401)
E i giovani si offrivano per questo dovere: come uno sciame di calabroni, si scagliavano sui disturbatori delle nostre adunanze, senza curarsi della loro preponderanza, senza temere le piaghe né i sacrifici cruenti, tutti pervasi dalla volontà di spianare la via alla sacra missione del nostro movimento.
Già nell’estate 1920 la truppa del servizio d’ordine assunse per gradi una determinata forma, nella primavera 1921 si organizzò in centurie ripartite in gruppi. E ciò era di urgente necessità, perché la nostra attività di conferenzieri nel frattempo si era di molto accresciuta. Ci radunavamo spesso nel salone della Hofbrauhaus, a Monaco, e ancora più spesso nei vari locali della città. La sala della Bùrgerbrau e quella della Cantina Kindl videro, nell’autunno-inverno 1920-21, assemblee di massa sempre più imponenti, e lo spettacolo era sempre lo stesso: le manifestazioni del Partito nazional-socialista richiamavano tanta folla che perlopiù la polizia doveva impedire l’accesso a una parte degli accorsi, perché la sala era subito colma. (p.402)

Giunge il momento di scegliere simboli e bandiera…

L’organizzazione delle nostre truppe d’ordine richiese la soluzione di un problema assai importante. Fino ad allora, il movimento non possedeva distintivi né bandiere di partito. La mancanza di questi simboli era dannosa per il presente e intollerabile per l’avvenire. (p.402)
Fummo allora fortemente occupati dal problema della nuova bandiera, ossia del suo aspetto. […]
Dopo innumerevoli prove, disegnai la forma definitiva: una bandiera di panno rosso con un disco bianco, nel cui centro stava una croce uncinata nera. (p.404)
Mi furono proposti subito bracciali per le squadre del servizio d’ordine: una fascia rossa sulla quale si trovava pure i l disco bianco con la croce uncinata nera. E nello stesso senso fu abbozzato i l distintivo: un disco bianco in campo rosso, e nel mezzo la croce uncinata. Un orefice di Monaco, Fuss, fornì i l primo abbozzo utilizzabile, che fu adottato.
Nell’estate del 1920 si presentò per la prima volta la nuova bandiera al pubblico. Andava ottimamente per il nostro giovane movimento: era nuova e fresca come quello! Nessuno, prima, l’aveva vista, e fece l’effetto di una fiaccola accesa. Noi tutti provammo una gioia quasi infantile quando una fedele compagna di partito confezionò e consegnò la nuova bandiera. Già pochi mesi più tardi ne possedevamo a Monaco mezza dozzina, e le sempre più numerose truppe del servizio d’ordine contribuirono a diffondere il simbolo del movimento. (p.405)
In qualità di socialisti nazionali, noi riconosciamo nella bandiera il nostro programma. Nel rosso ravvisiamo l’idea sociale del movimento, nel bianco l’idea nazionalista, nella croce uncinata la missione di combattere per la vittoria dell’uomo ariano e per il trionfo dell’idea del lavoro creatore, che fu e sempre sarà antisemitico. (p.406)

Aumenta il numero dei comizi così come quello degli iscritti. Un successo quello tenuto al circo Krone…

L’attività comiziale, che nel 1920 si andò sempre più intensificando, fu tale che finimmo col tenere, talvolta, due comizi la settimana. (p.406)
Il pubblico di Monaco aveva imparato a conoscerci. Si parlava di noi, la parola nazional-socialista divenne familiare a molti e significò già un programma. Anche la schiera dei partigiani, anzi dei membri del partito, crebbe senza interruzione, cosicché già nell’inverno 1920-21 potemmo presentarci a Monaco come un partito forte.
Allora, eccettuato il marxista, non c’era nessun altro partito, soprattutto nessun partito nazionale, che potesse contare su manifestazioni di massa così imponenti come le nostre. La Cantina Kindl di Monaco, capace di contenere cinquemila persone, fu spesso stipata; c’era un solo locale al quale non avevamo ancora osato accostarci: il Circo Krone.
Alla fine di gennaio 1921 gravi preoccupazioni piombarono di nuovo sulla Germania. L’accordo di Parigi, col quale la Germania si impegnò a pagare la pazzesca somma di cento miliardi di marchi-oro, doveva diventare realtà attraverso il diktat di Londra. Una comunità di lavoro già da tempo attiva a Monaco col nome di “Leghe popolari” volle cogliere occasione da quell’accordo di Parigi per invitarci a una grande protesta comune. […]
Martedì 1° febbraio 1921 io pretesi una decisione definitiva. Mi fu promessa per mercoledì. Il mercoledì reclamai che mi fossero comunicati con certezza il giorno e l’ora dell’adunata: la risposta fu vaga ed evasiva, mi fu detto che si «aveva l’intenzione» di convocare la comunità operaia a una manifestazione per il mercoledì successivo. Perdetti la pazienza, e decisi di inscenare da solo la manifestazione di protesta. Il mercoledì, a mezzogiorno, dettai in dieci minuti a un dattilografo i l manifesto e feci affittare il Circo Krone per l’indomani, giovedì 3 febbraio. A i tempi, questa decisione era molto rischiosa: non solo perché era dubbio che si potesse riempire l’enorme locale, ma anche perché c’era il pericolo di essere sabotati. (p.407)
Nei quartieri della periferia si levarono innumerevoli pugni chiusi, i cui possessori erano visibilmente furibondi per la nuova «provocazione contro il proletariato» – perché solo il marxismo aveva diritto di tenere comizi, e così pure di girare la città su camion.[…]
Erano state distribuite 5.600 tessere; aggiungendo la schiera dei disoccupati, degli studenti poveri e delle nostre truppe del servizio d’ordine, si poteva calcolare che fossero presenti 6.500 persone. Il tema era così formulato: «Avvenire o tramonto», e il mio cuore giubilava all’idea che là sotto, davanti a me, c’era l’avvenire.
Cominciai a parlare e parlai per due ore e mezzo, e già dopo la prima mezz’ora sentivo che l’adunata sarebbe stata un grande successo. (p.408)
Di quella prima adunata nel Circo Krone furono scattate fotografie. Esse mostrano meglio delle parole l’imponenza della manifestazione. I giornali borghesi pubblicarono vignette e notizie, ma dissero solo che quella sera c’era stata una manifestazione «nazionale» omettendo di menzionare coloro che l’avevano organizzata. Con ciò ci differenziammo, per la prima volta, dai soliti partiti di allora: ormai non era più possibile ignorarci. Per non lasciar diffondere l’impressione che il successo di quella adunata fosse cosa effimera, indissi subito, per la settimana successiva, una seconda adunata nel Circo Krone, e il successo si rinnovò: di nuovo l’enorme locale fu colmo di spettatori. Allora decisi di tenere un terzo comizio la settimana dopo, e per la terza volta il gigantesco Circo fu pieno da cima a fondo.
Poiché l’anno 1921 era cominciato così bene, resi ancora più frequenti i comizi a Monaco. Ogni settimana tenni non più una sola ma due adunate di massa, e nel cuore dell’estate, e nel tardo autunno, perfino tre. Ormai ci radunavamo sempre nel Circo, e con nostra soddisfazione potevamo constatare che tutte le nostre serate ottenevano un uguale successo. Il risultato fu un sempre crescente afflusso di partigiani del movimento, e un forte aumento dei membri del partito. (p.409)

Iperbolico excursus…

Pochi giorni più tardi, si verificò “l’intervento” del proletariato. Un’adunata nel salone della Hofbrauhaus, a Monaco, in cui dovevo parlare io, fu scelta dai marxisti per la definitiva spiegazione. Il 4 novembre 1921, fra le 6 e le 7 di sera, ricevetti le prime notizie precise che l’adunata doveva essere sabotata a ogni costo, e che a tal fine gli avversari si proponevano di mandare al comizio grandi masse operaie appartenenti a certe fabbriche rosse. […]
Conseguenza di ciò fu il fatto che l’adunata fu protetta da scarse truppe del servizio d’ordine. Era presente solo una squadra, numericamente poco forte, di 46 uomini: l’apparecchio d’allarme, col quale si sarebbe potuto far affluire entro un’ora un ingente rinforzo, non era ancora a posto. […] (p.410)
Poi entrai nella sala e potei esaminare la situazione coi miei occhi. Gli avversari sedevano fitti e cercavano già di forarmi con gli sguardi. Innumerevoli facce piene di odio e di rabbia erano rivolte a me, mentre altri, facendo smorfie beffarde, lanciavano grida molto significative. Oggi la si sarebbe “fatta finita” con noi, ci si sarebbe tappata per sempre la bocca, dovevamo badare alle nostre budella: queste e simili frasi solcavano già l’aria. Sapevano di essere in prevalenza, e si comportavano di conseguenza.
Tuttavia, i l comizio potè essere aperto, e io mi predisposi a parlare. […]
Un paio di interruzioni rabbiose, poi, a un tratto, un uomo saltò su una sedia e urlò: «Libertà!». A quel segnale, i campioni della libertà cominciarono il loro lavoro. In pochi secondi il locale fu pieno di una moltitudine strepitante, sulla quale volavano, simili a Obici, innumerevoli boccali. Si udiva lo scricchiolìo delle sedie rotte, il fragore dei boccali infranti, le urla e le strida. Era uno spettacolo pazzesco. Io, fermo al mio posto, potei osservare che i miei giovani facevano il loro dovere senza risparmiarsi. Avrei voluto vedere, in circostanze simili, un’adunanza borghese! Il ballo era appena cominciato, e già le mie truppe d’assalto (così si chiamarono da quel giorno in poi) attaccavano il nemico. Come lupi, si scagliavano in gruppi di otto o dieci sui loro avversari, e poco a poco li scacciavano dalla sala. Già dopo soli cinque minuti non vidi nessuno di loro che non grondasse sangue. Appunto quel giorno imparai a conoscere molti amici: anzitutto il mio bravo Maurice, il mio attuale segretario privato Hess, e molti altri che, già gravemente feriti, tornavano sempre all’assalto finché poterono tenersi in piedi. Quel chiasso infernale durò venti minuti: poi gli avversari, in numero di settecento o ottocento, si trovarono in gran parte espulsi dalla sala o precipitati dalle scale dai miei uomini, che non erano nemmeno cinquanta. (pp.411-412)

VIII – IL FORTE È PIÙ POTENTE QUANDO È SOLO p.413

Associare il neonato movimento a una delle Leghe lo avrebbe solo indebolito…

Nel capitolo precedente ho fatto menzione di una “Comunità di lavoro delle Leghe tedesco-popolari”; vorrei qui trattare brevemente i l problema di queste “Comunità”. […]
È interessante, e credo importante per la miglior comprensione di questo problema, chiarire il modo in cui si perviene a formare Leghe, Unioni, ecc., le quali pretendono tutte di perseguire il medesimo scopo. Sarebbe logico che un solo scopo fosse perseguito da una sola Lega; sarebbe ragionevole che non si mettessero in molte Leghe a combattere per un medesimo scopo. (p.413)
E (supponendo una certa onestà che, come dimostrerò più tardi, ha molta importanza), per una sola mèta dovrebbe esservi un solo movimento. (p.414)
Se diversi gruppi marciano lungo strade divergenti verso la stessa mèta, essi, quando hanno notizia dell’esistenza di aspirazioni analoghe alle loro, debbono studiare a fondo le vie che battono, abbreviarle, e tendere tutte le loro energie per arrivare più presto allo scopo. (p.415)
C’è ancora una seconda ragione nel fatto che spesso, nella vita dei popoli, movimenti analoghi cercano di raggiungere per strade diverse uno scopo che all’apparenza è eguale. Questa causa non solo non è tragica ma è penosa. Consiste nella triste miscela di invidia, gelosia, ambizione e mentalità truffaldina che purtroppo si trova talvolta riunita in un solo individuo. […]
Allorché il nuovo movimento è fondato e si è creato un determinato programma, arrivano quei tali e sostengono di perseguire il medesimo scopo: non lo perseguono però inserendosi onestamente nelle fila di quel movimento e riconoscendone così la priorità, ma rubandone il programma e fondando, su questo, un partito nuovo.[…]
A questo procedimento si deve attribuire il cosiddetto “frazionamento nazionalista”. Certo, il formarsi di un’intera serie di gruppi e partiti che si definiscono “nazionali” fu, negli anni 1918 e 1919, voluta dai vari fondatori come risultato del naturale sviluppo delle cose. Rispetto a tutti questi partiti, il nazional-socialismo si era formato già nel 1920, si era consolidato, e poco a poco era riuscito vincitore. Ciascun fondatore avrebbe potuto dimostrare la sua buonafede prendendo la decisione di sacrificare il proprio movimento a quello più forte, sciogliendo il proprio partito e inserendolo nell’altro. (p.416)
Così fece il principale esponente del partito social-tedesco a Norimberga, Julius Streicher. Il suo partito e il nostro erano sorti coi medesimi scopi finali, sebbene in totale indipendenza l’uno dall’altro. Come ho detto, il principale esponente del Partito social-tedesco era Julius Streicher, allora insegnante a Norimberga. Anzitutto egli aveva la sacra convinzione della missione e dell’avvenire del suo movimento. Ma quando riconobbe in modo certo che il Partito nazional-socialista era più forte e più diffuso, non si occupò più del suo partito e invitò i suoi partigiani ad aggregarsi al Partito nazional-socialista e a combattere nelle file di questo per la causa comune. Decisione ardua e degna di un galantuomo. […]
A un tratto sorsero programmi copiati alla lettera dal nostro, furono propugnate idee sottratte a noi, segnate mète per le quali noi ci battevamo da anni, indicate vie già battute da noi. […]
Quando il tentativo fallì e le nuove imprese, a causa della scarsa abilità e del poco giudizio di chi le aveva lanciate, non ottennero lo scopo prefissato, calarono le pretese e furono felici di poter approdare a una delle cosiddette “Comunità di lavoro”. (p.417)

IX – IDEE FONDAMENTALI SUL REPARTO D’ASSALTO p.418

La classe peggiore della nazione, sopravvissuta alla guerra imboscandosi, predomina ora la nazione dopo aver provocato la rivoluzione…

La rivoluzione eliminò quest’ultima possibilità: non vi fu nemmeno più un’autorità tradizionale. Col crollo del vecchio Reich, con la soppressione della forma monarchica dello Stato, con la distruzione degli antichi segni di grandezza e dei simboli del Reich, la tradizione fu di colpo demolita. Ne fu conseguenza un grave indebolimento dell’autorità dello Stato. […]
Ogni corpo nazionale può essere diviso in tre grandi classi: da un lato, i migliori, nel senso della virtù, contraddistinti dal coraggio e dalla gioia del sacrificio; dall’altro lato i peggiori, dove sono presenti tutti i vizi e gli istinti egoistici; nel mezzo, forma la terza classe il grande ceto medio, che non incorpora né un radioso eroismo né una volgare criminalità. I tempi dell’avvento di un corpo nazionale sono caratterizzati, anzi esistono solo se domina in modo assoluto la classe dei migliori. I tempi di uno sviluppo normale, simmetrico, o quelli della stabilità, si caratterizzano e durano grazie alla dominazione degli elementi medi; in tal caso le due classi estreme si bilanciano a vicenda, ossia si elidono. I tempi del crollo di un corpo nazionale sono contraddistinti dal prevalere degli elementi peggiori. (p.419)
La guerra, nelle sue sanguinose vicissitudini di quattro anni e mezzo, ha disturbato l’equilibrio di queste tre classi, dato che – pur riconoscendo i sacrifici sostenuti dalla classe di mezzo – si deve ammettere che la guerra dissanguò quasi del tutto la classe estrema dei migliori. (p.420)
Inoltre, se per quattro anni e mezzo sui campi di battaglia la classe dei migliori fu diradata in misura eccezionale, la classe dei peggiori seppe invece conservarsi molto bene: per ogni eroe volontario che dopo il sacro sacrificio della vita salì al Walhalla, vi fu un imboscato che con molta prudenza voltò le spalle alla morte per rendersi più o meno utile in Patria. Così, alla fine della guerra si ebbe il seguente quadro: il vasto ceto medio della Nazione pagò il doveroso tributo di sangue; la classe estrema, quella dei migliori, con esemplare eroismo si sacrificò quasi tutta; la classe dei peggiori, favorita da assurde leggi e dal mancato impiego di certi articoli del regolamento di guerra, purtroppo si conservò quasi tutta. Questa ben conservata parte del nostro corpo nazionale fece la rivoluzione, e poté farla solo perché non aveva più di fronte la classe dei migliori, che non era più in vita. (p.421)
In Germania si aggiunse questo: la rivoluzione potè solo riuscire grazie alla graduale decomposizione dell’Esercito. Il vero autore della rivoluzione e della decomposizione dell’Esercito non fu il soldato al fronte, ma la canaglia, più o meno nell’ombra, che se ne stava nelle guarnigioni dell’interno e che, senza correre alcun rischio, potè voltare le spalle al fronte. Com’è naturale, il fannullone ha una paura matta della morte; al fronte, egli aveva quotidianamente davanti agli occhi la morte in mille forme diverse. Per tenere fermi al loro dovere uomini deboli, incerti o fannulloni, c’è e vi fu sempre un solo mezzo: far sapere al disertore che la diserzione gli costerà appunto quello che vuole evitare. Al fronte si può morire, ma come disertore si deve morire: solo questa draconiana minaccia contro ogni tentativo di disertare la bandiera può esercitare un effetto intimidatore non solo sul singolo ma sulla collettività. In ciò consisteva il senso e lo scopo delle “leggi di guerra”. (p.422-423)
Un Esercito di disertori si riversò, soprattutto nel 1918, nelle retrovie e in Patria, e contribuì a formare quella grande, delittuosa organizzazione che a un tratto, dopo il 7 novembre 1918, ci trovammo di fronte quale esecutrice della rivoluzione. (p.423)
Così, già nel dicembre 1918 e gennaio 1919, si formò la seguente situazione. Una minoranza di cattivi elementi ha fatto una rivoluzione, dietro la quale marciano subito tutti i partiti marxisti. La rivoluzione ha una impronta moderata, e ciò le attira l’ostilità dei fanatici estremisti. (p.425)
Così il nuovo Stato si sviluppò facendo il suo corso, come se non esistesse un’opposizione nazionale. Le sole organizzazioni che a quel tempo ebbero il coraggio e la forza di opporsi al marxismo e alle sue masse sobillate, furono i Freikorps, e più tardi le organizzazioni di difesa personale, e infine le “Leghe” tradizionali. (p.427)
Con la fondazione del nostro partito venne per la prima volta alla luce un movimento il cui scopo non era, come per i partiti borghesi, una meccanica restaurazione del passato, ma la sostituzione dell’attuale, assurdo meccanismo statale con un organico Stato nazionale.
Quindi, fin dal primo giorno il giovane movimento si pose di vista che la sua idea ha un valore spirituale ma, se è necessario, la sua difesa deve essere assicurata anche con la forza fisica. (p.428)

Per il movimento in espansione si fa presto necessaria la creazione di un corpo di difesa capace di opporsi ai marxisti. Nascono così le SA, Squadre d’Assalto…

L’incondizionata sottomissione dello Stato odierno al marxismo accresce per il movimento nazional-socialista il dovere di non perseguire con soli mezzi spirituali il successo della sua idea, ma di assumerne esso stesso la difesa di fronte al terrore dell’Internazionale ebbra di vittoria. Ho già raccontato come la vita pratica ci abbia indotti a forgiare poco a poco, nel nostro giovane movimento, squadre di protezione dei comizi, che per gradi acquisirono il carattere di una truppa d’ordine e mirarono a organizzarsi in una determinata forma; questa nuova formazione poteva avere una somiglianza esteriore con le cosiddette Leghe di difesa, ma non era, in realtà, paragonabile a esse. […]
Certo, in origine questa truppa d’ordine era destinata solo a proteggere le sale. Il suo primo compito fu limitato; essa doveva rendere possibile lo svolgimento dei comizi che, senza di lei, sarebbero stati impediti dall’avversario. Già allora era stata educata a assaltare ciecamente, ma non perché – come si cianciava negli stupidi circoli tedesco-popolari – venerasse il manganello quale supremo mezzo dialettico, bensì perché capiva che lo spirito più nobile non conta nulla se colui che lo porta viene colpito da uno sfollagente: e la storia insegna che non di rado uomini intelligentissimi perirono sotto i colpi di piccoli iloti. La nostra truppa non aveva come scopo la violenza, ma voleva difendere gli annunziatori della meta ideale dall’essere espulsi con la violenza. Comprese pure che non aveva il dovere di assumersi la difesa di uno Stato il quale non garantiva nessuna difesa alla Nazione; e assunse essa stessa la protezione del popolo tedesco contro coloro che volevano distruggere popolo e Stato.
Dopo il tempestoso comizio tenuto nel salone della Hofbrauhaus a Monaco, la truppa d’ordine, a eterno ricordo dell’eroico assalto sferrato là da pochi, ricevette i l nome di Reparto d’assalto. (pp.429-430)
Già per questo motivo il nostro Reparto d’assalto non doveva avere niente in comune con un’organizzazione militare. Esso era un mezzo di difesa e di istruzione del movimento nazional-socialista, e i suoi compiti si trovavano in tutt’altro campo rispetto a quello delle cosiddette Leghe di difesa. Esso però non doveva costituire un’organizzazione segreta. Le organizzazioni segrete possono solo avere uno scopo contrario alla legge, e ciò ne limita l’ampiezza. (p.433)
Non si può spianare la via al movimento col pugnale, col veleno, pistola, ma con la conquista della piazza. Dobbiamo insegnare al marxismo che l’attuale padrone della piazza è il nazionalsocialismo, e che esso un giorno sarà anche padrone dello Stato. (p.434)

Ecco la logica della loro organizzazione…

Ma se il Reparto d’assalto non doveva essere né una organizzazione militare di difesa né una Lega segreta, da ciò risultavano le conseguenze che ora enuncerò.
1) Essi devono essere istruiti non in un’ottica militare ma in quella dell’opportunità di partito. In quanto occorre dare ai membri dei Reparti una buona preparazione fisica, si deve attribuire il valore principale non agli esercizi militari ma all’attività sportiva. A me, la boxe e il ju-jitsu sono sempre apparsi più importanti di ogni allenamento a sparar bene, allenamento sempre cattivo perché impartito solo a metà. […]
2) Onde evitare a priori ogni carattere segreto dei Reparti d’assalto, a parte il fatto della loro uniforme nota a tutti, il grosso numero degli effettivi deve indicare loro la via che giova al movimento ed è conosciuta dal pubblico. I Reparti non devono tenere occulti conciliaboli, ma marciare all’aperto e svolgere così un’attività idonea a distruggere tutte le leggende di “organizzazione segreta”. (p.435)
3) La formazione organica dei Reparti d’assalto, la loro uniforme e il loro armamento non debbono rifarsi al modello del vecchio Esercito, ma seguire opportunità determinate dal loro compito.
Queste vedute, che mi guidarono negli anni 1920 e 1921 e che tentai per gradi di infondere al giovane organismo, ebbero il risultato che noi già nell’estate 1922 disponevamo di un buon numero di centurie, che nel tardo autunno 1922 indossarono poco a poco la loro particolare divisa caratteristica. (p.436)
Il profitto maggiore lo trassero i Reparti stessi: crebbero in fretta di numero, cosicché al Congresso del partito del gennaio 1923 già seimila uomini poterono prender parte alla consacrazione delle bandiere, e le prime centurie comparvero indossando la loro nuova uniforme. (p.439)
Nella primavera e nell’estate del 1923 furono trasformati in una organizzazione militare di combattimento. (p.440)

X – IL FEDERALISMO COME MASCHERA p.440

Pilotato dagli ebrei è lo scontro tra Baviera e Prussia e tra protestanti e cattolici. Ne approfittano per corrompere la razza…

Nell’inverno 1919, e ancor più nella primavera e nell’estate del 1920, il giovane partito si trovò costretto a prendere posizione di fronte a un problema che già durante la guerra aveva assunto un’importanza straordinaria. (p.440)
Lottassero pure la Baviera contro la Prussia e la Prussia contro la Baviera: quanto più aspra si faceva la lotta, tanto meglio era! Il violento conflitto fra quei due Paesi assicurava all’ebreo la pace. Così l’attenzione del popolo fu distolta dal verminaio intemazionale, che fu dimenticato. (p.441)
Già a quel tempo cominciò la mia lotta personale contro il pazzesco incitamento delle stirpi tedesche a una lotta fratricida. Credo di non essermi mai, in vita mia, assunto un’impresa più impopolare della resistenza che allora opposi all’insurrezione contro la Prussia. (p.442)
Ciò che allora rendeva pericolosa la situazione era l’abilità con cui si sapevano velare le vere tendenze, facendo apparire le intenzioni federaliste come il solo motivo di quell’agitazione. Certo, è evidente che l’incitamento all’odio contro la Prussia non ha nulla a che fare col federalismo, ed è ben strana una “attività federalista” che tenta di dissolvere o smembrare un altro Stato federale. (p.443)
Adesso l’ebreo riuscì a scagliare l’una contro l’altra le due confessioni tedesche, mentre le basi di entrambe sono minate e distrutte dal veleno del giudaismo internazionale.
Si pensi alle devastazioni che l’imbastardimento giudaico provoca ogni giorno al nostro popolo, e si rifletta sul fatto che questa intossicazione del sangue potrà solo dopo secoli, e forse mai, essere eliminata dal corpo della nostra Nazione. Si consideri pure quanto questa decomposizione della razza abbassi gli ultimi valori ariani del nostro popolo tedesco, e spesso li distrugga, cosicché la nostra forza di Nazione portatrice di civiltà va sempre retrocedendo, e noi coniamo il pericolo di arrivare, almeno nelle nostre grandi
città, al punto in cui già oggi si trova l’Italia meridionale.
Questo avvelenamento del nostro sangue, di cui non si rendono conto centinaia di migliaia di Tedeschi, è oggi procurato sistematicamente dall’ebreo. Sistematicamente queste sanguisughe del popolo corrompono le nostre giovani bionde, inesperte fanciulle, rovinando così ciò che è insostituibile: la purezza. Entrambe, sì, entrambe le confessioni cristiane assistono indifferenti a questa profanazione e distruzione di una creatura nobile, unica, donata alla Terra dalla grazia divina. Ma per l’avvenire del mondo non importa che i cattolici prevalgano sui protestanti o i protestanti sui cattolici: importa che l’uomo ariano si conservi o perisca. Eppure, oggi, le due confessioni non combattono contro il distruttore dell’uomo ariano, ma cercano di distruggersi a vicenda. (p.447)
Non esito a dichiarare che in coloro i quali oggi trascinano il movimento nazionale nella crisi di dissensi religiosi, io vedo uomini della nostra Nazione peggiori dei comunisti internazionali. Perché a convertire costoro è chiamato il movimento nazional-socialista; ma chi, provenendo dalle fila di questo movimento, lo allontana dalla sua vera missione, agisce nel modo più riprovevole: egli – non importa ne se sia consapevole o meno – combatte per gli interessi ebraici. Perché è interesse dell’ebreo far sì che il movimento nazionale si dissangui in una lotta religiosa nel momento in cui comincia a diventare un pericolo per gli ebrei. […]
Fino all’autunno 1923, riuscimmo in realtà a allontanarli. Nelle nostre fila, il protestante più credente poteva restare accanto al più credente cattolico senza che dovesse mai trovarsi in conflitto con le sue credenze religiose. La formidabile lotta che i due conducevano in comune contro il distruttore dell’umanità ariana aveva insegnato loro a stimarsi e sostenersi a vicenda. (p.448)
Mentre noi ci logoravamo in guerre di religione, gli altri si spartivano il mondo. E mentre il movimento nazionale pondera se il pericolo ultramontano sia più grave del giudaico o viceversa, l’ebreo distrugge le basi etniche della nostra esistenza e con ciò annienta per sempre il nostro popolo. (p.449)

Passa poi ad enunciare la propria posizione nei riguardi della questione federalismo-unitarismo…

La lotta tra federalismo e unitarismo, alimentata con tanta scaltrezza dagli ebrei negli anni 1919-20-21, costrinse il nazional-socialismo, che ripudiava quella lotta, a prendere posizione sulle questioni essenziali: la Germania deve essere uno Stato federale o uno Stato unitario?(p.449)
Che cos’è uno Stato federale? Per noi, è una lega di Stati sovrani i quali con libera volontà, in forza della loro sovranità, si aggregano insieme, e cedono alla collettività quella parte dei loro diritti sovrani necessaria a rendere possibile e a garantire l’esistenza della lega comune. Ma nella pratica questa formula teorica non si adatta in modo assoluto a nessuno degli Stati federali della Terra. […]
Neppure alla Germania si adatta con pienezza la formula di cui sopra. Senza dubbio, in Germania nacquero dapprima i singoli Stati, quindi essi formarono il Reich. Ma la fondazione del Reich non avvenne sulla base della libera volontà e dell’uguale concorso dei singoli Stati, bensì in conseguenza dello sviluppo dell’egemonia di uno di tali Stati, la Prussia. […]
Non è il caso di stabilire qui il divenire storico di questi singoli Stati; si deve però constatare che quasi mai i loro confini territoriali coincisero con quelli della stirpe che li abitava. Essi sono fenomeni puramente politici, e hanno radice nei peggiori tempi dell’impotenza dell’Impero tedesco e del frazionamento della nostra Patria tedesca che fu causa e effetto di quella impotenza. (p.450)
La diminuita simpatia per l’idea del Reich non è dovuta alle perdita dei diritti di sovranità sofferta dagli Stati: è il risultato del modo pietoso in cui oggi il popolo tedesco è rappresentato dal suo Stato. (p.452)
La principale e caratteristica differenza tra la odierna politica del Reich e quella di un tempo consiste in questo: il vecchio Reich dava all’interno libertà e verso l’estero dava prova di forza, mentre la repubblica si mostra debole con gli stranieri e all’interno opprime i cittadini. In entrambi i casi una cosa determina l’altra: il forte Stato nazionale all’interno ha minor bisogno di leggi, perché i suoi cittadini gli portano affetto e attaccamento maggiori; lo Stato schiavo dell’estero solo con la violenza può costringere i cittadini a prestare i servigi comandati. Perché una delle più svergognate sfacciataggini del regime attuale è quella di parlare di “liberi cittadini”. (p.453)

XI – PROPOGANDA E ORGANIZZAZIONE p.457

Da responsabile della propaganda, Hitler si trova in breve capo assoluto della NSDAP…

L’anno 1921 fu, per molti aspetti, particolarmente importante sia per me che per il movimento.
Quando entrai nel Partito operaio tedesco, assunsi subito la direzione della propaganda. (p.457)

Lungo excursus sulla propaganda…

Nei primi tempi della mia attività nel movimento mi dedicai, come dissi, alla propaganda. Era mio scopo impregnare, poco a poco, della nuova dottrina un piccolo nucleo di uomini, onde approntare il materiale che più tardi potesse offrire i primi elementi di una organizzazione. Lo scopo della propaganda andava molto al di là di quello dell’organizzazione.
Quando un movimento si propone di disfare un mondo e di crearne in sua vece uno nuovo, i suoi dirigenti debbono avere perfetta conoscenza di queste leggi fondamentali: ogni movimento deve vagliare il materiale lui raccolto e spartirlo in due grandi gruppi, partigiani e membri effettivi. È compito della propaganda arruolare partigiani; è compito della organizzazione acquisire membri. È partigiano di un movimento chi dichiara di accettarne gli scopi; è membro chi si batte per essi. Il partigiano è reso favorevole al movimento dalla propaganda; il membro è spinto dall’organizzazione a adoperarsi a sua volta per acquisire nuovi partigiani, i quali potranno poi diventare membri. Poiché l’essere partigiani di un’idea solo un riconoscimento passivo di essa mentre la qualità di membri richiede una difesa attiva dell’idea stessa, su dieci partigiani solo uno, o tutt’al più due, sono idonei a operare quali membri. (p.458)
Quindi la propaganda deve, senza stancarsi, curare che un’idea acquisisca aderenti, mentre l’organizzazione deve diligentemente impegnarsi a forgiare dei membri coi più meritevoli fra i partigiani. […]
La propaganda cerca di imporre una dottrina al popolo intero; l’organizzazione comprende nei suoi quadri solo coloro i quali non minacciano di essere, per motivi psicologici, ostacolo all’ulteriore diffusione dell’idea. La propaganda lavora la collettività nel senso di un’idea, e la rende matura per il tempo del trionfo di quella idea; l’organizzazione procura la vittoria aggregando, in modo costante, organico, e con riguardo alla capacità di battersi, quei partigiani i quali appaiono disposti a combattere per la vittoria. […]
Il primo compito della propaganda è quello di acquisire uomini per la ulteriore organizzazione; il primo compito dell’organizzazione è quello di acquisire uomini per lo sviluppo della propaganda. Il secondo compito della propaganda è quello di decomporre lo stato di cose esistente della nuova dottrina, mentre il secondo compito dell’organizzata per il potere, onde assicurare, con il potere, il definitivo trionfo della dottrina. (p.459)

La propaganda deve diffondere l’ideologia del movimento…

In altre parole: in ogni movimento grande la propaganda deve anzitutto diffondere la idealità del movimento. (p.459)
Poiché la diffusione di una dottrina deve possedere una spina dorsale, la dottrina deve darsi una salda organizzazione. L’organizzazione trae i suoi membri dalla massa degli aderenti guadagnati con la propaganda. Questa massa cresce tanto più rapidamente quanto maggiore è l’intensità con cui la propaganda viene svolta; e la propaganda può tanto meglio lavorare quanto più è forte e potente l’organizzazione che ha dietro di sé.
Quindi, i l supremo compito dell’organizzazione è quello di vegliare perché eventuali discordie fra i membri del movimento non conducano a una scissione e non indeboliscano i l lavoro, e perché lo spirito offensivo non si spenga, anzi si rinnovi e si rafforzi costantemente. Non è necessario che il numero dei membri aumenti all’infinito; al contrario! Dato che solo una frazione dell’umanità è energica e audace, un movimento che accrescesse all’infinito la propria organizzazione dovrebbe per forza restarne, un giorno, indebolito. […]
In qualità di direttore della propaganda del partito mi sono sforzato di preparare il terreno per la ulteriore grandezza del movimento e a curare che l’organizzazione contenesse solo materiale ottimo. Quanto più radicale e sferzante era la mia propaganda, tanto più intimidiva e teneva lontani i deboli e gli esitanti, e impediva loro di penetrare nel nucleo originario della nostra organizzazione. Costoro restarono aderenti, ma senza una forte accentuazione: anzi, tacevano con angoscia il fatto di essere aderenti. […]
La forma vivace e oltranzista che io diedi allora alla nostra propaganda rassodò e garantì la tendenza radicale del nostro movimento, poiché ormai, salvo poche eccezioni, solo uomini di idee radicali furono disposti a diventarne membri. La nostra propaganda fece sì che in breve tempo centinaia di migliaia di cittadini ci dessero ragione in cuor loro e si augurassero la nostra vittoria, sebbene fossero troppo pigri per sacrificarsi per il nostro movimento.
Fino alla metà del 1921 questa semplice attività di arruolatori potè bastarci e giovare al movimento. Ma certi avvenimenti dell’estate di quell’anno fecero apparire utile adeguare la organizzazione al lento e vistoso successo della propaganda. Il tentativo di un gruppo di fantasiosi “nazionalisti”, appoggiato dall’allora presidente del partito, di conquistare la direzione di esso, finì con il crollo di quei piccoli intrighi; in un’adunata generale dei membri fu affidata a me la direzione generale del movimento, all’unanimità dei voti! Al tempo stesso fu approvato un nuovo statuto, che trasferì la piena responsabilità al primo presidente del movimento, soppresse in linea di massima le risoluzioni delle commissioni introducendo, al posto di queste, un sistema di distribuzione del lavoro che da allora si dimostrò ottimo e proficuo. A partire dal primo agosto 1921 intrapresi questa riorganizzazione interna del partito, trovando in ciò l’appoggio di un gruppo di uomini insigni. (pp.461-462)

Da leader (29 luglio 1921) elimina subito l’inutile Comitato, Parlamento in miniatura…

Negli anni 1919 e 1920 il movimento era diretto da un Comitato, eletto da assemblee di membri prescritte dalla legge; il Comitato era formato da un primo e da un secondo cassiere, da un primo e da un secondo segretario, e aveva alla testa un primo e un secondo presidente; si aggiungevano un rappresentante dei membri, il capo della propaganda e diversi assessori. La cosa può sembrare comica, ma questo Comitato personificava appunto ciò che il movimento voleva combattere con maggior energia: il parlamentarismo. […]
Le sedute del Comitato, delle quali veniva compilato un verbale, e in cui si decideva a maggioranza di voti, in realtà costituivano un parlamento in scala ridotta. (p.462)
Non mi adattai a questa follia, e dopo breve tempo non partecipai più alle sedute; non feci altro che la mia propaganda, e non ammisi che il primo venuto si immischiasse in questa mia attività – e, viceversa, mi astenni dall’immischiarmi nelle faccende degli altri.
Quando l’approvazione del nuovo Statuto e la mia nomina alla carica di primo presidente mi diedero autorità e diritto sufficienti, misi subito fine a quella assurdità. Al posto delle decisioni di commissioni, fu introdotto il principio della totale responsabilità individuale. Il primo presidente risponde della complessiva direzione del movimento, e ripartisce il lavoro fra i subalterni membri delle commissioni e gli eventuali collaboratori necessari.[…]
Un movimento il quale, in tempi in cui la maggioranza domina si pone sul terreno dell’idea di un solo Capo e della responsabilità personale, un giorno vincerà, con matematica certezza, il regime esistente e celebrerà il proprio trionfo. Questa idea rese necessaria una completa riorganizzazione interna del movimento; e anche, nel suo logico sviluppo, una netta separazione tra la parte economica del movimento e la direzione politica generale. Il principio della responsabilità fu esteso a tutta l’amministrazione del partito, ne operò il risanamento liberandola da influenze politiche, e la collocò sul terreno puramente economico. (p.463)
Quando, nell’autunno 1921, fu fondato il partito, che contava allora 6 soli membri, esso non possedeva né una sede, né impiegati, né formulari, né sigilli, né stampati. Il Comitato teneva le sedute dapprima in una trattoria della Herrengasse e poi in un caffè del Gasteig. Questa situazione era intollerabile. Mi diedi da fare e visitai numerosi ristoranti e alberghi di Monaco, proponendomi di prendere in affitto un locale per il partito. Nella Sterneckerbrau si trovava un piccolo locale a volta, che un tempo era servito di bettola ai consiglieri di Stato della Baviera. […]

Viene acquistato un giornale, il Volkischer Beobachter…

Dopo un anno e mezzo, la sede era diventata troppo piccola, e ci trasferimmo in un nuovo locale, nella Comeliusstrasse. Anche stavolta prendemmo dimora in un ristorante, ma al posto di una sola stanza ne avevamo tre, e inoltre un vasto locale dotato di sportelli – allora, questo ci parve una gran cosa, e restammo là fino al novembre 1923.
Nel dicembre del 1920 segui l’acquisto del “Vòlkischer Beobachter”. Questo giornale, che in conformità col suo nome propugnava la causa nazionale, doveva ora diventare l’organo del nostro partito. Dapprima usciva due volte la settimana; all’inizio del 1923 divenne quotidiano, e alla fine di agosto 1923 assunse il suo noto grande formato. (pp.464-465)
Così, e nonostante la durezza dei tempi, il movimento rimase, eccettuati alcuni piccoli conti, privo di debiti, anzi riuscì ad accrescere il suo valore economico. (p.466)

Dopo il putsch il partito è sciolto e i suoi beni confiscati…

Il successo di questo modo di procedere si manifestò il 9 novembre 1923. Quando io, quattro anni prima, mi ero aggregato al movimento, non esisteva nemmeno un sigillo. Il 9 novembre 1923, ebbe luogo lo scioglimento del partito e la confisca del suo patrimonio: questo, inclusi gli oggetti di valore e il giornale, ammontava già a oltre centosettantamila marchi oro. (p.467)

XII – IL PROBLEMA SINDACALE p.467

Bisognava rispondere a queste domande: 1) Sono necessari i Sindacati? 2) Il Partito nazional-socialista deve operare esso stesso su base sindacale, o condurre, in qualche forma, i suoi membri a una attività sindacale? 3)Di quale genere deve essere un Sindacato nazional-socialista? Qussli sono i nostri compiti e le loro mete? 4) Come possiamo arrivare a tali Sindacati?
Credo di avere già abbastanza risposto alla prima domanda. Sono convinto che, allo stato attuale dei fatti, non si può fare a meno dei Sindacati. Al contrario: essi sono fra le istituzioni più importanti della vita economica della Nazione. Essi hanno importanza non solo nel campo della politica sociale ma, assai di più, nel campo della politica nazionale. Perché un popolo, le cui larghe masse vedano soddisfatti i loro bisogni vitali da un giusto movimento sindacale e ricevano da questo una educazione, otterrà un grosso rafforzamento della sua forza di resistenza nella lotta per la vita. (p.469)
Anche alla seconda domanda è facile rispondere. Se il movimento sindacale è importante, è evidente che il nazional-socialismo deve prendere posizione di fronte a esso non solo in teoria ma anche in pratica.[…]
Quindi, il movimento deve prendere posizione favorevole di fronte all’idea sindacale; e all’enorme numero dei membri e aderenti ai Sindacati deve impartire, nell’attività pratica, una educazione degna del futuro Stato nazional-socialista.
Da quanto fin qui detto consegue la risposta alla terza domanda. Il Sindacato nazional-socialista non è un organo della lotta di classe, ma un organo della rappresentanza professionale. Lo Stato nazional-socialista non conosce classi nel senso marxista: sotto l’aspetto politico conosce solo cittadini con diritti e doveri generali uguali; accanto a questi conosce appartenenti allo Stato privi di qualsiasi diritto politico.[…]
Il lavoratore nazional-socialista deve sapere che il fiorire dell’economia nazionale significa la sua personale fortuna. Il datore di lavoro nazional-socialista deve sapere che la contentezza e il benessere dei suoi operai sono la condizione preliminare dell’esistenza e dello Sviluppo della grandezza economica. Il lavoratore e il datore di lavoro nazional-socialisti sono incaricati e procuratori della complessiva economia nazionale. (p.471)
Quindi, per il Sindacato nazional-socialista lo sciopero è un mezzo che può e deve essere impiegato solo fin quando non esiste uno Stato nazionale. Questo Stato, al posto della lotta di classe fra i due grandi gruppi (datori di lavoro e lavoratori) assumerà e avocherà a sé la cura e la protezione dei diritti di tutti. (p.472)
È cosa assurda un Sindacato nazional-socialista accanto ad altri Sindacati. […]
Per giungere a un simile risultato c’erano due sole vie: 1) si poteva fondare un Sindacato proprio, e condurre per gradi la lotta contro i sindacati marxisti internazionali; oppure: 2) infiltrarsi nei Sindacati marxisti e cercare di riempirli dello spirito nuovo, trasformandoli in strumenti del nuovo mondo di idee. (p.473)
Il nostro Sindacato deve muovere guerra al marxista non solo quale organizzazione ma anche quale idea. Deve colpire in questo l’annunziatore dell’idea di classe e della lotta di classe, e farsi, in luogo di esso, campione degli interessi professionali dei cittadini tedeschi. Queste ragioni parlavano e parlano contro la fondazione di Sindacati nostri: a meno che comparisse all’improvviso una testa chiamata in modo evidente dal Destino
a risolvere questo problema.
C’erano due altre sole possibilità: o raccomandare ai nostri partigiani di uscire dai Sindacati, oppure farveli restare per compiervi opera distruttiva. In generale, ho raccomandato questa seconda via.(p.475)

XIII – POLITICA FEDERALE TEDESCA DOPO LA GUERRA p.475

Critica la politica estera tedesca…

La direzione della politica estera del Reich non seppe sviluppare direttive di fondo per un’opportuna politica federale. Questa incapacità non solo sussistette, ma si aggravò dopo la rivoluzione. (p.475)
Si può dunque comprendere come, partendo da questi punti di vista, nei primi tempi del giovane movimento i problemi di politica estera avessero per noi minor valore delle nostre vedute di riforma interna. Ma quando la cornice della piccola, insignificante associazione fu allargata, e essa assunse l’importanza di una grande Lega, diventò necessario prendere posizione di fronte ai problemi di politica estera. Bisognò porre direttive che non solo non contrastassero con le vedute fondamentali della nostra concezione del mondo, ma ne costituissero lo sbocco naturale.
Dalla carente educazione del nostro popolo in politica estera risulta, per il giovane movimento, il dovere di infondere nei singoli dirigenti e nelle larghe masse le grandi linee di una forma di pensiero in politica estera che permetta un giorno di realizzare un lavoro di recupero della libertà tedesca e della reale sovranità del Reich. Nel trattare questo problema, dobbiamo sempre essere guidati dal principio che anche la politica estera è solo un mezzo per raggiungere il fine – il fine della crescita della nostra Nazione. Ogni considerazione di politica estera deve partire da questo punto di vista: «Giova questo al nostro popolo oggi o in futuro, o gli recherà danno?» – questa è l’unica opinione preconcetta che può valere nella trattazione di questo problema. Si deve ripudiare in modo assoluto ogni altro punto di vista, politico, religioso, umano. (p.477)

Con le armi vanno recuperati i territori perduti…

Dunque, premessa del recupero di tenitori perduti è l’intensivo sviluppo e rafforzamento dello Stato residuo, e l’incrollabile decisione di dedicare la nuova forza così forgiata, a suo tempo, alla liberazione e all’unificazione della collettività nazionale. (p.478)
Mediocre fu la nostra politica estera dell’anteguerra. Invece di crearsi un sano terreno politico europeo, si pose mano a una politica coloniale e commerciale: cosa tanto più errata, in quanto si credette di potere con essa sottrarsi a un confronto armato. Il risultato di questo tentativo di andar d’accordo con tutti fu quello di non avere amici: la guerra mondiale costituì solo l’ultima quietanza presentata al Reich dall’erronea politica estera del Reich stesso.
Si sarebbe dovuto seguire tutt’altra via: rafforzare la potenza continentale conquistando nuovo terreno in Europa; ciò che avrebbe reso possibile completare, più tardi, il territorio nazionale con l’acquisizione di colonie. (p.478)

Unici possibili alleati Inghilterra e Italia…

Chi, partendo da queste considerazioni, si metta a esaminare le possibilità, per la Germania, di trovare alleati, deve convincersi che non resta altro che appoggiarsi all’Inghilterra. Le conseguenze della politica inglese di guerra furono e sono terribili per la Germania, tuttavia è impossibile non vedere che oggi l’Inghilterra non ha più interesse all’annientamento della Germania: anzi, la politica inglese dovrà tendere sempre più, di anno in anno, a frenare l’immensa volontà francese di egemonia. (pp.482-483)
Perché si ne capire che l’implacabile nemico mortale della Nazione tedesca è e rimane la Francia. Poco importa chi governi in Francia, Borboni o Giacobini, Napoleonici o borghesi democratici, repubblicani clericali o bolscevichi rossi: la loro attività in politica estera tenderà sempre a impossessarsi del confine del Reno, e a assicurare alla Francia questo fiume mediante lo smembramento della Germania. (p.483)
Se ci poniamo in questa ottica e, guardandoci attorno, cerchiamo alleati in Europa, ci restano due soli stati: l’Inghilterra e l’Italia. […]
Se si riflette freddamente e senza prevenzioni, si trova che oggi i due Stati, l’Inghilterra e l’Italia, sono quelli i cui naturali interessi non sono sostanzialmente opposti alle condizioni di esistenza del popolo tedesco, anzi, in una certa-misura si identificano, con esse. (p.484)

È l’ebreo a volere la distruzione della Germania…

L’internazionalizzazione delle nostre economie tedesche, ossia il passaggio della forza-lavoro tedesca al servizio della finanza mondiale ebraica, può realizzarsi solo in uno Stato bolscevizzato. Ma la truppa di combattimento marxista del capitale borsistico internazionale ebraico non può spezzare per sempre la spina dorsale allo Stato nazionale tedesco senza l’aiuto dall’estero. Perciò gli eserciti della Francia devono aggredire lo Stato tedesco finché il Reich, diventato marcio, soccomba alle truppe d’assalto bolsceviche della finanza ebraica internazionale.
Così oggi l’ebreo è il grande incitatore alla totale distruzione della Germania. Dovunque si scrivano attacchi contro la Germania, ne sono autori gli ebrei. Allo stesso modo, in tempo di pace e durante la guerra la stampa ebraica, borsista e marxista, attizzava sistematicamente l’odio contro la Germania, finché uno Stato dopo l’altro rinunziò alla neutralità e, contro i veri interessi dei popoli, entrò al servizio della coalizione mondiale. Il pensiero del giudaismo è chiaro: la bolscevizzazione della Germania, ossia la soppressione dell’intellighenzia nazionale tedesca e lo sfruttamento, che ne sarebbe la conseguenza, della forza-lavoro tedesca da parte della finanza mondiale ebraica, è considerata come il semplice preludio della diffusione della tendenza ebraica alla conquista del mondo. Come spesso avviene nella storia, la Germania è i l perno, i l centro della formidabile lotta. Se il nostro popolo e il nostro Stato restano vittime di quei tiranni dei popoli, avidi di sangue e di denaro, la Terra intera cade fra i tentacoli di quei polipi. Se la Germania si scioglie da questo avvinghiamento, una grande minaccia per i popoli sarà eliminata nel mondo intero.
Certo è dunque che il giudaismo si metterà all’opera con tutto il furore per mantenere l’ostilità delle Nazioni contro la Germania e, se possibile, per intensificarla; ed è pure certo che questa attività coincide solo in parte coi reali interessi dei popoli intossicati. (p.487)
Solo in Francia sussiste oggi più che mai una profonda concordanza fra le vedute della Borsa e degli ebrei della Borsa, e quelle di una politica nazionale di mentalità sciovinista. Ma appunto in questa identità è riposto un immenso pericolo per la Germania. Appunto per questo motivo la Francia è e rimane il nemico di gran lunga più pericoloso. Il popolo francese, che si va sempre più “negrizzando”, essendosi associato agli scopi della dominazione mondiale ebraica, comporta un costante pericolo per l’esistenza della razza bianca europea. Perché l’avvelenamento, compiuto con sangue negsulle rive del Reno, nel cuore dell’Europa, è conforme tanto alla sadica e perversa avidità di vendetta di questo nemico ereditario del nostro popolo, quanto alla fredda volontà dell’ebreo di avviare per tale via l’imbastardimento del continente europeo nel suo punto centrale, e di rapire alla razza bianca le fondamenta della sua esistenza infettandole con un’umanità inferiore.
Ciò che la Francia, spronata dalla propria sete di vendetta e diretta dagli ebrei, compie oggi in Europa, è un sacrilegio contro l’esistenza della razza bianca, e aizzerà un giorno contro questo popolo le vendette di unzione che nella profanazione di una razza avrà riconosciuto il peccato originale dell’umanità. Ma per la Germania il pericolo francese significa l’obbligo di posporre ogni sentimento e tendere la mano a chi, minacciato come noi, non vuole tollerare né sopportare l’egemonia francese. In lungo tempo, vi saranno per la Germania due soli alleati possibili: l’Inghilterra e l’Italia. (pp.487-488)

Ma chi oggi crede di poter risolvere il problema del Tirolo meridionale con proteste, dichiarazioni, cortei ecc., o è un disonesto o è un piccolo-borghese tedesco. È necessario rendersi ben conto dì questo: i territori perduti non saranno recuperati con solenni invocazioni al buon Dio o con pie speranze nella Società delle Nazioni, ma solo con la forza delle armi. Resta quindi da domandarsi chi sia disposto a ottenere con la forza delle armi la riconquista dei territori perduti. (p.489)
Noi siamo sempre guidati dall’opinione fondamentale che il recupero di territori perduti da uno Stato dipende anzitutto dal recupero dell’indipendenza politica e della potenza della Patria. Assicurare questo recupero e renderlo possibile con una saggia politica di alleanze è il primo compito di un forte governo tedesco. Ma appunto noi nazional-socialisti dobbiamo guardarci dal cadere nella trappola tesa dai nostri patrioti parolai, guidati dagli ebrei. Guai, se anche il nostro movimento, invece di intraprendere il combattimento, si esercitasse nel protestare! […]
È necessario che mi occupi qui brevemente delle obiezioni relative alle tre domande che ho posto: primo, se convenga ad altri allearsi alla Germania di oggi, la cui debolezza è visibile a tutti; secondo, se le Nazioni già nemiche appaiano capaci di trasformare la loro mentalità; terzo, se l’influenza del giudaismo non sia più forte di ogni riconoscimento e di ogni buona volontà, e possa quindi ostacolare e distruggere tutti i piani.
Credo di avere risposto almeno per metà alla prima domanda. Certo, con la Germania di oggi nessuno farà alleanza; nessuna Potenza legherà la propria sorte a uno Stato i cui governi distruggono ogni fiducia. (p.491)
Quando, nel 1919, fu imposto al popolo tedesco il trattato di pace, si poteva sperare che appunto questo strumento di smisurata oppressione intensificasse l’aspirazione dei Tedeschi alla libertà. I trattati di pace i cui articoli sferzano i popoli come colpi di frusta, non di rado suonano il primo rullo di tamburo della futura resurrezione. Quante cose si potevano fare col trattato di Versailles! Questo strumento di ricatto e di umiliazione vergognosa avrebbe potuto diventare, nelle mani di un governo volonteroso, il mezzo per incitare e arroventare le passioni nazionali. Utilizzando per una geniale propaganda le sadiche crudeltà di quel trattato, si poteva mutare l’indifferenza di un popolo in indignazione, e l’indignazione in splendido coraggio. (p.492)
Alla seconda obiezione, relativa alla grande difficoltà di trasformare popoli nemici in cordiali alleati, si può rispondere così.
La generale psicosi antitedesca provocata negli altri Paesi dalla propaganda di guerra sussisterà, per forza, fin quando la resurrezione, visibile a tutti, di una volontà tedesca di autoconservazione non abbia restituito al Reich tedesco il carattere di uno Stato che svolge il suo gioco nello scacchiere europeo, di uno Stato con cui è possibile giocare. Solo quando sarà acquisita nel governo e nel popolo la certezza assoluta della capacità di stringere alleanze, questa o quella Potenza i cui interessi coincidano coi nostri potrà
pensare di trasformare con la propaganda la sua opinione pubblica. […]
Quindi, un popolo nella nostra situazione sarà ritenuto capace di alleanze se governo e pubblica opinione manifestano e sostengono con eguale fanatismo la loro volontà di battersi per la libertà. (p.493)
Il capovolgimento della mentalità di singoli popoli ex-nemici, aventi interessi analoghi ai nostri, può benissimo verificarsi se la forza intima del nostro Stato e l’evidente volontà di conservare la nostra esistenza ci fanno apparire come possibili alleati di valore. Inoltre, occorre che la nostra impotenza o azioni delittuose non diano alimento all’opera degli avversari di una futura alleanza con popoli già a noi ostili.
Più difficile è rispondere alla terza domanda. È probabile, o no, che i difensori dei veri interessi delle Nazioni possibili alleate possano realizzare le loro vedute contro la volontà dell’ebreo, nemico mortale dei liberi Stati nazionali? Possono, per esempio, le forze della tradizionale politica britannica spezzare, o no, la funesta influenza ebraica? (pp.494-495)
Ancora una volta, il movimento nazional-socialista deve assolvere il suo formidabile compito: deve aprire gli occhi al popolo a proposito delle Nazioni straniere. Deve richiamare senza posa alla memoria il vero nemico del mondo odierno. In luogo dell’odio contro Ariani dai quali tutto può separarci, ma ai quali tuttavia ci unisce comunanza di sangue e di civiltà, dobbiamo indicare al furore generale il perfido nemico dell’umanità, vero autore di tutte le sofferenze. Ma il nazionalsocialismo deve pure fare in modo che almeno nel nostro Paese il mortale avversario sia riconosciuto, e che la lotta contro di lui, quale indizio di tempi migliori, mostri anche agli altri popoli la via della salvezza dell’umanità ariana. (p.497)

XIV – ORIENTAMENTO A EST E POLITICA ORIENTALE p.497

Due ragioni mi inducono a considerare con particolare attenzione i rapporti della Germania con la Russia: 1) questo è forse il punto decisivo della politica estera tedesca; 2) questo problema è anche la pietra di paragone della capacità politica del movimento nazional-socialista di pensare con chiarezza e di agire nel modo giusto. (p.497)

Per permettere alla razza di vivere e svilupparsi adeguatamente, lo Stato deve garantire ai suoi cittadini uno spazio vitale sufficiente. L’espansione in Europa, ad est, è la via da seguire…

In qualità di nazional-socialisti, noi possiamo porre la seguente massima circa l’essenza della politica estera di uno Stato nazionale: la politica estera dello Stato nazionale deve garantire l’esistenza su questo pianeta della razza raccolta nello Stato, creandole, col numero e lo sviluppo degli individui che la compongono e con la vastità e ricchezza del territorio, una situazione sana e vitale. […]
Solo un sufficiente spazio su questa Terra assicura a un popolo una libera esistenza. (p.498)
Oggi, la Germania non è una Potenza mondiale.[…]
In un’epoca in cui la Terra viene poco a poco spartita fra gli Stati, di cui alcuni sono vasti come continenti, non si può chiamare Potenza mondiale uno Stato la cui superficie non raggiunge la ridicola cifra di cinquecentomila chilometri quadrati. Da
questo punto di vista, la superficie del Reich tedesco scompare di fronte a quella delle cosiddette Potenze mondiali. Non si adduca, come prova del contrario, l’Inghilterra, perché la madrepatria degli Inglesi in realtà non è altro che la grande capitale dell’Impero britannico, comprendente quasi un quarto della superficie terrestre. Poi, dobbiamo considerare come colossi statali in primo luogo l’Unione americana, e quindi la Russia e la Cina. Enormi spazi, alcuni dei quali sono oltre dieci volte più vasti dell’odierno Reich tedesco. Fra questi immensi Stati conviene annoverare anche la Francia: non solo perché integra, in misura sempre maggiore, il suo Esercito con gli uomini di colore del suo gigantesco impero, ma perché, dal punto di vista della razza, si va così rapidamente “negrizzando” che si può in verità parlare della nascita di uno Stato africano sul suolo europeo. La politica coloniale della Francia odierna non può essere paragonata a quella della Germania di una volta: se lo sviluppo della Francia nel senso attuale continuasse per altri trecento anni, gli ultimi resti di sangue franco sparirebbero nello Stato mulatto, africano-europeo, che si sta formando – un formidabile, compatto territorio coloniale dal Reno al Congo, popolato da una razza inferiore formatasi poco a poco da un costante imbastardimento. Ciò distingue la politica coloniale francese da quella della vecchia Germania. […]
E necessario che noi teniamo presente questa amara verità. È necessario che noi studiamo il Reich tedesco nei suoi rapporti di superficie e di popolazione con gli altri Stati attraverso i secoli. E allora troveremo che, come ho detto, la Germania non è più una Potenza mondiale, a prescindere dalla forza militare (pp.498-499)
Deve, senza riguardo a tradizioni e pregiudizi, trovare il coraggio di adunare il nostro popolo e le sue forze per iniziare la marcia su quella via che dall’odierna ristrettezza di spazio vitale all’acquisizione di nuovo territorio. Così libererà per sempre la Nazione tedesca dal pericolo di perire, o di servire gli altri quale popolo di schiavi.
Il movimento nostro deve cercare di eliminare il funesto rapporto attuale tra la nostra popolazione e la superficie del nostro territorio, considerando il territorio sia come una fonte di sostentamento sia come punto di appoggio della politica di potenza. (p.500)
I nazional-socialisti invece devono attenersi con fermezza alla nostra mèta di politica estera: quella di assicurare al popolo tedesco il territorio che gli spetta su questa Terra. (p.503)
Debbo insorgere contro quegli scribacchini nazionalisti che fingono di ravvisare nella conquista di territorio una “offesa dei sacri diritti dell’uomo” e scrivono contro questa concezione. Non si sa mai che cosa si nasconda dietro questa gente. È certo solo che la confusione che essi possono provocare piace e giova ai nemici del nostro popolo. […]
I confini degli Stati sono creati dagli uomini e mutati dagli uomini. Il fatto che un popolo conquisti un enorme territorio non è una ragione perché lo debba conservare in eterno. Questo fatto non dimostra altro che la forza dei conquistatori e la debolezza dei soggiogati. (p.504)
Noi nazional-socialisti tiriamo una riga sulla politica estera tedesca dell’anteguerra, e la cancelliamo. Noi cominciamo là dove si terminò sei secoli fa. Poniamo termine all’eterna marcia germanica verso il sud e l’ovest dell’Europa, e volgiamo lo sguardo alla terra situata all’est. Chiudiamo finalmente la politica coloniale e commerciale dell’anteguerra, e passiamo alla politica territoriale dell’avvenire.
Ma quando, oggi, parliamo di nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in primo luogo alla Russia o agli Stati marginali a essa soggetti. (p.505)
E la fine del dominio ebraico in Russia sarà pure la fine della Russia come Stato. Noi siamo eletti dal destino a essere testimoni di una catastrofe che sarà la più poderosa conferma della teoria nazional-socialista delle razze. […]
È naturale che il giudaismo annunzi la più aspra resistenza a una simile politica. Egli avverte benissimo l’importanza di questo modo di agire per il suo futuro: e ciò appunto dovrebbe insegnare ai veri nazionalisti l’esattezza del nuovo orientamento. Purtroppo, avviene l’opposto. Non solo nei circoli tedesco-nazionali, ma anche in quelli “nazionalisti” si dichiara guerra all’idea di una simile politica orientale, col pretesto di sostenere un’idea più grande, come di solito avviene in tali casi. (p.506)
No. Un’alleanza che non si propone anche una guerra, è priva di senso e di valore. Si stringono alleanze solo per battersi. Anche se, nel momento in cui si conclude un trattato di alleanza, la guerra è lontana, tuttavia la prospettiva di uno sviluppo bellico è il motivo profondo dell’alleanza. E non si creda che le altre Potenze si ingannerebbero sul senso di quella Lega. (p.509)
Ma l’impotenza dei popoli, la loro morte per vecchiaia, dipendono dal fatto che i l loro sangue non è più puro. Invece, la purezza del sangue conserva l’ebreo meglio di ogni altro popolo della Terra. Quindi egli proseguirà il suo fatale cammino finché si opponga a lui un’altra forza la quale, in una formidabile lotta, respinga a Lucifero colui che dà l’assalto al cielo. Oggi, la Germania è il prossimo campo di battaglia del bolscevismo. Ci vuole tutta la forza di un’idea che si traduce in una missione, per sollevare ancora il nostro popolo, scioglierlo dalle spire di quel serpente internazionale, e mettere fine all’intossicazione del nostro sangue. […]
Il testamento politico della Nazione tedesca per il suo modo di agire verso l’estero deve suonare così: non tollerate mai che sorgano in Europa due Potenze continentali.[…]
Fate in modo che la forza del nostro popolo abbia la sua base non in colonie ma nel territorio della nostra Patria in Europa. Non considerate mai sicuro il Reich, se non è in grado di dare a ogni figlio del nostro popolo un pezzo di terra suo proprio. Non dimenticate mai che il più sacro di tutti i diritti è il diritto alla terra che un uomo vuol coltivare da sé, e che il sacrificio più sacro è il sangue che si versa per la conquista e la difesa della terra. (p.512)
Non vorrei chiudere questo capitolo senza accennare ancora all’unica possibilità di alleanza che esiste oggi per noi in Europa. Nel capitolo precedente, ho già indicato l’Inghilterra e l’Italia come i due soli Stati europei con cui valga la pena e sia utile sforzarci di stringere intimi rapporti. Voglio qui sfiorare l’importanza militare di una simile alleanza.
Le conseguenze militari della conclusione di quest’alleanza sarebbero opposte a quelle di un’alleanza con la Russia. Importantissimo è il fatto che un avvicinamento all’Inghilterra e all’Italia non provocherebbe, di per sé, un pericolo di guerra. L’unica Potenza che potrebbe prendere posizione contro questa alleanza, la Francia, non sarebbe in grado di opporsi con la guerra. Ma l’alleanza darebbe alla Germania la possibilità di fare con tutta tranquillità quei preparativi che, data una simile coalizione, dovrebbero essere fatti per una resa dei conti con la Francia. […]
Altro successo sarebbe questo: di colpo la Germania sarebbe sbarazzata della sua sfavorevole situazione strategica. Da un lato una formidabile protezione dei fianchi, dall’altro la piena sicurezza dell’approvvigionamento di viveri e materie prime sarebbero il benefico effetto del nuovo ordinamento degli Stati. Ma ancor più importante sarebbe questo: la nuova alleanza comprenderebbe Stati integrantisi a vicenda nel campo delle prescrizioni tecniche; per la prima volta la Germania avrebbe alleati che non succhierebbero come sanguisughe la nostra economia, ma contribuirebbero in parte a completare la nostra attrezzatura tecnica. (p.512)
Lo scopo prossimo della nostra politica estera non deve essere un orientamento a ovest, o a est, ma una politica orientale finalizzata all’acquisizione della terra indispensabile al popolo tedesco. Ma per far ciò occorre forza; ora, il nemico mola nostra Nazione, la Francia, ci strozza senza pietà e ci priva della forza. (p.513)

XV – LA LEGITTIMA DIFESA È UN DIRITTO p.513

Assurdo accettare gli iniqui trattati postbellici. D’obbligo dunque ribellarsi ad essi con la forza. Di lì il fallito putsch che porta allo scioglimento del partito che nel 1926 torna però in attività…

Nel novembre del 1918, dopo che furono deposte le armi, fu avviata una politica la quale, secondo le comuni previsioni, doveva lentamente condurre alla nostra completa schiavitù. (p.513)
Le cose andarono come s’è detto. Una volta che si ebbe sottoscritto lo scandaloso armistizio, non si ebbe più né l’energia né il coraggio di opporre improvvisa resistenza alle sempre rinnovate misure oppressive degli avversari. […]
Così si alternarono in Germania editti che ci disarmarono e ci asservono, impotenza politica e saccheggio economico; e in ultimo nacque quello spirito che ravvisò nel patto Dawes una fortuna e nel patto di Locarno un successo. […]
Il crollo della nostra Nazione negli anni successivi al 1918 fu evidente e amaro; eppure, proprio in questi anni, fu aspramente perseguitato chiunque sapesse profetare ciò che poi avvenne. La direzione del nostro popolo fu cattiva, penosa, ma fu altrettanto presuntuosa nell’eliminare gli sgraditi ammonitori. (p.515)
L’Alsazia-Lorena stessa non basterebbe a spiegare l’energia con cui la Francia condusse la guerra, se non si fosse trattato anche di realizzare in parte il grande programma della politica estera francese. Questo programma consiste nel disgregare la Germania in una quantità di piccoli Stati. Per questo si batté la Francia sciovinista vendendo, in realtà, il suo popolo come lanzichenecco all’ebreo internazionale.
Lo scopo francese di guerra avrebbe potuto essere raggiunto con la conflagrazione mondiale, se, come in principio si sperava a Parigi, la lotta si fosse svolta su territorio tedesco. […]
Le cose andarono in ben altro modo. La Germania, è vero, nel novembre 1918 crollò con la rapidità del lampo: ma quando sopravvenne all’interno la catastrofe, gli Eserciti si trovavano ancora, profondamente, in territorio nemico; allora il primo pensiero della Francia non fu la disgregazione della Germania, ma i l modo di far uscire al più presto gli Eserciti tedeschi dalla Francia e dal Belgio. Quindi, alla fine della guerra, per il governo parigino il primo obiettivo fu quello di disarmare gli Eserciti tedeschi e ricacciarli subito in Germania – solo in un secondo momento esso potè impegnarsi a realizzare il vero e originario scopo di guerra. Ma in ciò la Francia era paralizzata. In Inghilterra, i l conflitto era in realtà finito vittoriosamente con la distruzione della Germania quale Potenza coloniale e commerciale e con l’abbassamento di essa al livello di Stato di second’ordine. Là non si aveva interesse alla totale soppressione dello Stato tedesco, anzi si avevano buone ragioni di desiderare che in avvenire ci fosse in Europa una rivale della Francia. Quindi la politica francese dovette proseguire, in tempo di pace, con un risoluto lavoro, ciò che la guerra aveva avviato; e il detto di Clemenceau, che per lui la pace era solo la continuazione della guerra, ricevette un alto significato. (p.516)
Questo sistema di oppressione politica e di saccheggio economico, proseguito per dieci o venti anni, deve gradualmente rovinare i l miglior corpo nazionale e, in certe circostanze, dissolverlo – allora sarà definitivamente raggiunto lo scopo francese di guerra. (p.517)
Con l’occupazione della Ruhr, il destino porse ancora una volta alla Germania la mano perché si rialzasse. Perché quella che nel primo momento apparve come una grave sciagura, a un più attento esame mostrò di racchiudere la possibilità di mettere fine alle nostre sofferenze.[…]
L’occupazione francese della Ruhr strappava di mano all’Inghilterra i vantaggi ottenuti con la guerra: ora i l trionfatore non era più l’alacre e attiva diplomazia britannica ma i l maresciallo Foch e la Francia da lui rappresentata.
Anche lo stato d’animo dell’Italia verso la Francia, che già dopo la fine della guerra non era roseo, si tramutò in vero odio. Fu quello il grande momento storico in cui gli ex alleati potevano diventare nemici fra loro. Seciò non avvenne, se gli alleati non si accapigliarono fra loro com’era accaduto nella seconda guerra balcanica, ciò fu dovuto al fatto che la Germania non possedeva un Enver Pascià, ma soltanto un cancelliere Cuno. Non solo in politica estera, bensì anche in politica interna l’occupazione francese della Ruhr schiuse alla Germania grandi possibilità di un miglior avvenire. Una parte notevole del nostro popolo, che grazie alla costante influenza della sua bugiarda stampa ravvisava ancora nella Francia il campione del progresso e della libertà, fu guarito a un tratto dalla sua illusione. (p.518)
La Francia, occupando la Ruhr, aveva commesso una clamorosa violazione del trattato di Versailles: si era messa in contrasto anche con parecchie delle Potenze garanti, e in modo particolare con l’Inghilterra e l’Italia – essa non poteva sperare nessun appoggio da questi Stati per la sua egoistica incursione piratesca. L’avventura doveva avere per sé qualche buon risultato. […]
Non avremmo potuto impedire con misure militari l’occupazione della Ruhr – solo un pazzo avrebbe preso una simile decisione. Ma, sotto l’impressione prodotta da quel gesto della Francia e durante i l tempo della sua attuazione, si poteva e si doveva pensare (senza riguardo al trattato di Versailles violato dalla Francia stessa) ad assicurarsi quelle risorse militari di cui avrebbero potuto valersi più tardi i negoziatori. (p.519)
Chi, nella primavera del 1923, avesse voluto cogliere l’occasione dall’ingresso dei Francesi nella Ruhr per ricostruire mezzi di potenza militari, avrebbe dovuto prima dare alla Nazione le armi spirituali, rafforzarne la volontà, ed eliminare i distruttori di questa preziosa energia nazionale. Nel 1919 espiammo con molto sangue il fatto di non avere, nel 1914 e nel 1915, schiacciato per sempre la testa al serpente marxista: e ora espiamo il fatto di non avere, nella primavera del 1923, colto l’occasione di sopprimere una volta per tutte i marxisti traditori del Paese e assassini del popolo. Ogni intenzione di efficace resistenza alla Francia era assurda, se non si dichiarava guerra a quelle forze le quali, cinque anni prima, avevano spezzato dall’interno la resistenza tedesca sui campi di battaglia. Solo spiriti borghesi poterono nutrire l’incredibile convinzione che il marxismo fosse diventato un altro e che i canaglieschi capi i quali nel 1918 avevano calpestato freddamente due milioni di morti per meglio arrampicarsi agli scranni del governo, a un tratto, nel 1923, fossero disposti a pagare il loro tributo alla
coscienza nazionale. […]
Se all’inizio e durante la guerra si fossero tenuti sotto i gas venefici dodici o quindici migliaia di quegli ebraici corruttori del popolo come dovettero restare sotto i gas, sul campo di battaglia, centinaia di migliaia dei migliori lavoratori tedeschi di tutti i ceti e di tutti i mestieri, milioni di vittime non sarebbero perite invano al fronte. Eliminando in tempo dodicimila farabutti, si sarebbe salvata la vita a un milione di Tedeschi, preziosi per l’avvenire. Ma fu degno della politica borghese abbandonare, senza batter ciglio, milioni di creature a una morte sanguinosa sul campo di battaglia, e considerare
sacre dieci o dodici migliaia di traditori del popolo, imbroglioni, usurai e impostori, proclamandoli intoccabili. (p.520)
Nel 1923 la situazione era la stessa che nel 1918. A qualunque genere di resistenza ci si appigliasse, occorreva anzitutto eliminare dal corpo della nostra Nazione il veleno marxista. […]
Allora io parlai in pubblico molte volte cercando di spiegare almeno ai circoli cosiddetti nazionali cosa fosse in gioco, e che ripetendo gli errori commessi nel 1914 e negli anni seguenti saremmo arrivati, come nel 1918, a una catastrofe. Ho sempre invocato che si lasciasse libero corso al destino e si desse al nostro movimento la possibilità di scontrarsi col marxismo: ma predicai ai sordi. Costoro, compreso i l capo della forza armata, seppero meglio di me che cosa convenisse fare; e finirono col sottoscrivere la più turpe capitolazione di tutti i tempi. (p.521)
Fu quello il tempo in cui – lo confesso apertamente – provai profonda ammirazione per il grand’uomo a sud delle Alpi che, pieno di fervido amore per il suo popolo, non venne a patti col nemico interno dell’Italia ma volle annientarlo con ogni mezzo. Ciò che farà annoverare Mussolini fra i grandi di questa Terra è la decisione di non spartirsi l’Italia col marxismo, ma di salvare la sua Patria dal marxismo distruggendolo. […]
Se gli statisti del 1923 avessero creduto sul serio a ciò che facevano, avrebbero dovuto riconoscere che la forza di un popolo si trova anzitutto non nelle sue armi ma nella sua volontà, e che per vincere il nemico esterno bisogna prima debellare quello interno: altrimenti, guai se la guerra non è già il primo giorno coronata dalla vittoria! (p.522)
La cosiddetta resistenza passiva non poteva durare a lungo, perché solo chi non s’intende affatto di guerra poteva immaginare di spaventare con mezzi così ridicoli un Esercito di occupazione. […]
I Francesi poterono con molta tranquillità stabilirsi nella Ruhr nel momento in cui videro l’opposizione servirsi di simili mezzi. (p.523)
E allora una resistenza passiva avrebbe avuto senso solo se dietro di essa c’era la decisione di proseguirla, in caso di necessità, con una lotta aperta o con la guerriglia. […]
Quindi la resistenza passiva nella Ruhr, tenendo conto delle ultime conseguenze che poteva e doveva avere per essere realmente vittoriosa, aveva senso solo se dietro di essa si costruiva un fronte attivo. […]
Quando i Sindacati ebbero pressoché riempite le loro casse col denaro di Cuno e la resistenza passiva dovette decidere se dalla pavida difesa convenisse passare all’attivo assalto, le iene rosse uscirono subito dal gregge nazionale e ridiventarono quelle che erano sempre state. (p.524)
I diciotto eroi caduti il 9 novembre 1923 a Monaco per il trionfo della causa nazionale, io li propongo ai nostri aderenti e seguaci come coloro i quali, con chiara consapevolezza, si immolarono per noi tutti. Essi debbono richiamare l’esitante e il debole all’adempimento del proprio dovere, di un dovere cui essi obbedirono fino all’estremo. Fra loro, voglio pure annoverare l’uomo che consacrò la vita al risveglio del suo, del nostro popolo; la consacrò con la penna e col pensiero e, in ultimo, con l’azione: Dietrich Eckart! (p.525)

EPILOGO p.526

Il 9 novembre 1923, nel quarto anno della sua esistenza, il Partito nazional-socialista dei lavoratori tedeschi fu sciolto e proibito in tutto il Reich. Oggi, nel novembre 1926, è di nuovo vivo e libero in tutto il Reich, più forte e saldo che mai.
Tutte le persecuzioni del movimento e dei suoi singoli capi, tutte le aggressioni e le calunnie non poterono averne ragione. La giustezza delle sue idee, la purezza della sua volontà, l’abnegazione dei suoi aderenti, gli fecero superare di slancio tutte le persecuzioni.
Se esso, nel mondo della nostra odierna corruzione parlamentare, si renderà sempre più conto dell’intima natura della sua lotta e si sentirà la personificazione dei valori razziali e umani, otterrà un giorno, in forza di una legge quasi matematica, la vittoria. Così come la Germania otterrà, necessariamente, il posto che le spetta su questa Terra, se verrà diretta e organizzata in conformità con quei princìpi.
Uno Stato che, nell’epoca dell’avvelenamento delle razze, si prende cura dei migliori elementi della propria stirpe, deve diventare un giorno signore della Terra. Questo non devono mai dimenticarlo gli aderenti al nostro movimento, se l’ampiezza del sacrificio li inducesse a disperare della vittoria. (p.526)

POSTFAZIONE
di Gianfranco Maris p.527