LUIGI PIRANDELLO – UNO, NESSUNO E CENTOMILA

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LUIGI PIRANDELLO – UNO, NESSUNO E CENTOMILA

MONDADORI – Collana OSCAR – Tutte le opere di Pirandello n°3 – 2002 16° ristampa

A CURA DI

Marziano GuglielminettiCRONOLOGIA DI

Simona Costa

INTRODUZIONE p.V

CRONOLOGIA p.XXXIII

BIBLIOGRAFIA p.LI
UNO, NESSUNO E CENTOMILA p.1

   LIBRO PRIMO p.3
    I – Mia moglie e il mio naso

 

Vitangelo Moscarda si attarda di fronte allo specchio per osservarsi una narice, da cui sente provenire un dolorino. Ma una considerazione della moglie, che pensava si stesse guardando da che lato pendesse il suo naso, avvia in lui una serie di riflessioni. Tanti difettucci fisici cui non aveva mai badato… Ma allora non conosce neanche se stesso, inizia a pensare l’uomo…

 

«Che fai?» mia moglie mi
domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
«Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il
naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.»
Mia moglie sorrise e disse:
«Credevo ti guardassi da che parte ti pende.»
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato
la coda:
«Mi pende? A me? Il naso?»
E mia moglie, placidamente:
«Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso
destra.»
Avevo ventotto anni e sempre da allora ritenuto il
mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti
della mia persona. […] La scoperta
improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzì come un immeritato castigo.(p.3)
Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in
quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto
senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí…
«Che altro?»
Eh, altro! altro![…]

[…]non
diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto
che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle
sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender
moglie per aver conto che li avevo difettosi.

«Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte
apposta per scoprire i difetti del marito.»
Ecco, già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se
permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o
mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano
dentro e bucheravano giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa;
senza che di fuori ne paresse nulla.(p.5)

Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti,
sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque possibile? non conoscevo bene
neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú intimamente m’appartenevano: il naso le
orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame. (p.6)

II – E il vostro naso? p.6

Diventa un’ossessione. Se lo ha notato sua moglie, figuriamoci gli altri. E così eccolo a cercar conferma da un amico. La ottiene e così, di lì a una settimana, tutta Richieri pullula di persone intente a osservarsi i difetti segnalati da altri…


                   III – Bel modo d’esser soli! p.10

Desidera quindi di rimaner solo in casa per poter dedicare un po’ di tempo allo studio di sé e della propria immagine. Ma la moglie, Dida, resta sempre in casa. Inoltre numerosi ricordi gli si affacciano continuamente alla mente…

Desiderai da quel giorno ardentissimamente d’esser
solo, almeno per un’ora. Ma veramente, piú che desiderio, era bisogno: bisogno acuto
urgente smanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino alla
rabbia. (p.10)


IV – Com’io volevo esser solo p.12
Io volevo esser solo in un modo affatto insolito,
nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con
un estraneo attorno
.[…]

Così volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire
senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. (p.12)

Chi sono io?, si chiede Vitangelo. Impossibile vedersi come gli altri ti vedono. Vuol quindi cercare di inseguire l’estraneo che è in lui e che gli sfugge…

Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto
d’essere per me, chi ero io?(p.13)
Così, seguitando, sprofondai in quest’altra
ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita;
vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come
quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in
me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto.
Io non potevo vedermi vivere.(pp.13-14)
E mi fissai d’allora in poi in questo proposito
disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non
potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo;
quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano
vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io cosí come gli altri lo vedevano
e conoscevano. (p.14)

 

Ma le riflessioni portano a nuove agghiaccianti scoperte: lui è allora uno e nessuno. È l’inizio di un viaggio ai limiti della pazzia…
 
Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo
estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce
mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli
altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà,
tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se
me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi,
abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.
Quando cosí il mio dramma si complicò, cominciarono
le mie incredibili pazzie.(p.15)
V – Inseguimento dell’estraneo p.15

Piccole manie, con l’intento iniziale di scovare almeno l’estraneo che è in lui…

 

Dirò per ora di quelle piccole che cominciai a
fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia, davanti a tutti gli
specchi di casa, guardandomi davanti e dietro per non essere scorto da mia moglie,
nell’attesa smaniosa ch’ella, uscendo per qualche visita o compera, mi lasciasse solo
finalmente per un buon pezzo.[…]

Volevo sorprendermi nella naturalezza dei miei atti[…] (p.15)Come sopportare in me quest’estraneo? quest’estraneo
che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre
condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia? (p.16)

VI – Finalmente! p.17
Finalmente la moglie lo lascia da solo andando a trovare un’amica malata…

VII – Filo d’aria p.17
No, Vitangelo proprio non si riconosce in quel corpo allo specchio. Starnutisce e ride…
Il mio
sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d’essere veduto da
me
, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell’altro che tutti vedono
e io no. Su, dunque, calma, arresto d’ogni vita e attenzione! Aprii gli occhi. Che vidi? Niente. Mi vidi. Ero io, là, aggrondato,
carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato. (p.19)
Chi era?
Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in
attesa che qualcuno se lo prendesse.[…] Non conosceva
nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore,
e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le palpebre, e non se n’accorgeva.[…]Chi era? Ero io? Ma poteva anche essere un altro!
Chiunque poteva essere, quello lí.(p.20)
 Vidi davanti a me, non per mia volontà,
l’apatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente,
arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all’indietro, contrarre le labbra in su e
provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare cosí un attimo sospeso e poi
crollar due volte a scatto per lo scoppio d’una coppia di sternuti. S’era commosso da sé, per conto suo, a un filo
d’aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori
della mia volontà.«Salute!» gli dissi. E guardai nello specchio il mio primo riso da matto. (p.22)
VIII – E dunque? p.22



Vitangelo giunge dunque alle seguenti conclusioni:

Dunque, niente: questo. Se vi par poco! Ecco una
prima lista delle riflessioni rovinose e delle terribili conclusioni derivate
dall’innocente momentaneo piacere che Dida mia moglie aveva voluto prendersi. Dico, di
farmi notare che il naso mi pendeva verso destra.
Riflessioni:
1a – che io non ero per gli altri quel che
finora avevo creduto di essere per me
;
2a – che non potevo vedermi vivere;
3a – che non potendo vedermi vivere, restavo
estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo
modo; e io no
;
4a – che era impossibile pormi davanti questo
estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo
;
5a – che il mio corpo, se io considerato da fuori,
era per me come un’apparizione di sogno, una cosa che non sapeva di vivere e che
restava lí, in attesa che qualcuno se la prendesse
;
6a – che, come me lo prendevo io, questo mio
corpo, per essere a volta a volta quale mi volevo e mi sentivo, cosí se lo poteva
prendere qualunque altro per dargli una realtà a modo suo
;
7a – che infine quel corpo per se stesso era tanto
niente e tanto nessuno, che un filo d’aria poteva farlo starnutire, oggi, e domani
portarselo via
.
Conclusioni:
Queste due per il momento:
1a – che cominciai finalmente a capire perché
Dida mia moglie mi chiamava Gengè
;
2a – che mi proposi di scoprire chi ero io almeno
per quelli che mi stavano piú vicini, cosí detti conoscenti, e di spassarmi a scomporre
dispettosamente quell’io che ero per loro. (pp.22-23)
LIBRO SECONDO p.25
 
I – Ci sono io e ci siete voi p.24

Non ci si pone il problema perché si ritiene che gli altri abbiano di noi la nostra stessa rappresentazione, che al posto nostro si sarebbero comportati alla stessa maniera…

Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo
di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di
ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell’altrui giudizio non
v’importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata
illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi
vi rappresentate.[…]

Insomma, se qualche volta appena appena avvertite di non essere
per gli altri quello stesso che per voi; che fate? (Siate sinceri). Nulla fate, o ben
poco. Ritenete al piú al piú, con bella e intera sicurezza di voi stessi, che gli altri
vi hanno mal compreso, mal giudicato; e basta. (pp.24-25)

II – E allora? p.26

 

Tiene in piedi la presunzione che la realtà quale è per noi, sia uguale per gli altri. ..

 

Sapete invece su che poggia tutto?
Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la
realtà, qual’è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri.(p.26)




III – Con permesso p.30


Esempio. La casa che a voi piace rappresenterà qualcosa di diverso per tante persone quante sono quelle che la vedranno… Ma anche per voi stessi cambierà in base al tempo e all’umore!…

perché allora, santo Dio, fate come se non si
sapesse? Perché seguitate a credere che la sola realtà sia la vostra, questa d’oggi, e
vi maravigliate, vi stizzite, gridate che sbaglia il vostro amico, il quale, per quanto
faccia, non potrà mai avere in sé, poverino, lo stesso animo vostro?  (p.32)

IV – Scusate ancora p.32



Ognuno ha una realtà propria…

C’è in me e per me una realtà mia: quella che io mi do; una
realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date; le quali non saranno mai le
stesse né per voi né per me.
E allora?
Allora, amico mio, bisogna consolarci con questo: che
non è piú vera la mia che la vostra, e che durano un momento cosí la vostra come la
mia.(p.34)
V – Fissazioni p.34
VI – Anzi ve lo dico adesso p.34
VII – Che c’entra la casa? p.36
VIII – Fuori all’aperto p.36
 IX – Nuvole e vento p.38
Ah, non aver piú coscienza d’essere,
come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi piú neanche del proprio nome! Sdraiati
qua sull’erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche
nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole; udire il vento che fa lassú, tra i
castagni del bosco, come un fragor di mare.
Nuvole e vento.(p.38)
X – L’uccellino p.39
La spersonalizzazione è figlia anche della vita urbanizzata…
Qua, cari miei, avete veduto l’uccellino
vero, che vola davvero, e avete smarrito il senso e il valore delle ali finte e del volo
meccanico. Lo riacquisterete subito là, dove tutto è finto e meccanico, riduzione e
costruzione: un altro mondo nel mondo: mondo manifatturato, combinato, congegnato; mondo
d’artificio, di stortura, d’adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e
valore soltanto per l’uomo che ne è l’artefice.  (p.40)


XI – Rientrando in città p.40


Qual è la conoscenza che l’uomo può ottenere?… Siamo in continua “costruzione”…
L’uomo piglia a materia anche se
stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.[…] Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar
forma. Ma che conoscenza può essere? E forse questa forma la cosa stessa? Sí, tanto per
me, quanto per voi; ma non cosí per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco
nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è
uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia
di continuo. […] (p.42)
Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto.(p.43)


XII – Quel caro Gengè p.43

 

È evidente che la moglie ha un’idea di lui. Per lei è Gengè, il suo Gengé. Ma chi è Gengé? Di sicuro non Vitangelo che non si conosce e che ciascuno conosce e immagina a suo modo…
«No no, bello mio, statti zitto!
Vuoi che non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi gusti,
io, e come tu la pensi.»
Quante volte non m’aveva detto cosí Dida mia moglie?
E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso.
Ma sfido ch’ella conosceva quel suo Gengè piú
che non lo conoscessi io! Se l’era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il
fantoccio ero io.
Sopraffazione? Sostituzione?[…] (p.43)
Perché quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei
non esistevo affatto, non ero mai esistito.
La realtà mia era per lei in quel suo Gengè che
ella s’era formato, che aveva pensieri sentimenti e gusti che non eran i miei e che io non
avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro
che ella non avrebbe piú riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe piú potuto né
comprendere né amare.[…] (p.44)
Ed ecco intanto, che me n’era venuto! Non mi
conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di
illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo
modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che
non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà. (p.45)

Decide quindi di distruggere quel Gengè imponendo una realtà di sé sconosciuta alla moglie…

 

Ed era tanto realtà quest’uno, che quando io alla
fine, esasperato, lo volli distruggere imponendo, invece della sua, una mia realtà, mia
moglie, che non era stata mai mia moglie ma la moglie di colui, si ritrovò subito,
inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi
piú amare, di non poter piú convivere con me neanche un minuto e scappò via.
Sissignori, come vedrete, scappò via. (p.49)

 

LIBRO TERZO p.50
 
I – Pazzie per forza p. 50


Pazzie, tante agli occhi degli altri, per distruggere l’immagine del Moscarda altrui…
Ma voglio dirvi prima, almeno in
succinto, le pazzie che cominciai a fare per scoprire tutti quegli altri Moscarda che
vivevano nei miei piú vicini conoscenti, e distruggerli a uno a uno.
Pazzie per forza. Perché, non avendo mai pensato
finora a costruire di me stesso un Moscarda che consistesse ai miei occhi e per mio conto
in un modo d’essere che mi paresse da distinguere come a me proprio e particolare,
sintende che non mi era possibile agire con una qualche logica coerenza. Dovevo a volta a
volta dimostrarmi il contrario di quel che ero o supponevo d’essere in questo e in quello
dei miei conoscenti, dopo essermi sforzato di comprendere la realtà che m’avevano data:
meschina, per forza, labile, volubile e quasi inconsistente.
Però ecco: un certo aspetto, un certo senso, un
certo valore dovevo pur averlo per gli altri, oltre che per le mie fattezze fuori della
veduta mia e della mia estimativa, anche per tante cose a cui finora non avevo mai
pensato.
Pensarci e sentire un impeto di feroce ribellione fu
tutt’uno. (p.50)


II – Scoperte p.50

 

Un Moscarda che ognuno vede a suo modo, con opinioni indipendenti anche dal suo agire…
Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno – staccato – che si
chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di
me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.[…]
 Oh Dio, e che avveniva allora di me? avveniva lo
stesso della mia voce? del mio aspetto? Io non ero piú un indistinto io che
parlava e guardava gli altri, ma uno che gli altri invece guardavano, fuori di loro, e che
aveva un tono di voce e un aspetto ch’io non mi conoscevo.(p.51)
Non lo sapevo, non ci pensavo, ma nel mio aspetto,
cioè in quello che essi mi davano, in ogni mia parola che sonava per loro con una voce
ch’io non potevo sapere, in ogni mio atto interpretato da ciascuno a suo modo, sempre
c’erano per gli altri impliciti il mio nome e il mio corpo.  (p.52)
M’ero creduto finora un uomo nella vita. Un uomo,
cosí, e basta. Nella vita. Come se in tutto mi fossi fatto da me. Ma come quel corpo non
me l’ero fatto io, come non me l’ero dato io quel nome, e nella vita ero stato messo da
altri senza mia volontà; cosí, senza mia volontà, tant’altre cose m’erano venute sopra
dentro intorno, da altri; tant’altre cose m’erano state fatte, date da altri, a cui
effettivamente io non avevo mai pensato, mai dato immagine, l’immagine strana, nemica, con
cui mi s’avventavano adesso. (p.53)

[…]potevo
essere per me uno qualunque, ma per gli altri no; per gli altri avevo tante sommarie
determinazioni, ch’io non m’ero date né fatte e a cui non avevo mai badato; e quel
mio poter credermi un uomo qualunque voglio dire quel mio stesso ozio, che credevo proprio
mio, non era neanche mio per gli altri: m’era stato dato da mio padre, dipendeva dalla
ricchezza di mio padre; ed era un ozio feroce, perché mio padre… (p.54)

III – Le radici p.54
 
IV – Il seme p.55
 
V – Traduzione d’un titolo p.57

 

Chi era suo padre? Per lui un banchiere ma per il resto della città un usuraio. Quindi ora, in quanto erede, usuraio anche lui agli occhi degli altri…
VI – Il buon figliuolo feroce p.58
Chi sono chiede alla moglie? Quale la sua professione? Un usuraio per gli altri, un comico figuro per la moglie…

 

Ah, ecco – un usurajo, per gli altri; uno stupido
qua, per Dida mia moglie. (p.59)
Almeno il padre lavorava, lui vive di rendita avendo affidato la gestione degli affari della banca agli amici Quantorzo e Firbo. Dovrà quindi prima di tutto togliersi quell’infame nomea sistemando i suoi nemici, i Di Dio, con cui già suo padre aveva avuto astio…

 

VII p.61


Sono quindi Marco Di Dio e la moglie Diamante i primi a sperimentare le “pazzie” del Vitangelo Moscarda, distruttore della propria immagine…
Marco di Dio e sua moglie Diamante
ebbero la ventura d’essere (se ben ricordo) le prime mie vittime. Voglio dire, le prime
designate all’esperimento della distruzione d’un Moscarda. (p.61)
Tempo, spazio, necessità. Sorte, fortuna, casi:
trappole tutte della vita. Volete essere? C’è questo. In astratto non si è. Bisogna che
s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là,
cosí o cosí. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena
d’esser cosí e di non poter piú essere altrimenti.(p.62)
l’essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch’esso si crea,
e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l’essere
in quella forma e in quell’atto ci appare. […] perché una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela
noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e
infinitamente mutabile. (p.64)


VIII – Caliamo un poco p.65



Tante realtà perfino per noi stessi…

C’è forse una realtà sola, una per tutti? Ma se abbiamo
visto che non ce n’è una neanche per ciascuno di noi, poiché in noi stessi la nostra
cangia di continuo! E allora? (p.65)

 IX – Chiudiamo la parentesi p.67
 
X – Due visite p.68

 

LIBRO QUARTO p.71
 
I – Com’erano per me Marco Di Dio e sua moglie Diamante p.71
 Marco Di Dio, aspirante inventore, pazzoide, già scultore di marmo, viveva con la moglie in un appartamento di proprietà di Vitangelo da anni senza pagare affitto. Era stato in carcere per aver violentato il modello durante la realizzazione di un’opera in marmo. Il padre aveva prestato molti soldi ai due che per questo lo odiavano. La casa gli dà quindi modo di dar via al primo esperimento…
Ora questa catapecchia appunto mi
diede il mezzo di tentare su lui il mio primo esperimento.(p.77)

 

II – Ma fu totale p.77

 Compirà un gesto clamoroso… 

Volevo compiere un atto che non doveva esser mio, ma di quell’ombra di
me che viveva realtà in un altro;[…] (p.77)
Rischiai, cioè, rischiammo tutti quanti, come
vedrete, il manicomio, questa prima volta; e non ci bastò. Dovevamo anche rischiar la
vita, perché io mi riprendessi e trovassi alla fine (uno, nessuno e centomila) la via
della salute. (p.78)


III – Atto notarile p.79


Va dal notaio Stampa cui espone il piano. Quello gli dice però che servono alcune carte da ritirare in banca…


IV – La strada maestra p.84
 
V – Sopraffazione p. 85


Entra dunque in banca per prendere i documenti occorrenti al notaio per il trasferimento di proprietà della casa, finendo però per insultare Firbo. Durante la lite e il seguente scambio di vedute realizza che:

 

“Ma sí! è qui tutto,” pensavo, “in
questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se
fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi
se non come li vede lui.” (p.88)
Loro lo credono logicamente fuori di senno. Lui taglia corto chiedendo delle carte della casa. Di Dio dovrà essere sfrattato…

 

Quel che avevo fatto, quel che dicevo non aveva certo né
ragione né senso per loro. Per ripigliarmi, dissi bruscamente:
«Alle corte. Ero venuto qua, oggi, per domandarvi
conto d’un certo Marco di Dio. Vorrei sapere com’è che costui da anni non paga piú la
pigione, e ancora non gli si fanno gli atti per cacciarlo via. » (p.91)
«Voglio che tu gli faccia subito gli atti. Lo
sfratto immediato. Il padrone sono io, e comando io.[…]
Sono sicuro che dietro quell’uscio rimasero ancora un
pezzo a guardarsi negli occhi, istupiditi, e che poi uno disse all’altro:
«Dev’essersi impazzito!» (p.92)
VI – Il furto p.92
Ed eccolo lì, in uno stanzino intento a rubarsi le sue stesse carte con mani che neanche si riconosce… 
VII – Lo scoppio p.96
Lo sfratto avviene sotto la pioggia, con Vitangelo ad assistervi tra gli insulti dei numerosi presenti che gli danno dell’usuraio, peggio del padre etc… Di Dio tenta di colpirlo con un mazzuolo ma poi ecco che il garzone del notaio Stampa legge il lascito. La gente, dapprima rabbiosa, sentito della donazione comincia a dargli del pazzo. Cosa che fa lo stesso Di Dio ritrovandoselo davanti nella casa appena ricevuta in dono…
«Fermi! Fermi! State a sentire! Vengo a nome del
notaro Stampa! State a sentire! Marco di Dio! Dov’è Marco di Dio? Vengo a nome del notaro
Stampa ad avvertirlo che c’è una donazione per lui! Quest’usurajo Moscarda…»
Ero, non saprei dir come, tutto un fremito, in attesa
del miracolo: la mia trasfigurazione, da un istante all’altro, agli occhi di tutti. Ma
all’improvviso quel mio fremito fu come tagliuzzato in mille parti e tutto il mio essere
come scaraventato e disperso di qua e di là a un’esplosione di fischi acutissimi, misti a
urla incomposte e a ingiurie di tutta quella folla al mio nome, non potendosi capire che
la donazione l’avessi fatta io, dopo la feroce crudeltà dello sgombero forzato.
«Morte! Abbasso!» urlava la folla. «Usurajo!
usurajo!»(p.97)
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»
Era lo stesso grido dl tutta la folla lí davanti la
porta:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»
Perché avevo voluto dimostrare, che potevo, anche
per gli altri non essere quello che mi si credeva.(p.99)
LIBRO QUINTO p.100
I – Con la coda tra le gambe p.100
 
 Quantorzo lo giustifica parzialmente, del resto anche il padre di tanto in tanto si lasciava andare a qualche “pazzia”. Firbo lo ritiene invece ormai impazzito…
 
II – Il riso di Dida p.101
 
La moglie se la ride pensando abbia fatto una goliardata. Lo manda quindi a portare a spasso la cagnolina Bibì…
 
III – Parlo con Bibì p.105
 
Parla con il cane…
«Vuoi sapere perché sia venuto a nascondermi qua?
Eh, Bibí, perché la gente mi guarda. Ha questo vizio, la gente, e non se lo può levare.
Ci dovremmo allora levare tutti quelli di portarci per via, a spasso, un corpo soggetto a
essere guardato. Ah, Bibí, Bibí, come faccio? Io non posso piú vedermi guardato neanche
da te. Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch’esse
appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c’è chi pensa che ci siete
anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi e chi sa come li
vedete, e che ve ne pare.(p.106)
IV – La vista degli altri p.107
  …cui alla fine rifila un calcione in uno scatto d’ira per poi delirare…
Perché, quand’uno pensa d’uccidersi,
s’immagina morto, non piú per sé, ma per gli altri?
Tumido e livido, come il cadavere d’un annegato,
rivenne a galla il mio tormento con questa domanda, dopo essermi sprofondato per piú
d’un’ora nella meditazione, là in quel recinto, se non sarebbe stato quello il momento di
farla finita, non tanto per liberarmi di esso tormento, quanto per fare una bella sorpresa
all’invidia che molti mi portavano o anche per dare una prova dell’imbecillità che molti
altri m’attribuivano. (pp.107-108)
Balzai in piedi, esterrefatto. Sapevo, sapevo la mia
solitudine; ma ora soltanto ne sentivo e toccavo veramente l’orrore, davanti a me stesso,
per ogni cosa che vedevo, se alzavo una mano e me la guardavo. Perché la vista degli
altri non è e non può essere nei nostri occhi se non per un’illusione a cui non potevo
piú credere; e, in un totale smarrimento, parendomi di vedere quel mio stesso orrore
negli occhi della cagnetta che s’era levata anche lei di scatto e mi guardava, per
togliermela davanti, quell’orrore, le allungai un calcio; ma subito ai guaiti laceranti
della bestiola, mi presi disperatamente la testa tra le mani, gridando:
«Impazzisco! impazzisco!»
Se non che, non so come, in quel gesto di
disperazione tornai a vedermi, e allora il pianto che stava per prorompermi dal petto mi
si mutò d’improvviso in uno scoppio di riso, e chiamai quella povera Bibí ch’era
mezza azzoppata, mi misi a zoppicare anch’io per burla, e tutto in preda a una gaia
smania feroce, le dissi che avevo giocato, giocato, e che volevo seguitare a giocare. La
bestiolina starnutiva, come per dirmi:
«Rifiuto! rifiuto!»
«Ah sí? Rifiuti, Bibí, rifiuti?
E allora mi misi a starnutire anch’io per
rifarle il verso, ripetendo a ogni starnuto:
«Rifiuto! rifiuto!»(pp.108-109)
V – Il bel gioco p. 109
VI – Moltiplicazione e sottrazione p.110
A casa trova Quantorzo a colloquio con la moglie. Sono in otto in casa, non tre…
Voglio dire:
1. Dida, com’era per sé;
2. Dida, com’era per me;
3. Dida, com’era per Quantorzo;
4. Quantorzo, com’era per sé;
5. Quantorzo, com’era per Dida;
6. Quantorzo, com’era per me;
7. il caro Gengè di Dida;
8. il caro Vitangelo di Quantorzo.
S’apparecchiava in quel salotto, fra quegli otto
che si credevano tre, una bella conversazione. (pp.111-112)
VII – Ma io intanto dicevo tra me p.112
 
VIII – Il punto vivo p.112
 
Quantorzo era lì giunto per interdirlo dagli affari della banca affinché non commettesse altre pazzie. Ma Vitangelo non cede ed anzi dichiara di voler liquidare i suoi affari nella banca per togliersi la nomea di usuraio…
«La banca… la banca… Non sai veder altro che la
banca, tu. Ma tocca a me poi, fuori, a sentirmi dare dell’usurajo!»(p.118)
Dida ride e così, scosso, in un gesto d’ira, Vitangelo la percuote e getta sul divano…
Fuori d’ogni immagine in cui potessi rappresentarmi
vivo a me stesso, come qualcuno anche per me, fuori d’ogni immagine di me quale mi
figuravo potesse essere per gli altri; un “punto vivo” in me s’era sentito
ferire cosí addentro, che perdetti il lume degli occhi.
«Finiscila di ridere!» gridai, ma con tal voce, a
mia moglie, che questa, guardandomi (e chi sa che viso dovette vedermi) d’un tratto
ammutolí, scontraffacendosi tutta.
«E tu stai bene attento a quello che ti dico,»
soggiunsi subito, rivolto a Quantorzo. «Voglio che la banca sia chiusa questa sera
stessa.» (p.119)
Sicché bastò che mia moglie, approfittando del mio improvviso smarrimento,
scattasse, imponendo al suo Gengè di finirla una buona volta con quella ridicola aria di
comando che voleva darsi, e mi venisse, cosí dicendo, quasi con le mani in faccia, bastò
questo perché io perdessi di nuovo il lume degli occhi e le afferrassi i polsi e
scrollandola e respingendola indietro la ributtassi a sedere sulla poltrona:
«Finiscila tu, col tuo Gengè che non sono io, non
sono io, non sono io! Basta con codesta marionetta! Voglio quello che voglio; e come
voglio sarà fatto!»
Mi voltai a Quantorzo.
«Hai capito?»
E uscii, furioso, dal salotto. (p.122)
LIBRO SESTO p.123
 
I – A tu per tu p.123
 
E finalmente non era più stato Gengè per sua moglie, sebbene a costo di una violenza…
Per tutta la notte va avanti a pensare a come spenderà i soldi della liquidazione…
Non piú Gengè.
Un altro.
Avevo proprio voluto questo.
Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento
che mi scopriva nessuno e centomila? (p.124)
 
II – Nel vuoto p.125
 
A tratti si sente perfino sollevato per il fatto di esser finalmente solo ora che la moglie ha lasciato la casa…
Come fui solo, stranamente quasi ilare d’improvviso,
pensai: “Sono libero! Se n’è andata via!”. (p.125)
III – Seguito a compromettermi p.126
 
L’indomani giunge in casa il suocero…
 
IV – Medico? Avvocato? Professore? Deputato? p.128
Vitangelo non dà segno di ravvedimento e anzi, dice al suocero che potrà dedicarsi a vari mestieri. Quello se ne va dandogli del pazzo…
 
V – Io dico, poi perché? p.131
 
Anche per il suocero l’immagine di Gengè si è quindi dissolta…
La ragione era un’altra, lo so bene. Non mi ci
vedeva neanche lui
, mio suocero. Per motivi ben altri dai miei.
Non poteva ammettere, lui, ch’io gli levassi il
genero (quel suo Gengè ch’egli vedeva in me, chi sa come) dalle condizioni in cui se
n’era stato finora, cioè da quella comoda consistenza di marionetta che lui da un canto e
la figlia dall’altro, e dal canto loro tutti i socii della banca gli avevano dato. (p.131)
VI – Vincendo il riso p.132
 
Invero quelle proposte professionali avevano fatto ridere perfino lui…
Pur non di meno quelle stesse proposte, fatte per
ridere a mio suocero, io le avevo fatte sul serio a me stesso durante la notte, vincendo
il riso che mi provocavano le immagini di me avvocato o medico o professore. (p.132)
 
LIBRO SETTIMO p.133
 
I – Complicazione p.133
 
L’indomani con un biglietto un’amica della moglie, Anna Rosa, lo invita ad andare a casa sua…
Andai pertanto a quell’invito con
una grande curiosità. Non riuscivo a indovinarne la ragione. (p.134)
II – Primo avvertimento p.135
In casa la donna non c’è e così Vitangelo è costretto a recarsi alla Badìa…
III – La Rivoltella tra i fiori p.135
[…]andai su alla Badìa. (p.135)
Dopo lunga attesa finalmente giunge la bella Anna Rosa che corre per i corridoi con dei fiori in mano chiedendogli di seguirlo. Ma, inciampando, la borsetta le cade e dall’interno parte un colpo di pistola che la ferisce a un piede… La riporta a casa Vitangelo…
Corse, invitandomi
a seguirla in fondo al corridojo, salí sullo scalino sotto al finestrone, ma nel salire,
forse per riparare con una mano una parte dei fiori che stava per sfuggirle si lasciò
invece cadere dall’altra la borsetta, e subito il fragore d’una detonazione seguito da un
altissimo grido fece rintronare tutto il corridojo. (p.137)
Che in quella borsetta caduta
dovesse esserci una rivoltella la quale, esplodendo, l’aveva ferita a un piede, m’era
apparso subito evidente; ma non cosí la ragione per cui la portava con sé, e proprio
quella mattina che mi aveva dato convegno alla Badía. Mi parve stranissimo; ma non mi
passò neppur lontanamente per il capo in quel momento che l’avesse portata per me.
Piú che mai stordito, vedendo che
nessuno mi dava aiuto per soccorrere la ferita, me la tolsi di peso sulle braccia e la
portai fuori della Badía, giú per la straducola, a casa. (p.138)
IV – Spiegazione p.138
La notizia si diffonde subito in paese. La prima idea è di una relazione tra la donna e Gengè, come da sempre sospettato da Dida…
La notizia di
quello strano accidente alla Badía Grande e di me che ne uscivo a precipizio reggendo
sulle braccia Anna Rosa ferita, si propagò per Richieri in un baleno, dando subito
pretesto a malignazioni che per la loro assurdità mi parvero in prima perfino ridicole.
(p.138)
Perché Gengè, signori miei, quello
stupidissimo Gengè di mia moglie Dida, covava, senza ch’io ne sapessi nulla, una
bruciante simpatia per Anna Rosa. Se l’era messo in testa Dida; Dida che se n’era accorta.
Non ne aveva detto mai nulla a Gengè; ma lo aveva confidato, sorridendone, alla sua
amichetta, per farle piacere e fors’anche per spiegarle che c’era il suo motivo, se
Gengè la schivava, quand’ella veniva in visita; la paura d’innamorarsene.
Non mi riconosco nessun diritto di
smentire codesta simpatia di Gengè per Anna Rosa. Potrei al piú sostenere che non era
vera per me; ma non sarebbe giusto neppure questo, perché effettivamente non m’ero mai
curato di sapere se sentissi antipatia o simpatia per quell’amichetta di mia moglie. (p.139)
La donna spiega che la pistola la portava sempre con sé, ricordo del padre, e che non l’aveva di certo presa per sparare a lui. Le suore invece non l’avevano soccorsa perché in attesa del vescovo. Lo aveva infine fatto salire in Badìa per avvertirlo delle manovre di interdizione poste in atto da Dida e della possibilità di colloquiare con il monsignore al fine di mantenere la disponibilità dei beni…
Ella sapeva che quella mattina
monsignor Partanna, vescovo di Richieri, sarebbe andato a far visita alle vecchie suore
della Badía Grande, come soleva ogni mese. Per quelle vecchie suore quella visita era
come un’anticipazione della beatitudine celeste: rischiare d’averla guastata da
quell’accidente era stato perciò per loro la costernazione piú grave. Mi aveva fatto
venire su alla Badía perché voleva ch’io parlassi subito, quella mattina stessa,
col vescovo.
«Io, col vescovo? E perché?»
Per ovviare a tempo ciò che si
stava tramando contro di me. (p.141)
Quelle rivelazioni gli fanno vedere Dida sotto altri occhi. La donna, è evidente, lo aveva sposato solo perché un “buon partito”…
 
V – Il Dio di dentro e il Dio di fuori p.144
Quel punto vivo che
s’era sentito ferire in me quando mia moglie aveva riso nel sentirmi dire che non
volevo piú mi si tenesse in conto d’usurajo a Richieri, era Dio senza alcun dubbio: Dio
che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva piú tollerare che gli altri
a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo. (p.144)
VI – Un vescovo non comodo p.145
Andai dunque a
trovare al Vescovado monsignor Partanna. (p.145)
L’uomo è un prelato dabbene che non ostenta sfarzo provocando i commenti della gente, abituata agli sfarzi del predecessore…
VII – Un colloquio con il Monsignore p.147
 
Il vescovo potrà dargli una mano se userà parte dei beni per finanziare un’opera di carità sotto la guida di Don Antonio Sclepis…
Mi avrebbe dato, sí,
una mano per farmi riavere il danaro, ma a patto ch’esso servisse alla costruzione di
almeno una casa a un altro dei piú rispettabili sentimenti umani: voglio dire, la
carità.
Monsignore, al termine del nostro
colloquio mi domandò con aria solenne se non volevo questo.
Dovetti rispondergli che volevo
questo.
E allora egli sonò un vecchio
annerito e insordito campanellino d’argento che stava timido timido sulla tavola. Apparve
un giovane chierico biondo e molto pallido. Monsignore gli ordinò di far venire Don
Antonio Sclepis, canonico della Cattedrale e direttore del Collegio degli Oblati,
ch’era in anticamera. (p.149)
Accetta, anche se non saprà cosa fare una volta privato di tutti i propri beni…
Uscii dal Palazzo Vescovile con la
certezza che l’avrei avuta vinta su coloro che mi volevano interdire; ma questa certezza e
gl’impegni che ne derivavano, contratti ora col vescovo e con lo Sclepis, mi gettavano in
un mare d’incertezze senza fine su ciò che sarebbe stato di me, spogliato di tutto, senza
piú né stato, né famiglia. (p.150)
VIII – Aspettando p.151
 
Torna quindi da Anna Rosa, convalescente, unica persona rimastagli. La donna, venticinquenne, è decisamente bella e resta affascinata dalle sue spiegazioni sulla personalità…
«Ah, lei sí; perché ora non si
vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non è piú.»
«E perché?»
«Perché bisogna che lei fermi un
attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei
s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove
di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa»
«E allora io, viva, non mi sono mai
veduta?»
«Mai, come posso vederla io. Ma io
vedo un’immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà
forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma
ne avrà certo provato un’ingrata sorpresa. Avrà fors’anche stentato a riconoscersi,
lí scomposta, in movimento.»
«È vero.»
«Lei non può conoscersi che
atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. (p.153)
Perché, tanto, non riuscirà
mai a conoscersi per come la vedono gli altri.(p.154)
La donna era già alienata di suo, quasi quanto Vitangelo stesso…
 Con quella zia ella non scambiava
che pochissime parole durante tutto il giorno. Viveva con sé, di sé; leggeva,
fantasticava, ma sempre insofferente, cosí delle letture come delle sue stesse
fantasticherie; usciva a far compere, a trovar questa o quella amica; ma le sembravano
tutte sciocche e vane; provava piacere a sbalordirle; poi, rincasando, si sentiva stanca e
seccata di tutto. Certi invincibili disgusti, che si potevano indovinare in lei da uno
scatto o da un verso improvviso per qualche allusione, forse li doveva alla lettura di
libri di medicina trovati nella biblioteca del padre, ch’era stato medico. Diceva che
non avrebbe mai preso marito. (p.156)
Affascinata, la donna lo attrae a sé ma poi, chissà perché, gli spara! 
Eppure fu proprio lei a volermi
uccidere, e proprio quando da questa soddisfazione ch’io le davo, e che la faceva un
pò ridere, passò a una grande pietà di me, per rispondere, come affascinata, a quella
che, certo, io dovevo avere negli occhi, mentre la guardavo come dall’infinita lontananza
d’un tempo che avesse perduto ogni età. […]
So che dal letto mi tese le braccia; so che
m’attrasse a sé.
Da quel letto poco dopo rotolai,
cieco, ferito al petto mortalmente dalla piccola rivoltella ch’ella teneva sotto il
guanciale.
Devono esser vere le ragioni
ch’ella poi disse in sua discolpa: cioè che fu spinta ad uccidermi dall’orrore
istintivo, improvviso, dell’atto a cui stava per sentirsi trascinata dal fascino strano di
tutto quanto in quei giorni io le avevo detto. (p.157)
LIBRO OTTAVO p.158
 
I – Il giudice vuole il suo tempo p.158
 
Nella deposizione Vitangelo mente per salvare Anna Rosa dicendo che il colpo è partito per sua colpa toccando il cuscino. Ma la donna aveva già confessato scagionandolo. Peraltro, senza quella confessione, sarebbe stato accusato lui di tentata violenza cui la donna si sarebbe difesa con la pistola. Del resto non era risaputa la sua passione per lei?
Cosí sarebbe rimasto, senza dubbio,
acquisito alla giustizia che Anna Rosa aveva tentato d’uccidermi per difendersi da una mia
brutale aggressione, se Anna Rosa stessa non avesse assicurato con giuramento il giudice
che non c’era stata veramente nessuna aggressione da parte mia, ma solo quel tale fascino
involontariamente esercitato su lei con le mie curiosissime considerazioni sulla vita:
fascino da cui ella s’era lasciata prendere cosí fortemente, da ridursi a commettere
quella pazzia. (p.159)
II – La coperta di lana verde p.160
In convalescenza Vitangelo si gode il riposo. Una coperta verde è per lui un campo di grano che lo fa viaggiare con la mente. Ma il giudice giunge per saperne di più sulle sue teorie, quelle che hanno portato Anna Rosa a compiere l’insano gesto. Ma lui rifiuta di esporgliele…
Ero stato
ricondotto dall’ospedale a casa in barella; e, già entrato in convalescenza, avevo
lasciato il letto e me ne stavo in quei giorni adagiato beatamente su una poltrona vicino
alla finestra, con una coperta di lana verde sulle gambe. […]
Ci vedevo la campagna: come se fosse tutta una
sterminata distesa di grano; e, carezzandola, me ne beavo, sentendomici davvero, in mezzo
a tutto quel grano, con un senso di cosí smemorata lontananza, che quasi ne avevo
angoscia, una dolcissima angoscia.
Ah, perdersi là, distendersi e
abbandonarsi, cosí tra l’erba al silenzio dei cieli; empirsi l’anima di tutta quella vana
azzurrità, facendovi naufragare ogni pensiero, ogni memoria!
Poteva, domando io, capitare piú
inopportuno quel giudice? (p.160)
Le mie considerazioni sulla vita?
«Ah signor giudice,» gli dissi,
«non è possibile, creda, ch’io gliele ripeta.(p.161)

 

III – Remissione p.162

 

Ormai raggiunto lo stato di disinteresse (per sé nessuno), Vitangelo dice si a tutto quanto propostogli da Sclepis: pentirsi di tutto (nonostante sia innocente), salvando così i beni da donare alla fondazione di un centro di ricovero di carità dove avrebbe vissuto lui stesso al pari degli altri…

 

Ormai allo Sclepis, di fronte alla
sollevazione di tutti, non restava che riconoscere le mie deplorevoli colpe, e per
salvarmi non vedeva piú altro scampo che nella confessione aperta di esse da parte mia. (p.162)
Si venne alla decisione chè io
avrei dato un esemplare e solennissimo esempio di pentimento e d’abnegazione, facendo dono
di tutto, anche della casa e d’ogni altro mio avere, per fondare con quanto mi sarebbe
toccato dalla liquidazione della banca un ospizio di mendicità con annessa cucina
economica aperta tutto l’anno, non solo a beneficio dei ricoverati, ma anche di tutti i
poveri che potessero averne bisogno; e annesso anche un vestiario per ambo i sessi e per
ogni età, di tanti capi all’anno; e che io stesso vi avrei preso stanza, dormendo
senz’alcuna distinzione, come ogni altro mendico, in una branda, mangiando come tutti gli
altri la minestra in una ciotola di legno, e indossando l’abito della comunità destinato
a uno della mia età e del mio sesso.
Quel che piú mi coceva era che
questa mia totale remissione fosse interpretata come vero pentimento, mentre io davo
tutto, non m’opponevo a nulla, perché remotissimo ormai da ogni cosa che potesse avere un
qualche senso o valore per gli altri, e non solo alienato assolutamente da me stesso e da
ogni cosa mia, ma con l’orrore di rimanere comunque qualcuno, in possesso di
qualche cosa.(p.163)
Ecco: per sé, nessuno.
Era questa, forse, la via che
conduceva a diventare uno per tutti. (p.164)
IV – Non conclude p.164
Anna Rosa viene assolta. Lui si presenta in tribunale con gli abiti della confraternita provocando l’ilarità di tutti i presenti. Ma la pace interiore è da lui stata raggiunta. Tutto è in lui e lui è in tutto, immerso nella natura. Rinascendo di attimo in attimo…
Nessun nome. Nessun ricordo oggi del
nome di jeri; del nome d’oggi, domani. […]
 Quest’albero, respiro trèmulo di foglie
nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il
vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
L’ospizio sorge in campagna, in un
luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito
cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono che sanno ancora del crudo
della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli.(p.165)
Cosí soltanto io posso vivere, ormai.
Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero sí metta in me di nuovo a lavorare,
e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.[…]
Pensa alla morte,
a pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non
l’ho piú questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi:
vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.  (p.166)
NOTE p.167
 
APPENDICE p.175
 
MICHELINA E TUROLLA p.177
 
«ALBA» p.182
 
STEFANO PIRANDELLO, PREFAZIONE A «UNO, NESSUNO E CENTOMILA» p.184
 
INDICE p.191