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MONDADORI – Collana OSCAR – Tutte le opere di Pirandello n°3 – 2002 16° ristampa
Marziano GuglielminettiCRONOLOGIA DI
Simona Costa
INTRODUZIONE p.V
CRONOLOGIA p.XXXIII
BIBLIOGRAFIA p.LI
UNO, NESSUNO E CENTOMILA p.1
LIBRO PRIMO p.3
I – Mia moglie e il mio naso
domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.»
la coda:
destra.»
mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti
della mia persona. […] La scoperta
improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzì come un immeritato castigo.(p.3)
quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto
senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí…
[…]non
diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto
che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle
sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender
moglie per aver conto che li avevo difettosi.
apposta per scoprire i difetti del marito.»
permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o
mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano
dentro e bucheravano giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa;
senza che di fuori ne paresse nulla.(p.5)
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti,
sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque possibile? non conoscevo bene
neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú intimamente m’appartenevano: il naso le
orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame. (p.6)
Diventa un’ossessione. Se lo ha notato sua moglie, figuriamoci gli altri. E così eccolo a cercar conferma da un amico. La ottiene e così, di lì a una settimana, tutta Richieri pullula di persone intente a osservarsi i difetti segnalati da altri…
III – Bel modo d’esser soli! p.10
Desidera quindi di rimaner solo in casa per poter dedicare un po’ di tempo allo studio di sé e della propria immagine. Ma la moglie, Dida, resta sempre in casa. Inoltre numerosi ricordi gli si affacciano continuamente alla mente…
Desiderai da quel giorno ardentissimamente d’esser
solo, almeno per un’ora. Ma veramente, piú che desiderio, era bisogno: bisogno acuto
urgente smanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino alla
rabbia. (p.10)
IV – Com’io volevo esser solo p.12
nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con
un estraneo attorno.[…]
Così volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire
senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. (p.12)
Chi sono io?, si chiede Vitangelo. Impossibile vedersi come gli altri ti vedono. Vuol quindi cercare di inseguire l’estraneo che è in lui e che gli sfugge…
d’essere per me, chi ero io?(p.13)
ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita;
vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come
quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in
me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto.
disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non
potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo;
quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano
vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io cosí come gli altri lo vedevano
e conoscevano. (p.14)
estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce
mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli
altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà,
tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se
me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi,
abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.
le mie incredibili pazzie.(p.15)
V – Inseguimento dell’estraneo p.15
fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia, davanti a tutti gli
specchi di casa, guardandomi davanti e dietro per non essere scorto da mia moglie,
nell’attesa smaniosa ch’ella, uscendo per qualche visita o compera, mi lasciasse solo
finalmente per un buon pezzo.[…]
Volevo sorprendermi nella naturalezza dei miei atti[…] (p.15)Come sopportare in me quest’estraneo? quest’estraneo
che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre
condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia? (p.16)
VI – Finalmente! p.17
Finalmente la moglie lo lascia da solo andando a trovare un’amica malata…
VII – Filo d’aria p.17
No, Vitangelo proprio non si riconosce in quel corpo allo specchio. Starnutisce e ride…
Il mio
sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d’essere veduto da
me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell’altro che tutti vedono
e io no. Su, dunque, calma, arresto d’ogni vita e attenzione! Aprii gli occhi. Che vidi? Niente. Mi vidi. Ero io, là, aggrondato,
carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato. (p.19)
attesa che qualcuno se lo prendesse.[…] Non conosceva
nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore,
e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le palpebre, e non se n’accorgeva.[…]Chi era? Ero io? Ma poteva anche essere un altro!
Chiunque poteva essere, quello lí.(p.20)
Vidi davanti a me, non per mia volontà,
l’apatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente,
arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all’indietro, contrarre le labbra in su e
provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare cosí un attimo sospeso e poi
crollar due volte a scatto per lo scoppio d’una coppia di sternuti. S’era commosso da sé, per conto suo, a un filo
d’aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori
della mia volontà.«Salute!» gli dissi. E guardai nello specchio il mio primo riso da matto. (p.22)
Vitangelo giunge dunque alle seguenti conclusioni:
prima lista delle riflessioni rovinose e delle terribili conclusioni derivate
dall’innocente momentaneo piacere che Dida mia moglie aveva voluto prendersi. Dico, di
farmi notare che il naso mi pendeva verso destra.
finora avevo creduto di essere per me;
estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo
modo; e io no;
estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo;
era per me come un’apparizione di sogno, una cosa che non sapeva di vivere e che
restava lí, in attesa che qualcuno se la prendesse;
corpo, per essere a volta a volta quale mi volevo e mi sentivo, cosí se lo poteva
prendere qualunque altro per dargli una realtà a modo suo;
niente e tanto nessuno, che un filo d’aria poteva farlo starnutire, oggi, e domani
portarselo via.
Dida mia moglie mi chiamava Gengè;
per quelli che mi stavano piú vicini, cosí detti conoscenti, e di spassarmi a scomporre
dispettosamente quell’io che ero per loro. (pp.22-23)
Non ci si pone il problema perché si ritiene che gli altri abbiano di noi la nostra stessa rappresentazione, che al posto nostro si sarebbero comportati alla stessa maniera…
Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo
di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di
ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell’altrui giudizio non
v’importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata
illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi
vi rappresentate.[…]
Insomma, se qualche volta appena appena avvertite di non essere
per gli altri quello stesso che per voi; che fate? (Siate sinceri). Nulla fate, o ben
poco. Ritenete al piú al piú, con bella e intera sicurezza di voi stessi, che gli altri
vi hanno mal compreso, mal giudicato; e basta. (pp.24-25)
Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la
realtà, qual’è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri.(p.26)
perché allora, santo Dio, fate come se non si
sapesse? Perché seguitate a credere che la sola realtà sia la vostra, questa d’oggi, e
vi maravigliate, vi stizzite, gridate che sbaglia il vostro amico, il quale, per quanto
faccia, non potrà mai avere in sé, poverino, lo stesso animo vostro? (p.32)
Ognuno ha una realtà propria…
realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date; le quali non saranno mai le
stesse né per voi né per me.
non è piú vera la mia che la vostra, e che durano un momento cosí la vostra come la
mia.(p.34)
come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi piú neanche del proprio nome! Sdraiati
qua sull’erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche
nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole; udire il vento che fa lassú, tra i
castagni del bosco, come un fragor di mare.
vero, che vola davvero, e avete smarrito il senso e il valore delle ali finte e del volo
meccanico. Lo riacquisterete subito là, dove tutto è finto e meccanico, riduzione e
costruzione: un altro mondo nel mondo: mondo manifatturato, combinato, congegnato; mondo
d’artificio, di stortura, d’adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e
valore soltanto per l’uomo che ne è l’artefice. (p.40)
stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.[…] Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar
forma. Ma che conoscenza può essere? E forse questa forma la cosa stessa? Sí, tanto per
me, quanto per voi; ma non cosí per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco
nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è
uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia
di continuo. […] (p.42)
Vuoi che non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi gusti,
io, e come tu la pensi.»
E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso.
che non lo conoscessi io! Se l’era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il
fantoccio ero io.
non esistevo affatto, non ero mai esistito.
ella s’era formato, che aveva pensieri sentimenti e gusti che non eran i miei e che io non
avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro
che ella non avrebbe piú riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe piú potuto né
comprendere né amare.[…] (p.44)
conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di
illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo
modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che
non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà. (p.45)
Decide quindi di distruggere quel Gengè imponendo una realtà di sé sconosciuta alla moglie…
fine, esasperato, lo volli distruggere imponendo, invece della sua, una mia realtà, mia
moglie, che non era stata mai mia moglie ma la moglie di colui, si ritrovò subito,
inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi
piú amare, di non poter piú convivere con me neanche un minuto e scappò via.
succinto, le pazzie che cominciai a fare per scoprire tutti quegli altri Moscarda che
vivevano nei miei piú vicini conoscenti, e distruggerli a uno a uno.
finora a costruire di me stesso un Moscarda che consistesse ai miei occhi e per mio conto
in un modo d’essere che mi paresse da distinguere come a me proprio e particolare,
sintende che non mi era possibile agire con una qualche logica coerenza. Dovevo a volta a
volta dimostrarmi il contrario di quel che ero o supponevo d’essere in questo e in quello
dei miei conoscenti, dopo essermi sforzato di comprendere la realtà che m’avevano data:
meschina, per forza, labile, volubile e quasi inconsistente.
certo valore dovevo pur averlo per gli altri, oltre che per le mie fattezze fuori della
veduta mia e della mia estimativa, anche per tante cose a cui finora non avevo mai
pensato.
tutt’uno. (p.50)
chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di
me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.[…]
stesso della mia voce? del mio aspetto? Io non ero piú un indistinto io che
parlava e guardava gli altri, ma uno che gli altri invece guardavano, fuori di loro, e che
aveva un tono di voce e un aspetto ch’io non mi conoscevo.(p.51)
cioè in quello che essi mi davano, in ogni mia parola che sonava per loro con una voce
ch’io non potevo sapere, in ogni mio atto interpretato da ciascuno a suo modo, sempre
c’erano per gli altri impliciti il mio nome e il mio corpo. (p.52)
cosí, e basta. Nella vita. Come se in tutto mi fossi fatto da me. Ma come quel corpo non
me l’ero fatto io, come non me l’ero dato io quel nome, e nella vita ero stato messo da
altri senza mia volontà; cosí, senza mia volontà, tant’altre cose m’erano venute sopra
dentro intorno, da altri; tant’altre cose m’erano state fatte, date da altri, a cui
effettivamente io non avevo mai pensato, mai dato immagine, l’immagine strana, nemica, con
cui mi s’avventavano adesso. (p.53)
[…]potevo
essere per me uno qualunque, ma per gli altri no; per gli altri avevo tante sommarie
determinazioni, ch’io non m’ero date né fatte e a cui non avevo mai badato; e quel
mio poter credermi un uomo qualunque voglio dire quel mio stesso ozio, che credevo proprio
mio, non era neanche mio per gli altri: m’era stato dato da mio padre, dipendeva dalla
ricchezza di mio padre; ed era un ozio feroce, perché mio padre… (p.54)
qua, per Dida mia moglie. (p.59)
ebbero la ventura d’essere (se ben ricordo) le prime mie vittime. Voglio dire, le prime
designate all’esperimento della distruzione d’un Moscarda. (p.61)
trappole tutte della vita. Volete essere? C’è questo. In astratto non si è. Bisogna che
s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là,
cosí o cosí. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena
d’esser cosí e di non poter piú essere altrimenti.(p.62)
e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l’essere
in quella forma e in quell’atto ci appare. […] perché una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela
noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e
infinitamente mutabile. (p.64)
Tante realtà perfino per noi stessi…
C’è forse una realtà sola, una per tutti? Ma se abbiamo
visto che non ce n’è una neanche per ciascuno di noi, poiché in noi stessi la nostra
cangia di continuo! E allora? (p.65)
diede il mezzo di tentare su lui il mio primo esperimento.(p.77)
Compirà un gesto clamoroso…
me che viveva realtà in un altro;[…] (p.77)
vedrete, il manicomio, questa prima volta; e non ci bastò. Dovevamo anche rischiar la
vita, perché io mi riprendessi e trovassi alla fine (uno, nessuno e centomila) la via
della salute. (p.78)
questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se
fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi
se non come li vede lui.” (p.88)
ragione né senso per loro. Per ripigliarmi, dissi bruscamente:
conto d’un certo Marco di Dio. Vorrei sapere com’è che costui da anni non paga piú la
pigione, e ancora non gli si fanno gli atti per cacciarlo via. » (p.91)
sfratto immediato. Il padrone sono io, e comando io.[…]
pezzo a guardarsi negli occhi, istupiditi, e che poi uno disse all’altro:
notaro Stampa! State a sentire! Marco di Dio! Dov’è Marco di Dio? Vengo a nome del notaro
Stampa ad avvertirlo che c’è una donazione per lui! Quest’usurajo Moscarda…»
del miracolo: la mia trasfigurazione, da un istante all’altro, agli occhi di tutti. Ma
all’improvviso quel mio fremito fu come tagliuzzato in mille parti e tutto il mio essere
come scaraventato e disperso di qua e di là a un’esplosione di fischi acutissimi, misti a
urla incomposte e a ingiurie di tutta quella folla al mio nome, non potendosi capire che
la donazione l’avessi fatta io, dopo la feroce crudeltà dello sgombero forzato.
usurajo!»(p.97)
porta:
per gli altri non essere quello che mi si credeva.(p.99)
Eh, Bibí, perché la gente mi guarda. Ha questo vizio, la gente, e non se lo può levare.
Ci dovremmo allora levare tutti quelli di portarci per via, a spasso, un corpo soggetto a
essere guardato. Ah, Bibí, Bibí, come faccio? Io non posso piú vedermi guardato neanche
da te. Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch’esse
appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c’è chi pensa che ci siete
anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi e chi sa come li
vedete, e che ve ne pare.(p.106)
s’immagina morto, non piú per sé, ma per gli altri?
rivenne a galla il mio tormento con questa domanda, dopo essermi sprofondato per piú
d’un’ora nella meditazione, là in quel recinto, se non sarebbe stato quello il momento di
farla finita, non tanto per liberarmi di esso tormento, quanto per fare una bella sorpresa
all’invidia che molti mi portavano o anche per dare una prova dell’imbecillità che molti
altri m’attribuivano. (pp.107-108)
solitudine; ma ora soltanto ne sentivo e toccavo veramente l’orrore, davanti a me stesso,
per ogni cosa che vedevo, se alzavo una mano e me la guardavo. Perché la vista degli
altri non è e non può essere nei nostri occhi se non per un’illusione a cui non potevo
piú credere; e, in un totale smarrimento, parendomi di vedere quel mio stesso orrore
negli occhi della cagnetta che s’era levata anche lei di scatto e mi guardava, per
togliermela davanti, quell’orrore, le allungai un calcio; ma subito ai guaiti laceranti
della bestiola, mi presi disperatamente la testa tra le mani, gridando:
disperazione tornai a vedermi, e allora il pianto che stava per prorompermi dal petto mi
si mutò d’improvviso in uno scoppio di riso, e chiamai quella povera Bibí ch’era
mezza azzoppata, mi misi a zoppicare anch’io per burla, e tutto in preda a una gaia
smania feroce, le dissi che avevo giocato, giocato, e che volevo seguitare a giocare. La
bestiolina starnutiva, come per dirmi:
rifarle il verso, ripetendo a ogni starnuto:
che si credevano tre, una bella conversazione. (pp.111-112)
banca, tu. Ma tocca a me poi, fuori, a sentirmi dare dell’usurajo!»(p.118)
vivo a me stesso, come qualcuno anche per me, fuori d’ogni immagine di me quale mi
figuravo potesse essere per gli altri; un “punto vivo” in me s’era sentito
ferire cosí addentro, che perdetti il lume degli occhi.
mia moglie, che questa, guardandomi (e chi sa che viso dovette vedermi) d’un tratto
ammutolí, scontraffacendosi tutta.
soggiunsi subito, rivolto a Quantorzo. «Voglio che la banca sia chiusa questa sera
stessa.» (p.119)
scattasse, imponendo al suo Gengè di finirla una buona volta con quella ridicola aria di
comando che voleva darsi, e mi venisse, cosí dicendo, quasi con le mani in faccia, bastò
questo perché io perdessi di nuovo il lume degli occhi e le afferrassi i polsi e
scrollandola e respingendola indietro la ributtassi a sedere sulla poltrona:
sono io, non sono io! Basta con codesta marionetta! Voglio quello che voglio; e come
voglio sarà fatto!»
Per tutta la notte va avanti a pensare a come spenderà i soldi della liquidazione…
che mi scopriva nessuno e centomila? (p.124)
pensai: “Sono libero! Se n’è andata via!”. (p.125)
vedeva neanche lui, mio suocero. Per motivi ben altri dai miei.
genero (quel suo Gengè ch’egli vedeva in me, chi sa come) dalle condizioni in cui se
n’era stato finora, cioè da quella comoda consistenza di marionetta che lui da un canto e
la figlia dall’altro, e dal canto loro tutti i socii della banca gli avevano dato. (p.131)
ridere a mio suocero, io le avevo fatte sul serio a me stesso durante la notte, vincendo
il riso che mi provocavano le immagini di me avvocato o medico o professore. (p.132)
una grande curiosità. Non riuscivo a indovinarne la ragione. (p.134)
a seguirla in fondo al corridojo, salí sullo scalino sotto al finestrone, ma nel salire,
forse per riparare con una mano una parte dei fiori che stava per sfuggirle si lasciò
invece cadere dall’altra la borsetta, e subito il fragore d’una detonazione seguito da un
altissimo grido fece rintronare tutto il corridojo. (p.137)
dovesse esserci una rivoltella la quale, esplodendo, l’aveva ferita a un piede, m’era
apparso subito evidente; ma non cosí la ragione per cui la portava con sé, e proprio
quella mattina che mi aveva dato convegno alla Badía. Mi parve stranissimo; ma non mi
passò neppur lontanamente per il capo in quel momento che l’avesse portata per me.
nessuno mi dava aiuto per soccorrere la ferita, me la tolsi di peso sulle braccia e la
portai fuori della Badía, giú per la straducola, a casa. (p.138)
quello strano accidente alla Badía Grande e di me che ne uscivo a precipizio reggendo
sulle braccia Anna Rosa ferita, si propagò per Richieri in un baleno, dando subito
pretesto a malignazioni che per la loro assurdità mi parvero in prima perfino ridicole.
(p.138)
stupidissimo Gengè di mia moglie Dida, covava, senza ch’io ne sapessi nulla, una
bruciante simpatia per Anna Rosa. Se l’era messo in testa Dida; Dida che se n’era accorta.
Non ne aveva detto mai nulla a Gengè; ma lo aveva confidato, sorridendone, alla sua
amichetta, per farle piacere e fors’anche per spiegarle che c’era il suo motivo, se
Gengè la schivava, quand’ella veniva in visita; la paura d’innamorarsene.
smentire codesta simpatia di Gengè per Anna Rosa. Potrei al piú sostenere che non era
vera per me; ma non sarebbe giusto neppure questo, perché effettivamente non m’ero mai
curato di sapere se sentissi antipatia o simpatia per quell’amichetta di mia moglie. (p.139)
monsignor Partanna, vescovo di Richieri, sarebbe andato a far visita alle vecchie suore
della Badía Grande, come soleva ogni mese. Per quelle vecchie suore quella visita era
come un’anticipazione della beatitudine celeste: rischiare d’averla guastata da
quell’accidente era stato perciò per loro la costernazione piú grave. Mi aveva fatto
venire su alla Badía perché voleva ch’io parlassi subito, quella mattina stessa,
col vescovo.
stava tramando contro di me. (p.141)
s’era sentito ferire in me quando mia moglie aveva riso nel sentirmi dire che non
volevo piú mi si tenesse in conto d’usurajo a Richieri, era Dio senza alcun dubbio: Dio
che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva piú tollerare che gli altri
a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo. (p.144)
trovare al Vescovado monsignor Partanna. (p.145)
una mano per farmi riavere il danaro, ma a patto ch’esso servisse alla costruzione di
almeno una casa a un altro dei piú rispettabili sentimenti umani: voglio dire, la
carità.
colloquio mi domandò con aria solenne se non volevo questo.
questo.
annerito e insordito campanellino d’argento che stava timido timido sulla tavola. Apparve
un giovane chierico biondo e molto pallido. Monsignore gli ordinò di far venire Don
Antonio Sclepis, canonico della Cattedrale e direttore del Collegio degli Oblati,
ch’era in anticamera. (p.149)
certezza che l’avrei avuta vinta su coloro che mi volevano interdire; ma questa certezza e
gl’impegni che ne derivavano, contratti ora col vescovo e con lo Sclepis, mi gettavano in
un mare d’incertezze senza fine su ciò che sarebbe stato di me, spogliato di tutto, senza
piú né stato, né famiglia. (p.150)
vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non è piú.»
attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei
s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove
di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa»
veduta?»
vedo un’immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà
forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma
ne avrà certo provato un’ingrata sorpresa. Avrà fors’anche stentato a riconoscersi,
lí scomposta, in movimento.»
atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. (p.153)
mai a conoscersi per come la vedono gli altri.(p.154)
che pochissime parole durante tutto il giorno. Viveva con sé, di sé; leggeva,
fantasticava, ma sempre insofferente, cosí delle letture come delle sue stesse
fantasticherie; usciva a far compere, a trovar questa o quella amica; ma le sembravano
tutte sciocche e vane; provava piacere a sbalordirle; poi, rincasando, si sentiva stanca e
seccata di tutto. Certi invincibili disgusti, che si potevano indovinare in lei da uno
scatto o da un verso improvviso per qualche allusione, forse li doveva alla lettura di
libri di medicina trovati nella biblioteca del padre, ch’era stato medico. Diceva che
non avrebbe mai preso marito. (p.156)
uccidere, e proprio quando da questa soddisfazione ch’io le davo, e che la faceva un
pò ridere, passò a una grande pietà di me, per rispondere, come affascinata, a quella
che, certo, io dovevo avere negli occhi, mentre la guardavo come dall’infinita lontananza
d’un tempo che avesse perduto ogni età. […]
m’attrasse a sé.
cieco, ferito al petto mortalmente dalla piccola rivoltella ch’ella teneva sotto il
guanciale.
ch’ella poi disse in sua discolpa: cioè che fu spinta ad uccidermi dall’orrore
istintivo, improvviso, dell’atto a cui stava per sentirsi trascinata dal fascino strano di
tutto quanto in quei giorni io le avevo detto. (p.157)
acquisito alla giustizia che Anna Rosa aveva tentato d’uccidermi per difendersi da una mia
brutale aggressione, se Anna Rosa stessa non avesse assicurato con giuramento il giudice
che non c’era stata veramente nessuna aggressione da parte mia, ma solo quel tale fascino
involontariamente esercitato su lei con le mie curiosissime considerazioni sulla vita:
fascino da cui ella s’era lasciata prendere cosí fortemente, da ridursi a commettere
quella pazzia. (p.159)
ricondotto dall’ospedale a casa in barella; e, già entrato in convalescenza, avevo
lasciato il letto e me ne stavo in quei giorni adagiato beatamente su una poltrona vicino
alla finestra, con una coperta di lana verde sulle gambe. […]
sterminata distesa di grano; e, carezzandola, me ne beavo, sentendomici davvero, in mezzo
a tutto quel grano, con un senso di cosí smemorata lontananza, che quasi ne avevo
angoscia, una dolcissima angoscia.
abbandonarsi, cosí tra l’erba al silenzio dei cieli; empirsi l’anima di tutta quella vana
azzurrità, facendovi naufragare ogni pensiero, ogni memoria!
inopportuno quel giudice? (p.160)
«non è possibile, creda, ch’io gliele ripeta.(p.161)
sollevazione di tutti, non restava che riconoscere le mie deplorevoli colpe, e per
salvarmi non vedeva piú altro scampo che nella confessione aperta di esse da parte mia. (p.162)
avrei dato un esemplare e solennissimo esempio di pentimento e d’abnegazione, facendo dono
di tutto, anche della casa e d’ogni altro mio avere, per fondare con quanto mi sarebbe
toccato dalla liquidazione della banca un ospizio di mendicità con annessa cucina
economica aperta tutto l’anno, non solo a beneficio dei ricoverati, ma anche di tutti i
poveri che potessero averne bisogno; e annesso anche un vestiario per ambo i sessi e per
ogni età, di tanti capi all’anno; e che io stesso vi avrei preso stanza, dormendo
senz’alcuna distinzione, come ogni altro mendico, in una branda, mangiando come tutti gli
altri la minestra in una ciotola di legno, e indossando l’abito della comunità destinato
a uno della mia età e del mio sesso.
questa mia totale remissione fosse interpretata come vero pentimento, mentre io davo
tutto, non m’opponevo a nulla, perché remotissimo ormai da ogni cosa che potesse avere un
qualche senso o valore per gli altri, e non solo alienato assolutamente da me stesso e da
ogni cosa mia, ma con l’orrore di rimanere comunque qualcuno, in possesso di
qualche cosa.(p.163)
conduceva a diventare uno per tutti. (p.164)
nome di jeri; del nome d’oggi, domani. […]
nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il
vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
L’ospizio sorge in campagna, in un
luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito
cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono che sanno ancora del crudo
della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli.(p.165)
Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero sí metta in me di nuovo a lavorare,
e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.[…]
a pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non
l’ho piú questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi:
vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori. (p.166)