LUCETTE DESTOUCHES VERONIQUE ROBERT – CÉLINE SEGRETO

 

LUCETTE DESTOUCHES  VERONIQUE ROBERT – CÉLINE SEGRETO

LANTANA – Collana LE STELLE – 2012

TRADUZIONE: Maruzza Loria

A CURA DI Francesco Piga

In questo libro del 2001, tradotto in italiano per Lantana Editore nel 2012, Veronique Robert raccoglie le confidenze della maestra, Lucette Almanzor, che meglio di tutti ha conosciuto Louis-Ferdinand Destouches, alias Céline, essendone stata la compagna dal 1935 al 1961…

CAPITOLO I
Nella sauna: l’infanzia, la madre Gabrielle, gli animali. p.11

Solo due esseri hanno veramente contato per me: mia madre e Céline. Due sole passioni mi hanno nutrita completamente: la danza e gli animali.
Ho adorato mia madre, è la persona al mondo che ho amato di più e che mi ha così mal ricambiato. […]
Non era una madre, aveva qualcosa di snaturato, di mostruoso… Beveva, giocava, mi derubava per appagare la sua passione, credo che avrebbe voluto che facessi la cortigiana per poterla mantenere. (p.14)

Mio nonno fabbricava barche di legno. Non parlava mai, io l’a­doravo, ma forse, in tutta la sua vita, non mi ha detto due parole. (p.16)

Quando si è abituati a vivere con gli animali, gli uo­mini non si possono più sopportare. Solo loro sono autentici, non imbrogliano. (p.17)

CAPITOLO II
Nel giardino in alto. Ancora e sempre la danza p.19

La maggior parte delle volte le persone sono vuote, c’è solo la facciata, dietro non c’è nulla. […]
L’essenziale sta nell’emozione. Non ho fatto degli studi, ma nella mia esistenza ho provato la più grande passione che ci possa essere al mondo. È la danza che mi ha tenuta in vita durante tutte le prove che ho dovuto attraversare: la mia infanzia così triste, la vita con Louis così difficile, la fuga, la prigione, la Danimarca, Meudon dove Louis già non era più di questo mondo e certamente dopo, tutta la vita che è dovuta continuare senza di lui. (p.21)

CAPITOLO III
Lezioni di danza. Il metodo. p.23

CAPITOLO IV
Al tout-Paris nel cielo. Céline: l’incontro p.29

Quando ho incontrato Louis volevo morire, trovavo la vita molto triste. Non avevo amici, non parlavo, ero interamente ripiegata su me stessa e sulla danza.
Prendevo lezioni da Madame Bianche d’Allessandri, in rue Henri Monnier, è là che ho conosciuto Louis, portato da Gen Paul. (p.31)

Era un essere disperato, di un pessimismo totale che nello stesso tempo ci dava una forza incredibile. C’era in lui un’inten­ sità nella tristezza che tutti sfuggivano. Io sono rimasta perché non ero veramente nel mondo, avevo dato tutto alla danza.
Quando ci siamo conosciuti, nel momento in cui Louis ha percepito la mia disillusione, ha visto anche il mio lato così in­genuo. È questo contrasto e il miscuglio di tristezza e di candore che gli sono piaciuti.[…]
Era un sentimentale, un feticista che conservava tutto, anche la vecchia pentola di sua madre. Ho impiegato venticinque anni a conoscerlo. È più facile da capire che da spiegare, perché la maggior parte delle volte lui diceva il contrario di quel che pen­sava. Non voleva mostrare la sua tenerezza, allora aggrediva anche me, è stato orribile. A Meudon ha vissuto dieci anni di agonia. Non sopportava la mia assenza, rifiutava il fatto che io lavorassi troppo, insisteva perché mangiassi, e urlava continuamente. Nessuno l’ha capito, ma il fatto è che mi amava troppo. (pp.33-34)

La madre di Louis aveva lo stesso carattere di suo figlio, tranne l’intelligenza. Era Louis in piatto. Sempre in ansia e pessimista, incarnava la miseria dignitosa che mantiene un contegno. (p.34)

CAPITOLO V
Tre giorni a Dieppe. La vita che comincia, rue Lepic, rue Marsollier, Saint-Germain-en-Kaye, l’ambulanza, rue Girardon. p.37

È là che un giorno, all’iniziodegli anni Quaranta, in piena Occupazione, ho visto Jean-Paul Sartre venire a chiedere a Louis d’intercedere in suo favore con i tedeschi per poter mettere in scena a Parigi la sua pièce Le mosche. Louis si è rifiutato, gli ha detto di non aver alcun po­tere con i tedeschi. Era vero, ma Sartre forse non gli ha cre­duto, se l’è presa e dopo l’ha accusato di aver scritto dei pamphlet al soldo dei tedeschi.
L ’idea non poteva essere più assurda. Significava non co­noscere Louis: non era al soldo di nessuno, intransigente con tutti, incapace di patteggiare con chicchessia, sempre solo con­tro tutti. La risposta di Céline a L ’Agité du bocaP sarà sferzante e toglierà a Sartre qualsiasi voglia di replica. […]

«Buongiorno mamma, arrivederci mamma», la loro conversazione si limitava a queste due frasi. Louis, di solito così franco, così diretto, non ha mai potuto guardarla in faccia, il suo sguardo la evitava ma lei restava sua madre e lui la rispettava. (p.41)

Quando abbiamo abbandonato quel luogo, nel giugno del 1944, Céline ha lasciato i manoscritti di tre romanzi incompiuti, tra cui la fine di Guignol’s Band, che non sono mai stati ritrovati. Per colpa della sua infanzia, amava l’operetta: Fifi lo faceva sognare. Ero stupefatta, ma non dicevo nulla. Louis pensava che non dobbiamo dire quello che sentiamo. Parlare dei propri sen­timenti è volgare e grossolano. Pure io, se anche sono stata esi­bizionista col mio corpo, non lo sono mai stata dei miei pensieri. (p.42)

Gen Paul ha tradito Louis raccontando che aveva denunciato centinaia di ebrei.
Solo Marcel Aymé è stato fedele fino alla fine. Disinteressato, ha rifiutato anche la Legione d’onore.[…]

Diffido dei sentimenti di vero amore troppo dichiarati. Le parole rovinano. Gli animali sentono le cose meglio di noi. Forse ancor più di un cane, un gatto ci strega: in silenzio, penetra dentro i nostri cuori; è mistico, profondo, pieno di segreti.
I miei animali hanno sempre saputo quando stavano per mo­rire. La notte venivano a mettersi accanto a me o mi davano la zampa e, al mattino, erano morti. (p.46)

CAPITOLO VI
Ancora a Dieppe. La fuga in Germania, Sigmaringen. p.49

Dall’ottobre al marzo 1945 siamo rimasti a Sigmaringen, ai piedi di un castello da operetta da cui sono usciti tutti per venire fucilati – Lavai, Brinon, Luchaire. Pétain, lui è stato graziato, ma è morto imprigionato, il che è forse peggio.[…]
Louis era medico, curava. Io danzavo. (p.52)

All’inizio di marzo del 1945, abbiamo infine ottenuto un lascia­ passare e ci siamo messi in viaggio per la Danimarca, senza Le Vigan ma con il gatto Bébert che non aveva voluto lasciarci ed era scappato dal droghiere al quale l’avevamo affidato. […]
Il viaggio per raggiungerla è stato un’allucinazione, un incubo dentro la guerra e il fuoco. […]
Così, stravolti e un po’ per volta, abbiamo attraversato la Germania in rovina.
Non una sola casa era ancora in piedi. Talvolta se ne ave­ va l’impressione, ma restava giusto la facciata. Dietro, non c’era nulla.
Nei treni, i tedeschi che erano con noi cantavano come in un’opera funebre.
Eravamo circondati da fiamme e ceneri.
Bébert ha vissuto con noi quel pezzo di Storia, totalmente immobile nella sua cartella, non chiedendo né di mangiare né di bere, come assente a se stesso e in presa diretta con l’atrocità del mondo.
E poi, un giorno, abbiamo incrociato un convoglio della Croce rossa che riportava alcuni svedesi a casa. Sono caduta con Bébert sul binario, il treno allora si è fermato, hanno accettato di prenderci a bordo e ci hanno condotto fino a Copenaghen. (p.54)

CAPITOLO VII
In nave per New Heaven. La prigione in Danimarca. p.55

Abbiamo adottato una nuova identità, Louis Courtial e Lucie Jensen.
La sera del 17 dicembre 1945, alcuni poliziotti in abiti civili sono venuti ad arrestarci. Ho raccontato innumerevoli volte come, sconvolti, abbiamo cercato di fuggire lungo i tetti con Bébert. Pensavamo che dei comunisti fossero venuti per assassi­narci, Louis aveva anche una pistola per difendersi e del cianuro per uccidersi. (p.57)

Il 28 dicembre ero di nuovo libera, ma ho dovuto aspettare sei mesi per poter corrispondere con Louis. Nel frattempo, ho compiuto tre tentativi di suicidio. Non l’ho mai detto a Céline, ma ero sola, assolutamente sola in un Paese straniero di cui non capivo la lingua. […]
Per tre volte ho desiderato morire, per tre volte ho preso pil­lole in gran quantità, per tre volte ho fallito.[…]
Quando andavo a trovare Louis, portavo sempre Bébert con il suo musetto a farfalla nascosto dentro una borsa. Non faceva un movimento e poi, proprio all’ultimo minuto, porgeva una zampa.
Bébert ci ha salvato la vita. Era come se vivessimo la discesa agli inferi di Dante.
Nella mia stanza sotto i tetti, da sola mi sarei lasciata morire. Non avrei alimentato continuamente la mia stufa a legna, messo tutto in funzione per fare caldo se non avessi voluto il mio gatto vivo. Lui faceva focolare, era un cuore che batte. (p.58)

Céline è rimasto in prigione dal 17 dicembre 1946 al 24 giu­gno 1947. Alla fine, tutto si trascinava talmente che sono andata a trovare il ministro della Giustizia, questi ha consultato il suo fascicolo e ha visto che il solo motivo per incolparlo era l’opera La bella rogna, scritta nel 1939 e pubblicata nel ’40. Ha passato la notte a leggerla, l’indomani mi telefonò: «Nel fascicolo non c’è niente». Un’ora dopo, una limousine era davanti alla mia porta, con dentro Louis. (p.59)

In due anni non era più lo stesso uomo, era diventato vec­chio. Camminava con un bastone, aveva malesseri tutti i giorni oltre alle sue abituali crisi di malaria.
La prima guerra ne aveva fatto un mezzo uomo, un solo orec­chio, un solo braccio, la testa in ebollizione. La prigione l’ha fi­nito. Ha fatto di lui un morto vivente. A Meudon, durante i dieci anni che hanno preceduto la sua morte, già non c’era più.
A partire da una certa soglia di sofferenza, il soufflé di parole cede, non c’è più niente da dire.
Allo stesso modo, i veri poveri non si lamentano mai, non do­ mandano nulla, si nascondono. (p.60)

CAPITOLO VIII
A Dieppe il costume improvvisato. L’esilio di Korsor. p.61

Scriveva senza sosta per mantenere un contatto con il suo Paese. Vivere lontano dalla Francia gli era insopportabile e ascol­tare parlare francese alla radio lo faceva piangere.
Manteneva una corrispondenza con Gen Paul, Le Vigan, l’at­trice Marie Bell, e tutti gli mandavano un diverso profumo di Parigi che l’aiutava a vivere.
Lavorava senza pause anche alla propria difesa con i suoi av­vocati francesi, scrivendo e riscrivendo un’arringa che non cam­biava mai e che lo manteneva in uno stato doloroso di vittima incompresa. (p.64)

È all’inizio del nostro soggiorno a Korsor che abbiamo rice­vuto la visita dell’universitario americano Milton Hindus, che non capì nulla della personalità di Céline e fuggì, scandalizzato dalla grossolanità di Louis che non aveva smesso di provocarlo. […]
È sempre in questo periodo, nel 1949, che abbiamo adottato la cagna Bessy, un pastore tedesco selvaggio, che Louis ha comple­tamente addomesticato tenendola attaccata a lui, giorno e notte, perché non divorasse Bébert. […]
Nella primavera del 1951, grazie al suo avvocato Tixier-Vignancour che aveva sistemato le cose in modo che al momento del giudizio non si facesse l’accostamento tra Destouches e Cé­line scrittore, abbiamo potuto beneficiare della legge d’amnistia e pensare a fare ritorno in Francia. (p.65)

CAPITOLO IX
Otto giorni a Mentone.
Il ritorno a casa, Mentone, Neuilly, infine Meudon. p.67

Louis si era iscritto all’ordine dei medici di Seine-et-Oise e ricominciò a esercitare un po’ il suo mestiere. Non avevamo un soldo e vivevamo come barboni. La nostra sistemazione faceva scappare la clientela normale. Lui curava solo i poveri da cui non era capace di farsi pagare e accettava di spostarsi per le vi­ site a domicilio. […]

Il mio grande rimpianto è non aver avuto figli. Oggi non sarecosì sola, e anche senza vederli saprei che essi esistono. Ma adesso, non c’è nessuno.
Penso che, come le donne che non sono state madri, gli omo­sessuali hanno qualcosa che li allontana dalla vita. Louis era contro l’aborto perché adorava i bambini. (p.72)

Il giorno del funerale di Louis, sua figlia Colette è diventata pazza, mia madre si è piazzata in cucina per farsi servire un pasto raffinato, le persone entravano, uscivano, guardavano. Io ero là come una sonnambula. Marcel Aymé voleva ispirarsi a tutte queste scene per raccontare una storia. Non ne ha avuto il tempo.
In seguito Colette si è affezionata a me, suonava le nacchere, l’hanno rinchiusa per un periodo a Sainte-Anne9. Anche Arletty, alla fine della sua vita, si faceva raccontare tutto quello cheLouis mi diceva, e poi lo riportava come se lui l’avesse detto di­rettamente a lei. (p.73)

A Meudon, gli ultimi anni sono stati terribili. La prigione l’aveva reso pazzo. Ormai era abitato dall’odio. Pensava di aver pagato per gli altri e si è sentito perseguitato. In qualche modo lo era realmente.
Quando i giornalisti hanno cominciato a venire a Meudon per visitare il mostro, lui ha esagerato, li ripagava con la stessa moneta. Recitava un ruolo, faceva di se stesso la propria caricatura. Gli credevano e lui esultava. (p.74)

Oggi la mia posizione sui tre pamphlet di Céline, Bagatelle per un massacro, La scuola dei cadaveri e La bella rogna, resta fermissima.
Ho proibito la loro riedizione e ho fatto causa, senza tregua, a tutti coloro che, per ragioni più o meno confessabili, li hanno fatti apparire clandestinamente, in Francia e all’estero.
Questi pamphlet sono esistiti in un certo contesto storico, in un periodo particolare, e ci hanno portato, a Louis e a me, solo disgrazie. Ai giorni nostri non hanno più nessuna ragione di essere.
Ancora adesso, proprio per la loro qualità letteraria, pos­sono, per certe menti, detenere un potere malefico che io ho voluto, a tutti i costi, evitare.
Ho coscienza della mia impotenza a lungo termine e so che, presto o tardi, risorgeranno in piena legalità, ma io non ci sarò più e non dipenderà più dalla mia volontà. (p.75)

CAPITOLO X
A Parigi nel bateau-bus. Ultimi momenti e ultime amicizie. p.77

A Meudon, Louis lavorava. Lavorava di notte. Penso che, proprio come Proust, Céline non avrebbe scritto la sua grande opera se non fosse stato un gran malato d’insonnia. (p.79)

Ci sono solo tre persone che l’hanno sempre sostenuto: Roger Nimier, Marcel Aymé il fedele, il sensibile, e infine Paul Morand. (p.80)

Per tutta la mia vita ho tentato senza successo di ammorbidire il carattere di Céline. Lo moderavo, lo mettevo in guardia, ser­vivo da cuscinetto tra lui e gli altri. Non è mai servito.
Bisogna dire che Louis, in un certo senso, era anche pazzo.
Fin dal periodo dei pamphlet, non voleva sentire niente.
Lavoravamo ognuno per i fatti nostri, lui alla sua scrittura, io alla mia danza. (p.81)

CAPITOLO XI
In macchina a Parigi. Toto, gli uccelli nella stanza da bagno.
La morte di Louis. p.83

Dopo la morte di Bébert in seguito a un cancro di cui era stato operato in Danimarca, ho cercato un nuovo compagno per Céline.
Volevo un uccello.
Ho comprato il pappagallo Toto alla Samaritaine e dopo un primo contatto disastroso sono diventati inseparabili.
Toto viveva in libertà nella stanza dove Louis lavorava. Bec­chettava i suoi fogli di carta o le sue mollette da bucato. Aveva di­ritto a tutto e li sentivo spesso litigare e dialogare in un linguaggio conosciuto solo da loro.[…]
Sono io che gli ho insegnato a essere curioso degli animali. (p.85)

Nel 1959 Louis ha definitivamente smesso di esercitare la medicina e la sua salute così fragile si è sempre più deterio­rata. La notte mi dettava dei pezzi di Rigodon. Io l’avevo lasciato da solo, non dormivo più con lui ma, ogni ora, lo andavo a trovare, lo spiavo. Non gli restava più molto da vi­vere. Una sola cosa rimaneva importante per lui: finire Rigodon. (p.86)

Il 30 giugno 1961 ha messo la parola «fine» in fondo apagina, e ha scritto una lettera a Gaston per domandargli un nuovo contratto.
L ’indomani, era morto.
Delphine, la cagna che avevamo a quel tempo, l’ha aspettato per mesi ai piedi della sua poltrona, là, nell’ingresso. (p.87)

CAPITOLO XII
Il caffè dell’Ile Saint-Louis. La vita che continua. (p.89)

La notte che ha seguito la sua morte l’ho passata lassù, a registrare su un piccolo magnetofono la versione definitiva di Rigodon. Volevo conservare una traccia del testo finito.[…]
L ’indomani della scomparsa di Céline, tutto si è concate­nato. Al funerale i giornalisti, che non erano stati avvisati, sono arrivati in ritardo. C ’erano solo gli intimi: Marcel Aymé, Gaston Gallimard e suo figlio Claude, Roger Nimier e Marie Canavag-già con un cappello con le ciliegie. Gaston non la conosceva e ha saputo da Nimier che era la donna di fiducia di Céline. L ’in­domani, Nimier e Canavaggia sono venuti per conto di Galli­mard a cercare un baule contenente gli ultimi manoscritti. […] (pp.91-92)

Io volevo morire, non esisteva più niente, ero come morta
anch’io.
Eppure, come una sonnambula, ho continuato a garantire i miei corsi di danza. Lavoravo come una pazza, giorno e notte.[…]
Dopo la morte di Céline sono venuti tutti come api per pren­dere il miele e poi se ne sono andati via.
Mi sono fatta rubare tutta la mia vita, forse a causa di mia madre che lo faceva e che mi ha corrotta. (p.92)

Proprio dopo la scomparsa di Céline, mi ero chiusa nella stanza lassù in alto: non volevo più vivere, aspettavo, desiderando mo­rire. Roger Nimier è venuto a trovarmi con suo figlio che all’e­poca aveva due o tre anni. Me lo ha buttato tra le braccia, senza una parola. Era molto commovente.
Ho reagito immediatamente e capito che dovevo battermi. Louis mi aveva scelta per vivere ancora attraverso di me. Avendo sua figlia rinunciato alla successione, ho fatto trascrivere Rigodon e mi sono occupata di farlo pubblicare. (p.96)

Oggi sono come una macchina che non ha più motore. Resta solo la carcassa: non pensavo che morire fosse così lento. (p.97)
Sono solo una povera cosa la cui vita scivola via poco a poco.
Presto non ne resterà più, è normale.[…]
Adesso non esco più, faccio in qualche modo parte del pas­sato, ma non devo più battermi e mi sento serena.
I miei amici sono qua, fedeli.
Tutto quel che si dice su Céline, sono dei graffiti su un muro.
Ma l’edificio è là, in piedi.
Per sempre. (p.97)

NOTE p.101

POSTFAZIONE p.103

LA VERITÀ DI CÉLINE: LA NOTTE E LA MORTE
Di Francesco Piga*
*Già apparso su «Nuova Antologia» n.2258, aprile-giugno 2011.

NOTE ALLA POSTFAZIONE p.135

INDICE p.139