PRIMO LEVI – LA TREGUA

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PRIMO LEVI – LA TREGUA

CORRIERE DELLA SERA – Collana “ I Grandi Romanzi Italiani” – Licenza Einaudi – 2003

PREFAZIONE

PUÒ ESSERCI QUALCOSA DOPO AUSCHWITZ?

Stefano Folli p.5

LA TREGUA p.15

IL DISGELO p.17

Con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa i tedeschi avevano evacuato il campo di Auschwitz “recuperando” qualsiasi uomo abile al lavoro e abbandonando a se stessi gli altri. Il 27 gennaio 1945, all’ingresso dei primi soldati russi i prigionieri alloggiati nell’infermeria di Buna-Monowitz sono rimasti in circa trecento…

“Nell’infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi. La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla” [pp.17-18]

È così giunta la libertà, ma l’esperienza del campo ha segnato a tal punto lo spirito degli internati da render loro impossibile qualsiasi segno di gioia…

“Cosí per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempí gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai piú sarebbe potuto avvenire di cosí buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. ” (p.19)

“Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera” (p.20)

Primo passa la notte insonne pensando agli amici persi e in preda alla nostalgia per la casa lontana. Poi si accorge che anche il prigioniero politico tedesco che ha preso a dormire nella loro stanza riscaldata, Thylle, è sveglio e piange. Parlano, poi l’uomo inizia a intonare l’Internazionale…

Al terzo giorno i sovietici iniziano su di un carro il trasporto dei malati e dei superstiti ad Auschwitz centrale… Ma Primo non sta bene, colto da febbri, sete e dolori alle articolazioni tanto da non riuscire più a reggersi in piedi…

“Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles, e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c’erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e metà della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di piú malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero piú in grado di reggermi in piedi.

Fui issato sul carro da Charles e da Arthur[…] (p.25)

IL CAMPO GRANDE p.26

La sterminata grandezza del campo principale lascia interdetti i nuovi giunti, accolti da un nuovo bagno ad opera di due energiche infermiere russe. Poi vengono rasati e vestiti..

“Quando il carro di Yankel varcò la soglia famosa, rimanemmo sbalorditi. Buna-Monowitz, coi suoi dodicimila abitanti, era un villaggio al confronto: quella in cui entravamo era una sterminata metropoli. Non «Blocks» di legno a un piano, ma innumerevoli tetri edifici quadrati di mattoni nudi, a tre piani, tutti eguali fra loro; fra questi correvano strade lastricate, rettilinee e perpendicolari, a perdita d’occhio. Il tutto era deserto, silenzioso, schiacciato sotto il cielo basso, pieno di fango e di pioggia e di abbandono.” (p.26)

Mentre Arthur e Charles si ricongiungono ai francesi, Primo è destinato al Reparto Infettivi dell’Infermeria, un luogo in realtà inidoneo e privo di tutto…

Qui ci separammo: Charles e Arthur, guariti e relativamente ben portanti, si ricongiunsero al gruppo dei francesi, e sparirono dal mio orizzonte. Io, malato, fui introdotto nell’infermeria, visitato sommariamente, e relegato d’urgenza in un nuovo «Reparto Infettivi». (p.29)

Dopo cinque giorni di febbre si sente meglio, rianimandosi come il campo intero dopo l’ultima “selezione” di malati effettuata dalle malattie stesse…

AI quinto giorno la febbre era sparita: mi sentivo leggero come una nuvola, affamato e gelato, ma la mia testa era sgombra, gli occhi e gli orecchi come affinati dalla forzata vacanza, ed ero in grado di riprendere contatto col mondo. (p.30)

Suo compagno di cuccetta è Henek, quindicenne scaltro che gli cede razioni di cibo in scatola recuperato durante la ritirata dei tedeschi, che gli lascia in custodia durante la sua assenza… Altri personaggi che compaiono sono Peter Pavel, lo storpio protetto dal capo Kapo, con i suoi deliri di aspirante Kapo; le due infermiere Hanka e Jadzia; Noah, il ministro delle latrine e dei pozzi neri, gran donnaiolo; Frau Vita, dolce ebrea triestina; infine Olga, partigiana ebrea croata che gli dà la triste notizia che solo cinque italiane sono sopravvissute alla deportazione…

Erano morti tutti. Tutti i bambini e tutti i vecchi, subito. Delle cinquecentocinquanta persone di cui avevo perso notizia all’ingresso in Lager, solo ventinove donne erano state ammesse al campo di Birkenau: di queste, cinque sole erano sopravvissute. Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate. (p.43)

IL GRECO p.44

Dopo un mese di convalescenza Primo si fa mettere in uscita per riabituarsi alla vita e riprendere forza. Arruolato per spalare neve, riesce a liberarsi dall’incarico rifugiandosi in un Block i cui accampati sono trasferiti all’alba in un campo di sosta. Sono in dieci e tra i compagni di viaggio c’è un ebreo greco, Mordo Nahum, quarantenne poliglotta. Solo a mezzogiorno giunge un misero trenino che dovrà condurli verso Cracovia, spiegano loro due contadine polacche. È stato un errore del carrettiere russo che avrebbe dovuto lasciarli nel troncone per Katowice. Il viaggio prosegue lento fino alle tre di notte. L’indomani il treno riparte facendo scalo a Szczakowa dove la croce rossa ha approntato un servizio mensa… Alle porte di Cracovia la locomotiva va in panne e il greco e Primo, alleatisi al mattino, partono in direzione della città…

Ripartimmo nel pomeriggio. C’era il sole. Il nostro povero treno si fermò al tramonto, in avaria: rosseggiavano lontani i campanili di Cracovia. […]

Per noi suonava l’ora della prova. Il greco, ristorato dalla zuppa calda di Szczakowa, si sentiva abbastanza in forze. – On y va? – On y va –. Co- sí lasciammo il treno e i compagni perplessi, che non avremmo piú dovuto rivedere, e ce ne partimmo a piedi alla ricerca problematica del Consorzio Civile. (p.54)

Devono coprire la distanza di 7km ma dopo poco a Primo si rompono le scarpe…

Ci eravamo ingannati grossolanamente sulla distanza da Cracovia: avremmo dovuto percorrere almeno sette chilometri. Dopo venti minuti di cammino, le mie scarpe erano andate: la suola di una si era staccata, e l’altra stava scucendosi. (p.55)

Mordo lo rimprovera della sua mancata previdenza e gli cede due pezzi di tela per proseguire… Giunti in città salgono a bordo di un tram dove un militare francese li informa su una caserma di militari italiani cui vengono alloggiati grazie alle mercanzie che il greco ha nel suo sacco… C’è abbondanza e sono ben accolti, soprattutto il greco Mordo, sorta di “commilitone” reduce dalla campagna di Grecia proprio come loro. All’alba il greco lo sveglia per andare a guadagnare qualcosa al mercato…

“su quel punto non era disposto a transigere né a discutere. I codici morali, tutti, sono rigidi per definizione: non ammettono sfumature, né compromessi, né contaminazioni reciproche. Vanno accolti o rifiutati in blocco. È questa una delle principali ragioni per cui l’uomo è gregario, e ricerca piú o meno consapevolmente la vicinanza non già del suo prossimo generico, ma solo di chi condivide le sue convinzioni profonde (o la sua mancanza di tali convinzioni). Mi dovetti accorgere, con disappunto e stupore, che tale appunto era Mordo Nahum: un uomo dalle convinzioni profonde, e per di piú molto lontane dalle mie. Ora, ognuno sa quanto sia malagevole avere rapporti in affari, anzi convivere, con un avversario ideologico. (pp.61-62)

Cosí seguii il greco al mercato; non tanto perché con- vinto dai suoi argomenti, quanto per inerzia e per curiosità. (p.63)

Vendono una camicia per settanta zloty dopo che Primo ha girato informandosi sui prezzi… Comprano sei uova sode, poi vanno in cerca della Cattedrale dove si dà cibo ai poveri e che raggiungono grazie alle indicazioni ottenute in latino da Primo da un prete… In mensa Mordo gli dà alcune lezioni di vita, prima di tutto che le scarpe sono fondamentali, poi che “guerra è sempre”…

“Mi spiegò che essere senza scarpe è una colpa molto grave. Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l’inverso. – Ma la guerra è finita, – obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto piú universale di quanto si osi pensare oggi. – Guerra è sempre, – rispose memorabilmente Mordo Nahum. (p.68)

Fuori nevica e solo a sera tornano in caserma. L’indomani partono all’alba per Katowice, un viaggio di soli 80km che li impegnerà per tre giorni…

“Fu un viaggio labirintico, che durò tre giorni” (p.71)

A Trzebinia, parlando con un avvocato polacco, si accorge che quello traduce ebreo con prigioniero politico. L’incubo che gli altri non vogliano ascoltare loro reduci si concretizza…

“Qualcosa del genere avevo sognato, tutti avevamo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli. (p.72)

Al terzo giorno giungono a Katowice, dove si separano…

KATOWICE p.76

Il campo di sosta di Katowice, che mi accolse affamato e stanco dopo la settimana di peregrinazioni col greco, era situato su di una piccola altura, in un sobborgo della città denominato Bogucie. A suo tempo, era stato un minuscolo Lager tedesco, ed aveva albergato i minatori-schiavi addetti ad una miniera di carbone che si apriva nelle vicinanze. (p.76)

Nel campo ci sono persone di varie nazionalità e la direzione anarchica è tipicamente sovietica… Il capannone degli italiani è comandato dall’autonominatosi ragionier Rovi. È qui che Primo conosce Leonardo, medico del campo che presta servizio nell’Infermeria diretta da Marja Fjodorovna, dove riesce a farsi ingaggiare come farmacista-poliglotta. Deve tenere il registro dei pazienti e delle medicine, coadiuvato dalla giovane Galina. Poi inizia ad aiutare Leonardo nelle visite e… nella ricerca dei pidocchi…

CESARE p.94

Cesare lo conosce da Buna, dove quello era allocato nel reparto dissenterici. Romano simpatico e intraprendente, resteranno uniti fino al viaggio di ritorno in terra romena… Giunge la primavera e in aprile finalmente Primo decide di andare in città con Cesare. Ovunque intorno i segni della guerra: tombe, rottami, rovine e povertà, nonostante qualche segno di ripresa. Nei giorni seguenti lo accompagna al mercato per le compravendite. Quanta differenza con Mordo!…

“Per Cesare il «lavoro» era volta a volta una sgradevole necessità, o una divertente occasione di incontri, e non una gelida ossessione, né una luciferesca affermazione di se stesso. L’uno era libero, l’altro schiavo di sé; l’uno avaro e ragionevole, l’altro prodigo ed estroso. Il greco era un lupo solitario, in eterna guerra contro tutti, vecchio anzitempo, chiuso nel cerchio della sua ambizione trista; Cesare era un figlio del sole, un amico di tutto il mondo, non conosceva l’odio né il disprezzo, era vario come il cielo, festoso, furbo e ingenuo, temerario e cauto, molto ignorante, molto innocente e molto civile.” (p.106)

In breve l’abile e pittoresco Cesare vende una penna che non scrive e una camicia bucata…

VICTORY DAY p.113

Mentre Primo si annoia, Cesare rifiorisce prosperando nel commercio e trovandosi una fidanzata polacca che lo porta a diradare le sue visite e la sua presenza al campo… Ma ecco giungere l’8 maggio 1945, memorabile giorno di festa che segna la fine della guerra. I russi offrono agli ospiti del campo una rappresentazione teatrale. A metà maggio si tiene invece una partita tra italiani e polacchi, interrotta dalla pioggia che fa ammalare ai polmoni Primo…

La pioggia divenne in breve un diluvio: Bogucice era lontana, ripari per via non ce n’erano, e ritornammo in baracca fradici. Il giorno dopo stavo male, di un male che rimase a lungo misterioso. […]Il terzo giorno non potevo piú fare alcun movimento; il quarto, giacevo sulla branda supino, immobile, col respiro brevissimo e frequente come quello dei cani accaldati.(p.126)

I SOGNATORI p.127

Al termine di una settimana di tribolazioni Leonardo riesce a diagnosticargli una pleurite. Ma le medicine per curarlo sono poche, fino a che non riesce a farsi aiutare dal misterioso e abilissimo dottor Gottlieb che cura Primo in sole tre sedute…

Gottlieb mi portò la salute come un taumaturgo. (p.129)

Primo resta in convalescenza per altre tre settimane…

Compagni di camerata, oltre a Leonardo e Cesare, sono Il Moro, gigantesco settantenne veronese, grande bestemmiatore; Trovati e Cravero, due ex galeotti, milanese il primo, torinese il secondo, criminale incallito che, lasciato il campo da solo, raggiunge la città natale in un solo mese. Lì, latore di una lettera di Cesare, prova a farsi dare soldi dalla madre e dalla sorella; il signor Unverdorben, anziano musicista triestino; D’Agata, unico ad avere un nemico reale: le cimici…

Nelle lunghissime sere polacche, l’aria della camerata, greve di tabacco e di odori umani, si saturava di sogni insensati. È questo il frutto piú immediato dell’esilio, dello sradicamento: il prevalere dell’irreale sul reale. Tutti sognavano sogni passati e futuri, di schiavitú e di redenzione, di paradisi inverosimili, di altrettanto mitici e inverosimili nemici: nemici cosmici, perversi e sottili,

che tutto pervadono come l’aria. (p.139)

VERSO SUD p.141

La convalescenza è lenta. Ma ecco che un mattino il capitano Egorov, comandante del campo, annuncia agli italiani il rimpatrio via Odessa…

Spesi gli ultimi zloty e preso commiato dai russi, per Primo e gli altri giunge infine il tempo di ripartire dalla stazione di Katowice. Sono in circa ottocento a partire in quella metà di giugno del 1945…

Il giorno dopo, il nostro sogno di sempre si era fatto realtà. Alla stazione di Katowice ci aspettava il treno: un lungo treno di vagoni merci, di cui noi italiani (eravamo circa ottocento) prendemmo possesso con fragorosa allegria. (p.147)

Nessuno a scortarli, unica guida l’eccelso dottor Gottlieb, grazie al quale il viaggio di sei giorni fila liscio…

Partí alla metà del giugno 1945 quel treno carico di speranza. Non c’era alcuna scorta, nessun russo a bordo: responsabile del convoglio era il dottor Gottlieb, che si era spontaneamente aggregato a noi, e cumulava nella sua persona le mansioni di interprete, di medico e di console della comunità itinerante. Ci sentivamo in buone mani, lontani da ogni dubbio o incertezza: a Odessa ci aspettava la nave. (p.147)

Il viaggio durò sei giorni, e se nel corso di esso non fummo spinti dalla fame alla mendicità o al banditismo, ed anzi giungemmo al termine in buone condizioni di nutrizione, il merito ne va esclusivamente al dottor Gottlieb. (p.148)

Per Primo il viaggio è estremamente difficoltoso per via di misteriosi febbri che lo colgono la notte…

Ma per me quel viaggio riuscí tormentoso oltre misura. Della pleurite dovevo essere guarito, ma il mio corpo era in aperta ribellione, e sembrava deliberato a farsi gioco dei medici e delle medicine. Tutte le notti, durante il sonno, furtivamente mi invadeva la febbre: una febbre intensa, di natura sconosciuta, che toccava il suo massimo verso il mattino. Mi svegliavo prostrato, cosciente solo a mezzo, e con un polso, o un gomito, o un ginocchio, inchiodati da dolori lancinanti. Giacevo cosí, sul pavimento del vagone o sul cemento delle banchine, in preda al delirio e al dolore, fin verso mezzogiorno: poi, entro poche ore, tutto rientrava nell’ordine, e verso sera mi sentivo in condizioni pressoché normali. Leonardo e Gottlieb mi guardavano perplessi e impotenti. (p.149)

Ma a Proskirov, grazie a un’abbondante sudata dovuta alla vodka e al calore delle persone ammassate in sala d’attesa, i sintomi della malattia misteriosa svaniscono…

Giunti a Zmerinka il convoglio è fermato e, nella notte, Gottlieb li abbandona. Dopo tre giorni il treno riparte con agganciato un altro convoglio di italiani provenienti dalla Romania con le rispettive famiglie. Sono però mandati verso nord!…

Pochi giorni dopo eravamo tutti in viaggio verso il nord, verso una meta imprecisata, comunque verso un nuovo esilio. Italiani-rumeni e italiani-italiani, tutti sugli stessi carri merci, tutti col cuore stretto, tutti in balia della indecifrabile burocrazia sovietica, oscura e gigantesca potenza, non malevola verso di noi, ma sospettosa, negligente, insipiente, contraddittoria, e negli effetti cieca come una forza della natura. (p.157)

VERSO NORD p.158

Da Zmerinka gli ora 1400 italiani partono solo a fine giugno, ancora verso nord…

Compresi i «rumeni», eravamo millequattrocento italiani. Fummo caricati su una trentina di carri merci, che vennero agganciati ad un convoglio diretto a nord. (p.163)

Dopo due giorni e una notte di viaggio sono alloggiati nei resti di un teatro e di una caserma russa. È qui che per l’ultima volta rivede un florido Norbo Nahum nelle vesti di lenone…

UNA CURIZETTA p.168

Dopo Sluzk, in cui restano per circa dieci giorni, arrivano a piedi nello sperduto villaggio di Starje Doroghi, distante settanta chilometri…

Al mattino del 20 luglio ci trovammo radunati nella piazza centrale, come una immensa carovana di zingari. All’ultimo momento si era venuto a sapere che fra Sluzk e Staryje Doroghi esisteva un raccordo ferroviario: tuttavia il viaggio in treno fu concesso solo alle donne e ai bambini, e inoltre ai soliti raccomandati, ed ai non meno soliti furbi. D’altronde, per aggirare la tenue burocrazia che reggeva le nostre sorti non occorreva un’astuzia eccezionale: ma tant’è, non molti a quell’epoca se ne erano accorti. Fu dato verso le dieci l’ordine di partenza, e subito dopo un contrordine. A questa seguirono numerose altre false partenze cosicché ci muovemmo solo verso mezzogiorno, senza avere mangiato. (pp.171-172)

Durante il tragitto a piedi Primo, Cesare e pochi altri decidono di imboscarsi in una capanna diroccata e di arrivare da soli alla meta. Cesare e Primo vanno poi in cerca di una gallina per la cena. Raggiungono un villaggio dove sono dapprima accolti a fucilate, poi incompresi nel loro tentativo di barattare sei piatti con una gallina. Comico il tentativo di Cesare di mimarne le mosse. È infine Primo, disegnandone una in terra, a permettere all’operazione di andare in porto e alla cena a base di gallina di essere servita…

VECCHIE STRADE p.181

A secco di viveri, l’indomani Cesare e Primo tornano al villaggio per chiedere in prestito un carro. Il vecchio capovillaggio intasca gli otto rubli offerti e, caricato un mulo, li prende a bordo. Partono verso mezzogiorno e al tramonto li supera Il Moro, avanzante imperterrito e di buon passo… Ed eccoli infine a Starye Doroghi dove sono ben trattati…

Eravamo trattati esattamente come i soldati russi quanto a vitto e ad alloggio, e non eravamo tenuti ad alcuna particolare obbedienza o disciplina. (p.188)

Cesare inizia uno dei suoi commerci vendendo l’immangiabile pesce delle razioni dopo averlo riempito di acqua per aumentarne il peso…

IL BOSCO E LA VIA p.194

Restano due mesi. Stanno bene e sviluppano così sentimenti di nostalgia. Per restare un po’ soli si recano nel bosco lì vicino…

Rimanemmo a Staryje Doroghi, in quella Casa Rossa piena di misteri e di trabocchetti come un castello di fate, per due lunghi mesi: dal 15 luglio al 15 settembre del 1945.

Furono mesi d’ozio e di relativo benessere, e perciò pieni di nostalgia penetrante. […]

Forse per questo, la foresta intorno al campo esercitava su di noi un’attrazione profonda. Forse perché offriva, a ognuno che lo ricercasse, il dono inestimabile della solitudine: e da quanto tempo ne eravamo privi! (p.194)

La prima volta in cui vi si addentra Primo rischia di perdervisi, mentre in breve alcuni ospiti vi pongono dimora, primo fra tutti il marinaio calabrese Cantarella che si mantiene costruendo pentole e padelle… Ci sono poi due prostitute tedesche; il selvaggio Velletrano…

Nel bosco raccolgono anche mirtilli, lamponi e funghi, mentre altri generi alimentari li comprano e barattano con le contadine dei dintorni. Cesare entra subito in affari con quelle, facendosi amico della giovane e bella Irina…

I giorni passano oziosi mentre del ritorno non hanno notizie. Transitano in continuazione i soldati sovietici di ritorno da occidente. Dei cavalli requisiti gli ospiti del campo iniziano a farne razzia per macellarli…

I giorni di Staryje Doroghi passavano cosí, in una interminabile indolenza, sonnolenta e benefica come una lunga vacanza, rotta solo a intervalli dal pensiero doloroso della casa lontana, e dall’incanto della natura ritrovata. (p.205)

Pur di sfuggire all’ozio molti tentano la fortuna provando anche invano a passare il confine occidentale. Ma quasi tutti tornano in breve al campo. Lì, per la diffidenza dei russi e per motivi linguistici i contatti sono resi quasi impossibili. Un tenente che parla perfettamente l’italiano non dà loro confidenza…

A spezzare la monotonia ci pensa, per tre giorni, l’arrivo del camioncino del cinematografo militare sovietico…

TEATRO p.228

A metà agosto “i rumeni” mettono in scena alcuni spettacoli teatrali…

Ed ecco che a poco a poco aumentano i segnali di un prossimo rimpatrio, annunciato peraltro durante la replica dello spettacolo “Il naufragio degli abulici”. Esultano e l’indomani, la visita del mitico e gigantesco maresciallo Timosenko, giunto a bordo di una topolino!, gli conferma la prossima partenza in treno…

DA STARYJE DOROGHI A IASI p.241

Non dunque «domani», ma pochi giorni dopo l’annuncio, il 15 settembre 1945, lasciammo in carovana la Casa Rossa e raggiungemmo in gran festa la stazione di Staryie Doroghi. (p.241)

Il treno non partí subito, anzi, non partí che il giorno dopo; e risultò inutile fare domande al capo della minuscola stazione, che non sapeva nulla. (p.242)

Il convoglio, con soli sette giovanissimi soldati russi di scorta, parte il 15 settembre per un lento viaggio…

Avevamo resistito, dopo tutto: avevamo vinto. Dopo l’anno di Lager, di pena e di pazienza; dopo l’ondata di morte seguita alla liberazione; dopo il gelo e la fame e il disprezzo e la fiera compagnia del greco; dopo le malattie e la miseria di Katowice; dopo i trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in eterno attraverso gli spazi russi, come inutili astri spenti; dopo l’ozio e la nostalgia acerba di Staryje Doroghi, eravamo in risalita, dunque, in viaggio all’insú, in cammino verso casa. Il tempo, dopo due anni di paralisi, aveva riacquistato vigore e valore, lavorava nuovamente per noi, e questo poneva fine al torpore della lunga estate, alla minaccia dell’inverno prossimo, e ci rendeva impazienti, avidi di giorni e di chilometri.

Ma ben presto, fin dalle prime ore di viaggio, ci dovemmo rendere conto che l’ora dell’impazienza non era ancora suonata: quell’itinerario felice si profilava lungo e laborioso e non privo di sorprese: una piccola odissea ferroviaria entro la nostra maggiore odissea. Occorreva ancora pazienza, in dose imprevedibile: altra pazienza.(p.244)

Non esistevano autorità a bordo, ad eccezione del macchinista e della scorta, costituita dai sette soldati diciottenni che erano venuti fin dall’Austria per prelevarci. Questi, benché armati fino ai denti, erano creature (p.245)

Cesare è quello che più di tutti soffre l’inattività e così, comprato un anello di ottone, durante una sosta riesce a spacciarlo per d’oro a un contadino, finendo per poco preso…

A Kazatin Primo incontra e saluta brevemente Galina…

Il 19 settembre il treno raggiunge la frontiera rumena dove sono trasbordati e lasciati in attesa alla stazione di Iasi…

DA IASI ALLA LINEA p.257

Il 26 settembre il convoglio raggiunge la frontiera magiara, Curtici, minuscolo paesino presto devastato…

[…]per sette giorni estenuanti, e devastammo il paese.

Curtici era un villaggio agricolo di forse mille abitanti, e disponeva di ben poco; noi eravamo millequattrocento, e avevamo bisogno di tutto. In sette giorni, vuotammo tutti i pozzi; esaurimmo le scorte di legna, e arrecammo gravi ingiurie a tutto quanto la stazione conteneva di combustibile; delle latrine della stazione stessa è meglio non parlare. Provocammo un pauroso aumento (p.263)

Al sesto giorno Cesare se ne va in direzione Bucarest. Tornerà a Roma dopo di loro, in aereo. Lascia un vuoto difficile da colmare e che in breve riempie parzialmente un quattordicenne ungherese, Pista, che ha seguito il Carabiniere dopo che questi gli aveva dato un tozzo di pane…

L’11 ottobre, a St. Valentin, passano in forza agli americani che subito li fanno lavare e disinfettare con il DDT…

IL RISVEGLIO p.276

Il 15 ottobre sono a Monaco dove si aggancia un treno di sionisti diretti a Bari per imbarcarsi per Israele… È finalmente giunto il Brennero, momento che tocca profondamente Primo e Leonardo: del convoglio di ebrei solo in tre sono sopravvissuti…

A notte fatta passammo il Brennero, che avevamo varcato verso l’esilio venti mesi prima: i compagni meno provati, in allegro tumulto; Leonardo ed io, in un silenzio gremito di memoria. Di seicentocinquanta, quanti eravamo partiti, ritornavamo in tre. E quanto avevamo perduto, in quei venti mesi? Che cosa avremmo ritrovato a casa? Quanto di noi stessi era stato eroso, spento? Ritornavamo piú ricchi o piú poveri, piú forti o piú vuoti? Non lo sapevamo: ma sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e la anticipavamo con timore. Sentivamo fluirci per le vene, insieme col sangue estenuato, il veleno di Auschwitz: dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere, per abbattere le barriere, le siepi che crescono spontanee durante tutte le assenze intorno ad ogni casa deserta, ad ogni covile vuoto? Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia, contro nemici ancora ignoti, dentro e fuori di noi: con quali armi, con quali energie, con quale volontà? Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi. I mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino.(pp.278-279)

Il 17 novembre, a Pescantina (VR), si separano partendo ognuno per la rispettiva città.

Primo raggiunge Torino il 19 ottobre, dopo 31 giorni di viaggio da Staryjie Doroghi. Nessuno lo aspetta, tutti faticano a riconoscerlo. Difficile riabituarsi alla vita civile. Impossibile dormire la notte per l’incubo onnipresente di essere ancora in Lager e di doversi alzare alla lugubre parola polacca “Wstawac”…

Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svaní in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa piú intensa e piú precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, «Wstawaç».

Torino, dicembre 1961 – novembre 1962. (pp.280-281)